Rappresentanza politica e riforme elettorali
La riflessione sulla rappresentanza politica coinvolge numerose problematiche comprendenti anche quella strettamente legata alla legge elettorale. In Italia da vari decenni il tema della riforma elettorale occupa il dibattito politico quale epifenomeno di una profonda crisi della rappresentanza politica, alla quale si è cercato di dare risposta attraverso la ricerca di una “formula elettorale” anziché mediante un’adeguata analisi delle ragioni della stessa. Ed il fenomeno si presenta particolarmente aggravato in ragione della duplice dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale sia del Senato (sentenza n. 1/2014) che della Camera (sentenza n. 35/2017). Da ultimo la legge n. 165 del 2017 introduce un sistema misto in cui il 36% dei seggi è assegnato in collegi uninominali e con formula maggioritaria e il restante 64% dei seggi è assegnato in collegi plurinominali con metodo proporzionale.
Con la sentenza 9.2.2017, n. 35 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali le disposizioni della l. 6.5.2015, n. 52 («Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati») concernenti la previsione del ballottaggio fra le due liste più votate (qualora nessuna avesse superato il 40% dei voti) e la libertà di opzione per il capolista eletto in più collegi. Se il ballottaggio è stato dichiarato incostituzionale tout court, con riguardo alla possibilità di opzione fra i vari collegi la Corte ha dichiarato incostituzionale tale previsione nella parte in cui lascia piena libertà al capolista plurieletto anziché rimettere ad un sorteggio la relativa scelta. La sentenza n. 35/2017 si pone quale ultimo atto di una lunga vicenda che prende le mosse agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso quando, sotto lo slogan della “governabilità”, inizia a farsi strada la richiesta di un’ampia “riforma istituzionale” volta a modificare la forma di governo e l’assetto partitico mediante una riforma della legge elettorale.
La l. n. 52/2015 è stata adottata in conseguenza della sentenza 13.1.2014, n. 1 che, dichiarando incostituzionali diverse disposizioni della l. 21.12.2005, n. 270, ha introdotto (quale “normativa di risulta”) una disciplina elettorale di tipo proporzionale sia per la Camera che per il Senato. E la l. n. 52/2015 riguarda la sola Camera dei deputati in quanto ideata unitamente al progetto di revisione costituzionale (poi bocciato dal referendum del 2016) che mirava a superare il bicameralismo perfetto previsto dalla Costituzione. L’impianto strutturale della l. n. 52/2015 ripete quello della l. n. 270/2005 di cui mirava a correggere gli aspetti dichiarati incostituzionali dalla sentenza n. 1/2014 (e rappresentati dalla assegnazione del premio di maggioranza indipendentemente dal raggiungimento di una soglia minima e dall’assenza di preferenze) introducendo appunto una soglia minima (40%) per il conferimento del premio di maggioranza, con previsione del ballottaggio nazionale qualora nessuna lista raggiunga tale quota, ed introduzione delle preferenze (ma non per i capolista che, oltre a godere della precedenza nell’assegnazione dei seggi, possono essere candidati fino a dieci collegi). La sentenza n. 35/2017 ha dichiarato incostituzionale l’elemento di maggiore innovazione introdotto dalla l.
