rappresentanza
In politica, rapporto che si istituisce fra il corpo elettorale, titolare della sovranità, e le persone da esso elette (deputati) per esercitare effettivamente la sovranità. L’idea della r. nacque nel Medioevo e assunse una valenza antidispotica, che si concretizzò nei primi parlamenti: essi rappresentavano gli stati o ceti in cui si articolava il corpo sociale (clero, nobiltà e terzo stato) e non avevano funzioni legislative. In declino nell’età dell’assolutismo (16°-17° sec.), l’idea di r. fu ripresa (17°-18° sec.) da pensatori e movimenti liberali, che attribuirono il potere al corpo sociale, concepito non più come organismo articolato in ceti differenziati per diritti e funzioni, ma come un insieme composto di individui dotati di uguali diritti. Nei regimi liberali la nomina dei membri del parlamento avviene tramite elezioni. Il mandato degli elettori ai rappresentanti si configura come un «mandato libero», in base al quale ogni deputato – rappresentando la «nazione» e non interessi particolari – prende le sue decisioni in piena libertà; ciò significa che il deputato non può essere revocato dai suoi elettori durante la legislatura. Questa impostazione, fin dal 18° sec., incontrò alcuni oppositori, che contestarono l’idea della r. in nome della sovranità diretta del popolo. Secondo J.-J. Rousseau il popolo deve partecipare in modo diretto alla formazione delle leggi, perché in caso contrario esso delega ad altri la sua volontà e in tal modo non è più libero. Queste tesi furono riprese da K. Marx, che esaltò l’esperienza della Comune di Parigi (1870) perché composta da consiglieri eletti dal popolo e revocabili in qualunque momento, e da V.I. Lenin, che teorizzò una democrazia dei consigli (soviet), ossia un sistema politico basato su assemblee composte da rappresentanti responsabili di fronte al popolo e da esso revocabili.