Redditi misti
I redditi misti sono un insieme delle remunerazioni di due o più fattori della produzione: il lavoro, il capitale e l'impresa. Essi sono l'espressione di un'organizzazione produttiva a cui si attribuisce generalmente una funzione positiva rispetto al ciclo economico, in quanto assicurerebbero una minore instabilità all'economia nelle fasi alterne dell'espansione e della recessione. Le origini dei redditi misti possono farsi risalire a epoca molto lontana. Tra gli economisti del passato sono stati i fisiocrati a introdurre il concetto di 'sovrappiù', che però per molto tempo non ebbe adeguati sviluppi a causa della difficoltà di trovare nell'ambito della teoria del valore una unità di misura che consentisse di valutare in termini omogenei merci eterogenee. Solo in epoca recente le difficoltà sono state superate con l'introduzione di una misura particolare data non da una singola merce, ma da una merce composita, che il suo ideatore (P. Sraffa) chiamò "merce tipo": è una unità di misura che non presenta i gravi inconvenienti e le imprecisioni del lavoro 'incorporato'.
Sulla scia di questo indirizzo si analizza il prezzo di mercato per individuare gli elementi che lo compongono e che consistono, per le imprese capitalistiche, nei costi intermedi per materie prime e ausiliarie, nel costo del lavoro e nei redditi da capitale (rendite, interessi). Per le imprese dei lavoratori autonomi l'analisi si presenta molto più semplice, perché qui le componenti sono rappresentate solo dai costi per materie prime e ausiliarie e dai redditi misti (composti da redditi da lavoro e redditi da capitale). I redditi misti differiscono dai loro componenti sia per la loro particolare natura, sia per le forze e i processi dai quali sono generati. Infatti solo particolari moventi come, ad esempio, la tradizione, il desiderio di un lavoro autonomo, ecc. possono spiegare il risultato paradossale per cui il reddito complessivo di un lavoratore autonomo può restare a lungo inferiore al salario di un operaio (v. Sylos Labini, 1979, p. 102).
Nelle pagine che seguono saranno esaminati in modo assai più ampio questi problemi con l'intento di evidenziare gli aspetti concettuali e definitori introdotti dagli economisti e utilizzati nella costruzione dei conti economici nazionali dopo gli anni quaranta.
Poiché i redditi misti sono il frutto dell'attività produttiva delle imprese che attendono alla produzione di beni e servizi, l'attenzione sarà concentrata dapprincipio su di esse.Ai fini dell'analisi economica le imprese sono classificate con vari criteri, il più comune dei quali si basa sul genere di attività economica da esse svolto. Secondo questo criterio, esse sono distinte in tre grandi gruppi o settori: il settore delle imprese agricole o settore primario, il settore delle imprese industriali o settore secondario, il settore delle imprese commerciali e dei servizi o settore terziario. Il primo settore comprende le imprese caratterizzate da un'attività economica legata essenzialmente alla terra; il secondo comprende le imprese che attendono alla trasformazione dei prodotti del suolo e delle miniere; il terzo settore infine comprende le imprese che attendono alla prestazione di servizi volti a facilitare il passaggio dei beni dalla produzione al consumo, oppure alla prestazione di servizi concernenti l'organizzazione politica ed economica del paese, nonché il credito e le assicurazioni. Tuttavia la classificazione più adatta per la trattazione dei redditi misti è quella basata sulla forma legale delle imprese. Sotto questo aspetto esse sono distinte secondo il System of National Accounts (SNA) delle Nazioni Unite in tre grandi gruppi: società, quasi-società, imprese individuali.
Le società sono definite come organizzazioni aventi personalità giuridica e un capitale distinto da quello dei soci, le quali distribuiscono, a titolo di remunerazione del capitale da esse impiegato, un dividendo. Appartengono a questo gruppo tutte le società di capitale, le società sussidiarie e le società associate. Un'impresa si definisce sussidiaria di un'altra se questa possiede la maggioranza del suo capitale, o ha il diritto di nominare o rimuovere la maggior parte dei responsabili della sua gestione, mentre si definisce associata di un'altra se questa possiede una percentuale del suo capitale compresa tra il 10 e il 50%, e ha quindi la possibilità di influire sulla sua politica e sulla sua gestione.
