Realismo
La nozione di realismo occupa un posto centrale non solo nella storia del cinema, ma anche nella storia dell'arte moderna, dalla prospettiva rinascimentale e dalla camera oscura di Leonardo fino alla fotografia e al r. adottato nell'Ottocento come progetto estetico da pittori e scrittori. In pittura e in letteratura il r. è sempre stato inteso come una scelta poetica ed estetica, una fra le tante possibili, che consisteva nell'abbandono di argomenti mitologici o fantastici, nella rinuncia a dipingere o descrivere ambienti aristocratici, scegliendo invece come tema privilegiato la vita delle classi subalterne, borghesia, proletariato oppure contadini. Sul piano dello stile, il r. implica l'abbandono di espedienti retorici e una tendenza meno narrativa, con lunghe pause descrittive e ampi spazi dedicati all'approfondimento psicologico dei personaggi.
Il sogno del cinema totale. ‒ Il sogno della riproduzione del reale ha avuto in effetti un ruolo determinante nella storia del cinema, nato appunto alla fine dell'Ottocento, al termine di una lunga serie di ricerche, allorché lo sviluppo della fotografia e della ricerca scientifica in generale avevano creato una vera e propria mitologia della scienza, cui veniva attribuito il potere di mettere il mondo nelle mani dell'uomo. L'utopia di una scienza in grado di riprodurre la vita stessa, sostituendosi a Dio ‒ il "sogno frankensteiniano", come lo ha chiamato N. Burch (1991) ‒ era stata già raccontata da molti scrittori. Nel racconto di J. Verne Les châteaux des Carpathes (1892), un ricco aristocratico registra la voce e le immagini di una cantante famosa di cui è innamorato, Stilla, per averla sempre accanto, ma un amico inesperto scambia quelle immagini per la cantante stessa, credendo che sia stata rapita. In un altro romanzo di Ph.-A.-M. Villiers de L'Isle Adam Ève future (1886), un inventore famoso, nientemeno che Th.A. Edison, costruisce la donna ideale, bella e colta, inserendo lo spirito di una persona nel corpo di un'altra, per offrirla a un giovane lord inglese che la sposa. Scienza e fantasia non erano così distanti; la scienza faceva corpo unico con le sue maggiori utopie, mentre la fantasia alimentava le ricerche scientifiche.
Per i Lumière il cinematografo era uno strumento di ricerca, d'informazione e, solo in seconda istanza, d'intrattenimento: gli operatori venivano inviati in tutto il mondo per catturare immagini di paesaggi esotici, modi di vita, costumi, usanze, riti e città lontane, e portarli a disposizione della gente comune; il cinematografo era anche un modo di viaggiare per chi non aveva soldi. Per altri era uno strumento scientifico: A. Kahn, magnate della finanza e allievo di H. Bergson, concepì il primo grande progetto di un istituto universitario di geoantropologia umana basato essenzialmente su documenti filmici: per una decina d'anni mandò operatori in tutto il mondo, spesso accompagnandoli personalmente, a fotografare luoghi e costumi di popoli lontani per il suo archivio, che è ancora disponibile presso il Musée Albert Kahn di Parigi e conta circa 10.000 fotografie autocrome oltre a qualche migliaio di riprese cinematografiche dal vero.
Compare qui un primo equivoco sulla nozione di r., che ritornerà a lungo nella storia del cinema: se in pittura e letteratura il r. è una scelta estetica, nel cinema invece tale concetto ha spesso un significato più complesso e ambiguo, collegato all'illusione positivista di riprodurre la realtà. Anche l'apparato meccanico della fotografia in movimento genera un'illusione di realtà (Metz 1968) che in pittura e in letteratura non esiste, e neppure in teatro. Un quadro o una recita teatrale infatti possono essere realistici per la scelta del tema o dello stile, ma l'osservatore sa bene che sono opera di un pittore o di uno scrittore; il cinema invece fa qualcosa di più: nasconde la mano dell'autore; la cinepresa e l'operatore spariscono e lo spettatore s'illude di vedere le cose come sono realmente, indipendentemente da chi le ha fotografate o da chi le ha messe in scena.
Questa illusione di r. totale, ancorché mistificante, fa parte del cinema; fra i sognatori del cinema totale s'incontrano grandi autori come Abel Gance che nel suo Napoléon, noto anche come Napoléon vu par Abel Gance (1927; Napoleone), inaugurò il cinema a tre schermi, antenato del futuro Cinerama. Contro di essa uno dei primi a mobilitarsi fu lo psicologo della percezione Rudolf Arnheim, che nel 1932 in un suo famoso saggio, Film als Kunst, mostrò che il cinema non è meccanica riproduzione del mondo, e tanto meno riproduzione totale, ma è linguaggio e arte proprio a causa delle sue deficienze: il bianco e nero, il colore imperfetto, i limiti dello schermo, la bidimensionalità, l'immobilità dello spettatore, l'impossibilità di vedere tutto, sono i limiti che costringono gli autori a fare delle scelte e in queste scelte, in questi difetti consiste proprio la possibilità espressiva dell'uomo. Al sogno di un cinema totale che avrebbe prodotto un doppio del mondo, Arnheim contrapponeva il concetto di cinema come arte, che proprio nei limiti della macchina trova lo spazio per la poesia. Arnheim è il primo dei teorici consapevoli che il cinema non è una riproduzione del reale, ma soltanto una sua rappresentazione.
