Radici e iniziali sviluppi del movimento cattolico
Non si era ancora spenta l’eco dei rivolgimenti del 1848 quando, in una lettera all’amico scienziato e politico Marcellin Berthelot, Ernest Renan fissava con rapide pennellate alcune osservazioni sulla religiosità del popolo italiano1.
«Je n’avais pas compris ce que c’est qu’une religion populaire, prise bien naïvement et sans critique par un peuple; je n’avais pas compris un peuple [...] prenant ses dogmes d’une façon vivante et vraie. Ne nous faisons pas illusion, ce peuple est aussi catholique que les Arabes de la mosqué sont musulmans. Sa religion c’est la religion; lui parler contre sa religion c’est lui parler contre un intéret qu’il sent en lui-même, tout aussi réellement que tel autre besoin de la nature»2.
Quantunque esulasse da analisi particolareggiate, distinte per ceti, ambienti, aree, la percezione dello scrittore coglieva un substrato consistente e resistente nel costume e nella mentalità italiane. Tuttavia questi ultimi, pur conservando marcati tratti di continuità, non restavano refrattari a recepire impulsi di varia provenienza. Un ruolo di grande portata vi svolgeva, robusta e orientatrice, la componente delle istituzioni ecclesiastiche, che incanalavano, spesso non in maniera rigida, ma comunque efficace, il fiume di convincimenti, preghiere, liturgie, entro alvei di religiosità comunitaria. Su tali strutture di governo ‘pastorale’, come si definiva da più di mezzo secolo, erano calati gli interventi della politica, volti a contenerne le numerose diramazioni culturali, sociali ed economiche. Ciò aveva determinato ispidi conflitti di potere, pur contenuti nel diagramma dell’ancien régime, contrassegnato dall’efficace presenza degli apparati della Chiesa. Furono le rivoluzioni di fine Settecento, e in seguito le realizzazioni napoleoniche, a rimodellare le linee dell’intero quadro, orientandole verso il disegno dello Stato nazionale contemporaneo.
Per l’organismo ecclesiale i contraccolpi causarono la perdita di rilevanti funzioni sul piano ufficiale e su quello delle concrete iniziative. In particolare, non va sottovalutato l’impatto della soppressione degli ordini religiosi, come pure delle confraternite parrocchiali. Le conseguenze non potevano non essere avvertite e denunciate nei circoli ecclesiastici, specie dirigenziali. L’impressione del crollo e la giustificata esigenza della riedificazione erano tradotti, con stile efficacemente metaforico, in una frase del Piano di riforma che Giuseppe Antonio Sala, personaggio importante della Curia romana e cardinale nel 1837, elaborò all’alba del XIX secolo:
«Il principato e la Chiesa avevano bisogno di grandi riforme; non servivano più i puntelli per sostenere la fabbrica cadente, e il Signore vuole atterrarla del tutto per poi innalzare un nuovo edificio. Penserà egli poi a scegliere que’ materiali, che potranno mettersi di bel nuovo in opera escludendo gli inutili calcinacci e i legnami atti soltanto al fuoco»3.
La ripercussione di tante intricate vicissitudini può risultare sorprendente, a uno sguardo retrospettivo. Nonostante le invasioni di eserciti e le pesanti intromissioni politiche negli Stati della Chiesa, venne decisamente consolidandosi l’autorità del pontefice romano, che, da secoli assai rilevante per la Chiesa occidentale, uscì rafforzata nella coscienza dei fedeli, raggiunti, sebbene con racconti frammentari, spesso ingigantiti grazie alle risonanze tipiche dei canali comunicativi, dalle notizie sulle ‘persecuzioni’ subite da due pontefici durante il periodo bonapartista. Il compatimento suscitato dall’esilio di Pio VI e dalla prigionia di Pio VII si traduceva in un’adesione incondizionata alla figura di chi era ritenuto successore di Pietro. Pur lontano per la maggioranza dei cattolici, questi veniva reso presente in modo vivido alla fantasia di molti, grazie agli artifici retorici della predicazione e a notizie via via diffuse. A ciò si aggiungeva, ancorché circoscritta in gruppi elitari ma influenti sulla massa dei fedeli, l’ideologia di Joseph de Maistre e di altri che riconoscevano all’autorità pontificia la capacità di imprimere nella compagine ecclesiale un marchio unitario, esemplare altresì e propulsore privilegiato per la tenuta di quella civile. Parallelamente, seppur confusamente, si faceva strada la propensione ad accettare, o a ricercare, una figura-guida sul piano religioso, in qualche misura collocabile sulla scia della personificazione del potere, quale il bonapartismo aveva instaurato nel settore militare e politico4. Insieme va sottolineata l’energia reattiva dispiegata da alcuni gruppi di fedeli, quasi una presa d’atto che alla costruzione del «nuovo edificio» evocata da Giuseppe Sala occorresse sollecitamente collaborare, in un piano multidirezionale e ambizioso. Come ebbe a scrivere Delio Cantimori
«il nuovo vivace cattolicesimo politico della Restaurazione [era] pieno di slancio e di grandi speranze: conversione dell’Inghilterra, conversione della Russia, riunificazione della cristianità scismatica nella Chiesa romana, guerra santa in oriente: grandi speranze che portavano all’esaltazione anche storici come Döllinger»5.
Peraltro il vissuto religioso delle popolazioni rurali e cittadine italiane procedette senza sconvolgimenti notevoli nelle pratiche liturgiche e nelle abitudini di preghiera. Queste, in gran parte del paese, vennero anzi meglio scandite a causa del consolidamento della struttura parrocchiale, in dipendenza non solo dalla citata soppressione degli ordini religiosi, ma soprattutto dall’accresciuta rilevanza sociale del parroco in campagna, imprescindibile punto di riferimento anche per la comunicazione efficace di misure amministrative, per i rapporti con i ceti colti, soprattutto urbani, e per il dispiegamento di attività non strettamente legate al culto, come ad esempio quelle connesse con l’assistenza ai poveri e ai malati. L’istruzione catechistica fu maggiormente curata, onde irrobustire le conoscenze dottrinali dei fedeli, creando un argine alla temuta ondata di ritorno della propaganda degli ‘spiriti forti’. Conobbero un considerevole incremento le missioni, specie a opera della ricostituita Compagnia di Gesù. I predicatori, che spesso usavano il dialetto, introdussero negli schemi omiletici inflessioni nuove, quali il tema dell’espiazione non solo per i propri peccati, ma per la colpa generale della rivoluzione blasfema, e l’incitamento alla mobilitazione contro il male che sembrava più invasivo e minaccioso. Suggerivano frequentemente pratiche devozionali, rivolte specie al S. Cuore e alla Vergine, non senza consonanze con le inclinazioni romantiche dell’epoca. Questa intonazione affettiva era anche corroborata dalla ripresa della spiritualità e dell’indirizzo teologico-morale di Alfonso de Liguori, beatificato nel 1816 e canonizzato nel 1836. Né vanno trascurati il ripristino degli antichi ordini e il sorgere di nuovi istituti: dal 1819 al 1860 furono approvate una quarantina di congregazioni religiose, appena fondate6.
Sul tronco della «religion populaire» evocata da Renan, si innestavano dunque rami nuovi e in particolare molteplici elementi di sociabilità sia nell’ambito dei sodalizi caratterizzati dai classici voti, sia all’interno della vita parrocchiale resa più compatta anche entro nuclei ristretti di fedeli, in prevalenza laici. La dilatazione di queste ultime morfologie associative si verificherà soprattutto grazie al fenomeno generalmente noto con la dizione di ‘movimento cattolico’. Peraltro già nell’inoltrata seconda metà del XVIII secolo a Torino Albert Joseph von Diessbach aveva costituito le Amicizie cristiane, un sodalizio presto esteso alla Savoia, a Parigi, alla Svizzera romanda, per raggiungere anche, in modalità non sempre identiche, Milano, Firenze, Verona e Vienna. Se vi prevaleva il timbro nobiliare e legittimista grazie anche ai bacini di reclutamento, nella fisionomia a mano a mano assunta risaltavano pure l’impegno ascetico dei singoli, la spinta verso un apostolato dedito in particolare alla diffusione dei bons livres, la sollecitudine per interventi caritativi, e soprattutto l’insistita polemica contro quell’«incredulité moderne», generata dai philosophes e realizzata in maniera energica a partire dagli évenements del 1789, che avevano infranto gli equilibri fra società religiosa e società civile. Nell’organizzazione, che prevedeva vincoli tra gli sparsi gruppi, circolavano in proposito convincimenti ben definiti. Si giudicavano la rivoluzione francese e i fatti connessi e conseguenti alla stregua dell’estremo prodotto di un’altra rivoluzione, molto anteriore nel tempo, identificabile con la ‘rivolta’ protestante. Teorie, moti, istituzioni erano collegati nel rapporto causa-effetto secondo una catena genealogica di errori: dall’affermazione dello spirito di indipendenza nei confronti dell’autorità ecclesiastica, esaltato dall’‘eresia’ del secolo XVI, sarebbero infatti scaturiti l’assioma dell’autonomia della ragione individuale, il dispregio della tradizione, le tesi del contratto sociale e della sovranità popolare. Occorreva riannodare i fili della cultura, della mentalità, degli assetti politici attorno al principio dell’autorità, in primis ecclesiastica, in summis papale. Innervavano simili posizioni tendenze fideiste e tradizionaliste, insieme a dottrine sulla natura della società e sull’indole del potere. Le articolate visuali ricevettero una veste espositiva lucida, attraverso uno stile tornito e conquidente, dal ricordato de Maistre. Fu probabilmente lui a suggerire il nome di Amicizia Cattolica per designare il sodalizio che successe nel 1817 alle Amicizie Cristiane, scioltesi sei anni prima. Lo scrittore fece parte del nuovo sodalizio, che mantenne le idealità del precedente, pur con qualche modifica nei rapporti tra gli affiliati, ad esempio abbandonando il dovere della segretezza e prescrivendo un giuramento con cui essi anno per anno si impegnavano all’assoluta fedeltà verso il papa, da riconoscere comunque infallibile. L’ispirazione antilluminista e controrivoluzionaria rimaneva costante, quantunque l’attivismo filantropico venisse progressivamente accentuato, così come l’apertura verso un’apologetica meno restia a impostare i dibattiti confutatori sul tavolo di recenti acquisizioni culturali7.