Per quanto concerne le quasi-società, la definizione riportata nello SNA e nel Sistema Europeo dei Conti economici integrati (SEC) dell'Eurostat non sembra per la verità molto chiara; è però certo che nello SNA i redditi prelevati dai membri delle quasi-società sono assimilati ai dividendi e inclusi fra i redditi da proprietà. Questa inclusione sembra, almeno in alcuni casi, discutibile. La quasi-società è un'impresa di particolare natura che attende, come la società, alla produzione di beni e servizi per il mercato. Essa ha un capitale che appartiene a un ente pubblico o a una famiglia, e una contabilità separata da quella dell'ente o della famiglia. Non si richiede che abbia una certa dimensione; il SEC, che nell'edizione del 1979 aveva introdotto questo requisito, l'ha abbandonato nella nuova edizione, uniformandosi così allo SNA.
Orbene, se il capitale delle quasi-società appartiene a un ente pubblico, l'amministratore dell'impresa è nominato generalmente dall'ente, e riceve per la sua opera un compenso che è pertanto un reddito da lavoro dipendente; il reddito dell'ente sarà invece un reddito da capitale, assimilabile ai dividendi. Se il capitale appartiene invece a una famiglia, uno o più membri della famiglia possono partecipare all'attività dell'impresa come lavoratori dipendenti e ricevere, quindi, un compenso che sarà un reddito da lavoro; oppure essi possono attendere all'amministrazione dell'impresa senza ricevere alcun compenso, e il reddito dell'impresa - e quindi quello dei membri della famiglia - sarà un reddito misto, cioè una remunerazione da lavoro e da capitale insieme.
Le imprese individuali sono classificate secondo lo SNA nel settore istituzionale delle Famiglie perché l'imprenditore è rappresentato da una persona o più persone della famiglia e non può essere considerato come unità istituzionale con contabilità da essa separata. Infatti i beni patrimoniali della famiglia appartengono congiuntamente a tutti i componenti della famiglia medesima, e le loro entrate sono generalmente cumulate ed erogate a beneficio di tutte le persone componenti la famiglia stessa, incluse quelle che non hanno ricevuto alcuna entrata. Inoltre, molte spese, e in particolare quelle per l'alimentazione e l'abitazione, sono sostenute collettivamente per tutta la famiglia. Non potendosi costruire conti separati per i singoli componenti la famiglia, l'impresa individuale è considerata parte integrante della famiglia. Dalle imprese individuali originano gran parte dei redditi misti, e cioè i redditi che in parte rappresentano la remunerazione del lavoro fornito all'impresa dalla persona o dalle persone della famiglia, e in parte la remunerazione del capitale impiegato nell'impresa e appartenente alla famiglia.
Da quanto sopra discende che l'impresa individuale differisce dalla quasi-società perché, a differenza di questa, non ha una contabilità separata da quella della famiglia.In agricoltura sono redditi misti quelli conseguiti dalle imprese contadine nelle quali l'imprenditore, una persona della famiglia, lavora egli stesso i propri terreni; sempre in agricoltura, può essere considerato reddito misto quello dell'affittuario che impiega nell'azienda il proprio lavoro: in questo caso il reddito misto rappresenta la remunerazione del fattore impresa e del fattore lavoro. Nell'industria sono fonte di redditi misti le imprese artigiane nelle quali l'imprenditore presta lavoro manuale nell'azienda, mentre nel commercio lo sono molti negozi.
Come si è accennato, è certamente molto importante conoscere l'ammontare dei redditi misti di un paese in quanto essi, oltre a costituire un elemento di stabilità dell'economia, sono un indice del grado del suo sviluppo economico. Per la valutazione dei redditi misti sono di valido aiuto i conti nazionali, i quali sono costruiti, nello SNA, sia per l'economia nel suo complesso, sia per singoli settori istituzionali, cioè per gruppi di unità elementari istituzionali. Questi settori sono: le Imprese non finanziarie, le Imprese finanziarie, le Pubbliche amministrazioni, le Famiglie (comprensive delle imprese individuali) e le Istituzioni non aventi fini di lucro che producono servizi per le Famiglie. Per l'economia nel suo complesso e per ciascun settore istituzionale si costruisce poi la seguente serie di conti: conto della produzione; conto della distribuzione e dell'impiego dei redditi; conto dell'accumulazione; conti patrimoniali.
Il conto della produzione rileva - sia a livello nazionale, sia a livello di settore - in entrata il valore della produzione totale del settore, e in uscita il valore dei beni e servizi in essa impiegati. La differenza (saldo) tra i due aggregati rappresenta il valore aggiunto o prodotto interno, che corrisponde al 'sovrappiù' dei fisiocrati; esso può essere considerato al lordo o al netto degli ammortamenti, ma normalmente si considera al netto.