Questo mito non morirà mai, ma passerà spesso anche nel documentario e nell'illusione della vita colta alla sprovvista. Negli anni Trenta emersero molte concezioni del realismo. John Grierson, cui si deve l'introduzione della parola documentario, scrisse una serie di riflessioni da cui sarebbero nati molti movimenti fra cui il documentarismo inglese, il Free Cinema e tutte le altre tendenze successive del 'cinema diretto', un cinema che coglie la realtà senza mediazioni, senza infingimenti. Grierson, per cui "la parola 'documentario' è una definizione grossolana" (1946; trad. it. 1950, p. 41) avanzò una serie di proposte che sarebbero state riprese anche dal Neorealismo italiano: l'importanza di "guardarsi intorno", invece di andare nei teatri di posa, la scelta di attori non professionisti e di scene originali o autentiche, la scelta di soggetti trovati sul posto piuttosto che scritti a tavolino (pp. 43-44). Sono quasi gli stessi principi che più tardi avrebbe proposto Cesare Zavattini con la sua teoria sul 'pedinamento' del personaggio, in particolare con la tesi che due ore della vita di un uomo scelto a caso possono costituire un bellissimo film. Questi movimenti sono differenti dal mito del cinema come riproduzione della realtà, tuttavia i loro seguaci spesso cadranno dentro questa illusione.
Il mito della cattura o della riproduzione del reale infatti è tenace. Esplose nuovamente negli anni Quaranta a partire dal film di Orson Welles Citizen Kane (1941; Quarto potere) e dal grande battage pubblicitario che venne istruito dalla casa di produzione, la RKO, fondato appunto sulla maggiore quantità di realtà catturata dal cinema in questo film, attraverso alcuni procedimenti, come la profondità di campo e le inquadrature lunghe. A tale proposito l'operatore del film Gregg Toland dichiarò sulla rivista "The American cinematographer", nel luglio del 1940, di avere utilizzato una pellicola speciale nuovissima, la Kodak Super XX a 180 ASA, e lenti speciali, le coated lenses, che permettevano contorni più nitidi nelle inquadrature, e di avere usato obiettivi a focale molto corta (18 o 28 mm), in modo da catturare dentro l'inquadratura la maggiore quantità di realtà possibile.A partire da questo film, che mostra spesso molte scene contemporanee su differenti piani, vicine e lontane, e da altri, come quelli di Jean Renoir, che aveva usato già molto prima, negli anni Trenta, obiettivi a focale corta (La règle du jeu, 1939, La regola del gioco), ma anche in seguito alle grandi conquiste del Neorealismo italiano, André Bazin scrisse alcune pagine rimaste famose che proponevano la cosiddetta "estetica della realtà" (1958; trad. it. 1973, p. 101). Secondo Bazin, che solitamente viene indicato come padre del cinema moderno, le inquadrature lunghe e la profondità di campo permettono di mostrare la maggior quantità possibile di cose o persone dentro l'inquadratura, e questo cinema "mira alla più perfetta neutralità" (p. 103). Bazin vedeva in questa tendenza a usare poche inquadrature con profondità di campo, invece del montaggio di pezzi brevi, la nascita del cinema moderno. Quelle di Bazin erano solo riflessioni di carattere estetico; il teorico francese infatti ripeteva spesso che il r. è questione di stile, "che non c'è uno ma molti realismi" (p. 99), che il cinema non è riproduzione pura e semplice del reale, ma "linguaggio" (p. 10). Tuttavia certe sue affermazioni furono presto utilizzate per costruire una vera e propria mistica della cattura del reale. Secondo Amédée Ayfre, per es., il cinema andava con questi procedimenti al cuore stesso della realtà, in una perfetta coincidenza di essere e apparire, afferrava le cose, le persone, il mondo com'erano in sé stessi. La possibilità del cinema di cogliere sfumature impercettibili o addirittura inconsapevoli sui visi delle persone, già sottolineata dai grandi maestri del cinema sovietico, come Dziga Vertov, contribuiva a questo potere. Contro quest'idea si mobilitò di nuovo energicamente Jean Mitry nel 1965, sostenendo che ogni forma di r. cinematografico non è e non potrebbe essere altro che uno stile; Mitry contestava in modo radicale l'idea che il cinema potesse essere pura e semplice riproduzione te-cnica del reale: "ogni opera d'arte è creazione e interpretazione" (p. 191). Per Mitry il cinema non potrebbe mai essere riproduzione meccanica semplice di un evento o di un fatto nella sua integrità, senza l'intervento di un autore, di un interprete; la scelta del punto di vista, delle lenti, del tipo di montaggio dimostra che esso è sempre e solamente linguaggio, rappresentazione. L'immagine, insomma, non riproduce la realtà, ma ne parla, e in questa fondamentale differenza