A questo bivio cominciavano le divaricazioni rispetto ad altri cattolici. Proprio nel 1819, l’anno della pubblicazione del demestriano Du pape, Alessandro Manzoni dava alla luce le sue Osservazioni sulla morale cattolica, un’apologia che poteva sembrar occasionale; ma, affrontata dall’autore con impegno via via intensificato, si configurò come un originale ripensamento del patrimonio cristiano, rivisitato e misurato sulla piattaforma di obiezioni e tesi dissimmetriche o alternative, ma proposto senza toni bellicosi o drasticamente perentori. Tra i molti spunti va ricordato il paragrafo in cui l’autore dichiara di non condividere l’atteggiamento di «molti che nello spirito di un secolo pretendono di condannare, con argomenti religiosi, opinioni non solo innocenti, ma ragionevoli, ma generose». Né si ritrae dal rilevare come parecchi apologisti della religione siano caduti nell’inconveniente di «confutar tutto» nonostante, a suo dire, pensatori francesi come Montesquieu, Voltaire, Rousseau, «che si dichiarano filosofi», avessero scritto, insieme a «cose irreligiose, superficiali o false, cose utili, vere e nuove». Occorreva dunque evitare di condannar tutto «in monte»8. Con analoghi intenti, seppur con dissomiglianze di metodi e di opzioni, di scelte culturali, di sensibilità filosofiche, altri cattolici, quali ad esempio Rosmini e Gioberti, tentarono di sceverare possibili consonanze con le impostazioni e le suggestioni che dall’Illuminismo al Liberalismo si erano affacciate alla ribalta dell’intellighenzia e della progettualità politica.
Come accennato, su altra direttrice vennero attestandosi tendenze riconducibili, per l’ispirazione e i metodi, alle idealità e alla prassi dell’Amicizia cattolica. Il divergente tragitto assunse presto sporgenze marcate e un indubbio richiamo orientatore. A determinarne i connotati contribuirono gli accadimenti del 1848, con l’accelerazione del processo verso l’unità nazionale italiana, in cui verrà coinvolto, con scarti, inceppamenti, equivoci ma comunque con irreversibili risultati, quel «peuple» di cui proprio in quel torno di tempo, come detto, parlava Renan. Di fronte alla ‘rivoluzione’, che insediò anche a Roma un governo radicale-democratico, il pontefice chiese l’aiuto delle potenze cattoliche al fine di venir ripristinato nei propri diritti, e lasciò la città, per un ‘esilio’ che parve riprodurre le restrizioni subite dai predecessori circa mezzo secolo prima. Com’è noto, fu stavolta l’intervento francese voluto da Luigi Napoleone a reintegrare il pontefice nella sede romana. E è pure ben conosciuto come da simili contingenze parecchi datino l’inizio del «caso di coscienza» del Risorgimento italiano.
Nell’aggrovigliata matassa delle azioni militari, dei negoziati diplomatici, degli assestamenti dei nuovi poteri, frange importanti di cattolici percepirono la frattura e la lontananza del proprio rispetto a un ‘altro’ mondo, costruito sulla base del divorzio dalla vera fede, cioè, in definitiva, rifiutando i dettami del magistero ecclesiastico, unico autorevole interprete dell’autentico messaggio cristiano. Tra i due universi non era ipotizzabile alcuna composizione, ma solo una lotta senza quartiere, descritta spesso mediante metafore dedotte dal linguaggio bellico, a raffigurare la contrapposizione di contingenti armati, con le rispettive insegne, o i due caratteristici stendardi, secondo la celebre immagine degli ignaziani Esercizi spirituali. Dalle file di questo ‘esercito’ cattolico si levavano denunce contro l’ascesa e il dominio di una classe politica ritenuta ostile al papa e al popolo religioso, fomentatrice ed esecutrice di atti, specie legislativi, per emarginare l’opera del clero e degli ordini religiosi, soprattutto nel settore dell’istruzione. Essa inoltre, eliminando l’antico Stato della Chiesa, avrebbe inteso promuovere Roma, capitale del nuovo Stato, a emblema di una civiltà basata sulla scienza e sul libero pensiero9.
Se l’antitesi rimaneva rigida, tuttavia ne scaturivano strategie e tattiche non sempre identiche. Proprio nel cuore delle rivoluzioni quarantottesche, in Sicilia il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio aveva proposto che non mancasse nei parlamenti una rappresentanza cattolica, per fungere da paladina dell’‘interesse religioso’ in maniera consona ai tempi. Nel Programma per l’istituzione di un comitato per la Chiesa in Sicilia egli affermava: «Conviene che si trovino alcuni cattolici arditi, periti nelle forme costituzionali, zelanti per il bene della Chiesa, capaci di santificar se medesimi per gli interessi di Dio, i quali assumano l’incarico di farsi motori e di guidare con prudenza e con fermezza il senso cattolico delle moltitudini»10. Un’élite laicale dunque doveva svolgere compiti, intesi come missione, traducendo nel registro proprio delle dinamiche politiche quella fede tenacemente diffusa, seppur indifferenziata, che animava gli italiani. Ciò rientrava, per il gesuita, in un ordito più complesso di relazioni tra le componenti della compagine civile, come, ritornando sul tema due anni più tardi, spiegava sinteticamente in un saggio pubblicato da «La Civiltà cattolica»11.
Tuttavia la traduzione del disegno taparelliano non fu né facile né scontata. Sempre la medesima rivista della Compagnia di Gesù ospitava nel 1853 un articolo dal valore sintomatico dove era pragmaticamente descritto il ruolo della Chiesa entro quella complicata costellazione storica. Oltre al liberalismo, venivano denunciati socialismo e comunismo quali esiziali pericoli per la religione e l’ordinata convivenza. Secondo l’autorevole periodico, un efficace antidoto a simili minacce andava ricercato nel cattolicesimo in quanto attivo in tutte le componenti.
«Imperocché – proseguiva il saggio – l’eterodossia universale non può essere vinta e conquisa se non dalla universale ortodossia; ad un principio, che crolla e deturpa ogni ordine di verità e di giustizia, non può valevolmente contrapporsi, se non un principio che ristabilisce e santifica tutti gli ordini; ad un sistema, che movendo dalla negazione di Dio vizia radicalmente la natura stessa d’associazione, non può contrastare se non un sistema che muovendo dall’affermazione di Dio ferma irremovibilmente il concetto stesso di società, assodandolo sopra un fondamento divino».
Ora, oltre a tali sicuri principi, la Chiesa possedeva «un’organizzazione impareggiabile [...] falange terribile» solidamente compaginata dalla guida papale, «usbergo di autorità infallibile», dalla giurisdizione dei vescovi e dei «parziali pastori», nonché dalla presenza degli ordini religiosi. Ma si doveva riconoscere anche ai semplici fedeli una parte non secondaria, quella svolta dalle «tante congregazioni di laici che, congiunti insieme gli sforzi promuovono sé medesimi all’acquisto d’ogni più eletta virtù e nel proprio grado concorrono alla santificazione dei prossimi». Né andavano dimenticati i «teneri bambinelli trasformati in apostoli di carità», e gli «operai ed artieri» da educare in modo più pressante e completo12. L’alba di una mobilitazione stava sorgendo, dunque, nel richiesto impegno di gruppi devozionali, le cui finalità specifiche si sarebbero precisate, ma che nasceva, alimentandosene, dalla consapevolezza di opporsi a errori temibili e fatali.