Quanto al conto della distribuzione si considerano, qui, solo i due primi sottoconti: il sottoconto della generazione dei redditi e quello dell'attribuzione del reddito primario. La struttura del primo sottoconto è la stessa sia per l'economia nel suo complesso, sia per i settori istituzionali e in particolare per il settore Famiglie. Esso rileva in entrata il prodotto interno che deriva dal conto precedente della produzione, e in uscita i salari e gli stipendi, gli oneri sociali, e le imposte che gravano sulla produzione al netto dei contributi correnti; la differenza tra il prodotto interno e il totale delle uscite (saldo del conto) misura il risultato di gestione e i redditi misti.
A livello del settore Famiglie, il risultato di gestione comprende le rendite dei fabbricati (redditi da capitale) e i compensi al personale domestico retribuito (redditi da lavoro); i redditi misti, caratteristici solo del settore Famiglie, riguardano i redditi da lavoro e da capitale insieme, di cui si è detto nel capitolo precedente.Il secondo sottoconto, quello della distribuzione del reddito primario, presenta la stessa struttura sia per l'economia nel suo complesso sia per il settore Famiglie. Esso rileva in entrata il risultato di gestione e i redditi misti, i salari e gli stipendi (oneri sociali compresi) e i redditi da capitale ricevuti, e in uscita i redditi da capitale pagati: il saldo del conto misura per l'economia nel suo complesso il reddito nazionale, definito come ammontare totale dei redditi primari dei residenti, dei redditi cioè che affluiscono ai detentori dei fattori della produzione; per il settore Famiglie il saldo rappresenta, invece, semplicemente il saldo dei redditi primari. Conviene rilevare che nel sottoconto delle Famiglie figurano i dividendi ricevuti dalle società di capitale e i redditi prelevati dai membri delle quasi-società.
Non si ritiene necessario soffermarsi sui rimanenti sottoconti del conto della distribuzione e sugli altri due conti elencati in precedenza non essendo essi strettamente connessi con i redditi misti.
Una volta precisato il posto che i redditi misti occupano nel quadro del sistema dei conti, rimane da descrivere il metodo seguito per la loro valutazione. Da quanto si è detto in precedenza si desume che gli aggregati necessari per l'anzidetta valutazione sono rappresentati dal valore aggiunto al netto degli ammortamenti, dall'ammontare delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti (operai e impiegati) e dalle imposte nette che gravano sulla produzione. A sua volta, la determinazione del valore aggiunto (VA) comporta quella della produzione (P) e dei materiali e servizi impiegati (M). Il valore della produzione è generalmente calcolato basandosi sul fatturato attivo (f), il quale sarebbe però una misura esatta della produzione solo se tutta la produzione, e soltanto quella, realizzata nel periodo considerato (normalmente l'anno) fosse venduta. Ora, raramente questo si verifica; occorre perciò tener conto della variazione delle giacenze dei prodotti finiti tra la fine (g₂) e l'inizio dell'anno (g₁): questa variazione (g₂-g₁) va aggiunta al fatturato se positiva, e detratta se negativa. Inoltre nelle grandi imprese caratterizzate da cicli di produzione molto lunghi, come ad esempio i cantieri navali, le imprese edili, ecc., la produzione raramente ha inizio e termine nello stesso anno; è necessario pertanto tener conto della variazione dei prodotti in corso di lavorazione, rappresentata dalla differenza tra il valore che questi prodotti hanno alla fine dell'anno (g´₂) e quello che essi avevano all'inizio (g´₁). Infine, generalmente le grandi imprese, oltre a produrre beni e servizi destinati alla vendita, provvedono con mezzi e personale propri alla produzione di beni capitali (Kp) destinati a essere investiti nell'impresa stessa, dei quali, quindi, occorre tener conto. In definitiva, il valore della produzione è dato dalla seguente espressione:
P=f+(g₂-g₁)+(g´₂-g´₁)+Kp. (1)
Per quanto concerne la variazione delle scorte dei prodotti finiti, conviene sottolineare che esse, iniziali e finali, devono essere valutate allo stesso prezzo medio allo scopo di evitare che una semplice variazione di prezzo influisca sul valore della produzione.