consiste la sua natura di linguaggio e di arte. Ben diversa da quella di Bazin era la concezione del r. cinematografico di Siegfried Kracauer, che nel 1960 propose una riflessione sul cinema come "scoperta delle meraviglie della vita quotidiana". Per Kracauer la fotogenia connaturata all'immagine cinematografica è in grado di operare un vero e proprio "riscatto della realtà fisica", anche della più banale e quotidiana, elevandola a dignità poetica. Kracauer parte da un'idea di M. Proust, secondo cui le persone cambiano aspetto a seconda dell'occhio e dell'attenzione con cui le si guarda, per sostenere che il cinema è in grado di operare una trasfigurazione delle cose apparentemente più banali: una strada qualunque di qualsiasi paese può rivelare sullo schermo una ricchezza insospettata. "Quel che mi aveva tanto colpito era una strada di sobborgo, piena di luci e di ombre che la trasfiguravano. Sorgevano intorno alcuni alberi e si vedeva in primo piano una pozzanghera che rifletteva facciate di case invisibili e un pezzo di cielo. Poi un soffio di vento fece muovere le ombre, e facciate e cielo riflessi nell'acqua cominciarono a ondeggiare. Il fremito del mondo più alto nella sudicia pozzanghera: un'immagine che non ho più dimenticato" (p. 50). Come appare in questo esempio, la capacità che ha il cinema di trasfigurare le cose è per Kracauer collegata alla loro decontestualizzazione e astrazione: tutte le cose, qualora sottratte al loro contesto abituale e alla loro funzione d'uso comune, possono assumere valenze assolute, generali; in un volto possiamo leggere non un dolore ma il dolore, in una pozzanghera possiamo vedere ogni bassezza del mondo e nel cielo la metafora dei sentimenti più elevati. Al r. di Kracauer, che conferisce a ogni oggetto una sua propria storia, indipendente da quella degli uomini, s'ispirerà profondamente Michelangelo Antonioni, nella sua ricerca sulla poesia dei luoghi e delle cose.Sul piano teorico le cose erano chiare, ma sul piano del consumo e del rapporto con il pubblico andavano diversamente, poiché l'allargamento dei formati riportò a galla il vecchio sogno del cinema totale; il passaggio dal vecchio formato 1:1,33 a formati sempre più larghi, fino al Cinemascope, nato nel 1953, che proponeva un rapporto base altezza di 1:2,55, e poi altre invenzioni come il 3D, che permetteva una visione tridimensionale, o più tardi, negli anni Ottanta, anche l'Odorama, che accompagnava la visione con alcuni odori, e infine il Dolby Stereo e il Sensurround (1995), e molte altre, più o meno fortunate, hanno periodicamente offerto alle case di produzione la possibilità di rinnovare la loro offerta, ma anche, per superare le varie periodiche crisi, di rilanciare costantemente il mito del cinema totale. Tuttavia non è stato certo un caso se, fra tutte queste invenzioni, molte sono rimaste soltanto curiosità o attrazioni. Il cinema, per essere interessante, era e doveva rimanere un linguaggio.
Alla fine degli anni Sessanta il dibattito sul r. ritornò con una discussione sulla neutralità o sulla natura spettacolare-consumistica del cinema. Il cinema era una macchina pura e semplice, utile per ogni uso, oppure un'invenzione destinata a rimanere spettacolare-consumistica? I teorici delle riviste francesi "Cinéthique" e "Cahiers du cinéma", collegandosi anche alle realizzazioni di Jean-Luc Godard (La chinoise, 1967, La cinese; Vent d'Est, noto anche come Vento dell'Est, 1970; Tout va bien, 1972, Crepa padrone, tutto va bene), sostenevano che nella macchina sta sempre nascosta l'ideologia spettacolare: ogni storia, anche la più realistica e drammatica, al cinema diventa spettacolo, intrattenimento, consumo; contro quest'illusione l'unico r. per loro consisteva nel mostrare la realizzazione del film. In risposta ai tentativi di fare rinascere il mito del cinema come strumento neutro, Jean-Louis Comolli scrisse una serie di articoli sui "Cahiers du cinéma" nel 1971-72, e propose di affrontare storicamente il problema, sostenendo che il cinema è figlio della cultura, dell'ideologia e dei miti del 19° sec. e porta in sé la vocazione spettacolare: l'uni-co modo per sfuggire a essa e l'unico tipo di r. consistono nel far sentire la presenza della macchina da presa.
Dopo questo lungo dibattito risultò chiaro che il r. è uno stile, una scelta interna alla rappresentazione e non una qualità oggettiva del cinema. Esistono quindi molti tipi di r. che possono essere sostanzialmente distinti in due grandi categorie: da una parte quella del verosimile e dall'altra quella dell'effetto di reale. Il primo tipo caratterizza il cinema narrativo classico, il secondo invece caratterizza il cinema moderno (v. modernità).
