ragion di Stato
Com’è noto, la locuzione ragion di Stato è assente nelle opere di Machiavelli. Una formulazione affine compare invece – sembra per la prima volta – nel Dialogo del reggimento di Firenze ultimato nel 1525 da Francesco Guicciardini: «ragione e uso degli stati» (a cura di G.M. Anselmi, C. Varotti, 1994, p. 231) vi esprime la ratio dell’azione non «cristiana» degli Stati in tempo di guerra (si tratta, nella fattispecie, della guerra di Firenze contro Pisa). Questa prima occorrenza testuale si riferisce quindi esclusivamente a un argomento di politica estera, alle guerre e alle conquiste territoriali. Tale indirizzo viene confermato un quarto di secolo dopo dalla seconda attestazione nota, nell’Orazione di Messer Giovanni Della Casa scritta a Carlo V imperadore intorno alla restituzione della città di Piacenza (1548):
E perché alcuni, acciecati nella avarizia e nella cupidità loro, affermano che Vostra Maestà non consentirà mai di lasciar Piacenza, checché disponga sopra ciò la ragion civile, conciosiaché la ragion degli stati no ’l comporta, dico che questa voce è non solamente poco cristiana, ma ella è ancora poco umana (in Prose di G. Della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a cura di A. Di Benedetto, 1970, p. 315).
Negli anni in cui cominciavano a diffondersi le opere di M., già si rifletteva, dunque, sulla «ragion degli stati». Questa, diversamente dalla «ragione civile» – cioè dallo ius civile – propria delle «picciole cose private», avrebbe costituito un altro tipo di diritto, proprio delle cose «grandi» e «publiche», ossia degli affari esteri e bellici (Giovanni Della Casa, Orazione..., cit.). L’espressione serviva quindi a evidenziare l’estraneità delle relazioni tra gli Stati rispetto al complesso delle norme contemplate dal diritto e dalla morale. E va quindi rilevata l’affinità di tale uso con l’identificazione machiavelliana, sotto il nome «cose di stato», dell’ambito specifico dei conflitti interstatali e delle guerre, al quale M. accorda un’importanza primaria non solo nel Principe. Così, nel capitolo dei Discorsi in cui si spiega che, «ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa», viene contemplato fra le «cose di stato» l’atto di guerra consistente nell’«ammazzare tutti» i nemici, in una prospettiva non diversa da quella secondo la quale Guicciardini assegnerà – come si è visto – l’atto di «ammazzare» i prigionieri pisani alla «ragione e uso degli stati»: dopo l’evento delle Forche Caudine, il capitano dei Sanniti, Ponzio, avrebbe dovuto «seguire i consigli del padre, il quale voleva che i Romani o ei si salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti e che non si pigliasse la via del mezzo [...] sempre perniziosa nelle cose di stato» (Discorsi III xl 9). Peraltro, nella pagina citata della sua Orazione, lo stesso Della Casa chiamava a sua volta «cose di stato» l’ambito di questa pretestuale «ragion degli stati» secondo cui sarebbe stato giustificato «occupa[re] le altrui iurisdizioni o possessioni» (in Prose di G. Della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, cit., pp. 315-16). La «ragion degli stati» è quindi inizialmente quella riguardante le «cose di stato»: le relazioni politico-militari tra Stati, cioè in particolare, secondo i termini usati da M. nel seguito del passo citato, la «salute della patria» – a proposito della quale «non [...] debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso» (Discorsi III xli 5) –, o ancora le promesse «intra i principi» – che spesso «non si debbono osservare» (Discorsi III xlii e Principe xviii).