n. 52/2015 costituito proprio dalla previsione del ballottaggio fra le due maggiori liste con esclusione di ogni forma di collegamento tra liste o apparentamento tra i due turni di votazione. La previsione del ballottaggio a livello nazionale innestava nel modello elettorale instaurato dalla l. n. 270/2005 l’istituto tipico (ex l. 25.3.1993, n. 81) della elezione dei sindaci, ma con grave confusione fra due differenti tipologie elettorali (quella politica, volta alla elezione dei membri della Camera, con quella amministrativa, avente invece come obiettivo la scelta del sindaco) e con l’operazione di introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio con incidenza sui meccanismi di funzionamento della forma di governo e sulle dinamiche dei rapporti fra Parlamento e Governo come delineati in Costituzione (oltre che con riduzione delle prerogative del Presidente della Repubblica). Nella tradizionale dialettica fra modelli elettorali, quello introdotto dalla l. n. 52/2015 (ma in tal senso operava già la l. n. 270/2005) costituisce il risultato di una “manipolazione” in senso maggioritario di un sistema elettorale di tipo proporzionale (la Corte parla di “innesto” di elementi di maggioritario su una legge proporzionale) i cui effetti finiscono, da un lato, per riprodurre i molteplici difetti caratteristici delle formule ibride e, dall’altro lato, per essere caratterizzati da evidente irragionevolezza (ritenuta dalla Corte in contrasto con la Costituzione). La l. n. 52/2015 confonde infatti il ruolo assegnato dalla Costituzione all’Assemblea elettiva rendendola mero momento di espressione di una maggioranza avente l’esclusiva funzione di supportare la “forza politica” (ed il relativo “capo”) che si candida “a governare” (con ulteriore confusione fra legislativo ed esecutivo e sul significato del momento elettorale di scelta non più dei membri del Parlamento ma della forza politica che governerà il Paese). Già nella sentenza n. 1/2014 la Corte, pur riconoscendo che la Costituzione lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema elettorale, ha affermato che il meccanismo premiale non può essere foriero di una eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa con grave distorsione fra voti espressi ed attribuzione di seggi in misura tale da compromettere il rispetto del principio di eguaglianza del voto. Pertanto, se deve ritenersi “costituzionalmente legittima” la previsione di un premio di maggioranza avente la funzione di «agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale», questo obiettivo non può giungere a rovesciare il principio della rappresentatività dell’assemblea parlamentare producendo «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare». Questo principio, chiaramente formulato nella sentenza n. 1/2014, è alla base anche della sentenza n. 35/2017 ove la Corte, da un lato, riconosce «non manifestamente irragionevole» la soglia minima di voti richiesti per l’attribuzione del premio (pari al 40% dei voti validi) e, dall’altro lato, dichiara incostituzionale il ballottaggio poiché «non è costruito come una nuova votazione rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione», in ragione dell’impossibilità, tra i due turni, di forme di collegamento o di apparentamento fra liste (sul “carattere rappresentativo” del parlamento v. infra par. 3). E, dopo aver rigettato la questione di costituzionalità delle disposizioni che consentono al candidato capolista di essere eletto in via prioritaria rispetto agli altri candidati presenti in lista (che invece sono eletti in base alle preferenze ricevute), la Corte dichiara incostituzionale l’assegnazione al capolista eletto in più collegi della libertà di scelta del collegio, potendo prescindere completamente dall’esito elettorale. In tal modo viene affidato (“irragionevolmente”) al capolista la decisione sul «destino del voto di preferenza espresso dall’elettore nel collegio prescelto, determinando una distorsione del suo esito in uscita». Per la Corte (nella stessa disposizione) residua “quale criterio” quello del sorteggio (che non è dunque introdotto ex novo, in funzione sostitutiva dell’opzione arbitraria caducata).
Sia nella sentenza n. 1/2014 che nella sentenza n. 35/2017 la Corte, pur affermando l’immediata autoapplicatività della normativa risultante dalle due dichiarazioni di incostituzionalità, invita il legislatore ad “adeguare” le discipline legislative le quali, anche se differenti, non devono “ostacolare” la formazione di maggioranze parlamentari omogenee. Il testo approvato dalla legge n. 165/2017 prevede un sistema misto in cui circa un terzo dei seggi è assegnato (con metodo maggioritario) mediante collegi uninominali, mentre i restanti due terzi sono assegnati, con metodo proporzionale, mediante collegi plurinominali composti dall’aggregazione di più collegi uninominali contigui appartenenti alla medesima circoscrizione e con assegnazione dei seggi a livello nazionale alla Camera e a livello regionale al Senato. Anche la soglia di sbarramento è computata a livello nazionale ed è il 3% per le liste singole e il 10% per le coalizioni (e il 3% per le liste infracoalizione nel caso in cui la coalizione non raggiunga la soglia del 10%; per le coalizioni non vengono in ogni caso computati i voti dei partiti che non hanno superato la soglia dell’1%). Specifiche disposizioni garantiscono le minoranze linguistiche. Ciascun elettore dispone di un unico voto mediante il quale esprime la scelta sia del candidato nel collegio uninominale che della lista o coalizione nel collegio plurinominale.