Il concetto di verosimile era stato già riproposto da Galvano Della Volpe (1952) che, riprendendo Aristotele, lo collegava alla coerenza interna di un'opera e non al contenuto rappresentato. Una storia è verosimile non se corrisponde al reale, ma se è coerente con le regole di quel tipo di rappresentazione; anche il fantastico può essere verosimile, ma la sua verosimiglianza si spezza se alcuni elementi interni della rappresentazione (un abito, un oggetto qualunque) discordano con le convenzioni del mondo rappresentato. Per es., una domestica vestita con una sottoveste di seta, in un film ambientato nell'Ottocento (il film considerato era Via delle Cinque Lune, 1942, di Luigi Chiarini) è del tutto inverosimile, perché spezza le convenzioni del mondo raccontato. Questi errori della messa in scena abbassano la verosimiglianza del racconto. In un film in costume, un antico centurione romano con l'orologio al polso la distruggerebbe addirittura. Il verosimile dunque non è un rapporto con il mondo esterno, ma è un principio di coerenza interna della rappresentazione, in cui nessun elemento deve stonare, per consentire l'immedesimazione dello spettatore nella storia raccontata. Il verosimile determina le regole di rappresentazione dei generi, secondo cui si accetta che in un western vi siano continue sparatorie, ma non si accetterebbe la presenza di pistole automatiche di tipo novecentesco. Negli anni Cinquanta, sempre in Italia, partendo dal r. del cinema tedesco, dal r. socialista russo e dall'esperienza neorealista, la rivista "Cinema nuovo" propose il ritorno al grande modello del r. classico letterario. Guido Aristarco riprese da G. Lukács la concezione del rispecchiamento della realtà sociale nell'arte e la differenza fra narrazione (che il filosofo ungherese attribuiva agli autori del r. ottocentesco, come H. de Balzac e L.N. Tolstoj) e descrizione (che Lukács invece attribuiva ai puntigliosi naturalisti come G. Flaubert ed É. Zola). Seguendo Lukács, Aristarco propose un r. inteso come ricostruzione di grandi quadri storico-sociali, affreschi che restituiscano la vita e la cultura di un'epoca, presente o passata, e individuò questo modello in Senso (1954), dove Luchino Visconti offre un'ampia visione storico-critica del Risorgimento italiano, oppure in Rocco e i suoi fratelli (1960), ancora di Visconti, che costituisce una grande rappresentazione epico-tragica dell'immigrazione e dell'inurbamento negli anni Sessanta in Italia. Il concetto del r. lukácsiano e aristarchiano non usciva però dalla prospettiva del verosimile filmico, né si allontanava dalla rappresentazione classica, dal modello di cinema tradizionale-spettacolare; si limitava alla scelta e alla trattazione dei contenuti. Proponeva, come il cinema russo, la creazione di personaggi positivi che indicassero agli spettatori modelli di comportamento. Non intendeva rivoluzionare o modificare, e neppure criticare le forme della rappresentazione.Una svolta determinante in questo senso sarebbe avvenuta con Christian Metz che critica l'impressione di realtà prodotta dal film. Per Metz, tale illusione ha due ragioni differenti: la prima è di ordine percettivo, perché lo spettatore percepisce il movimento come attuale, e non come illusione (ecco perché la fotografia non produce un'impressione di realtà così forte come il cinema); la seconda è costituita dalla cosiddetta diegesi. Lo spettatore si lascia trascinare dal flusso narrativo del film e segue la storia, credendo al mondo finzionale per il modo in cui viene rappresentato: recitazione, riprese, montaggio, tutto obbedisce a una coerenza interna della rappresentazione. L'impressione di realtà è in sostanza legata al verosimile, più che al vero. Il verosimile è dunque il codice della narrazione classica, in cui non importa che il mondo rappresentato sia vero: nel western, nel film di fantascienza, non è importante che la messa in scena sia esatta, importa che sia coerente con le convenzioni che lo spettatore conosce e condivide.Nel 1968 Roland Barthes, parlando di letteratura, elaborò un concetto destinato a divenire molto importante: l'effetto di reale. Nell'effetto di reale, che viene definito un elemento "inutile", un "lusso della rappresentazione", Barthes individua la pietra miliare del r., poiché la sua presenza garantisce la veridicità della storia raccontata: se il narratore dice che in casa di madame Aubain (in questo caso è Flaubert, nel racconto Un cœur simple) c'era un barometro, vuol dire che lui era presente e quindi è tutto vero, perché un barometro in quel racconto non ha nessun significato e nessuna funzione. L'effetto di reale al cinema verrà studiato da Jean-Pierre Oudart (1969), per il quale esso ha un effetto straniante, spezza i codici della rappresentazione, ricorda che si è davanti a uno schermo: l'unica realtà è il film e non quello che esso mostra. Un effetto di reale tipico, che il cinema americano ha sempre cercato di evitare, è lo sguardo in macchina, perché richiama lo spettatore alla coscienza del suo ruolo di spettatore. Anche un'eccessiva profondità di campo, oppure movimenti della cinepresa troppo lunghi e contemplativi sono effetti di reale.
Cominciava così a delinearsi la differenza fra cinema classico e cinema moderno. Il cinema narrativo classico persegue il verosimile, senza mai trasgredire le regole della rappresentazione. Il cinema moderno invece ha come strumento l'effetto di reale, e ha come scopo la rottura di questa illusione, per ricondurre lo spettatore all'unica realtà effettiva, quella del film.