Se più avanti nel secolo l’espressione ragion di Stato, al singolare, appariva sporadicamente in alcuni testi e documenti, essa s’impose solo con la specifica letteratura che ha origine con Giovanni Botero (Della ragion di Stato, 1589). Veniva allora a coprire l’intero significato della ‘politica’: secondo la definizione boteriana, si trattava della «notizia de’ mezzi atti a fondare, conservare et ampliare un dominio» (p. 1), definizione in cui si perdevano sia il profilo giuridico della «ragion degli stati» di Guicciardini e Della Casa, sia la sua stretta pertinenza alla guerra e alla conquista. Del resto, i contemporanei più lucidi, come Scipione Ammirato (→) o Traiano Boccalini (→), criticarono presto questa identificazione della r. di S. con la politica nel suo insieme, e scelsero di darle un significato più strettamente derogatorio. Per Ammirato, la r. di S. non era altro «che contraventione di ragione ordinaria per rispetto di pubblico beneficio, overo per rispetto di maggiore e più universal ragione», cioè un «privilegio» che il principe può attribuirsi in quanto «persona publica» (Discorsi sopra Cornelio Tacito, 1594, p. 231). Nella sua satira parnassiana, Boccalini attribuiva ad Apollo la condanna della «speciosa diffinizione» boteriana, «che a tutta la politica si conveniva»: il sovrano del Parnaso comandava così «che a quel libro (per altro elegantissimo) fosse levato il titolo di Ragion di Stato, e che li fosse posto quello della Politica» (De’ Ragguagli di Parnaso, 1614, centuria II, ragg. 87, non paginato). Ma l’identificazione boteriana della r. di S. con l’intera politica non aveva impedito, parallelamente, l’associazione della formula all’opera di Machiavelli. Sulla scia degli antimachiavellismi sviluppatisi nell’ambito delle guerre di religione – soprattutto in Francia, prima da parte dei calvinisti poi dei cattolici ligueurs –, Botero denunciava «l’empietà» di Machiavelli. Dava soprattutto avvio all’idea di un M. teorico della r. di S., o più esattamente fondatore della sua versione ‘cattiva’: «Machiavelli fonda la Ragione di Stato nella poca conscienza» (Della ragion di Stato, 1589, lett. dedicatoria, non paginato). Fu allora e solo allora che nacque la stretta associazione tra il Fiorentino e la ragion di Stato. Pur se contrastata, fin dall’inizio, dalla lettura ‘obliqua’ e ‘repubblicana’ del Principe (diffusa proprio da Boccalini, fra gli altri), l’interpretazione boteriana fu seguita non solo da gran parte degli altri autori della letteratura della r. di S., fra fine Cinquecento e inizio Seicento, ma anche da una perdurante opinione vulgata, e perfino da alcune fra le più importanti interpretazioni storiografiche e filosofiche del 20° secolo.
Dopo la Prima guerra mondiale, quasi contemporaneamente, tre grandi studiosi collegavano la figura di M. alla nozione di r. di S., proponendo interpretazioni che riuscirono particolarmente influenti: Friedrich Meinecke (→) presentava il Fiorentino come il primo teorico della moderna «idea della ragion di Stato» (1924, trad. it. 1977); Benedetto Croce (→), distinguendolo nettamente dagli autori politici di fine Cinquecento, gli attribuiva la scoperta dell’«autonomia della politica», «di là dal bene e dal male morale» (1925, p. 60 nota 2); Federico Chabod (→), dando alla locuzione un significato diverso, spiegava come M. aveva «spazza[to] via dalla scena ogni criterio di azione che non fosse quello suggerito dalla ragion di Stato, cioè dalla esatta valutazione del momento storico e delle forze costruenti» (1925, p. 100). Nel secondo dopoguerra, il legame tra M. e r. di S. fu reso ancor più stringente da Leo Strauss (→): la «machiavellica ‘ragion di Stato’» rappresenterebbe «una delle due forme tipicamente moderne di filosofia politica», insieme al distinto indirizzo della «legge pubblica naturale» (1953, trad. it. 1957, p. 190).
Più di recente, al contrario, lo stesso nodo di una r. di S. machiavelliana è stato autorevolmente reciso: istituire un legame tra M. e le prime teorie della r. di S. sarebbe possibile solo a patto di «isolare parole e frasi [di M.] fuori dal loro contesto specifico», dando dell’opera sua «una lettura inevitabilmente parziale eutilitaria» (Vasoli 1994, p. 49). È infatti necessario contestare l’attribuzione a M. dell’idea di ragion di Stato. Se tale attribuzione pretende di essere un giudizio storico, si rivela necessariamente anacronistica, giacché la r. di S. nasce solo dopo Machiavelli. Se riposa invece su una definizione unica della nozione, si tratta allora di una visione essenzialistica, tendente appunto, come faceva Meinecke, a vedere nella r. di S. una pura «Idea». Conflitto tra ethos e kratos, separazione di morale e politica, natura demoniaca del potere: equiparare la r. di S. al pensiero machiavelliano significa identificare la prima con un’essenza atemporale e fissa, e operare sul secondo una riduzione semplicistica. Questa può certo valersi di vari passi famosi, presenti in particolare nei capitoli xv e xviii del Principe: «è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità» (xv 6), o:
uno principe e massime uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione (xviii 14).
Ma si tratta precisamente dell’isolamento di alcune frasi dal loro contesto.
