REALISMO.
– Filosofia. Bibliografia. Letteratura. Bibliografia. Cinema. Bibliografia
Filosofia di Mario De Caro. – Sino agli anni Novanta il r. è stato una posizione filosofica minoritaria. In ambito anglosassone, i maggiori filosofi (con l’eccezione di John Searle e David Armstrong) difendevano concezioni che, in un senso o nell’altro, tendevano verso l’antirealismo: basterà ricordare Donald Davidson, Bas van Fraassen, Richard Rorty, Nelson Goodman, Michael Dummett, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend e Hilary Putnam (nel periodo in cui difendeva il cosiddetto realismo interno di matrice kantiana). E, con ancora maggior forza, posizioni antirealistiche erano difese dai protagonisti della filosofia continentale: Jacques Derrida, Jacques Lacan, Michel Foucault, Hans-George Gadamer, Jean Baudrillard, Bruno Latour, Jean-François Lyotard e Gianni Vattimo. Negli ultimi due decenni, però, il r. è tornato in auge e oggi la situazione è molto mutata: in ambito analitico, infatti, il r. è divenuto la posizione filosofica dominante, mentre in ambito continentale ha raggiunto una popolarità sconosciuta in precedenza.
In campo analitico, il ritorno del r. concerne tutte le branche filosofiche, dalla metafisica all’etica, dalla filosofia del linguaggio all’epistemologia, dall’estetica alla filosofia della mente, sposandosi spesso (ma non sempre) con prospettive fortemente naturalistiche (cfr. Fine 2001 e Boghossian 2006). Tra i maggiori autori analitici realisti vanno ricordati David Armstrong, Lynn Rudder Baker, Paul A. Boghossian, Michael Devitt, Kit Fine, Hilary Putnam e Richard Boyd. In campo continentale vanno menzionati Alain Badiou, i ‘realisti speculativi’ Ray Brassier, Iain Hamilton Grant, Graham Harman e Quentin Meillassoux e i ‘nuovi realisti’ Maurizio Ferraris e Marcus Gabriel (cfr. Ferraris 2012).
La questione del r. filosofico si pone oggi da almeno tre punti di vista: ontologico, epistemologico e semantico. Il punto di vista più comune è quello ontologico: e in questo caso l’oggetto del contendere è ciò che esiste. Così, ci si può domandare se esistono determinate entità, concrete o astratte (per es., le menti disincarnate, i numeri, le streghe o i fatti sociali), oppure determinate proprietà (la rossezza, la bontà o il libero arbitrio) oppure determinati eventi (il Big Bang o la transustanziazione). O ancora, più radicalmente, ci si può chiedere se esistano il mondo esterno nel suo complesso oppure il tempo (il passato e il futuro sono reali?). In ognuno di questi casi, si può propendere per il r. oppure per l’antirealismo. Tuttavia, quando si discute di r. dal punto di vista ontologico ci si possono porre due interrogativi distinti. Ci si può infatti chiedere se una determinata cosa esista veramente oppure, concedendo che esista, ci si può domandare se possa esistere indipendentemente dalle menti che la pensano. Così, a proposito degli atomi ci si pone in genere la prima domanda, ovvero ci si chiede se esistano veramente o se non siano solo utili strumenti euristici; mentre a proposito dei colori (entità la cui realtà fenomenologica è indubbia) ci si pone piuttosto la seconda domanda, ovvero se essi godano di esistenza indipendente, là fuori nel mondo, o se invece esistano solo nella misura in cui la mente li proietta sul mondo.
Il secondo punto di vista da cui si pone la questione del r. è quello epistemologico. In questo caso, la questione fondamentale è se possano esistere fatti per noi inconoscibili in linea di principio: i realisti sostengono di sì, gli antirealisti lo negano. Nel caso del punto di vista semantico, infine, ci si interroga sul tema del significato: per i realisti, il significato di un enunciato è dato dalle condizioni in cui esso è vero; per gli antirealisti il significato di un enunciato è invece dato dalle condizioni in cui i parlanti sono giustificati nell’asserirlo.