Alla Camera il territorio nazionale è ripartito in 28 circoscrizioni, coincidenti con le Regioni, ad eccezione delle Regioni più popolose che ricomprendono più circoscrizioni. Al Senato le 20 circoscrizioni regionali corrispondono al territorio di ciascuna Regione. Ogni circoscrizione è suddivisa in collegi uninominali ed in uno o più collegi plurinominali. Sia alla Camera che al Senato i partiti politici possono presentarsi come lista singola o in coalizione, la quale è unica a livello nazionale e i partiti in coalizione presentano candidati unitari nei collegi uninominali. Non è ammessa la pluricandidatura nei collegi nominali, mentre è possibile (sempre nella stessa lista) essere candidato fino a 5 collegi plurinominali. Il candidato in un collegio uninominale può essere candidato nei collegi plurinominali, fermo restando il limite di 5. Il deputato eletto in più collegi plurinominali è proclamato nel collegio nel quale la lista a cui appartiene ha ottenuto la minore percentuale di voti validi. Il deputato eletto in un collegio uninominale e in uno o più collegi plurinominali si intende eletto nel collegio uninominale. Per garantire la rappresentanza di genere è previsto che, nella successione interna delle liste, i candidati siano presentati secondo un ordine alternato di genere e che nel complesso delle candidature presentate (sia nei collegi uninominali che in quelli plurinominali) a livello nazionale nessuno dei due generi possa essere rappresentato in misura superiore al 60% (al Senato tali previsioni operano a livello regionale).
Il tema della riforma elettorale è da circa tre decenni all’attenzione del dibattito politico del Paese quale sintomo di un assetto politico-partitico che non riesce a trovare nuovi equilibri e che è, a sua volta, conseguenza di una profonda crisi della rappresentanza politica. Non a caso la sentenza n. 35/2017 ruota intorno al principio della libertà di voto, ma anche al ruolo dei partiti politici nell’ordinamento democratico e, più specificamente, alle peculiarità della forma di governo parlamentare delineata in Costituzione. Altamente significativo appare il passaggio della sentenza n. 35/2017 in cui la Corte sottolinea che l’obiettivo della stabilità dell’esecutivo (“di sicuro interesse costituzionale”) non può giungere a giustificare «un eccessivo sacrificio dei due principi costituzionali» di rappresentatività e di uguaglianza del voto (trasformando artificialmente una lista che vanta un consenso limitato, ed in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta). Il “carattere rappresentativo” dell’Assemblea elettiva si pone dunque quale vincolo ed indirizzo per la relativa legge elettorale – e per il sottostante dibattito politico-costituzionale – che invece sono sempre stati mossi (almeno negli ultimi decenni) dall’ansia della “governabilità” (a sua volta concretizzatasi dapprima nella creazione – più o meno artefatta – di una stabile maggioranza e in seguito nella “elezione” del Presidente del Consiglio, con evidente torsione – o “deriva” – plebiscitaria e con personalizzazione della politica e smarrimento del ruolo dei partiti politici che diventano meri cartelli elettorali al servizio del leader di turno).