A partire da questa differenza, fra verosimile ed effetto di reale, tutta la storia del cinema potrebbe essere riletta sotto la lente del problema realtà-finzione. Il Cinématographe Lumière non si proponeva di ricostruire nessun universo di finzione, era semplice fotografia in movimento, non raccontava niente o quasi; tuttavia era forse il più realistico, pieno di effetti di reale poiché, come ha osservato Jacques Aumont, mostrava le tracce dell'operatore e della cinepresa, la gente che guardava in macchina (1989; trad. it. 1991, p. 16), passanti intenti ai loro affari sconosciuti. Il cinema italiano fu presumibilmente il primo a mostrare una vocazione realistica sul piano narrativo. Umberto Barbaro individua un antenato del Neorealismo in Assunta Spina (1915) diretto e interpretato da Gustavo Serena, con Francesca Bertini, un dramma di Salvatore Di Giacomo ambientato in luoghi reali. Le vedute del golfo di Napoli e della vita cittadina fanno di questo film non solo una storia ma anche un documento di vita napoletana. Tali sono anche i film che restano di Elvira Notari, una delle prime registe nella storia del cinema. Molti film degli anni Dieci, anche in Francia, sono divisi fra narrazione e osservazione. André Antoine, padre del r. teatrale, nel 1920 realizzò L'Hirondelle et la Mésange, una storia criminale che dedicava grande spazio alla descrizione di paesaggi e di città.
Negli anni Venti la bandiera del r. venne sventolata dalle avanguardie tedesche. In Germania si sviluppò la Neue Sachlichkeit, un r. che aveva molti aspetti: da una parte quello teatrale e brechtiano di Georg W. Pabst, in cui i quartieri poveri appaiono ricostruiti in studio, come nel film Die freudlose Gasse (1925; La via senza gioia). Dall'altra un r. profondamente differente, quello di Phil Jutzi che racconta la miseria tedesca partendo sempre da immagini prese dal vero: si pensi a Mutter Krausens Fahrt ins Glück (1929) e alle quaranta vedute della città di Berlino che aprono il film, un autentico poema della desolazione, o all'ancora più radicale e drammatico Ums tägliche Brot, noto anche come Hunger in Waldenburg (1929), girato nelle miniere e nelle fabbriche di Waldeburg, quasi tutto in luoghi reali. Più tardi anche Pabst sceglierà riprese dal vero, nella trattazione di soggetti sociali come Kameradschaft (1931; La tragedia della miniera), che fece del regista uno dei maestri invocati dal Neorealismo italiano. Il cinema tedesco degli anni Venti stava spesso sospeso fra r. narrativo ed effetto di reale, oppure li usava entrambi. Ne è un altro esempio il film di Bertolt Brecht e Slatan Th. Dudow Kuhle Wampe oder: wem gehört die Welt? (1932), che alterna il racconto del suicidio di un operaio a lunghe descrizioni della vita quotidiana nei quartieri popolari di Berlino o anche nel campeggio degli sfrattati (Kuhle Wampe è appunto il nome di questa località). Gli anni Venti erano un periodo di grandi ricerche e sperimentazioni anche nel resto del mondo. Negli Stati Uniti Robert J. Flaherty conduceva il cinema alla ricerca della natura con Nanook of the North (1922; Nanouk o Nanuk l'eschimese), in Belgio Joris Ivens inventava il documentario poetico, composizione di immagini dal vero montate secondo suggestioni visive (De brug, 1928, Il ponte; Regen, 1929, Pioggia), in Russia Vertov elaborava la teoria del Cineocchio che coglie ciò che sfugge all'occhio umano (Kinoglaz, 1924, Cineocchio).
Emergeva così già fin dagli anni Venti il contrasto fra cinema del verosimile e cinema dell'effetto di reale. Il cinema narrativo americano si sviluppava in una direzione interamente governata dal principio di verosimiglianza e dall'illusione di realtà, poiché ogni elemento della messa in scena era sotto il controllo rigoroso dello scenografo e la ricostruzione in studio mirava a escludere dal mondo della finzione ogni elemento casuale, imponderabile, esterno, che poteva disturbare l'illusione di realtà diegetica. Il cinema europeo, specialmente quello delle avanguardie storiche, per lo più mirava invece a sviluppare il contrasto fra mondo fittizio e mondo reale; le riprese dal vero introducevano spesso degli aspetti imprevisti e non funzionali alla storia raccontata, e facevano in modo che lo spettatore si rendesse conto sempre di essere al cinema.
Spesso l'etichetta di r., attribuita da qualche critico o storico nel tentativo di sistematizzare o di individuare aspetti comuni di uno stesso periodo, copre esperienze e autori profondamente diversi. È il caso del r. poetico francese che si sviluppò fra gli anni 1936-1945, la cui denominazione si riferisce più alle atmosfere che non alle storie rappresentate. Improbabili operai, legionari poetici, luoghi e paesaggi ancora meno credibili costruiscono storie che non hanno niente di autentico, ma sono incantate metafore del clima di angustia e di oppressione, del desiderio di fuga e cambiamento che caratterizzava la Francia di quegli anni. Fra i registi di questa tendenza (Renoir, Marcel Carné, Julien Duvivier, Marcel Pagnol o Jean Grémillon) esistono più differenze che somiglianze. Il terreno comune è l'esperienza del Fronte popolare (1936-37) e del primo governo socialista in Francia, con tutte le sue implicazioni di sogni, speranze frustrate, delusioni, ma non è sufficiente a stabilire una comunanza di programmi e di stile. Realistico nei due sensi, sia nello stile sia nei temi è forse Toni (1935) di Renoir, dove gli uliveti e le vigne di Provenza, le cave di marmo in cui lavorano gli immigrati, costituiscono un magnifico sfondo per la passione violenta che travolge un povero immigrato italiano. Più direttamente legati all'esperienza politica del Fronte popolare sono altri film di Renoir, come Le crime de Monsieur Lange (1935; Il delitto del signor Lange), La bête humaine (1938; L'angelo del male), da Zola, La vie est à nous, girato nel 1936 ma bloccato dalla censura e visto in pubblico solo nel 1969, e La Marseillaise (1937; La Marsigliese).