Un’altra importante distinzione può riguardare l’ambito rispetto al quale si può essere realisti o antirealisti. I fautori del ‘r. del senso comune’ (ispirati da pensatori molto diversi tra loro come Edmund Husserl, George E. Moore, William James e Henri Bergson e dai pensatori della tradizione ermeneutica) sostengono che la percezione sia una guida affidabile rispetto alla natura degli oggetti che percepiamo nel mondo esterno e alle loro proprietà. Tuttavia, proprio perché attribuiscono tanta importanza alla percezione, questi filosofi spesso tendono ad assumere un atteggiamento antirealistico nei riguardi della scienza o, più precisamente, nei riguardi delle entità non osservabili contemplate dalle teorie scientifiche (come gli elettroni, le radiazioni o i buchi neri). D’altra parte, è innegabile che tali entità esibiscano proprietà del tutto incomprensibili dal punto di vista del senso comune.
Un rilevante esempio di coniugazione del r. del senso comune con l’antirealismo rispetto alla scienza è offerto dall’‘empirismo costruttivo’ di Bas van Fraassen (2007), secondo cui le teorie scientifiche che presuppongono entità inosservabili non possono essere considerate come descrizioni vere del mondo, ma solo come utili strumenti epistemici: nel senso che tutto ciò che possiamo sostenere è che esse sono in grado di dare conto dell’evidenza osservabile in quanto producono predizioni sufficientemente corrette. Van Fraassen è dunque un antirealista rispetto alla scienza e il suo ‘empirismo costruttivo’ è una forma di strumentalismo; ma, differentemente da quanto accade di solito, il suo strumentalismo non deriva dalla visione empiristica tradizionale, secondo la quale la conoscenza del mondo coincide con la conoscenza dei nostri dati di senso. In van Fraassen, l’antirealismo scientifico è coniugato piuttosto con il r. del senso comune ossia con l’idea che noi abbiamo conoscenza diretta del mondo osservabile.
Alternativo al r. del senso comune è il r. scientifico, particolarmente diffuso in ambito anglosassone. Questa concezione si oppone a tutte le interpretazioni antirealistiche della scienza (strumentalismo, empirismo, operazionalismo, relativismo e convenzionalismo), secondo le quali: a) le entità inosservabili presupposte dalle teorie scientifiche non sono reali e b) le teorie scientifiche che contemplano tali entità, sebbene possano apparire verosimili e siano spesso utili dal punto di vista cognitivo, non sono vere in senso proprio.
Contro le interpretazioni antirealistiche della scienza, i realisti scientifici hanno apportato argomenti di vario genere. Tra questi, uno dei più discussi è «l’argomento del miracolo», proposto da Hilary Putnam (2010). In breve,l’argomento è il seguente. È innegabile che la scienza moderna abbia avuto un enorme successo in termini esplicativi e predittivi; ma un simile successo come può essere spiegato? Per i realisti scientifici, la risposta è ovvia: la scienza funziona così bene perché racconta la verità su com’è fatto il mondo naturale – o, almeno, essa offre una buona approssimazione alla verità rispetto al mondo naturale. Ma se consideriamo vero ciò che la scienza ci dice, siamo tenuti ad accettare come reali le entità che essa postula, anche quando non siano direttamente osservabili. E ciò prova che la miglior spiegazione del grande successo della scienza moderna è offerta dal r. scientifico. Se non fosse così – se cioè avessero ragione gli antirealisti e la scienza non ci offrisse (almeno con buona approssimazione) la verità sul mondo naturale – allora il fatto che la scienza funzioni così bene, che offra predizioni così precise e spiegazioni tanto esaustive, diventerebbe un mistero inspiegabile; anzi, per dirla con Putnam, sarebbe un vero e proprio miracolo.
Il r. scientifico è declinato in vari modi, più o meno conflittuali nei confronti del senso comune. Una delle versioni più comuni è il cosiddetto fisicalismo, che è poi l’erede intellettuale del vecchio materialismo (o, più precisamente, delle versioni del materialismo che avevano come loro ambito privilegiato le scienze naturali). La ragione per cui oggi si tende a usare il termine fisicalismo per denominare concezioni che un tempo si sarebbero dette materialistiche è che nella fisica contemporanea il termine materia ha assunto un senso tecnico, molto lontano da quello del linguaggio ordinario e della fisica classica che quel senso incorporava: la materia di cui parla oggi la fisica è ben diversa da quella contemplata dal senso comune. E ciò lascia intuire quanto possa essere dirompente, dal punto di vista filosofico, il conflitto tra il r. del senso comune e il r. scientifico.