Rinsaldavano questi convincimenti le inflessioni di una pietà sollecitata dall’immediatezza di alcuni episodi, la cui eco si sarebbe a lungo fatta sentire. Nel 1854 il pontefice proclamò il dogma dell’immacolato concepimento di Maria; le iconografie che traducevano la formula di fede rappresentavano la Vergine nell’atto di calpestare il serpente diabolico, simbolo di quella malvagità, che sarebbe stata comunque sconfitta dal soccorso divino. Le apparizioni di Lourdes, avvenute quattro anni più tardi, furono interpretate come clamorosa conferma della rassicurante vicinanza della Vergine. A un decennio di distanza, l’enciclica Quanta cura, con annesso il Sillabo degli errori, ribadiva il giudizio condannatorio, e le conseguenti ripulse, nei confronti di indirizzi culturali e iniziative pragmatiche ritenuti incompatibili con la professione cristiana e quindi da combattere, e da vincere, grazie all’aiuto divino.
La cronaca dispiegherà presto alcune conseguenze, ritenute sin troppo palmari, degli erramenti descritti. In base alle leggi del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867, il patrimonio immobiliare ecclesiastico, con significative eccezioni – su tutte quella delle parrocchie – veniva incamerato o convertito in titoli di Stato, mentre gli istituti religiosi tradizionali subivano soppressioni e dispersioni13. «Il così detto regno d’Italia, nato col latrocinio e col sacrilegio non per altre vie che per queste cerca di conservarsi», commentava il gesuita Liberatore, apostrofando chi danneggiava la Chiesa con la minaccia di biblici castighi, non solo spirituali, ma anche materiali, su uno sfondo non solo dell’epocale e insondabile giudizio pronunciato da Dio, ma anche di verificabili incombenti dissesti per lo Stato, quali il «pauperismo» e addirittura la «bancarotta»14.
Occorre tuttavia non trascurare l’incisività di valutazioni divergenti, in qualche misura collegate alle attitudini manzoniane, rosminiane e di altri, e qualificabili come ‘cattolico-liberali’. In particolare essi nutrivano l’ipotesi di una conciliazione tra il neonato Stato e la Chiesa, avanzando anche il disegno di un partito ‘conservatore nazionale’, sorretto dal ‘ruralismo agrario’, conglobante le grandi masse popolari naturalmente imbevute di valori religiosi. Tuttavia furono le ricordate prospettive antagoniste a rappresentare il fattore dinamico per il cammino delle formazioni laicali cattoliche. L’incitamento era venuto anche dall’esempio di una piccola nazione, in cui vivaci agivano i fedeli della Chiesa romana, grazie al contesto politico propizio alle iniziative autonome dei cittadini. Fu a Malines, durante l’Assemblée générale des catholiques en Belgique, tenuta dal 18 al 22 agosto 1863, che gli italiani presenti colsero sia nel discorso di Montalembert sulle libertà moderne, sia nello spettacolo offerto dal folto convenire di associazioni, ciascuna dotata di compiti specifici, la necessità di un fattivo inserimento nei gangli sociali, pur attraverso modalità adattabili alle proprie contingenze15. Così «scuotendo il lungo torpore nel quale sembravano irrigiditi i cattolici»16 si inaugurò a Bologna nel dicembre 1865 l’Associazione cattolica italiana per la libertà della Chiesa in Italia17. Gli scopi indicati da uno dei principali promotori, Giovanni Battista Casoni, innerveranno la trama di futuri organismi, fomentando tra i membri «uno spirito franco e coraggioso in professare e praticare pubblicamente la cattolica religione»; inoltre ravvivando «nella gioventù e nel popolo il sentimento religioso ed il rispetto e la sommessione all’autorità del Romano Pontefice». Ciò si sarebbe esplicato attraverso un’alacre operosità nel «vasto campo dell’istruzione, dell’educazione, della stampa e dell’associazione, delle proteste, delle rimostranze, delle petizioni ai poteri legislativi e costituiti» e infine «nella vita intima e legale delle province e comuni». D’altro canto il distacco dall’istituzione parlamentare e la protesta contro le «usurpazioni» del governo avrebbero avuto modo di estrinsecarsi mediante l’astensione dal voto nelle elezioni politiche. Quantunque, come venne scritto, «strozzata nella culla, se pure non debba affermarsi che morì prima di nascere»18, a causa di interventi governativi, l’Associazione costituì la nitida premessa al sorgerne di analoghe, tra cui si distinse, sempre a Bologna, la Società della gioventù cattolica italiana, diretta dai conti Giovanni Acquaderni e Mario Fani: il programma, sottoscritto a Roma nel giugno 1867, ricalcava le idealità del sodalizio appena estinto, con un’accentuazione particolare verso la promozione sia della raccolta dell’obolo di S. Pietro, sia di pellegrinaggi a Roma, nonché di iniziative filantropiche19. Gruppi spontanei vennero allora costituendosi in modo rapsodico. Sicché non sorprende l’affiorare della necessità di coordinamenti, anzi della confluenza in un’unica organizzazione.
Ne gettò le basi l’adunanza della Società della gioventù cattolica a Venezia il 20 ottobre 1871, dove venne lanciata l’idea della fondazione dell’Opera dei congressi20. La data, la denominazione e il disegno complessivo alludono trasparentemente alla fisionomia della nuova organizzazione. Com’è noto, l’anno precedente il concilio Vaticano I aveva proclamato, nella costituzione Pastor Aeternus, i dogmi riguardanti il papa, da considerare sia quale supremo pastore con giurisdizione piena su tutta la Chiesa, sia come supremo dottore, al cui magistero, in determinate circostanze, andava riconosciuta la prerogativa dell’infallibilità. Precedentemente, con la costituzione Dei Filius, l’assemblea aveva ribadito i cardini della professione cristiana, tradotta in assiomatici principi dottrinali, ritenuti inattaccabili dal razionalismo, dallo scetticismo e in genere dalle ideologie e dalle filosofie moderne.
L’insieme delineava l’immagine di una religione compattata sotto il segno dell’autorità, soprattutto pontificia, garante universale della verità e, sul piano etico, guida imprescindibile, perenne e stabile, della compagine civile. Ciò implicava, conferendovi potenziale motricità, un progetto di Chiesa teso al futuro, non ripiegato sulla fase difensiva, ma volto alla conquista e alla riconquista: dinamico dunque, quantunque i precisi riferimenti alle tipologie di azione risultassero, per forza di cose, da cogliere e selezionare all’interno di concrete circostanze. In Italia l’episodio della breccia di Porta Pia, nel settembre di quell’anno, e ciò che ne conseguì, soprattutto la legge delle Guarentige e il non expedit, acuendo il contenzioso della questione romana, accelerarono i tempi di reazione dei gruppi cattolici. Questi avrebbero trovato motivi di reciproco riconoscimento, di concordia, di confronto, di incitamento grazie al convenire, a tappe alterne, in larghi raduni; nei congressi, dunque che, per molte componenti dell’economia, del lavoro, dell’industria, dell’intellettualità, erano diventati appuntamento frequentato, locus distinto dove rinsaldare coalizioni, intrecciare rapporti, ricercare spazi di comunicazione e di proclamazioni pubbliche. Anche i cattolici dunque vi fecero ricorso, in alcuni paesi europei, come proprio nel 1867 aveva ricordato l’autorevole «La Civiltà Cattolica», non senza l’augurio che anche la Chiesa italiana potesse, in tempi brevi, «avere i suoi Congressi [...] per via di associazioni parziali, in quel miglior modo che dalle presenti condizioni è consentito»21. Lo stesso periodico, a pochi mesi dall’evento di Porta Pia, raccoglieva e divulgava «un invito pressante» risuonato per l’intera l’Europa cattolica: «valetevi del diritto di associazione, stringetevi in società». Ciò rispondeva «al palese bisogno di una difesa pronta, gagliarda, continuata e a tutta oltranza contro un nemico che minaccia totale sterminio della religione e danni estremi alla società». E poi constatava, con palese soddisfazione ma anche rivolgendo un implicito monito agli italiani, la presenza in Europa, tra i cattolici, «di nuove forze e di generose falangi» capaci di esprimersi attraverso manifestazioni pubbliche, deputazioni, iniziative in favore del «Vicario di Cristo»22.
Movimento e associazioni ebbero, nella penisola, un valido trampolino di lancio appunto nell’Opera dei congressi, il cui raduno inaugurale si celebrò a Venezia dal 12 al 16 giugno 1874, mentre lo statuto venne definito l’anno successivo, durante il congresso di Firenze23. «La Civiltà cattolica» aveva con tempestività commentato l’iniziativa sottolineando che il frutto più prezioso dell’assemblea era da individuarsi nella «fine dell’inerzia [...] non ancora sbandita dai cattolici italiani [...], il risveglio dello zelo cattolico», esemplato dalla presenza di «ottocento membri» e dalle «infocate parole degli insigni oratori»24.
Struttura formale e scopi dell’associazione sono desumibili, per una notizia sommaria, dal Manuale dell’Opera, pubblicato un decennio più tardi. L’Introduzione esordisce con inequivoche sentenze:
«La caratteristica dell’età moderna è la rivoluzione. Frutto degli errori e delle colpe dei secoli andati, essa non è in sostanza che l’espressione attuale dell’antica lotta del male col bene, dell’errore colla verità, dell’inferno contro l’opera della Redenzione Divina [...]. La Chiesa Cattolica resiste e si oppone a questa opera della Rivoluzione, sicura di vincere perché sta per essa la parola del su Fondatore Divino. Ma chi vuole partecipare a questa sicura vittoria [...] bisogna che si schieri come un soldato nel campo dal quale la Chiesa combatte e dirige la guerra [...]. E questo dovere [...] non è limitato al semplice adempimento dei cristiani precetti nella vita privata, intima d’ognuno; a [...] si richiede nei cattolici una vita esterna; una vita pubblica».
