Panikkar, Raimon (Raimundo Paniker Alemany)
(Raimundo Pániker Alemany) Filosofo e teologo catalano (n. Barcellona 1918). Nato da madre cattolica e padre indù, P. ha conseguito titoli accademici in filosofia, scienze e teologia. Ordinato prete cattolico negli anni Quaranta, negli anni Cinquanta si è recato in India dove ha studiato filosofia e religioni indiane. Nei decenni successivi ha insegnato in varie univv. europee, indiane e nordamericane. Ha pubblicato circa quaranta monografie e 400 articoli accademici in vari ambiti e lingue ed è fra i maggiori rappresentanti del dialogo interreligioso e della filosofia delle religioni in genere. Raccontando in retrospettiva il proprio percorso, P. ha scritto: «Ho lasciato [l’Europa] da cristiano, mi sono scoperto indù, ritorno come buddista, pur non avendo mai cessato di essere cristiano» (Faith and belief: a multireligious experience, in Anglican theological review, 53, 1971). Sul piano più prettamente filosofico, costante in P. è l’attenzione al tema della multidimensionalità della verità, avvicinato con gli strumenti della fenomenologia, e con un approccio ermeneutico che lo porta a negare una metodologia ‘oggettiva’ e postulare il coinvolgimento dell’interprete. Principio guida per l’incontro interreligioso è, secondo P., che esso debba essere un’esperienza autenticamente religiosa. Da ciò discendono ulteriori principi: (1) che il dialogo sia privo di ogni apologetica, ossia che gli interlocutori non vogliano difendere la propria religione né la religione in opposizione al secolarismo o all’ateismo; (2) che si accetti il ‘rischio’ dell’incontro e anche di un’eventuale conversione; (3) che la dimensione storica è necessaria, ma non sufficiente; (4) che il dialogo non sia solo un congresso di filosofia, né un simposio di teologia; (5) che l’incontro avvenga con fede, speranza e amore, che sono capaci di avvicinare gli esseri umani, mentre teologie, dottrine e ideologie li dividono; (6) che prioritario sia l’approfondimento intrareligioso, nel senso che prima di entrare in un dialogo interreligioso è necessario entrare profondamente nella propria tradizione. La possibilità di un dialogo è assicurata, secondo P., dalla priorità della fede come esperienza e disposizione antropologica costitutiva rispetto alle singole tradizioni religiose. La fede non è però mai data come esperienza pura, ma è sempre mediata da determinati simboli e credenze che la fanno incarnare in una specifica tradizione religiosa. La fede così intesa fonda quello che P. chiama «dialogo dialogico» in cui manca un punto di vista superiore esterno alle tradizioni coinvolte nel dialogo e lo spazio comune di comprensione è creato dal dialogo stesso, confidando nel manifestarsi della verità stessa («Il dialogo persegue la verità mediante la fiducia nell’altro, così come la dialettica persegue la verità mediante la fiducia nell’ordine delle cose», Myth, faith and hermeneutics, 1979; trad. it. Mito, fede ed ermeneutica). Il movimento del dialogo dialogico è bidirezionale; l’approfondimento della propria tradizione è infatti prerequisito fondamentale e all’incontro sincero con l’altro segue un nuovo ritorno nella propria tradizione mediante il quale le testimonianze che si sono incontrate vengano integrate. In tal senso, il dialogo dialogico mette in crisi l’idea delle religioni come sistemi chiusi e impenetrabili non solo per quanto riguarda l’esperienza di fede, ma anche a livello dei sistemi di simboli, i quali sono per propria natura sempre suscettibili di ulteriori interpretazioni. Si lega a ciò la nozione elaborata da P. di «equivalenza omomorfica» ossia l’equivalenza funzionale di determinate credenze (per es., Cristo e Īśvara – il Dio personale nel Vedānta – come mediatori fra l’Assoluto e il mondo). La tensione fra i due membri di una simile equivalenza non ne appiattisce le differenze, ma permette punti di incontro, scoprendo elementi nascosti nella propria come nell’altra tradizione (come è avvenuto storicamente nel caso della mutua fecondazione fra il logos greco e quello cristiano). P. si concentra in partic. sulla triade cosmoteandrica (Universo-Dio-uomo) che gli appare fondante in ogni esperienza umana e che ritrova nella Trinità cristiana, nel principio vedāntico dell’Advaita (non dualità) e nell’idea buddista del pratītyasamutpāda (➔ Madhyamaka), ossia l’originarsi mutualmente dipendente di ogni fenomeno. Questa chiave interpretativa gli permette di sottolineare l’elemento coscienziale presente anche negli oggetti conosciuti (i quali, per poter essere conosciuti, devono avere qualcosa in comune con la coscienza che li conosce, secondo un’ispirazione buddista e sviluppata da Utpaladeva, ➔), mentre simmetricamente sottolineata è anche l’impossibilità di un divino disincarnato. La triade cosmoteandrica è anche il fondamento dell’apertura dialogica dell’uomo verso il mondo e verso gli altri, giacché non solo Dio, ma anche il cosmo e gli uomini sono latori di una rivelazione.