La possibilità di tale conflitto è mostrata dal fatto che in questa prospettiva la fisica riconduce a sé, almeno in linea di principio, tutto ciò che le altre forme conoscitive (come la percezione o il senso comune) possono dirci sul mondo. Una concezione così radicale ha ovviamente conseguenze importanti anche a livello metafilosofico, perché la filosofia diviene ovviamente subalterna alla scienza. Non sorprenderà, dunque, che nel fisicalismo contemporaneo fioriscano tentativi di naturalizzazione di tutti gli enti e di tutte le proprietà contemplate dal senso comune: dai colori alle proprietà morali, dal libero arbitrio ai numeri, dalle proprietà modali ai valori. Infatti, o i fisicalisti riescono a mostrare che questi enti e proprietà sono integralmente costituiti da entità fisiche oppure essi vanno eliminati del tutto dal novero del reale.
Un’altra strategia di difesa del r. scientifico comune oggi è quella del r. strutturale, secondo cui le nostre migliori teorie scientifiche non descrivono la natura intrinseca dei fenomeni inosservabili, ma la loro struttura, ossia le relazioni di cui questi fenomeni fanno parte (Chakravartty 2007; Ladyman 2014). Questa tesi è declinata in due diversi modi: secondo il ‘r. strutturale epistemico’, noi conosciamo soltanto gli aspetti relazionali della realtà fisica inosservabile, ma non la sua natura intrinseca; secondo il ‘r. strutturale ontico’, gli oggetti inosservabili non esistono affatto, ma esistono soltanto le relazioni strutturali.
Alcuni autori, infine, cercano di conciliare il r. del senso comune con il r. scientifico (cfr. Putnam 2015 e De Caro 2105). Anche in questo caso, le questioni fondamentali che si presentano sono di carattere ontologico (quale tipo di relazioni ontologiche intercorranno tra i diversi livelli della realtà?) e di carattere epistemologico (quali sono i nessi che intercorrono tra le teorie normative con cui indaghiamo il mondo umano e quelli nomologico-sperimentali con cui indaghiamo il mondo naturale?).
Bibliografia: K. Fine, The question of realism, «Philosophers’Imprint», 2001, 1, 1, http://quod.lib.umich.edu/cgi/p/pod/ dodidx/question-of-realism.pdf?c=phimp;idno=3521354.0001. 002(4 settembre 2015); P.A. Boghossian, Fear of knowledge: against relativism and constructivism, Oxford 2006 (trad. it. Roma 2006); A. Chakravartty, A metaphysics for scientific realism. Knowing the unobservable, Cambridge 2007; B. van Fraassen, From a view of science to a new empiricism, in Images of empiricism. Essays on science and stances, with a reply from Bas C. van Fraassen, ed. B. Monton, Oxford 2007, pp. 337-83; H. Putnam, On not writing realism off, in Philosophy in an age of science, ed. M. De Caro, D. Macarthur, Cambridge (Mass.) 2010, pp. 72-90; S. Psillos, The scope and limits of the no miracles argument, in Explanation, prediction, and confirmation, ed. D. Dieks, W.J. Gonzalez, S. Hartmann et al., Dordrecht 2011, pp. 23-35; M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari 2012; J. Ladyman, Structural realism, in Stanford Encyclopedia of philosophy, ed. E.N. Zalta, 2014, http://plato.stanford.edu/ entries/structural-realism/(4 settembre 2015); M. De Caro, Realism, common sense, and science, «The monist», 2015, 98, pp. 60-78; H. Putnam, Naturalism, realism, and normativity, «Journal of the American philosophical association», 2015, 1, 2, pp. 312-28.
Letteratura di Federico Bertoni. – Il r. muore e risorge dalle sue ceneri come una fenice. Si consuma nelle fiamme e rinasce a nuova vita. Non si contano gli scrittori o i gruppi artistici che hanno contestato le convenzioni del passato − giudicate artificiose e inadeguate − in nome di un nuovo e più autentico rapporto con la realtà, secondo quella forma di «realismo innovatore» di cui ha parlato Roman Jakobson nel 1921 in uno dei primi interventi sistematici sull’argomento, O chudozestvennom realizme (trad. it. Il realismo nell’arte, in I formalisti russi, a cura di T. Todorov, 1968). Ma dietro le schermaglie moderne alimentate da dibattiti, manifesti, scandali, annunci di un nuovo realismo che declassa – in quanto invecchiato – il r. precedente, si cela un problema-chiave su cui la civiltà letteraria occidentale riflette da almeno 3000 anni: il rapporto dialettico tra arte e realtà.