D’altronde, il pregevole sforzo mirante a preservare la specificità e la complessità del pensiero machiavelliano dai semplicismi di certi ‘manuali’ della r. di S. non deve impedire di cogliere i tanti fili che collegano i pensatori politici di fine Cinquecento a Machiavelli. Nato dopo M., il pensiero della r. di S. da lui trae ispirazione, e questa non si riduce solo a parole e frasi staccate: gli autori attingono da M., più largamente, il nuovo linguaggio politico della «sicurtà» e della «potenza», della «conservazione» e delle «forze» di uno «stato», al quale M. aveva attribuito un’ampiezza di significati che confluirono nella teorica della ragion di Stato. In particolare, la concezione dello Stato come «dominio fermo sopra popoli», secondo la definizione aggiunta da Botero nel 1596 all’incipit del suo trattato (Della ragion di Stato, 1596, p. 5), si comprende nello scarto con le concezioni giuridico-politiche coeve d’oltralpe. Queste erano infatti intese a pensare la respublica (e non lo Stato, si badi) come una comunità governata dal sovrano tramite la legge. Si veda quanto la definizione di Botero sia distante, per es., da quella di Jean Bodin (→), il teorico della «sovranità assoluta», nell’edizione latina dei Six livres de la République: Respublica est familiarum rerumque inter ipsas communium summa potestate ac ratione moderata multitudo («Repubblica è la moltitudine delle famiglie e delle cose che hanno in comune, governata dalla sovrana potestà e dal diritto», De Republica libri sex, 1586, I i, p. 1). Qui le nozioni di pubblico, di comune e di ratio (nel senso medievale di ius) rimangono primordiali e costituiscono in primis la comunità politica. Lo «stato» della r. di S. eredita invece da M. l’equiparazione degli Stati ai «dominii che [...] hanno imperio sopra gli uomini» (Principe i 1), cioè a una relazione di dominio unilaterale, dall’alto verso il basso. Viene allora affidato alla sola «prudenza», intesa come tecnologia governativa, il compito di «mantenere» o «conservare» lo Stato.
Va però tenuto presente che, fra gli aspetti che distinguono meglio il pensiero politico dell’età della r. di S., vi è l’insistenza sul necessario sviluppo di un insieme articolato di saperi indirizzati alla conoscenza e alla gestione dello Stato, e sulla loro pubblicizzazione: un indirizzo, questo, che appartiene a un’epoca molto diversa da quella di M., segnata non tanto dalla r. di S. quanto dalla sua ‘preistoria’, cioè da quella «ragion degli Stati» intesa come sospensione del diritto e della ragione giuridica in ambito interstatale, espressione della crisi degli ordini etico-giuridici risultante dall’inaudita violenza delle guerre e delle relazioni estere in Italia dopo il 1494.
Bibliografia: Fonti: F. Guicciardini, Dialogo del reggimento di Firenze (1521-1525), a cura di G.M. Anselmi, C. Varotti, Torino 1994; G. Della Casa, Orazione di Messer Giovanni Della Casa scritta a Carlo V imperadore intorno alla restituzione della città di Piacenza (1548), in Prose di G. Della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a cura di A. Di Benedetto, Torino 1970; G. Botero, Della ragion di Stato, Venezia 1589 (altra edizione citata: Milano 1596); G. Frachetta, L’idea del libro de’ governi di stato e di guerra, Venezia 1592; S. Ammirato, Discorsi sopra Cornelio Tacito, Firenze 1594; T. Boccalini, De’ Ragguagli di Parnaso, Milano 1614.
Per gli studi critici si vedano: F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München-Berlin 1924 (trad. it. Firenze 1977); F. Chabod, Del Principe di Niccolò Machiavelli (1925), in Opere di Federico Chabod, 1° vol., Scritti su Machiavelli, Torino 1964; B. Croce, Elementi di politica, Bari 1925; L. Strauss, Natural right and history, Chicago-London 1953 (trad. it. Venezia 1957); M. Senellart, Machiavélisme et raison d’État, Paris 1989; M. Stolleis, Staat und Staatsräson in der frühen Neuzeit. Studien zur Geschichte des öffentlichen Rechts, Frankfurt a.M. 1990 (trad. it. Bologna 1998); Botero e la ‘Ragion di Stato’, Atti del Convegno in memoria di Luigi Firpo, Torino 8-10 marzo 1990, a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992; C. Vasoli, Machiavel inventeur de la raison d’État?, in Raison et déraison d’État, éd. Y.-C. Zarka, Paris 1994, pp. 43-66; R. Descendre, Giovanni Botero et la langue machiavélienne de la politique et de la guerre, in Langues et écrituresde la République et de la guerre. Études sur Machiavel, a cura di A. Fontana, J.-L. Fournel, X. Tabet, J.-C. Zancarini, Genova 2004, pp. 419-45; R. Descendre, Le ‘cose di stato’: sémantique de l’État et relations internationales chez Machiavel, «Il pensiero politico», 2008, 41, 1, pp. 3-18.