Inoltre la Corte ritiene in contrasto con la Costituzione la «radicale riduzione dell’offerta politica» su cui si basano le «stringenti condizioni di accesso al turno di ballottaggio». Ed è proprio su questa constatazione (“radicale riduzione dell’offerta politica”) che è necessario riflettere come “costo” che “l’ansia” della governabilità fa apparire sempre accettabile e che invece costituisce una riduzione del tasso di democraticità del sistema. Per la Corte, il ballottaggio previsto dalla legge n. 52/2015 «trasforma in radice la logica e lo scopo della competizione elettorale» giacché alla previsione di un singolo voto «per decidere a quale forza politica spetti ... sostenere il governo del Paese» osta la «complessiva funzione che spetta ad un’assemblea elettiva nel contesto di un regime parlamentare». È dunque la peculiarità della forma di governo parlamentare a non consentire un siffatto meccanismo elettorale in quanto non corrispondente alla “specifica funzione e posizione costituzionale” del Parlamento (“organo fondamentale nell’assetto democratico dell’intero ordinamento”). Nella forma di governo parlamentare infatti il sistema elettorale, «se pure deve favorire la formazione di un governo stabile, non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività». Né può ritenersi valido il parallelo con il sistema elettorale comunale, sia perché questo è volto alla elezione di una carica monocratica (il sindaco), ma soprattutto perché riferito ad un sistema differente (potere esecutivo locale) «ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale». Appare pertanto necessario doversi misurare con la nozione di rappresentanza politica (che è alla base della democrazia rappresentativa, cioè della democrazia dei moderni), nozione cui nel tempo sono stati assegnati molteplici significati ma che si confonde nell’odierno dibattito italiano con la scelta dell’esecutivo (la ricerca del capo!), con una visione personalistica, monodimensionale della politica e con perdita grave del necessario tasso di pluralismo. Generalmente si afferma che la rappresentanza politica è l’istituto in base al quale gli eletti “rappresentano” gli elettori, ma tale “rappresentanza” avviene in virtù di un mandato non assimilabile a quello del diritto privato, bensì di natura diversa (“politica”, appunto) avente durata prestabilita (la durata della legislatura), non revocabile e caratterizzata dalla “libertà” conferita al rappresentante in merito alle singole decisioni che lo stesso sarà chiamato ad assumere (e non è un caso che attualmente l’altra tesi – da più parti auspicata – è quella della vincolatività del mandato parlamentare!). Da ultimo la rappresentanza politica deve fare i conti con il fenomeno della crisi dei tradizionali partiti politici di massa, con la sempre minore partecipazione del corpo elettorale alle consultazioni elettorali (e, più in generale, alla vita politica) e con l’incidenza dei mezzi di comunicazione di massa (e delle nuove tecnologie).
L’accento posto dalla Corte costituzionale sulla “rappresentatività” del Parlamento e sulla necessità di non incidere sulla riduzione dell’offerta politica (a fronte di decenni in cui si è invocata la “semplificazione” del quadro politico e con una visione aziendalistica della politica) costituisce un importante segnale in controtendenza rispetto agli orientamenti (anche culturali) prevalenti in questi anni e che hanno condotto a tre decenni di “maggioritario coatto” e che può aiutare a recuperare un tasso di pluralismo nell’ordinamento.
La vera sfida del presente passa attraverso l’individuazione di forme idonee a svolgere la funzione di “canali di comunicazione” continui e permanenti fra le articolazione del corpo elettorale ed il Parlamento e destinate a rafforzare i meccanismi di responsabilità e di “responsività” della classe politica. E nei confronti dell’esecutivo il ruolo del Parlamento non può essere solo quello (prefigurato nelle ultime leggi elettorali) di “grande elettore” del Governo (e del leader del partito di maggioranza), dovendo invece caratterizzarsi (conformemente alla storia dell’istituzione parlamentare) per lo svolgimento di una funzione di contropotere, volta a consentire la “visibilità” ed il controllo del potere e che assicuri un’intima connessione fra principio pluralistico, legittimazione democratica, rappresentanza democratica e predisposizione di meccanismi idonei all’effettività del principio di responsabilità. Le tendenze neocorporative, i fenomeni di rappresentanza degli interessi e l’indebolimento delle tradizionali istituzioni “intermedie” (in primis i sindacati) conducono al risultato di una debolezza intrinseca della sfera del “politico” rispetto a quella degli interessi economici e finanziari. In questa prospettiva la crisi della rappresentanza politica (di cui appunto le difficoltà della legge elettorale costituiscono un epifenomeno) viene a presentarsi come diretta conseguenza di un indebolimento delle strutture democratiche, indebolimento prodotto dal (e che lascia spazio al) peso di istanze di natura diversa. In questo quadro (come segnalato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 35/2017) va ribadita la rilevanza del ruolo dei partiti, «quali associazioni che consentono ai cittadini di concorrere con metodo democratico a determinare, anche attraverso la partecipazione alle elezioni, la politica nazionale» (e così si riafferma prepotentemente la necessità di un’adeguata disciplina dell’assetto e della vita dei partiti politici).