Ravenna
Le relazioni della città, già antica capitale dell'Esarcato bizantino in Italia, con Federico II costituiscono l'ultimo capitolo di una tradizione pressoché ininterrotta nel corso del Medioevo, anche se talora contrastata e sofferta, di fedeltà all'autorità imperiale della comunità ravennate, autorevolmente rappresentata quasi senza soluzione di continuità dalla Chiesa arcivescovile cittadina e dai suoi presuli. Questi, infatti, operando una costante mediazione fra sudditi e sovrani prima orientali poi occidentali e valendosi del loro appoggio, riuscirono a sostenere e a rinnovare per più secoli, assieme alle particolari condizioni della loro Chiesa che era divenuta quasi organica ai supremi poteri civili dell'Europa medievale, un rapporto competitivo con la Chiesa romana che talora, come nel VII e nell'XI sec., degenerò su posizioni scismatiche.
I peculiari rapporti di Ravenna con la dinastia imperiale degli Hohenstaufen, e in particolare con Federico II, furono preceduti da un lungo periodo di acclimatazione delle linee di politica imperiale germanica nel mondo italico e mediterraneo, avviato dalla casa di Sassonia almeno dalla metà del X sec.: furono infatti soprattutto Ottone I ed Ottone III, anche mediante una serie di importanti privilegi concessi alla Chiesa ravennate, a valorizzare la città come strategico centro portuale, nonché come sede allo stesso tempo reale e simbolica delle loro iniziative politiche e diplomatiche rivolte verso Roma, Bisanzio e il mondo europeo, soprattutto nordorientale.
Le relazioni fra Chiesa, comunità ravennate e Impero si intensificarono fra XI e XII sec. per l'accresciuto controllo sulla sede arcivescovile e sugli insediamenti monastici locali e regionali esercitato dalla casa di Franconia, in particolare dagli imperatori Corrado II ed Enrico IV, mediante una quasi ininterrotta immissione nel Ravennate dell'alto clero transalpino, non di rado imparentato coi sovrani e/o di estrazione cortigiana. Tali equilibri interetnici tesero lentamente a modificarsi dal XII al XIII sec., quando, dopo lo scisma di Wiberto arcivescovo (l'antipapa Clemente III, già cancelliere imperiale), Ravenna e i suoi presuli si riconciliarono, sia pure con qualche soluzione di continuità, con la Chiesa romana, mentre in questa città, come altrove, il movimento delle autonomie comunali tendeva ad esprimere sempre più una pluralità di forze politiche, difficilmente contenibili sia da parte dei presuli locali sia dai rappresentanti dell'autorità imperiale. Di questi mutamenti di condizioni e di rapporti, caratterizzati fra l'altro dal frequente avvicendamento sulla cattedra di S. Apollinare di vescovi non più di estrazione germanica ma italica e persino locale, pure se non di rado di obbedienza imperiale, dovette tenere conto Federico I di Svevia, quando, oltre a privilegiare nel 1160 l'arcivescovo Guido di Biandrate, volle riconoscere ai ravennati, per mantenerli fedeli all'Impero, una relativa autonomia, assumendo nel 1162 il controllo del comune consolare e promuovendo al suo interno l'alleanza coll'influente partito dei Traversari.
Una situazione, questa, destinata a prolungarsi fra XII e XIII sec., ben oltre il mandato imperiale di Enrico VI, e poi a degenerare inevitabilmente durante la crisi per la successione all'Impero, che a fronte della debole presenza di Ottone IV di Brunswick a Ravenna e in Romagna, vide affermarsi autorevolmente con papa Innocenzo III l'influenza e il potere temporale della Chiesa romana.
L'eredità di dominio e di prestigio che Federico II raccolse a Ravenna e nel territorio un tempo esarcale nel 1220, quando divenne imperatore, andava quindi già in partenza salvaguardata in condizioni tutt'altro che facili, rese oltretutto sempre più precarie dalle spinte mediterranee, in senso cioè meridionale e orientale, delle direttive politiche dell'ultimo imperatore svevo, che avevano il loro centro di gravitazione nel Regno di Sicilia e i termini di confronto in Roma e in Costantinopoli.