In concreto occorreva che essi lavorassero «per riguadagnare pel bene palmo a palmo il terreno, e ritornare la società alla civiltà vera, all’ordine sicuro, la civiltà e l’ordine di cui la Chiesa è maestra». Sicura era comunque «la vittoria contro le prove dell’inferno»25. I settori di intervento venivano indicati nella scuola, nella stampa, nelle amministrazioni locali, senza tralasciare le pratiche liturgiche e devozionali, in particolare quelle in onore del Cuore di Gesù e della Vergine Immacolata26.
L’intelaiatura organizzativa rispondeva ad acquisiti principi di razionalità moderna. In cinque sezioni, divise in sottosezioni, si distribuivano aree di competenza e, corrispettivamente, il personale destinato a occuparsene: opere di religione e associazioni, opere di carità, istruzione ed educazione, stampa, arte cristiana. Le titolazioni conobbero nel corso degli anni alcune varianti. Le più significative riguardarono la seconda: durante il 1879 si mutò in Opere di carità ed economia sociale; otto anni dopo in Economia sociale cristiana; all’inizio del Novecento in Carità ed economia sociale cristiana; e infine, l’anno successivo, in Azione popolare cristiana. Il cambio delle dizioni segnala il laborioso passaggio da un’attività meramente assistenziale-caritativa a un apparato e a una condotta finalizzati a intervenire sia nei perimetri dell’economia, sia, specificamente, nei dissimmetrici rapporti tra le classi.
L’ambizione, o la tensione, di non pochi aderenti, iniziava infatti a rivolgersi verso l’intero ordito sociale da toccare, ed eventualmente modificare, non solo nei fili propriamente religiosi, ma anche in quelli con cui si annodava la complessiva convivenza civile. Ma ciò doveva venir perseguito attraverso la collaborazione di nuclei connessi in un impianto centrale. Si trattava sostanzialmente di una riproposizione su larga scala di quella sociabilità che, all’interno del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo, aveva conosciuto e andava conoscendo sagomature molteplici: «sociabilités cléricales ou laïques, masculines et féminines, familles spirituelles, tertiaires et amis de..., réseaux libéraux/intransigeants, (néo-) gallicans/ultramontains, modernistes/intégriste sont des réalités familières»27. Nella fattispecie, si trattò di un associazionismo laicale, potenzialmente assai esteso, legato con vincoli abbastanza robusti alla gerarchia, grazie alla presenza di sacerdoti nei capillari comitati parrocchiali e nei congressi, dove l’intervento dei vescovi era caldeggiato, privilegiato e attentamente seguito. La specificità laicale venne ben colta, e precocemente, da una puntualizzazione apparsa sulla «Rivista universale» nel 1867:
«Tutte le civili istituzioni [...] nascono sotto le ali ed all’ombra della Chiesa, ma in processo di tempo se ne distinguono e rimangono a progredire col laicato. Se per laicato intendesi la parte scissa ed ostile alla gerarchia cattolica non ha per noi una forma intelligibile quel vano suono di parole: che se invece si guardi a quel laicato vivente la vita di quella gerarchia con l’umile nome di plebe cristiana, io non dubiterò di affermare che in codesto campo fecondissimo io veggo zampillare tutte le mie speranze per le future sorti del mondo civile»28.
Va comunque ribadito come inizialmente i legami di solidarietà fossero tesi in prima battuta a fronteggiare coloro che si ritenevano «nemici della Chiesa». Il fenomeno rientrava nelle tipicità di alcuni «social movements», emergenti da un «interactional process which centers around the articulation of a collective identity and which occurs within the boundaries of a particular society». La sfida collettivamente e costantemente lanciata resta un fattore caratteristico di simili formazioni. Ma altri se ne aggiungono, come l’ampia gamma di compiti rispondenti agli scopi da perseguire, la pressione sulle autorità, anche in forme di negoziato, la contestazione di codici comportamentali e culturali attraverso pratiche religiose o di altra natura, il continuo sforzo per precisare una distinguibile identità29.
Tutto ciò tradussero in pratica i circoli dell’Opera dei congressi, sul perno di un organismo che non sempre ruotò con la stessa intensità, né con la medesima ampiezza, ancorato alla non inerte attesa della ricomposizione di un ordine sociale che solo la Chiesa cattolica avrebbe potuto fondare, sostenere, perfezionare: l’unico autentico, perché investito della legittimazione ultimamente riconducibile a Dio. Non sembra dunque improprio parlare, utilizzando l’espressioni di Zygmundt Bauman, di «counter culture», di un’«utopia of modern era»30, in certo parallela fra altre al socialismo. Come altre era di quando in quando attraversata da lampi apocalittici. L’ostilità alla fede e al papato rivestiva le sembianze di una congiura satanica, cui opporsi senza tentennare. La lotta rinfrangeva sugli attori umani riverberi di forze trascendenti. Così nelle parole di vescovi e predicatori, e pure nei testi dei dirigenti dell’Opera, i contrasti venivano letti nella chiave del discrimine tra Dio e il nemico demoniaco. L’eccitazione del momento rende ragione delle tonalità declamatorie, forse neppur raccolte dai semplici fedeli nella relativa portata letterale. Perché insinuavano non tanto concetti precisi, quanto l’accumulo di allusioni, in grado di corroborare lo sforzo per raggiungere traguardi pragmatici, attraverso strumenti di indubbia concretezza. Al di là dell’antagonismo, retoricamente o biblicamente trascritto, nei riguardi della società in via di secolarizzazione, non si ricusavano logiche improntate all’efficacia, adottando inedite tecniche di comunicazione e di omogeneizzazione di scambi culturali e di confronti, al fine di superare le sfide lanciate mediante i progressi nella modernizzazione, dal campo avverso.
Ma ciò comportava una serie di esiti a livello delle relazioni chiesa-società e all’interno della stessa compagine ecclesiale. Innanzitutto veniva cristallizzandosi un ‘partito’, seppur in senso lato, come lo intese l’economista belga Émile de Laveleye, durante il suo viaggio in Italia negli anni 1878-187931. Colse tale novità, rispondente a una dislocazione diversa del corpus ecclesiale, la riflessione di Antonio Gramsci. In un suo testo, trascritto nel quaderno 20, redatto in carcere, egli interpreta il formarsi di quella che chiama «azione cattolica», quale inizio
«di un’epoca nuova nella storia della religione cattolica; quando essa da concezione totalitaria del mondo, diventa solo una parte e deve avere un partito [...]; l’A[zione] C[attolica] rappresenta la reazione contro l’apostasia di masse intiere, cioè contro il superamento di massa nella concezione religiosa del mondo»32.
Un’ulteriore variante era avvertibile sul piano propriamente ecclesiale. L’assegnazione a determinati laici di specifici compiti, quantunque sotto il controllo gerarchico, favoriva il sorgere magari lento e dapprima impacciato di opzioni pluraliste. Ciò risalta dalla composizione e dalle iniziative dell’Opera, specie se riguardata negli strati subalterni all’alta dirigenza. Questa proveniva dalla nobiltà o dalla distinta borghesia, ma nei quadri inferiori diverranno via via più numerosi i rappresentanti dei ceti popolari. Incominciarono allora a formarsi le unioni operaie, a carattere mutualistico, le casse rurali, le cooperative. L’esigenza di affrontare in modo congruo le insorgenti problematiche del lavoro indusse i membri della prima sezione, tra cui spiccava lo studioso di economia Giuseppe Toniolo, a fondare la Società per gli studi sociali, presieduta dal bergamasco conte Stanislao Medolago Albani, la quale, pur rimanendo collegata con la direzione dell’Opera mediante vincoli ora allentati ora più stretti e non senza soprassalti di conflittualità, sviluppava un attivismo piuttosto empirico, tuttavia in progressione di tempo affiancato da approfondimenti teoretici. Il supporto pubblicistico venne fornito dalla «Rivista di scienze sociali e discipline ausiliarie», che, diretta appunto da Toniolo e dal filosofo tomista Salvatore Talamo, esordì nel 1893. A questa data l’Opera aveva superato crisi dovute alla difficoltà d’intesa tra le varie componenti a motivo dei divari di età e di programmi, con dualismo fra i giovani e gli anziani; fra i cosiddetti cristiano-sociali e i personaggi più conservatori. In concreto, seppur non senza controversie, durante il VII Congresso celebrato a Lucca nel 1887 erano stati avanzati precisi suggerimenti per la soluzione della crisi agraria, come l’incremento delle compartecipazioni e della «colonia parziaria (mezzeria, terzeria, o forme miste)»33. In seguito simile proposta verrà formulata più articolatamente soprattutto per le aree lombarde e venete, a sottolineare la ‘svolta agraria’ del movimento, che tuttavia mostrava di non trascurare le condizioni degli operai degli ‘opifici’, come risulta nello stesso congresso dall’intervento del marchese Lorenzo Bottini, il quale trattò del basso livello dei salari e delle corporazioni nell’industria. Queste, nella sua proposta, avrebbero comportato la coesistenza in un unico organismo di ‘padroni’ e ‘lavoratori’34.