Ben diverso appare fin dall'inizio il cinema di Carné, se pur di r. nel suo caso si può parlare. In Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie), spesso considerato un manifesto del r. poetico, i personaggi e i luoghi (questa volta il porto di Le Havre è completamente ricostruito in studio) nascono, più che dal mondo reale, dalla poesia di Jacques Prévert, basata sui contrasti dell'anima fra generosità e prepotenza infantile, fra solitudine e amore, fra libertà e destino. A questo contribuisce anche il grande scenografo Alexandre Trauner, che costruisce décors dichiaratamente finti, veri luoghi dell'immaginario. Lo stesso si può dire di Hôtel du Nord (1938; Albergo Nord), dove il canale Saint Martin, completamente ricostruito in studio da Trauner, diventa un luogo simbolico, una soglia, uno stato d'animo. Più simbolico che realistico è anche il grande casamento allucinante ricostruito (anche questo interamente in studio da Trauner) per un altro film di Carné, Le jour se lève (1939; Alba tragica). Ancora meno realistico è lo strano albergo completamente isolato su un precipizio nelle montagne della Provenza, che Trauner creò per il film di Grémillon, Lumière d'été (1943; Luce d'estate), luogo sospeso fra essere e non essere, come tutti gli altri luoghi prevertiani. Nostalgia per una vita irraggiungibile, senso di oppressione esistenziale, prigionia metaforica sono le caratteristiche di questo r., ben diverso da quello di Renoir, simile forse più a quello di Duvivier, che tuttavia costituisce un altro caso a parte, con la sua poetica della malinconia e dell'esclusione. La casbah di Algeri in cui si trova prigioniero il bandito-gentiluomo Pépé (Jean Gabin in Pépé le Moko, 1936, Il bandito della casbah) è simile all'Hôtel du Nord, anche se disegnata da un altro scenografo, Jacques Krauss, o anche al fortino della legione straniera del precedente film di Duvivier, La bandera (1935). La maschera di Gabin, padre di tutti gli eroi negativi del cinema, amaro sognatore sconsolato, contribuisce a unificare molti di questi film. Il tema della casa-prigione, metafora del mondo, ritorna anche nella casa di riposo degli attori invecchiati, disegnata sempre da Krauss, in La fin du jour (1938; I prigionieri del sogno), dove attori invecchiati passano il tempo a farsi del male. Più vicino alla problematica del Fronte popolare e a Renoir è La belle équipe (1936; La bella brigata), ancora di Duvivier, che ripropone l'idea della cooperativa di amicizia e di lavoro, come anche gran parte dell'opera di Pagnol, basata sul piccolo mondo di quartiere, dove gli uomini sono uniti dalla povertà e dai sogni ma divisi spesso dalle passioni. È questa, di Duvivier, Pagnol e Renoir, la parte più viva e feconda del r. poetico francese, dove germoglia molta parte del cinema successivo, come il Neorealismo o la Nouvelle vague; a essa si richiameranno costantemente, nella loro nostalgia del piccolo mondo solidale, modesto e familiare, registi come François Truffaut, Eric Rohmer, Paul Vecchiali, Claude Sautet, Jean Eustache e molti autori della seconda metà del Novecento. Un r. che non ha niente di autentico ma che possiede comunque una tale ricchezza simbolica da diventare una grande metafora della vita in ogni tempo e in ogni luogo.
Completamente diverso è il r. socialista sovietico degli anni Trenta, che mirava alla ricostruzione di eventi storici, alla creazione di personaggi positivi, per offrire al popolo della nuova Russia comunista modelli di comportamento e un'idea di nazione che ancora mancava. La formula "realismo socialista", coniata da M. Gor′kij nel 1934 e lanciata al primo congresso degli scrittori sovietici, doveva indicare i tratti della nuova arte per il popolo. Ispirandosi a K. Marx, Gor′kij elaborò il progetto di un'arte educativa e istruttiva, che tendesse alla rappresentazione di una realtà sociale in evoluzione. Più tardi, il filosofo G. Lukács avrebbe proposto la sua teoria marxista dell'arte come rispecchiamento della realtà sociale. Sorretto dalla politica di Stalin, che voleva rilanciare l'industria cinematografica russa, e dalle teorie di A.A. Ždanov, che vedeva in esso la manifestazione del potere educativo e costruttivo del cinema, il r. russo s'indirizzò verso la costruzione di figure esemplari, ovvero eroi positivi della rivoluzione e del lavoro (come A.G. Stachanov e lo stachanovismo), e la rievocazione di grandi momenti storici. In effetti, il r. socialista vero e proprio sembra esistere solo prima della sua consacrazione ufficiale, e sparire subito dopo di essa. I grandi antecedenti sono infatti il capolavoro di Vsevolod I. Pudovkin, Mat′ (1926; La madre) ‒ in cui la storia di una povera madre si alterna con lunghe descrizioni della natura in primavera, che vanno