Passando a considerare l'altro aggregato necessario per la valutazione del valore aggiunto, e cioè il valore dei materiali e servizi impiegati, la base della valutazione è costituita, come per i prodotti finiti, dal fatturato, questa volta passivo. Anche qui però, come per i prodotti finiti, non sono effettivamente impiegate nella produzione dell'anno tutte e soltanto le materie prime acquistate nell'anno (eb); occorre pertanto tener conto della loro variazione, che è pari alla differenza tra la consistenza alla fine dell'anno (eb₂) e quella all'inizio (eb₁): se questa differenza (eb₂-eb₁) è positiva va detratta dagli acquisti (eb), se negativa va aggiunta.Quanto ai servizi acquistati e impiegati nella produzione (es), non essendo essi suscettibili di accumulazione, sono totalmente detratti dalla produzione dell'anno. Riassumendo, quindi, il valore delle materie prime e dei servizi impiegati nella produzione è dato dalla seguente espressione:
M=eb-(eb₂-eb₁)+es. (2)
Detraendo dalla (1) la (2) si ottiene il valore aggiunto:
VA=P-M. (3)
La valutazione degli altri due aggregati, retribuzioni e imposte, è necessaria, come si è visto, per il passaggio dal valore aggiunto al risultato di gestione e ai redditi misti. Le retribuzioni sono rappresentate dai salari e dagli stipendi, in denaro e in natura, corrisposti al personale dipendente, e comprendono anche i contributi sociali. Le remunerazioni in natura non comprendono i beni e servizi forniti gratuitamente ai lavoratori dall'impresa in relazione al lavoro che essi compiono, come, ad esempio, il vestiario protettivo. Fanno parte dei contributi sociali non solo i contributi che il datore di lavoro versa agli enti di previdenza, pubblici o privati, ma anche i cosiddetti contributi sociali 'imputati', cioè i contributi accantonati presso l'impresa per assicurare ai lavoratori i benefici sociali.
Può essere interessante aggiungere che la principale fonte statistica dei dati, adoperata per la valutazione dei vari aggregati considerati in precedenza, è costituita dall'indagine sul valore aggiunto eseguita sia in Italia, sia in altri paesi dell'Unione Europea, dagli istituti nazionali di statistica. In Italia essa ha carattere totale per le grandi imprese e campionario per le medie e piccole imprese. Chiaramente, gran parte delle imprese individuali dalle quali originano i redditi misti rientrano tra le medie e le piccole imprese.Per concludere, si riconosce generalmente che i redditi misti presentano una minore attendibilità dei redditi delle società e quasi-società, soprattutto perché non è sempre possibile separare nettamente le spese per beni e servizi che rappresentano costi per l'impresa da quelle che rappresentano spese per consumi della famiglia. Ad esempio le spese per il carburante dei mezzi di trasporto che sono usati, oltre che dall'impresa, anche dalla famiglia; le spese per energia elettrica, se il contatore è unico per l'impresa e la famiglia; le spese di riscaldamento, ecc.
Come si è accennato, è molto interessante conoscere l'entità dei redditi misti nel quadro sia dell'economia nazionale, sia del settore istituzionale delle Famiglie. Per questo sono riportati nella tabella i dati elaborati dall'Istituto Centrale di Statistica (ISTAT) sull'ammontare del reddito primario, in totale e distinto nelle sue componenti, delle famiglie consumatrici italiane (le famiglie consumatrici, insieme alle famiglie produttrici, sono un sottoconto delle Famiglie) per il periodo 1985-1994. Certamente sarebbe stato molto più interessante poter riportare, ai fini di un confronto internazionale, dati analoghi di altri paesi europei o extra-europei, ma essi sono molto scarsi e forse non del tutto comparabili con quelli dell'Italia.
Esaminando la tabella si può osservare che l'ISTAT comprende nella categoria dei redditi da lavoro autonomo sia i redditi prelevati dai membri delle imprese individuali e quindi redditi misti, sia i redditi prelevati dai membri delle quasi-società, ammettendo implicitamente che anche questi ultimi siano redditi misti, mentre, come si è detto nel cap. 1, secondo lo SNA essi sono redditi da capitale e assimilati ai dividendi. È molto verosimile supporre che questo diverso trattamento dei redditi prelevati dai membri delle quasi-società nel sistema dei conti italiani e nello SNA sia dovuto a considerazioni di carattere pratico: essendo molto difficile distinguere le quasi-società dalle imprese individuali, lo SNA considera i predetti redditi come redditi da capitale, e l'ISTAT - invece - come redditi misti.