È una posta in gioco decisiva su cui riposa il valore stesso dell’opera d’arte, per nulla scalfita dai periodici richiami alla purezza o all’autonomia estetica.
Così, da circa un decennio, molti scrittori e studiosi prendono posizione per annunciare finalmente il «ritorno alla realtà» e la nascita di un «nuovo realismo». In quest’ottica, il postmoderno è una fase conclusa e soprattutto un progetto culturale fallito, con il suo corredo opprimente (che in origine era invece liberatorio) di disimpegno, ironia scettica e chiusura autoreferenziale in un mondo prigioniero del linguaggio, dove l’unica realtà accessibile per un testo letterario era se stesso o l’enciclopedia infinita degli altri testi. Chi ha bisogno di cesure e svolte epocali – preferibilmente traumatiche – può contare sull’evento che sembra avere rimesso in moto la storia proprio all’alba del nuovo millennio. Pensatori apocalittici come Guy Debord e Jean Baudrillard ci avevano raccontato che nulla è vero, che viviamo nella «società dello spettacolo» e in un mondo «iper-reale» fatto di simulacri che non rimandano a nulla là fuori, perché la realtà è implosa nelle sue rappresentazioni e tutto ciò di cui possiamo fare esperienza è una simulazione mistificante, un prodotto dell’economia mediatica e capitalista. Eppure, dicono alcuni, l’11 settembre 2001 quegli aerei sono arrivati davvero: hanno schiantato il vetro e l’acciaio, il fuoco ha divorato oggetti e corpi, le torri sono crollate e migliaia di persone sono morte.
Come non vedere, però, che quel fatto reale e devastante è stato subito confezionato dai media secondo i protocolli più collaudati della cultura postmoderna? Che anzi è stato ideato come evento mediatico per colpire l’Occidente non solo nel suo cuore finanziario, ma anche nei suoi meccanismi di autorappresentazione simbolica? Se davvero ritorna il realismo, insomma, lo fa in forma molto ambigua. Intanto è piuttosto sinistro aver bisogno di un attentato catastrofico per accorgersi che la realtà esiste. Ma soprattutto, questo ritorno in grande stile della «passione per il Reale» che secondo Alain Badiou ha caratterizzato il 20° sec., cela una contraddizione profonda. Lo ha spiegato acutamente Slavoj Žižek in Welcome to the desert of the real (2002): quel che è successo l’11 settembre non è «l’intrusione del Reale, che ha sconvolto la nostra Sfera Illusoria» (trad. it. 2002, p. 20), ma l’ingresso nella nostra realtà di una «apparizione fantasmatica» (p. 20) che avevamo sempre visto sugli schemi cinematografici e televisivi. È il paradosso fondamentale della passione per il Reale: sfociare nel suo opposto, ossia la «pura apparenza dell’effetto spettacolare del Reale» (p. 14).
Ora, le tendenze egemoni della letteratura contemporanea pretendono di aggredire il mondo senza sconti, nell’idea (spesso molto ingenua) di una scrittura in presa diretta sull’esperienza. Non-fiction novel, autofiction, romanzo neostorico o ipermoderno sono alcuni nomi con cui si cerca di delimitare una galassia narrativa tanto vaga quanto riso luta nel suo anelito al ‘vero’, in una commistione tra realtà e finzione che prolunga le ambiguità ontologiche del post moderno, ma che rivendica una postura etica e politica completamente nuova. «Io c’ero», «io ho visto», «io so e ho le prove»: l’impegno, la testimonianza, la controstoria, la ricerca della verità, la responsabilità nei confronti della parola sono tratti che accomunano molte narrazioni contemporanee e che trovano in Gomorra (2006) di Roberto Saviano un paradigma esemplare. Tuttavia, come peraltro suggerisce lo stesso Saviano in alcuni passi del suo libro, secoli di letteratura realista dovrebbero insegnare che non si dà accesso al reale senza mediazioni, che la presenza del mondo sulla pagina è al massimo un effetto retorico, che i filtri di un immaginario stratificato e composito si sovrappongono a ogni nostra visione delle cose, soprattutto in un sistema caratterizzato da uno sviluppo vertiginoso dei mezzi di comunicazione.