Quale indicatore della consistenza e diffusione dell’Opera, può venir assunto il numero delle firme «per la libertà del papa» raccolte su iniziativa della dirigenza, e presentate al pontefice nel novembre successivo al congresso di Lucca. Furono 521.860, cui andrebbero aggiunte altre 150.000 tra quelle delle donne e le croci degli analfabeti. Se ne contavano 370.000 nell’Italia settentrionale, con punte elevate in Lombardia (145.000) e nel Veneto (126.000); la quota scende sia nell’Italia centrale (85.000) sia nel meridione (71.000). Buona la performance di Bergamo e Brescia (rispettivamente 49.000 e 33.000), di Venezia e Padova (entrambe sulle 26.000); meno brillante, in proporzione, a quella di Milano (26.000)35.
Pochi mesi dopo saliva alla presidenza il conte veneziano Giovanni Battista Paganuzzi, un uomo «a cui il presiedere faceva tanto piacere»36. Va attribuita anche al suo temperamento e ai suoi energici impulsi la copiosa ramificazione dei comitati parrocchiali e dei sodalizi connessi. La statistica del 1897 segnalava come nell’Italia settentrionale su 49 diocesi 41 disponessero di un comitato diocesano, mentre comitati parrocchiali erano presenti in 2.092 delle 7.346 parrocchie; si contavano altresì 448 sezioni giovanili e 456 società operaie. Per l’Italia centrale, le cifre indicavano rispettivamente, per i comitati diocesani 79 (su 118 diocesi), per i parrocchiali 1.536 (su 8.238 parrocchie), 204 sezioni giovanili e 68 società operaie. Le cifre parallele nel meridione erano, sempre rispettivamente, 52 (su 112); 206 (su 3.613), 30 e 14. Una notevole diffusione dell’Opera conosceva la Sicilia: ben 15 comitati diocesani si trovavano nelle 17 diocesi, quelli parrocchiali 194 (nelle 567 parrocchie), e inoltre esistevano 26 sezioni giovanili e 21 società operaie37.
Il lemma ‘operaio’ rende palese una polarizzazione orientata verso il perseguimento di meno deficitarie condizioni economiche, sulla spinta dell’enciclica Rerum novarum, uscita nel 1891 e recepita in tempi dilatati e in modalità diversificate. In ogni caso l’insieme tradisce un parziale incanalarsi dell’applicazione etico-religiosa entro nuovi solchi. Né va trascurata la forza trainante di un clero che alle funzioni prettamente cultuali affiancava competenze organizzative, interventi nel settore della mutualità e del piccolo credito, impegno nello studiare i meccanismi del mercato e delle retribuzioni assegnabili al lavoro, fino all’attivazione di strumenti per la tutela sindacale e, non ultimo, l’inserimento nel giornalismo e in genere nella pubblicistica. Che qualche tangibile svolta si stesse producendo ne ebbero precocemente sentore, ad esempio, i giovani di una città del nord Italia che, nel 1873, dichiaravano come la Società operaia da loro formata presentasse «più delle confraternite utilità e vantaggi»38. Appare altresì emblematico che durante il congresso eucaristico celebrato a Milano nel 1895 i vessilli dei gruppi operai furono comparati a quelli delle antiche confraternite e si formulò il voto che l’uso venisse seguito nelle processioni con il Sacramento39.
La metropoli milanese nel maggio di tre anni dopo fu l’epicentro delle rivendicazioni di molti lavoratori, duramente, sanguinosamente stroncate dall’esercito. Lo scioglimento dei comitati, attuato dal governo, risparmiò, forse non a caso, il comitato centrale, che reagì deprecando i disordini e sottolineando la funzione antisocialista del movimento40. Si avvertì allora più chiaro come uno spartiacque dividesse il vertice dai numerosi gruppi di base, non solo a causa della minor importanza attribuita da questi al ripristino del potere temporale del papa, ma soprattutto per il rilievo che essi assegnavano ai problemi sociali, così da far pensare all’ascesa di «socialistes chrétiens»41.
Se la dizione sembra troppo tranchante, non vanno sottovalutate la vivacità, l’esuberanza, le iniziative proposte dai circoli che si erano formati già da qualche tempo ad opera del sacerdote marchigiano Romolo Murri. Questi aveva raccolto a Roma giovani universitari e iniziato una propaganda a vasto raggio, raggiungendo seminaristi e laici, sparsi in molte zone del paese. La sua rivista «Cultura sociale», un pendant alternativo alle socialista «Critica sociale» e «Neue Zeit» riscosse un’udienza ragguardevole: 600 abbonati nel 1898, circa il doppio l’anno seguente, 1.500 nel 1901, con 2.000 copie di tiratura42. In questo leader, e con scarti e sfumature nei suoi seguaci, l’ideale della restaurazione sociale, alimentato in partenza dal rifiuto delle pretese degenerazioni della ‘modernità’, venne via via corretto e chiarito mediante apporti di teorie e di esperienze. Fondamentali furono da un lato l’ammissione della pluriversità insita nei processi storici, e dall’altro la distinzione, spesso molto netta, fra le verità dogmatiche, con il relativo corredo di principi teologico-filosofici indiscussi, e i molteplici stadi epocali e istituzionali attraversati dal cattolicesimo. Perciò la mancata o ridotta incidenza del cattolicesimo nella società non era semplicemente attribuita al perverso agire di coloro che la combattevano, come spesso si sosteneva «con una concezione infantile», bensì «le cause principali [...] dello spegnersi del pensiero religioso del popolo risiedevano nelle deficienze stesse della Chiesa»43. Di più: il movimento religioso «preso nel suo complesso» doveva sfociare anche in «un movimento politico», il quale dalla protesta per il conflitto tra la Chiesa e il papato desumeva il posizionamento simbolico e, si può aggiungere, tattico, a segnare l’estraneità del movimento cattolico nei confronti dell’assetto borghese della società e dello Stato44. Lo sbocco finiva per ritagliare un autonomo spazio politico, e la conseguente specifica collocazione, nella quale la matrice antigiolittiana, lontana dalla logica clericale, generava non tanto la ripulsa della società capitalista, ma delle connesse degenerazioni di questa in senso parlamentarista, trasformista e reazionario.
Il conseguente programma, e i gruppi che vi facevano riferimento, si rifletterono nel moto della ‘democrazia cristiana’, termine presto diventato un signum contraditionis nelle schiere dell’Opera. Per Toniolo il concetto di democrazia se da un lato privilegiava l’idea «di una cospirazione di forze sociali, giuridiche ed economiche particolarmente rivolte a proteggere, rispettare elevare il popolo», dall’altro dequalificava a «secondari e accidentali» gli approdi schiettamente politici delle organizzazioni democratiche. Nella visione di Murri è invece il secondo aspetto a diventar essenziale, comportando la progressiva scelta della competizione e delle strumentazioni proprie all’area del sindacato e all’arengo dei partiti: il tutto per il raggiungimento di un’effettiva sovranità popolare espressa nella mediazione parlamentare e governativa45. Simile impostazione incanalava spinte classiste e parecchi moti antiborghesi, finendo per distanziare le opzioni democratico-cristiane pure da quelle del gruppo milanese, aderente all’Opera, che faceva capo a Filippo Meda, incline ad alleanze con formazioni partitiche moderne.
Altre istanze del moto murriano concernevano il decentramento amministrativo; la rappresentanza proporzionale dei partiti; l’emanazione di leggi a tutela del lavoro quali le assicurazioni contro infortuni, malattie, vecchiaia; le riforme tributarie; la disciplina dei contratti agrari; lo sviluppo dell’industria anche attraverso cooperative di produzione; il progressivo disarmo e il decremento delle spese militari; la tutela delle libertà civili e politiche. Il discorso di Romolo Murri a San Marino (1902) insistette su quest’ultimo punto, anche per il versante dell’autonomia del laicato dalla gerarchia nelle scelte politico-sociali. Si trattava della promozione del laicato e dell’accettazione delle libertà moderne come dato definitivamente acquisito, da coniugare con interpretazioni del cristianesimo e della religiosità, debitrici delle metodologie storico-critiche più recenti46.
In definitiva, tale complesso può inserirsi fra le proposte volte a tradurre nella realtà quel problematico «democratic dream»47 che dalla fine dell’Ottocento è andato connotando le aspirazioni e la concreta operatività di parecchi cattolici europei, specie italiani e francesi, in particolare quelli appartenenti alle fasce di età giovanile. Ciò permise un promettente approccio alla «contemporary culture» negli aspetti dell’«education and civic training», implicando l’accettazione di molte conquiste «of the modern world»: il che, in definitiva, «distanced Christian Democrats from French legitimist and Italian intransigents»48.