Dalla tabella risulta che nel 1994 i redditi da lavoro autonomo sono ammontati a 370.029 miliardi di lire correnti, pari al 30,4% del totale dei redditi primari delle Famiglie (1.216.483 miliardi), e al 29,5% del reddito nazionale netto al costo dei fattori (1.252.542 miliardi). È da notare che la differenza tra totale dei redditi primari delle Famiglie e reddito nazionale è molto modesta, e ciò si deve al fatto che nel passaggio dal prodotto lordo a quello netto si detrae per ammortamenti una cifra di gran lunga maggiore per l'economia nel suo complesso che per il settore istituzionale delle Famiglie.
Con tutte le riserve del caso, e a semplice titolo esemplificativo, può essere interessante aggiungere che dal National Accounts Statistics dell'ONU risulta che per il Regno Unito i redditi misti delle imprese individuali rappresentavano nel 1991 solo il 17,4% del reddito nazionale al costo dei fattori, contro il 29,8% dell'Italia. Inoltre, essi rappresentavano nel Regno Unito il 23,3% dei redditi da lavoro dipendente contro il 51,1% dell'Italia: e ciò vuol dire che nella struttura produttiva del Regno Unito le imprese individuali hanno un peso molto minore che in Italia.
Del totale dei redditi da lavoro autonomo, 350.482 miliardi, pari al 28,8%, si riferiscono ai redditi prelevati dai membri delle imprese individuali e 19.147 miliardi, pari all'1,6%, ai redditi prelevati dai membri delle quasi-società. Come si può notare questi ultimi rappresentano una cifra molto modesta rispetto ai redditi prelevati dalle imprese individuali.
Delle rimanenti categorie di reddito riportate nella tabella i redditi da lavoro dipendente rappresentano la quota più elevata (57,5%) e i redditi dei terreni e dei beni immateriali la quota più bassa (0,1%) del totale dei redditi primari.
Nella tabella sono riportati i dati relativi a un decennio con lo scopo di accertare se la struttura del reddito primario delle Famiglie descritta per il 1994 sia stabile o sia, invece, il risultato di una certa tendenza. A questo proposito può essere intanto utile ricordare che negli anni dal 1984 al 1988 il sistema economico italiano era in fase espansiva, mentre dopo il 1988 entra in fase di recessione e nel 1993 il tasso reale di crescita diviene addirittura negativo. Orbene, considerando le varie categorie di redditi si nota che nel corso del periodo considerato la quota del reddito da lavoro dipendente è praticamente stabile, e pare quindi non essere influenzata dal ciclo; la quota del reddito da lavoro autonomo e quella dei redditi misti crescono nella fase espansiva dell'economia e diminuiscono nella fase di recessione; la quota dei redditi netti da capitale tende a diminuire nella fase espansiva, ma si riprende nella fase successiva. Particolarmente drastica risulta la riduzione dei dividendi che appaiono quasi dimezzati nel periodo considerato. Sempre crescente, infine, si presenta la quota del risultato di gestione, che sale dal 4,2% nel 1985 al 6,9% nel 1994.
In sintesi, la quota dei redditi da lavoro dipendente e quella del risultato di gestione - stabile la prima, crescente la seconda - sembrano essere indipendenti dal ciclo; la quota dei redditi da lavoro autonomo appare correlata positivamente all'andamento dell'economia e, infine, la quota dei redditi netti da capitale decresce fino al 1988, ma dopo si riprende portandosi al livello del 1985.Infine, avendo fatto in precedenza qualche riferimento all'economia del Regno Unito, può essere interessante aggiungere che, mentre per l'Italia, come si è detto, la quota dei redditi misti sul reddito nazionale non mostra una precisa tendenza all'aumento o alla diminuzione nel corso del periodo 1985-1994, nel Regno Unito essa presenta una decisa tendenza all'aumento passando dal 13,7% nel 1984 al 17,4% nel 1991. Tale sensibile aumento è dovuto soprattutto all'aumento degli imprenditori individuali che, a sua volta, è da attribuire a vari fattori, uno dei quali, molto importante, è rappresentato dalla politica governativa inglese che, per combattere la disoccupazione, favorisce la creazione di nuove imprese medie e piccole.