Come sempre, proiettare le cose su un arco temporale di lunga durata aiuta a osservarle in prospettiva e soprattutto a evitare ingenuità e semplificazioni. Se realismo è un termine critico dalla storia piuttosto recente, attestato in filosofia fin dai tempi della scolastica medioevale ma utilizzato in letteratura solo a partire dalla fine del Settecento, e poi soprattutto nell’Ottocento, il complesso di problemi a cui rimanda è invece antichissimo e coincide con lo sviluppo stesso della letteratura occidentale, come dimostra la ricognizione di Erich Auerbach in Mimesis (1946), che procede da Omero a Virginia Woolf attraverso una campionatura di testi in cui cercare una costante mimetica dell’arte, a prescindere dalla diffusione del r. in quanto concetto critico o movimento letterario vero e proprio. Mimesis, imitazione, rappresentazione, verosimiglianza, rispecchiamento sono infatti termini limitrofi con cui scrittori e studiosi, da Platone in poi, hanno tentato di delimitare una stessa costellazione concettuale. D’altro canto, la breve storia del termine realismo in epoca moderna ne ha registrato una prodigiosa espansione semantica, rendendolo simile a un sacco – diceva Jakobson − «che si possa allargare a dismisura per fargli contenere qualsiasi cosa» (O chudozestvennom realizme, cit., trad. it. 1968, p. 107). Si tratta forse del concetto critico in assoluto più vago e controverso, automaticamente noto al senso comune, ma impossibile da definire in modo univoco ed esaustivo. Non solo, infatti, esistono le infinite modalità mimetiche con cui gli scrittori hanno rappresentato il mondo, ma esistono anche diverse concezioni del r., storicamente, culturalmente e ideologicamente condizionate, spesso in netto contrasto tra loro. Si tratta inoltre di un concetto a pertinenza variabile, più o meno rilevante e dibattuto a seconda delle epoche (a partire da quella che è stata chiamata l’«età del realismo», collocabile tra il 1830 e il 1890), dei movimenti culturali (Naturalismo, Neorealismo, Realismo socialista ecc.) o dei singoli generi letterari (v. letterari, generi), primo fra tutti il moderno romanzo borghese. In assenza di una definizione ultimativa, conviene dunque sgombrare il campo da alcuni equivoci per mettere a fuoco il concetto e anche per ricondurre i dibattiti odierni sui «nuovi realismi» alle loro giuste proporzioni storiche e teoriche.
1) Il primo equivoco consiste nell’impostare il problema in termini dicotomici − soggetto vs oggetto, autore vs mondo, linguaggio vs realtà. Nella loro apparente antinomia, il r. ingenuo (che presuppone una trascrizione diretta del reale sulla pagina) e l’antirealismo dogmatico (secondo cui la letteratura può imitare soltanto se stessa, cioè il linguaggio) sono le due facce di uno stesso errore teorico, prigioniere di una brutale logica disgiuntiva (realtà senza letteratura, letteratura senza realtà). Polarizzare i due termini estremi significa inoltre ancorare la letteratura e le sue potenzialità mimetiche all’instabilità costitutiva del referente, a ciò che di volta in volta chiamiamo ‘realtà’ (una delle poche parole, diceva Vladimir V. Nabokov, che non hanno alcun senso senza virgolette). Quando uno scrittore proclama di riprodurre la realtà, bisognerebbe chiedersi: quale realtà? E soprattutto: che cos’è la realtà? Come possiamo definire il grado di r. di un testo se la realtà, come sostiene la moderna sociologia della conoscenza, è a sua volta un costrutto culturale, un sistema di segni convenzionale e relativo, un «contratto tacito» tra individuo e gruppo sociale che solo l’assuefazione a determinati modelli cognitivi ci permette di vedere (o addirittura di costruire)?
Di fronte a queste aporie, l’unica via praticabile è spostare la questione su un altro piano: convocare, per es., la teoria degli atti linguistici e il concetto di fictional world per dire che il testo letterario non rappresenta (copia, imita, descrive...) il mondo reale, ma istituisce un mondo possibile che non preesiste rispetto all’atto stesso della rappresentazione, un mondo comunque alternativo a quello attuale (e più o meno somigliante a esso) che prende forma attraverso l’interazione creativa tra autore e lettore. Solo su queste basi si potranno esplorare seriamente i punti di interconnessione tra il mondo dell’opera d’arte e il mondo in cui viviamo.