Nel ristabilire l'ordine sovrano nelle terre del Regno d'Italia Federico II si mostrò nei primi anni incline a seguire una linea politica d'intesa coi poteri locali, sia religiosi che civili, particolarmente avvertita a Ravenna e nella 'Romandìola', che venivano ora a trovarsi in posizione strategica assai rilevante, a seguito soprattutto dell'affermazione temporale della S. Sede nella Marca anconetana. Già nel 1220 il sovrano volle confermare all'arcivescovo ravennate Simeone diritti e beni della sua Chiesa; lo stesso anno, probabilmente nell'ambito di un piano di ristrutturazione territoriale a scopo militare dell'area romagnola, decise l'accorpamento delle città e dei rispettivi territori di Ravenna, Cervia e Bertinoro, affidandone il controllo alla podesteria unica di Ugolino di Giuliano da Parma, già designato conte e rettore di Romagna per l'Impero. Tali imposizioni dall'alto, fortemente limitative delle autonomie comunali, crearono sfiducia e tensioni all'interno dei patriziati urbani e dei gruppi nobiliari della regione, aggravate dalla crescente pressione fiscale del governo svevo; mentre in linea generale tendeva ad accentuarsi la conflittualità fra i supremi poteri medievali e insieme la pressione polemica, anche nel mondo ravennate e romagnolo, della propaganda antisveva sia papale che guelfa. Un processo, questo, che entrò nella sua fase più acuta nel 1228, quando papa Gregorio IX giunse a scomunicare lo Svevo, dandone notizia immediata al nuovo presule ravennate Tederico, poco dopo confermato dallo stesso pontefice nei diritti e beni della sua Chiesa. Ravenna così appariva sempre più apertamente slittare su posizioni filopapali, confortata dalla presenza attiva del suo arcivescovo e del clero locale, orientati ad abbandonare, anche se senza strappi, la remota tradizione di ossequio al supremo potere civile.
Nella crescente e diffusa tensione fra governanti e governati anche Ravenna sembrava ora una città insicura: eppure Federico II, per niente rassegnato a perdere terreno e ben conscio del valore simbolico della città già capitale, vi volle indire una dieta generale fra il 1231 e il 1232, che non ebbe successo perché fu disertata da una parte non trascurabile dei convocati. Si aprì allora, negli anni immediatamente seguenti, una fase interlocutoria di intensa attività per le diplomazie imperiale e papale, in cui furono coinvolti pure Ravenna e il suo presule: Tederico fu dapprima impegnato come legato apostolico e insieme nunzio imperiale (in una sua lettera Federico II lo ricorda come "dilectus princeps noster") per ristabilire ad Acri in Terrasanta la concordia fra i crociati; in seguito dovette essere presente alle trattative affidate alla S. Sede per riportare la pace, mai più poi realizzata, fra l'Impero e i comuni uniti nella seconda Lega lombarda.
Fu proprio la crescente politica antimperiale espressa dalla federazione dei comuni lombardi, veneti e romagnoli a richiamare l'attenzione di Federico II dai problemi irrisolti del Regno di Sicilia e delle relazioni con la S. Sede e la Terrasanta alla Pianura Padana, dove Ravenna tornava a costituire un'importante posizione nella strategia del sovrano svevo: ciò soprattutto dopo la sconfitta a Cortenuova nel 1237 delle forze militari della Lega, che segnò il temporaneo declino di Milano e lo spostamento delle operazioni militari in Romagna, dove Bologna guelfa e la sua alleata Faenza, sorrette da un'intensa attività diplomatica pontificia, erano venute a costituire un forte nucleo di resistenza antimperiale e di potenziale pericolo per il dominio svevo nella Bassa Padana che si fondava soprattutto sul controllo di Ravenna e di Ferrara. Per far fronte a tale rischio, immediato fu l'invio da parte di Federico II di armati saraceni dal Regno a Ravenna, dove però la solidarietà interna filoimperiale si stava sfaldando. Nel frattempo Paolo Traversari, senza dubbio la figura di maggior rilievo della nobiltà ravennate, forse anche perché trascurato dalla politica accentratrice sveva che aveva elevato alle maggiori magistrature del comune cittadino funzionari ed esponenti forestieri del partito filoimperiale, sembrò deflettere dalla tradizionale linea politica del suo casato per avvicinarsi alle guelfe Faenza e Bologna: il momento di rottura si ebbe nell'estate del 1238, quando Traversari si rifiutò di consegnare alle forze imperiali i prigionieri fatti nelle operazioni di recupero della città romagnola ribelle, per cui venne bandito come traditore e privato di ogni diritto. Da Traversari, accusato dal sovrano di essere stato corrotto per denaro da Gregorio IX, la defezione all'Impero si stava intanto estendendo all'intera comunità ravennate, coll'attiva partecipazione del presule Tederico e del clero cittadino. Dura fu la reazione di Federico II, che inviò a Ravenna il figlio Enzo per richiedere a quei sudditi l'immediato rinnovo del giuramento di fedeltà in cambio del perdono; ma tale missione, condotta nell'estate del 1239, non diede i risultati sperati.