ben oltre l'intento metaforico e diventano pagine di grande fascino visionario ‒ oppure Zemlja (1930; La terra) di Aleksandr P. Dovženko, in cui l'arrivo di un trattore dentro una comunità ucraina è poco più che un pretesto per un grande cinepoema sulla natura (splendido l'episodio iniziale della morte del contadino Semion in mezzo alle mele). Allo stesso gruppo appartiene un altro capolavoro di Sergej M. Ejzenštejn, Staroe i novoe (1929; Il vecchio e il nuovo o La linea generale) con gli indimenticabili volti dei contadini diffidenti e solcati da antica ignoranza. Negli anni Trenta l'arte realista invece s'impegnò a descrivere la lotta del socialismo contro i pregiudizi e l'egoismo delle menti più retrive. Ne è un esempio l'opera poetica di Vertov Tri pesni o Lenine (1934; Tre canti su Lenin), un documentario lirico sulle donne dell'Asia centrale basato su tre canzoni dell'Uzbekistan. La svolta ebbe luogo all'inizio degli anni Trenta, quando il cinema abbandonò, com'ebbe a dire lo stesso Ejzenštejn nel 1934, le ricerche formali che lo avevano reso grande e famoso nel mondo, per dedicarsi invece a "una fase essenzialmente militante, d'intenso fervore ideologico" (J. Leyda, Kino. A history of the Russian and Soviet film, 1960; trad. it. 1964, 2° vol., p. 482), una perifrasi dietro cui si nascondono le critiche del grande maestro alla tendenza ždanoviana. La rivoluzione era ormai un monumento da celebrare e imbalsamare; si trattava di educare le masse e consolidare il regime. Questo giudizio fortemente critico, che fruttò a Ejzenštejn una radicale emarginazione, non esclude che potessero comparire alcuni film di grande forza espressiva come Čapaev (1934; Ciapaiev) di Sergej D. e Georgij N. Vasil′ev a cui Ejzenštejn aveva generosamente collaborato senza comparire. Fridrich M. Ermler invece passò più di un anno fra i contadini per conoscere i loro problemi e girare Krest´jane (1935, Contadini), un film duro e violento di stile quasi zoliano. Anche Ejzen-štejn iniziò la lavorazione di un film sui contadini, Bežin lug (Il prato di Bežin) che fu interrotto nel 1937 e distrutto da Boris Šumjackij, direttore generale della cinematografia russa, ma le poche fotografie rimaste sono folgoranti, mentre Dovženko in Aerograd (1935) mostrava la bellezza del paesaggio siberiano. Nel filone storico si moltiplicavano le rievocazioni quasi obbligatorie di Kronstadt, di Lenin, di Pietro il Grande o dell'infanzia di Gor′kij; solo il 1938 vide il vertice di tale tendenza con Aleksandr Nevskij che segnò il ritorno grandioso di Ejzenštejn. Ma il cinema russo si andava avvitando in una spirale di celebrazioni formali e ufficiali. Né valse la guerra, con le documentazioni della lotta, a produrre una svolta effettiva, anche se la mobilitazione dei registi fu massiccia: Mark S. Donskoj raccontò alcuni episodi dolorosi dell'occupazione tedesca in Ucraina, come la tortura e l'uccisione di una giovane madre, in Raduga (1944; Arcobaleno), girato nel Turkmenistan, poiché l'Ucraina era occupata, ma i bei paesaggi innevati non compensano l'eccessiva truculenza dei tedeschi, che risultano poco verosimili. L'intervento della censura e del Comitato centrale divenne ancora più pesante in tempo di pace, e del r. originario non rimase che il monumentale ricordo. Ormai completamente solo in mezzo a tanti registi di partito, Ejzenštejn con il suo Ivan Groznyj (la cui prima parte, nota in Italia come Ivan il terribile, fu presentata nel 1945, mentre la seconda, La congiura dei boiardi, terminata nel 1946, venne presentata postuma soltanto nel 1958) affrontava il difficile compito dell'artista di lodare il dittatore e biasimarlo nello stesso tempo. Il proposito straordinariamente innovativo con cui era partito il cinema sovietico, diffondere la rivoluzione in tutti gli strati della società e in tutti gli angoli della Russia, nonché riscrivere la storia del Paese, si era scontrato con l'autodifesa di un regime per il quale la realtà non era più tollerabile. Sarebbero dovuti passare almeno dieci anni (i "dieci inverni" della Guerra fredda, come li chiamò Franco Fortini) per ritrovare qualche autore non didascalico, come Michail K. Kalatozov di Le-tjat žuravli (1957; Quando volano le cicogne), dove la drammatica storia di una ragazza, Vera, è girata in uno stile totalmente nuovo, con lunghissimi carrelli drammatici che anticipano quasi la Nouvelle vague; o Grigorij N. Čuchraj di Ballada o soldate (1959; La ballata di un soldato), con la paurosa sequenza iniziale del soldato inseguito dal carro armato; o ancora Andrej A. Tarkovskij di Ivanovo detstvo (1962; L'infanzia di Ivan), film che mostrano la debolezza umana e la crudeltà della guerra. L'autentico r., quello delle contraddizioni umane, stava ritornando sullo schermo.