2) Un secondo punto di ambiguità riguarda la valorizzazione ideologica del r., questione molto attuale oggi in cui l’avvento di un «nuovo realismo» viene usato contro il passato per affermare una nuova idea di arte, di letteratura e anche di impegno politico dello scrittore. Non era così qualche decennio fa, quando le nuove avanguardie demolivano i cascami del neorealismo e la critica radicale denunciava il carattere ideologico del discorso realista, che tende al riconoscimento del già noto, alla conferma del familiare, al mantenimento di un ordine ‘naturale’ delle cose che è invece sapientemente costruito, diretta emanazione del potere e degli interessi di classe, mistificante prodotto simbolico della cultura borghese dominante. È l’«ordine della mimesis» di cui ha parlato Christopher Prendergast, che però ha il suo contraltare in una concezione diametralmente contrapposta − attestata già dalla Repubblica di Platone − in cui la rappresentazione mimetica è vista invece come fattore di disordine, di rottura eversiva, di ‘scandalo’ estetico e ideologico che destabilizza le abitudini percettive e sconvolge gli stereotipi culturali (recentemente ne ha parlato in questi termini Walter Siti).
Dunque, realismo come doxa repressiva o realismo come straniamento innovatore? L’unico modo per rispondere al dilemma è affrontare l’equivoco di fondo, cioè la molteplicità di criteri che stanno alla base del r. in letteratura.
3) «Amo Balzac perché è visionario», diceva Italo Calvino, e «amo Kafka perché è realista». Il doppio paradosso è meno provocatorio di quanto sembri, se non altro perché asserzioni come queste possono essere al tempo stesso vere e false in base alle regole del gioco che impostiamo. Per parafrasare Ludwig Wittgenstein, «tutto dipende da ciò che tu intendi per “realismo”», e soprattutto dai criteri che adottiamo per stabilire se un testo è più o meno realistico. Per es., uno dei criteri più diffusi e intuitivi riguarda la natura degli oggetti rappresentati, per cui è automaticamente realistico un testo che parla di vita quotidiana, ceti popolari, persone comuni e vicende normali, preferibilmente viste nei loro aspetti più bassi e degradati (è uno degli equivoci più frequenti sul naturalismo di Émile Zola, sottovalutato nelle sue conquiste tecnico-formali e ridotto polemica-mente a una «retorica della fogna»).
Per questo, l’unico modo per definire il r. in letteratura è adottare un approccio integrato e plurale che renda conto, attraverso vari livelli di analisi, del suo statuto estremamente composito (cfr. Bertoni 2007). Su questa base, è possibile distinguere quattro principali livelli di articolazione del realismo letterario: a) un livello tematico, relativo a ciò-di-cui-si-scrive, secondo il quale il carattere realistico di un testo è dovuto soprattutto agli oggetti che rappresenta (esseri e fenomeni non soprannaturali, vita quotidiana, ambienti popolari ecc.); b) un livello formale, relativo al come-si-scrive, demandato a uno specifico repertorio di tecniche, risorse retoriche e procedimenti espressivi con cui un testo produce e mantiene la cosiddetta «illusione realista» (impersonalità, punto di vista soggettivo, uso della descrizione, mimesi linguistica, insistenza sui dettagli ecc.); c) un livello semiotico, che definisce la conformità realistica di un testo rispetto a un codice culturale e a un contesto storicamente variabile, cioè a un determinato sistema di verosimiglianza (si può descrivere realisticamente una macchina volante solo dopo l’invenzione dell’aeroplano, mentre l’impatto realistico di un testo può variare in base alle epoche, alle mentalità, alle abitudini percettive e alle convenzioni artistiche); d) un livello cognitivo, secondo il quale il r. di un testo (mettiamo un racconto di Franz Kafka) non dipende strettamente né dai temi né dalle forme: può infrangere platealmente la verosimiglianza, descrivere uomini che diventano insetti e azioni quotidiane che sembrano sogni (o viceversa), ma rivelarci aspetti inediti della realtà, esprimere il non detto o ciò che non può essere detto in nessun altro modo. Calvino parlava di «quella particolare intelligenza del mondo che la letteratura e solo la letteratura può dare» (Corrispondenza con Angelo Guglielmi a proposito della Sfida al labirinto, 1963, in I. Calvino, Saggi, a cura di M. Barenghi, 2° vol., 1999, p. 1774). È solo a queste condizioni che ha ancora senso parlare di r., nuovo o vecchio che sia.