Tutto questo accese polemiche e suscitò inquietudini da parte della gerarchia ecclesiastica, soprattutto durante il pontificato di Pio X, ma anche su un arco temporale più ampio, sebbene occorra rilevare dissimmetrici apprezzamenti, come avveniva in seno alle conferenze episcopali delle regioni Lombardia, Etruria, Emilia, Flaminia-Emiliana49. Dissensi e contrapposizioni lasciavano trasparire come le direttrici di marcia del movimento fossero più di una e conoscessero non solo realizzabili complementarietà, ma pure scarti e reciproci distanziamenti. Soprattutto si stagliava sempre più nitidamente la linea del clerico-moderatismo che anche in regime di non expedit permise di stipulare alleanze nelle amministrazioni locali fra possidenti borghesi e notabili cattolici. Venne maturando in tal modo una «practical form of cooperation between Liberal and Catholic Italy»50. Analoghe tangenze si verificarono a livello di mondo imprenditoriale, né sono da sottovalutare i contatti che esponenti di questo mantennero con i cristiano-sociali, e il parallelo, per molti versi conseguente, irrobustirsi delle tendenze conciliatoriste nel clero e nei fedeli51. D’altro canto la stessa «characteristically fragmented structure» delle classi lavoratrici ostacolava opzioni verso indirizzi unitari52.
Già al tramonto del pontificato di Leone XIII, che con le Istruzioni del febbraio 1902 impose di inquadrare il movimento democratico-cristiano nell’Opera, appariva evidente la crisi di quest’ultima. Il collante della polemica contro le ‘usurpazioni’ dello Stato italiano nei confronti del papa e contro le devianze del liberalismo e del socialismo non era più in grado di amalgamare tendenze dissimili. La diffidenza di Pio X, eletto nel 1903, nei confronti del murrismo e comunque la presa d’atto dei dissensi che solcavano il movimento spinsero il papa a sciogliere l’Opera. Per rimpiazzarla istituì l’Unione popolare, con l’enciclica Il fermo proposito emanata l’11 giugno 1905. Seguirono altri organismi: l’Unione elettorale italiana, per facilitare la preparazione dei cattolici all’impegno politico e l’Unione Economico sociale, che avrebbe dovuto ricevere l’eredità del II gruppo dell’Opera; nel 1908, l’Unione donne cattoliche di’Italia. Frattanto, grazie all’assenso del pontefice, l’attenuazione del non expedit incominciò ad aprire per i cattolici, mediante il voto alle elezioni politiche, l’arena delle competizioni parlamentari, ma non attraverso un partito proprio, bensì come forza subalterna ai liberali, sulla base della convergenza nella difesa di alcuni postulati etici cristiani (indissolubilità del matrimonio, importanza dell’istruzione religiosa nelle scuole), e nell’opposizione all’avanzata del socialismo. Tale «acquiescence in Catholic electoral cooperation with Giolitti» – ha recentemente concluso uno storico – «was a victory of Catholic liberals. Its ironic effect was to discourage formation of an indipendent Catholic party»53.
E tuttavia energie, speranze, progetti di timbro diverso, ma sempre in qualche misura correlati ad una religiosità mai smentita e non di rado intensamente vissuta, pullulavano tra i cattolici. In Sicilia don Luigi Sturzo, fin dagli albori del Novecento, aveva abbozzato le linee di una cultura sociale, prodromica a esiti politici, innestandola sull’analisi dei meccanismi economici e delle relazioni tra le classi e su un’intelligente lezione ricavata dal personale impegno nella vita amministrativa. Paradigmatico il balzo in avanti che rappresentò il celebre discorso da lui pronunciato a Caltagirone alla fine del dicembre 1905. Attraverso la riconsiderazione della storia cristiana, il prete siciliano approdava a denunciare, nella stretta identificazione tra ‘religioso’ e ‘clericale’, l’equivoco della «confusione dei principi della vita religiosa con le forme storiche esterne ed accidentali di essa». E perciò occorreva, a suo dire, «che i cattolici, staccandosi dalle forme di una concezione pura clericale» procurassero di mettersi «a paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione [...] ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del viver civile, che vuolsi impegnato, animato da quei principi morali e sociali che derivano dalla civiltà cristiana»54. Anche il milanese Filippo Meda, membro dal 1902 del comitato permanente dell’Opera dei congressi, aveva affinato la propria preparazione politica attraverso esperienze amministrative. In un discorso tenuto un anno prima di quello sturziano aveva auspicato la costituzione di un partito cattolico non confessionale «riformatore e moderatamente progressista», sul modello del Zentrum cattolico tedesco. Pur non abbandonando la difesa degli interessi religiosi e dei diritti del pontefice, si sarebbe distinto per l’accettazione delle istituzioni dello Stato, per la promozione della pace religiosa, della libertà politica, della giustizia sociale, senza tuttavia enfatizzare l’ostilità nei confronti dei socialisti55. La sua accorta strategia, che peraltro non gli evitò le reazioni polemiche dell’ala più intransigente del movimento, lo avvicinò ai liberali moderati milanesi, fino a procurargli nel 1909 l’elezione alla Camera dei Deputati.
Nello stesso anno vi entrava come radicale anche Romolo Murri, passato attraverso spinosi conflitti con l’autorità ecclesiastica. Nel 1905 aveva fondato la Lega democratica nazionale, succedanea alla «democrazia cristiana», che, sebbene non riscuotesse un seguito nutrito di iscritti, focalizzò molte problematiche inerenti il compito del cristiano nella società: la separazione Chiesa-Stato; il distanziamento dall’ideologia meramente solidarista dell’assetto statuale; lo sviluppo delle società cooperative; il ricorso, seppur parziale, al regime collettivista dei mezzi di produzione. Molto insistita fu la critica alle alleanze clerico-moderate, perché avrebbero impresso una forte accelerazione all’orientamento conservatore nelle scelte economico-sociali, e assecondato l’equivoco di una conciliazione con la Chiesa derivante solo da accordi politici senza il retroterra di un apprezzamento del ruolo civile e religioso delle sue istituzioni. L’accusa di modernismo emarginò questo e altri tentativi, soprattutto perché, nella «sintesi di tutte le eresie», come la Pascendi definì, sintetizzandole e designandole con quel lemma, disparate tendenze novatrici, rientravano pure quelle rivendicazioni relative alla competenza dei fedeli laici nell’applicare i principi cristiani e la possibilità loro attribuita di disattendere, o anche di criticare, il magistero ecclesiastico. Inoltre la sottolineatura murriana della prospettiva della riforma religiosa da condurre al di fuori della Chiesa cattolica, venne giudicata impropria pure da alcuni aderenti alla Lega, che fondarono nel 1911 una nuova Lega democratica cristiana, dove ripresero parecchie istanze della precedente formazione. Si trattò di tentativi non scevri di mordente ideale, destinati a venir emarginati nel pervasivo clima del giolittismo56. Fu soprattutto nella circostanza delle elezioni politiche del 1913, quando l’introduzione del suffragio universale maschile allargò notevolmente il corpo dei votanti, che il sostegno dei cattolici ai candidati liberali moderati divenne massiccio e decisivo. Il patto Gentiloni, che fissava i sette punti programmatici (il famoso «eptalogo») cui erano tenuti i futuri parlamentari aspiranti al voto cattolico, venne giudicato dagli aderenti alla Lega, ma anche da altri esponenti del movimento come Luigi Sturzo, quale resa al moderatismo liberale e pavido abbandono di un programma ispirato alle istanze democratico-cristiane.
Molte di queste avevano corroborato gli intendimenti e gli sforzi di operai e contadini solidali nei nuclei del sindacato cattolico, o ‘bianco’, come in seguito fu chiamato. Sulla scia dello sviluppo della democrazia cristiana e della prorompente ondata del sindacalismo, essi raggiunsero ragguardevoli livelli di diffusione (229 nel 1903), per poi scendere, in coincidenza con la crisi dell’Opera e i provvedimenti di Pio X, a 135. La ripresa iniziò dal 1907, in coincidenza con l’accentuarsi di tensioni dovute all’andamento dell’economia e con l’attivismo dell’Unione economico-sociale. Durante l’assemblea di tale organismo, tenuta a Bergamo nel 1907, vennero emanate norme per la costituzione e la condotta di simili gruppi: essi avrebbero preparato «i lavoratori a partecipare coscienti e organizzati alla rappresentanza di classe», adottando una strategia abbastanza elastica nei rapporti con altri sindacati57. La confessionalità, tuttavia, secondo il volere del pontefice, doveva restare un contrassegno ineliminabile del sindacalismo cattolico: «Col concetto [...] di giustizia cristiana, assai largo e pericoloso – asserì infatti Pio X in un breve del novembre 1909 – non si sa mai a qual punto si potrebbe arrivare per lo spirito delle leghe che aderissero, e di conseguenza per le persone che potrebbero essere elette alla direzione»58.