Il tentativo di addomesticare il reale o di ricondurlo a una visione unitaria, come appare dall'esempio del r. socialista è, sia pure nei suoi più nobili casi, destinato a fallire, perché limitato e riduttivo nei confronti della complessità del mondo. La svolta rappresentata dal cinema moderno è appunto questa scoperta, già preannunciata nelle opere di Renoir e di Roberto Rossellini: la molteplicità dei punti di vista.
Con il Neorealismo era maturata nella storia del cinema una forma di narrazione affatto nuova che coniuga le due precedenti, verosimile ed effetto di reale: la cinepresa scopre il mondo insieme con i suoi personaggi, seguendoli nelle loro avventure o peregrinazioni. Non è solo la scelta di attori non professionisti o di temi ispirati dalla cronaca, ma è piuttosto un nuovo modo di guardare che si sviluppò con il Neorealismo, producendo quelle che Gilles Deleuze ha definito "situazioni ottiche pure" (L'image-temps, 1985; trad. it. 1989, p. 12). Le peregrinazioni della cinepresa che seguono il piccolo Edmund di Germania anno zero (1948) di Rossellini o il povero disoccupato Antonio Ricci alla ricerca della sua bicicletta rubata in Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, o la protagonista di Europa '51 (1952) di Rossellini, sono esempi di un cinema affatto nuovo. La cinepresa non è più padrona assoluta dello spazio, ma impara a conoscerlo con il procedere del film stesso. Neppure i personaggi appartengono più interamente al loro autore: secondo Rossellini (1987) il r. è soprattutto una "posizione morale" (p. 108), che fa coincidere estetica ed etica: è la coscienza di osservare qualcosa o qualcuno che non potremo mai interamente possedere né conoscere. L'uso di inquadrature lunghe, spesso tendenti al piano-sequenza, fa sì che questi film appaiano autentici percorsi cognitivi generati da uno sguardo nuovo. Un altro tipo di Neoreralismo è inaugurato da Visconti con un altro film-manifesto, La terra trema (1948), interpretato completamente da pescatori di Acitrezza che parlano un siciliano arcaico, in cui è l'intero paese a mettere in scena la propria vita quotidiana.
L'esperienza neorealista venne ripresa e sviluppata anche dalla Nouvelle vague, che proseguì verso una consapevolezza del cinema come sguardo cognitivo. Spesso le storie sono pretesti per scoprire aspetti di Parigi e della Francia degli anni Sessanta, come in À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) di Godard o Les 400 coups (1959; I quattrocento colpi) di Truffaut. Nel film Les carabiniers (1963) Godard alterna frammenti di guerra finta a frammenti di guerra vera. Alla grande esperienza neorealista e alla Nouvelle vague si richiameranno, direttamente o indirettamente, tutti gli sperimentatori del cosiddetto cinema diretto, inteso a instaurare un rapporto di contatto fra la cinepresa e il mondo che le sta davanti: dalla serie televisiva canadese Candid eye (1958-1960), che già utilizzava cineprese mobili e sonoro in presa diretta, alle diverse esperienze di Michel Brault e Mario Ruspoli (si pensi al dittico Regard sur la folie/La fête prisonnière, 1962, di Ruspoli, con la cinepresa che attraversa un manicomio, guarda i pazzi ed è guardata da loro). Non vanno dimenticate le diverse ricerche sul terreno svolte da Richard Leacock, Pierre Perrault o i documentari poetici di Chris Marker, dove il rapporto fra cinepresa e mondo reale appare dialettico e riflessivo; l'opera etnografica di Jean Rouch, in cui la cinepresa è sempre coinvolta in un gioco di interpretazioni con i personaggi stessi che osserva. Alle teorie di Grierson invece avrebbero fatto riferimento, fra il 1956 e il 1959, i documentaristi inglesi padri del Free Cinema, Karel Reisz, Lindsay Anderson e Tony Richardson, in cui questo effetto di straniamento non compare e rimane spesso l'illusione di una vita colta sul fatto. Un gruppo a parte è quello del cosiddetto docudrama, il documentario drammatico che persegue la ricerca di effetti di reale (macchina a mano, sguardi in macchina) e racconta storie vere ma quasi sempre con attori, in cui emergerà l'opera di Ken Loach.Infine, l'istanza realistica che tende al recupero dello sguardo primitivo dei Lumière e al riconoscimento del mondo come mistero è cifra caratteristica di gran parte del cinema moderno e contemporaneo: autori come Antonioni, Chantal Akerman, Wim Wenders, Robert Kramer, Theo Anghelopulos, Abbas Kiarostami e molti altri sono tanti differenti sguardi che mostrano come la realtà non sia mai la stessa, ma cambi a seconda di chi la guarda o di chi ne parla. Ancora un altro tipo è quello professato dal gruppo danese denominato Dogme 95 (in particolare Lars Von Trier e Thomas Vinterberg) che ricorre a inquadrature sporche, ovvero immagini in movimento, instabili, spesso volontariamente sciatte e trascurate o addirittura in video, per dare l'impressione di un'improvvisazione che è invece il massimo della ricercatezza. I realismi non sono mai stati e non potranno mai essere gli stessi, anche perché r. significa differenza e non identità. Il r. infatti può essere ricostruzione illusoria del mondo reale oppure, al contrario, allusione al mondo reale, ma in entrambi i casi la realtà rimane comunque fuori dal film.
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