Bibliografia: Si indica qui una lista estremamente selettiva di testi pubblicati recentemente, in parte legati al dibattito attuale sul ‘ritorno del realismo’: L. Doležel, Heterocosmica. Fiction and possible worlds, Baltimore 1998 (trad. it. Milano 1999); S. Žižek, Welcome to the desert of the real, London-New York 2002 (trad. it. Roma 2002); F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino 2007; «Allegoria», 2008, 57, nr. speciale: Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno; A. Guglielmi, Il romanzo e la realtà. Cronaca degli ultimi sessant’anni di narrativa italiana, Milano 2010; D. Shields, Reality hunger. A manifesto, New York 2010 (trad. it. Roma 2010); Il new Italian realism, a cura di V. Spinazzola, Milano 2010; A. Mazzarella, Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, Torino 2011; G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna 2011; R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna 2014.
Cinema di Daniele Dottorini. – Il dibattito sul r. ha sempre accompagnato i discorsi sul cinema e molto spesso l’appello al r. è stato lo slogan ricorrente di movimenti che si sono avvicendati nel corso della storia del cinema e della storia del Novecento. Gli anni Duemila hanno visto da più parti rinascere tale dibattito secondo prospettive particolari, che intersecano profondamente il cinema e le nuove forme dell’immagine contemporanea. Rimettere in gioco il concetto di r. ha significato infatti in questi ultimi anni affrontare i concetti stessi di reale e di realtà all’interno di una battaglia teorica tesa a negare l’atteggiamento riduzionista o relativista delle correnti teoriche che hanno dominato l’ultima parte del secolo scorso, come il postmoderno, l’ermeneutica, il pensiero debole, il decostruzionismo. Il dibattito, nato in Italia su riviste come «MicroMega» o quotidiani come il «Corriere della Sera» e «Repubblica», ha ben presto varcato i confini nazionali sviluppandosi in altri Paesi e mostrando così la centralità e l’attualità di un discorso che, come si è detto, è sempre stato presente all’interno dei discorsi teorici e critici sull’immagine e il cinema.
Non è un caso infatti che, proprio nel passaggio al nuovo secolo, il cinema contemporaneo abbia iniziato a sviluppare tendenze strettamente legate alla riscoperta della vocazione realista del cinema stesso. L’avvento delle nuove tecnologie ha contribuito a introdurre un profondo cambiamento nella forma e nella struttura stessa dell’immagine contemporanea, dando vita a un cinema sempre meno interessato al rapporto con un referente reale, e sempre più capace di reinventare il mondo, di creare personaggi e ambienti attraverso il computer. Al tempo stesso, parallela a questa tendenza dell’immagine come creazione tecnologica e artificio spettacolare, il cinema del nuovo millennio ha sviluppato un sempre maggiore interesse per la possibilità di riprendere corpi, eventi e situazioni reali. Lo sguardo documentario del cinema si è infatti sviluppato in modo esponenziale negli anni Dieci del secondo millennio, grazie anche, ancora una volta, all’evoluzione della tecnologia. L’avvento del digitale, infatti, ha permesso agli autori delle nuove generazioni di lavorare con equipaggiamenti sempre più leggeri e di abbattere i costi di produzione, contribuendo anche a una trasformazione delle forme e dei linguaggi estetici di un nuovo cinema del reale.
Film pluripremiati in tutto il mondo, come Tahrir, place de la Libération (2011) di Stefano Savona, girato durante la rivolta in Egitto contro il presidente Hosni Mubarak, o Leviathan (2012) di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel, che filma la vita di un peschereccio come se fosse un antico, mitico vascello, sono realizzati con camere semiprofessionali (il primo con una Canon 5D Mak III, il secondo con una serie di Go Pro). Girare senza troupe, o con una troupe ridotta, permette ai registi non solo di immergersi da vicino negli eventi che si vogliono filmare, ma anche di riattingere alle forme del documentario emerse negli anni Sessanta del Novecento, come il cinema diretto o il cinéma vérité, e al cinema di registi come Frederic Wiseman, Albert Maysles, Jean Rouch o Robert Drew, riannodando così i fili di un percorso filmico che non ha mai smesso di intendere il cinema come strumento e come sguardo capace di cogliere e restituire la complessità e l’enigma del reale. Al tempo stesso, gli autori del cinema del reale utilizzano le nuove tecnologie per sperimentare forme nuove o ibride, capaci di mettere in gioco nuovi e vecchi linguaggi, forme classiche e sperimentali. Proprio per questo, il nuovo cinema del reale non si configura come un ritorno ai r. del Novecento (che sono comunque ben presenti nei bagagli teorici e culturali dei registi contemporanei), ma come una ricerca aperta e multiforme sulle forme di rappresentazione della realtà che nascono dalle nuove tecnologie di ripresa ed elaborazione delle immagini.