Divenute precarie in tale area le condizioni del controllo militare svevo, in seguito all'occupazione di Ferrara operata dal legato papale Gregorio da Montelongo nel giugno 1240 con la collaborazione di ravennati, bolognesi e veneti, Federico II ruppe ogni indugio e puntò decisamente, subito dopo, all'assedio 'dimostrativo' di Ravenna, l'antica città più volte capitale, ancora di forte carica simbolica nella tradizione imperiale. La resistenza dei ravennati all'occupazione fu breve, sia a seguito di opere idrauliche di prosciugamento di fiumi e canali condotte attorno alla loro città dalle truppe imperiali, sia per la morte di Traversari che, negli ultimi mesi, era tornato ad assumere la podesteria di Ravenna. Pesanti furono le misure punitive contro i traditori: dall'agosto 1240 parte della nobiltà ribelle fu condannata a morte o esiliata; lo stesso arcivescovo Tederico subì un trasferimento coatto, durato fino al 1246, nel Regno di Sicilia (e la sua sede restò così a lungo vacante); per un decennio e oltre una sorta di controllo militare su Ravenna impose alla podesteria cittadina funzionari di sicura obbedienza imperiale e, da ultimo, i ghibellini conti Malvicini di Bagnacavallo, arroccati in un castello appositamente fatto costruire dallo Svevo sulla cinta meridionale della città; l'imperatore fece poi asportare due preziose colonne della chiesa di S. Vitale e le trasferì a Palermo capitale, in analogia con uno spoglio praticato più di quattro secoli prima da Carlomagno per arricchire e abbellire di memorie la corte di Aquisgrana. Nel 1241 Federico II riuscì ad estendere le sue conquiste a Faenza ribelle, ma non poté mai fiaccare le resistenze guelfe e filopapali del mondo padano, ora incentrate nella città di Bologna, prima di subire il tracollo militare e la morte. Determinanti, insomma, furono queste ultime vicende nel segnare il pressoché definitivo distacco di Ravenna dalla fedeltà alla sua remota tradizione imperiale.
fonti e bibliografia
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Historia diplomatica Friderici secundi, I-V.
J. Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, I-IV, Innsbruck 1868-1874.
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Regesta Pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, I, Berolini 1874.
Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des Kaiserreiches [...], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901.
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Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966.
Manca generalmente negli studi di carattere biografico sulla figura e l'opera di Federico II, dal volume di Kantorowicz a quello di Abulafia, e pure nei maggiori repertori, enciclopedie e dizionari, una menzione adeguata del rilievo avuto da Ravenna e dalle terre già esarcali nella prima metà del Duecento.
Si v. pertanto:
F. Crosara, Federico II e Ravenna, in Atti del Convegno internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, pp. 255-281.
H. Zimmermann, Nella tradizione di città capitale: presenza germanica e società locale dall'età sassone a quella sveva, in Storia di Ravenna, III, Dal Mille alla fine della signoria polentana, a cura di A. Vasina, Venezia 1993, pp. 107-128.
A.I. Pini, Il comune di Ravenna fra episcopio e aristocrazia cittadina, ibid., pp. 230-239 250-257.
A. Vasina, Ravenna e la Romagna nella politica di Federico II, in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 404-424.