A tutto il 1910 il numero di queste leghe bianche toccava la soglia di 374 e quello dei soci 104.614: rispettivamente 234 nell’industria (67.466 soci) e 140 nell’agricoltura (37.148 soci). Punte elevate si raggiunsero in Lombardia, con un totale di 174 leghe e 57.870 soci, e in Veneto, rispettivamente 66 e 18.950. L’insieme rappresentava circa un ottavo di tutti i lavoratori sindacalizzati. La percentuale non era certo elevata, a conferma dei ritardi e degli ostacoli che il mondo cattolico sperimentava nel prender coscienza, e nell’intervenire, a proposito di questioni e situazioni il cui cruciale rilievo era da tempo diventato ineludibile. Alcuni episodi lasciano intravedere per un lato l’affiorare di sensibilità e di capacità reattiva inedite da parte popolare, per l’altro sia l’inadeguatezza dei metodi seguiti, sia, sul versante gerarchico, tranne qualche eccezione, la non perspicua analisi delle profonde ingiustizie che il sistema capitalistico incessantemente generava. Basti accennare a due episodi, circoscritti nell’area lombarda. Discreta risonanza ottenne, durante il 1909, lo sciopero nello stabilimento tessile di Ranica (Bergamo). Il sostegno del vescovo locale e il supporto della leadership del movimento cattolico diocesano non ricevettero l’approvazione della Santa Sede, mentre tra il clero aumentavano i timori per gli effetti sovversivi dell’agitazione. Sicché le risultanze non furono positive per la classe lavoratrice, a riprova di incomprensioni e incagli ardui da superare: «the fundamental conflict – così conclude una sintesi da poco formulata – within the Catholic trade union movement between the ideal of interclass solidarity on the one hand, and the imperative of class struggle on the other was left unresolved»59.
Ugualmente significativo, nonostante la marginalità dell’area e del concreto spessore dell’evento, si può ritenere uno sciopero dei contadini della zona lombarda poco discosta dalla confluenza dell’Adda e nel Po. La tipicità deriva dal regime economico e dal genere di coltivazione, configuranti la cosiddetta «area della cascina», dove in grandi unità poderali si praticava l’alternanza tra foraggio per bovini da latte e produzione cerealicola, mediante la massiccia prestazione di mano d’opera, soprattutto dei cosiddetti ‘obbligati’. Inoltre grazie alla vicinanza con il cremonese, vi agiva da leader Guido Miglioli, l’organizzatore delle leghe bianche agricole, promotore di contratti collettivi, sostenitore deciso di azioni protestatarie. Il suo intervento affiancò i locali dirigenti che guidavano numerosi contadini, appunto durante l’estate del 1910, nel contenzioso con fittabili e padroni, che li spinse ad astenersi dal lavoro. La controparte infatti rifiutava di discutere la piattaforma contrattuale presentata dalla lega bianca, che prevedeva migliorie sia al salario, sia alle condizioni lavorative, anche delle donne e insisteva sulle garanzie da ottenere nei casi di infermità e sull’introduzione delle pensioni d’invalidità e di vecchiaia. Anche qui il successo non arrise alla concertata azione. Nel semplice, spontaneo, se si vuole grezzo, commento di un ecclesiastico del luogo, sono leggibili, in filigrana, i motivi dell’impasse incontrate dal movimento cattolico in questo ambito. Egli giudicava inefficace la via della mediazione-trattativa con il ceto padronale. L’unico argomento valevole a smuoverlo sarebbe stato «il timore del danno minacciato dalla costanza dei contadini», in definitiva dalla loro perseveranza nel voler scioperare. Lo sciopero era fallito «per la parzialità addimostrata dalle autorità politiche, per la timidità dei contadini davanti a un apparato straordinario di forza pubblica e anche perché i nostri parroci si appoggiano più del bisogno ai ricchi e alle loro signore per l’esteriorità del culto e per il loro benestare».
E tuttavia, al di là del fallimento subito nella circostanza, un’acquisizione, quasi un punto di non ritorno, era stata raggiunta. La esprimeva lo stesso Miglioli, durante il XX Congresso celebrato a Modena nel 1910. Secondo il combattivo cattolico cremonese, le Leghe rispondevano, nella loro essenza, al «puro concetto di classe», mantenendo un rapporto dialettico con altre forze sociali, onde «trovare nella giustizia del contratto di lavoro e nella partecipazione delle rappresentanze operaie ai pubblici uffici la garanzia della pace e dell’armonia sociale». Siffatti e altri assetti, così come le ripetute azioni rivendicative, fanno affiorare le virtualità della crescita in chiave antimoderata che alcune avanguardie politiche e sindacali conobbero all’interno del cattolicesimo, mediante lo sforzo per coinvolgere strati popolari nella contestazione dell’ordine esistente. Né par scevro di rilievo il fatto che, di lì a poco, allo scoppiare del conflitto mondiale, lo stesso personaggio e l’opinione pubblica degli abitanti di quell’area mostrassero una decisa avversione all’intervento bellico, facendo leva sugli interessi del ceto lavoratore e sull’appello ai valori evangelici. E non sorprende l’accusa di modernismo rivolta a Miglioli e ai suoi seguaci, anche sacerdoti60.
Gli episodi, sebbene assai circoscritti e di modesto spessore, ostendono alcuni rilevanti fattori che presiedettero all’evoluzione del movimento cattolico: il sentimento cristiano, la parziale assimilazione di idee e di pratiche volte ad instaurare nuovi equilibri sociali, l’arduo crearsi del consenso su obiettivi concreti, i tentativi per svincolarsi dalla stretta disciplina ecclesiastica, il non univoco atteggiarsi della stessa gerarchia nei riguardi di nuove prospettive economiche, sociali e culturali, quantunque prevalesse la vischiosità di un’ecclesiologia centrata sulle prerogative dell’autorità nella compagine dei fedeli. Le oscillazioni del movimento derivavano da simili connotati, oltre che da obiettive immaturità nelle analisi teoriche e nelle metodiche prassiologiche, e pure dal posizionamento diversificato del fenomeno e dell’istituzione religiosa all’interno della società di massa. Resta che quella «religion populaire», apparsa a Renan nella sua nativa corposità, ha costituito il ground bass, ora più intenso, ora più sommesso, a sostegno di motivi frequentemente assai diversi, per accordi, contrappunti, dissonanze. Di qui la sua forza, ma anche la sua funzionale ambiguità. E, insieme, l’alternanza di apporti che l’alimentarono, per risultati spesso provvisori, né sempre agevoli da decifrare. Perché anche questo insieme di idealità e di fatti, come scrisse Lucien Febvre, e proprio relativamente all’inizio del secolo XX, rappresenta l’espressione di un «peuple qu’une religion nourrit – mais seulement si, elle-même, elle se nourrit du peuple»61.
1 Per un inquadramento più ampio dell’argomento trattato si vedano: Mezzo secolo di ricerca storiografica sul Movimento Cattolico in Italia, dal 1861 al 1945. Contributo a una bibliografia, a cura di E. Fumasi, introduzione di A. Canavero, Brescia 1995; DSMC, Aggiornamento, Genova 1997; M. Guasco, Romolo Murri e il modernismo, Roma 1968; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993; G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985; Romolo Murri a cinquant’anni dalla morte, 1944-1994, a cura del Centro studi Romolo Murri, Ancona 1996; Romolo Murri nella storia politica e religiosa del suo tempo, Atti del Convegno di studio (Fermo 1970), a cura di G. Rossini, Roma 1972; E. Poulat, Chiesa contro borghesia: introduzione al divenire del cattolicesimo contemporaneo, Casale Monferrato 1984; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1969; Id., Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Roma 1979; Storia del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Malgeri, Roma 1980-1981; G. Verucci, Il Movimento Cattolico Italiano. Dalla Restaurazione al primo dopoguerra, Messina-Firenze 1978.
2 Ernest Renan a Pierre-Eugène-Marcellin Berthelot, Roma, 9 novembre 1949, in E. Renan, M. Berthelot, Correspondance, 1847-1902, Paris 1929, p. 43.
3 Cit. in V.E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna 1971, p. 1.
4 Per i riflessi nella mentalità popolare delle figure e delle vicende di Pio VII, cfr. gli studi di J.-M. Ticchi, Il viaggio di Pio VII attraverso il suo libro dei conti (1804-1805), in Pio VII, Papa benedettino, Atti del Congresso internazionale (Cesena-Venezia 2000), Cesena 2003; De Rome à Paris à la suite de Pie VII. La visite de l’abbé Cancellieri en France lors du sacre de Napoléon I (1804-1805) d’après son journal de voyage, «Benedictina», 51, 2004, 2, pp. 335-346; Le Vicaire du Christ en France. Pie VII en voyage pour le couronnement de Napoléon, «Archivum historiae pontificiae», 43, 2005, pp. 139-155.
5 D. Cantimori, Introduzione a L. Von Ranke, Storia dei Papi, Firenze 1965, p. XV.
6 Per le indicazioni essenziali cfr. P. Stella, Religiosità vissuta in Italia nell’800, in Storia vissuta del popolo cristiano, a cura di F. Bolgiani, Torino 1985, pp. 753-771; Id., Prassi religiosa, spiritualità e mistica nell’Ottocento, in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1995, pp. 115-142.