Il r. che si esprime nel documentario si scopre infatti fortemente consapevole dello stretto rapporto che lega il reale alla finzione. Nel cinema del reale contemporaneo, stili narrativi ed espressivi diversi – dal diario al cinema d’archivio, dall’animazione all’intervista, dal film come esplorazione visiva e osservativa del mondo al cinema che mescola generi della finzione – contribuiscono a mettere in evidenza come il r. cinematografico sia sempre una forma di interpretazione parziale del reale, e che solo attraverso questo processo di finzionalizzazione, come lo chiama Roger Odin, la realtà diventa accessibile, esplorabile, visibile.
La diffusione e la rapida crescita delle forme del nuovo documentario sono dunque testimonianza di una mutata sensibilità nei confronti dell’immagine e della domanda di reale che attraversa la cultura contemporanea, che non a caso si rivolge al cinema, al dispositivo che, cioè, ha più sviluppato la sua caratteristica più propria: quella di essere impronta, traccia, testimonianza della realtà. Lo sguardo documentario odierno è espressione di una ricerca che continua a essere pressante: quella di un rinnovato rapporto di fiducia tra l’immagine e il mondo, la possibilità di credere nuovamente all’immagine come, appunto, traccia, impronta di una realtà esistente. Proprio perché il nuovo documentario interpreta il r. non come mera riproduzione, ma come esperienza, narrazione, visione soggettiva di porzioni più o meno ampie della realtà, il cinema contemporaneo si esprime al meglio attingendo alle espressioni più innovative del cinema del reale, dando vita a percorsi autoriali profondamente diversi, ma accumunati dalla capacità di narrare attraverso corpi, eventi e situazioni reali. Un autore come Michelangelo Frammartino, con film come Il dono (2003), Le quattro volte (2010) e Alberi (2013), costruisce opere legate allo stile documentario, ma in grado di riprendere narrazioni antiche, mitiche, rituali, facendo dell’immagine rea le un’immagine dotata di una sua pluritemporalità.
Registi come Albert Serra – Honor de cavalleria (2006), El cant dels ocells (2008), Historia de la meva mort (2013) –, Lisandro Alonso – Los muertos (2004), Liverpool (2008), Jauja (2014) – e Miguel Gomes – Aquele querido mês de agosto (2008),Tabu (2012), As mil e uma noites. Volume 1, O inquieto (2015) – attivano nel loro cinema le pratiche del cinema documentario, come l’attenzione ai corpi e ai luoghi reali, la temporalità dei gesti, l’idea che la macchina da presa possa rivelare, nella durata dell’immagine, ciò che nessun controllo del set, nessuna scrittura o sceneggiatura riesce veramente a ricreare.
In altri autori, come Lav Diaz, Apichatpong Weerasethakul, Roberto Minervini, per citarne solo alcuni, i generi del cinema vengono riattraversati da una prospettiva fortemente documentaria, creando nuovi percorsi narrativi ed estetici, in cui le regole del genere – il thriller, il poliziesco, il melodramma, il film adolescenziale – sono riscritte e ripensate proprio grazie a un approccio diverso, capace di cogliere, nelle pieghe del racconto, qualcosa che accade, che si manifesta nei gesti, nelle parole, nelle attese o nella vicinanza e lontananza rispetto ai personaggi. Non si tratta allora tanto di aderire a uno stile (un modo di riprendere, di muovere la macchina da presa o di utilizzare particolari formati digitali), quanto di un differente approccio dell’immagine e del cinema stesso al reale. È in questa prospettiva che il r. cinematografico contemporaneo, se da una parte si connette in profondità alla ricchissima eredità dei r. del Novecento, dall’altra si mostra come percorso aperto, capace di mettere in gioco forme e linguaggi che appartengono alla contemporaneità. Mostrando, infine, che ciò che si intende per r. è un processo aperto, una sperimentazione continua e un rapporto con una realtà che il cinema, sia esso di finzione o documentario, non ha mai smesso di interrogare, di ricostruire o ripensare attraverso riprese e montaggio, narrazioni e trasformazioni, gesti e personaggi.
Bibliografia: R. Odin, De la fiction, Bruxelles 2000 (trad. it.Milano 2004); M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari 2012.