7 Tra le molte pubblicazioni cfr. C. Bona, Le “Amicizie” segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Torino 1962; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età gioliottiana, Bari 1970, pp. 7-24; E. Bressan, Le «Amicizie». Reti di sociabilità sui due versanti delle Alpi, in Les échanges religieux entre l’Italie et la France, 1760-1850. Regards croisés, a cura di F. Meyer, S. Milbach, Chambéry 2010, pp. 79-92.
8 A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di U. Colombo, Milano 1965, pp. 615-618.
9 Cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1962, in partic. pp. 179-209.
10 Dal Programma per l’istituzione di un comitato per gli interessi della Chiesa in Sicilia, riportato da G. De Rosa, I Gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del ’48, Roma 1963, pp. 194-195; poi in L. Ferrari, Il laicato cattolico fra Otto e Novecento: dalle associazioni devozionali alle organizzazioni militanti di massa, in St.It.Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, 1986, pp. 931-932.
11 [L. Taparelli d’Azeglio], Ordini rappresentativi nel loro soggetto “La Nazione”, «La Civiltà cattolica», 2, 5, 1851, pp. 395-428.
12 [G. Calvetti], Dell’unico rimedio pel socialismo e comunismo, «La Civiltà cattolica», 2, 4, 1853, pp. 593-609, in partic. pp. 599, 601, 609.
13 Per una panoramica essenziale, cfr. A.C. Jemolo, Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Torino 1948, pp. 246-260.
14 [M. Liberatore], La liquidazione dell’asse ecclesiastico, «La Civiltà cattolica», 6, 12, 1867, pp. 5-17.
15 Assemblée générale des catholiques en Belgique, Bruxelles 1964; R. Aubert, L’intervention de Montalembert au congrès de Malines en 1863, «Collectanea Mechliniensia», 20, 1950, pp. 525-551; per un panorama di reazioni più immediate cfr. G.B. Casoni, Belgio e Germania, Bologna 1864.
16 A. Baschirotto, Delle Associazioni cattoliche in Italia. Riassunto storico, in Le deliberazioni del Primo Congresso Cattolico Italiano tenutosi a Venezia nei giorni 12, 13, 14, 15, 16 giugno 1874, a cura di A. Baschirotto, Venezia 1875, p. 82.
17 A. Berselli, L’Associazione cattolica italiana per la libertà della Chiesa in Italia, «Quaderni di cultura e storia sociale», 3, 1954, pp. 237-251.
18 G.B. Casoni, Cinquant’anni di giornalismo (1846-1890). Ricordi personali, Bologna 1907, pp. 173-180.
19 M. Agnes, I motivi religiosi che caratterizzarono la Gioventù Cattolica dal 1867 al 1874, in Spiritualità e azione del laicato cattolico italiano, Padova 1969, pp. 215-248.
20 Ricostruzione in A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904), contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958, pp. 27-30.
21 [C. Piccirillo], I Congressi cattolici, «La Civiltà cattolica», 6, 12, 1867, cit., p. 296.
22 [V. Steccanella], La necessità delle associazioni cattoliche, «La Civiltà cattolica», 8, 2, 1871, pp. 5-7.
23 A. Gambasin, Il movimento sociale, cit., pp. 30-32.
24 [C. Piccirillo], Il primo Congresso cattolico in Italia, «La Civiltà cattolica», 9, 3, 1874, pp. 5-33.
25 Manuale dell’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici in Italia. Seconda edizione corretta ed aumentata, Bologna 1883, pp. 5-11.
26 Ibidem, pp. 21-29.
27 M. Brejon de Lavergnée, Sociabilités catholiques. L’apport de l’analyse de réseaux à l’histoire religieuse, «Revue d’histoire ecclésiastique», 104, 2009, pp. 138-139.
28 I. Masci, Della legge sull’asse ecclesiastico, «Rivista universale. Annali cattolici», n.s., 2, 6, 1867, p. 164.
29 R. Eyerman, A. Jamison, Social Movements. A Cognitive approach, Cambridge 1991, p. 4, ma si veda l’intera opera.
30 Z. Bauman, Socialism: The Active Utopia, London 1976, p. 36.
31 E. de Laveleye, Lettres d’Italie (1878-1879), Paris 1880, p. 368.
32 Si vedano le puntuali citazioni e osservazioni di G. Francioni, F. Frosini, Nota introduttiva al Quaderno 20, in A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di G. Francioni, Cagliari-Roma 2009, XVII, pp. 165-166.
33 Atti e documenti del VII Congresso Cattolico Italiano tenutosi in Lucca dal 19 al 23 aprile 1887, Bologna 1888, p. 156: ne parlò, adducendo analisi distesamente spiegate, l’avvocato Giovanni Mezzetti (pp. 150-158).
34 Ibidem, pp. 201-257.
35 Atti e documenti del VIII Congresso cattolico Italiano, II, Documenti, Bologna 1890, pp. 65-68. Le cifre parziali sono state arrotondate.
36 F. Crispolti, I congressi e l’organizzazione dei cattolici in Italia, «Nuova antologia», 16 ottobre 1897, p. 676.
37 A. Gambasin, Il movimento sociale, cit., pp. 716-717: ma si vedano le dettagliate tavole statistiche, in partic. pp. 626-741.
38 Dal Verbale delle adunanze della Società Gioventù Cattolica Opera Piacentina, 7 luglio 1872-4 maggio 1877: seduta del 16 novembre 1873, in Archivio di Stato. Piacenza, Deposito del Bollettino Storico Piacentino. La società era stata inaugurata il 7 luglio 1872.
39 Cfr. A. Zambarbieri, I congressi eucaristici italiani tra Ottocento e Novecento, in I Congressi eucaristici nella Chiesa e nella società in Italia, a cura di M. Marocchi, Milano 1983.
40 In proposito F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1977, pp. 98-100.
41 Seppur con il punto interrogativo, come mostra E. Poulat, Catholicisme, démocratie et socialisme et Mgr Benigni de la naissance du socialisme à la victoire du fascisme, Tournai 1977, in partic. pp. 70-115, 255-257.
42 Per questi dati e per precise informazioni e interpretazioni del murrismo si veda M. Guasco, Romolo Murri. Tra la «Cultura sociale» e il «Domani d’Italia» (1898-1906), Roma 1988.
43 R. Murri, Il nostro programma religioso, «Cultura sociale», 7 settembre 1899, p. 258.
44 F. Traniello, Città dell’uomo: cattolici, partito e stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, pp. 83-89.
45 Cfr. A. Zambarbieri, Murri e Toniolo. Percorsi nel cattolicesimo italiano, in Romolo Murri e i murrismi in Italia e in Europa cent’anni dopo, a cura di L. Biagioli, A. Botti, R. Cerrato, Urbino 2004, pp. 175-205.
46 Ibidem, pp. 77-123.
47 R. Grew, Suspended Bridges to Democracy. The Uncertain Origins of Christian Democracy in France and Italy, in European Christian Democracy, ed. by Th. Kselman, J.A. Buttigieg, Notre Dame (Indiana) 2003, pp. 16-17.
48 Ibidem, p. 18.
49 In proposito A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica contro la secolarizzazione. Le conferenze episcopali regionali (1889-1914), Roma 2009, in partic. pp. 119-137, 173-198, 258-297, 406-410, 421-422, 435.
50 J. Pollard, Catholicism in Modern Italy. Religion, Society and Politics since 1861, London-New York 2009, p. 43.
51 Cfr. C. Brezzi, Cristiano-sociali e intransigenti. L’opera di Medolago Albani fino alla «Rerum Novarum», Roma 1971; M.G. Rossi, Le origini del partito cattolico. Movimento cattolico e lotta di classe nell’Italia liberale, Roma 1977.
52 J. Pollard, Catholicism in Modern Italy, cit., p. 50.
53 Grew, Suspended Bridges to Democracy, cit., p. 22.
54 L. Sturzo, I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani, in Id., Discorsi politici, Roma 1951, pp. 358-359.
55 Il discorso dell’avv. Meda a Rho. I cattolici italiani nella vita politica, «L’Osservatore cattolico», 29 dicembre 1904.
56 P. Scoppola, Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Bologna 1966, pp. 150-164.
57 Per i dati riportati, anche in seguito, e per i deliberati dell’assemblea cfr. Le organizzazioni operaie cattoliche in Italia, a cura del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Roma 1911.
58 Cfr. «La Civiltà cattolica», 1909, 4, pp. 345-347.
59 J. Pollard, Catholicism in Modern Italy, cit., p. 63.
60 Cfr. A. Zambarbieri, La diffusione del modello migliolino nelle campagne lombarde, in La figura e l’opera di Guido Miglioli 1879-1979, a cura di F. Leonori, Roma 1982, pp. 119-150 (nei contributi del volume si trovano sviluppi della problematica relativa al migliolismo).
61 L. Febvre, Au coeur religieux du XVIe siècle, Paris 1957, p. 136.