Di recente va affermandosi la tendenza a estendere i redditi misti. Essa trova la sua spiegazione nel fatto che, come si sa, il Prodotto Interno Lordo (PIL) non è più considerato un aggregato idoneo a misurare il benessere economico di una collettività, soprattutto in quanto non comprende alcuni elementi che ne rappresentano una componente molto rilevante. Orbene, questi elementi sono connessi con la tendenza a considerare la famiglia non solo come unità di consumo, ma anche come unità di produzione. E in effetti nell'ambito familiare si realizza una produzione di beni e servizi come, ad esempio, la preparazione dei pasti, la pulizia della casa, il giardinaggio, lo shopping, la cura dei bambini, ecc. che sono tutte attività indubbiamente produttive. Se quindi il lavoro delle casalinghe è considerato produttivo, non è da stupirsi che esse chiedano il riconoscimento di un salario e di una pensione. Il governo italiano invero si è espresso favorevolmente alla concessione della pensione alle casalinghe a condizione che esse versino adeguati contributi. Dall'ammissione che le attività domestiche sono produttive, discende che i consumi finali delle famiglie calcolati in sede di contabilità nazionale appaiono sotto questa ottica per la massima parte come materia prima delle trasformazioni operate nell'ambito familiare. Chiaramente questa produzione, come quella delle imprese che producono per il mercato, è fonte di redditi: da lavoro, da capitale, misti. Ma come valutare la produzione familiare? Poiché essa non è oggetto di scambio, non si può applicare il prezzo e si deve quindi ricorrere ad altri metodi, dei quali si ricordano qui i due seguenti: uno è quello basato sulla somma degli inputs di capitale, di lavoro e di materiali (già in uso per valutare la produzione delle amministrazioni pubbliche), l'altro è quello della produzione 'integrale', basato cioè sui coefficienti tecnici di produzione delle imprese che producono beni e servizi per il mercato. La difficoltà di applicare questo secondo metodo ha indotto gli studiosi a ripiegare sul primo. In questo caso si tratta quindi di stimare gli inputs di materie prime e ausiliarie, di capitale (ammortamenti e interessi) e di lavoro. L'input di materie prime e ausiliarie è rappresentato, come si è accennato, per la massima parte dai consumi finali: solo per la massima parte perché alcuni beni e servizi in essi compresi non formano oggetto di trasformazione nell'ambito familiare e devono quindi esserne esclusi; l'input di capitale riguarda i beni durevoli di consumo che, a causa dell'uso o del semplice decorso del tempo, subiscono un deterioramento; infine, l'input di lavoro si riferisce ai membri della famiglia occupati nelle attività familiari definite produttive. Per valutare l'input di capitale è chiaramente necessario conoscere il valore dei beni capitali, la loro vita media e un tasso di interesse: elementi, questi, non sempre disponibili. Altrettanto ardua si presenta la valutazione dell'input di lavoro, cioè del reddito da lavoro dei membri familiari. A questo proposito può essere interessante rilevare che secondo molti economisti esiste una certa connessione tra il lavoro di mercato del capofamiglia e quello della moglie casalinga, nel senso che il primo è reso possibile dal lavoro svolto dalla casalinga che attende alle attività domestiche. Per la valutazione dell'input di lavoro delle casalinghe e in generale dei membri della famiglia che si occupano di attività domestiche si suggeriscono vari metodi. Uno è basato sul costo-opportunità, e cioè l'ammontare dei redditi da lavoro si otterrebbe in questo caso applicando alle ore di lavoro impiegate dai familiari nelle attività produttive (dato spesso rilevato nei paesi economicamente più avanzati) la retribuzione media che ciascun familiare avrebbe guadagnato continuando a svolgere fuori dalla famiglia la sua attività retribuita. Questo metodo presenta l'inconveniente di valutare lo stesso bene o servizio prodotto in famiglia a prezzi diversi, in quanto si applicherebbe la retribuzione media di un magistrato se il membro della famiglia è un magistrato, e la retribuzione media di una dattilografa se si tratta di una dattilografa. Un altro metodo consiste nell'applicare alle ore di lavoro la retribuzione media di una collaboratrice familiare generica: qui l'inconveniente sta nel fatto che si userebbe lo stesso prezzo per valutare beni o servizi molto diversi. Infine, un perfezionamento di quest'ultimo metodo consisterebbe nell'applicare retribuzioni medie diverse a servizi diversi, e cioè la retribuzione di un cuoco per la confezione dei pasti, quella di un giardiniere per il giardinaggio, quella di una baby-sitter per la cura dei bambini, ecc. Generalmente, a causa delle grandi difficoltà di reperire fonti statistiche adeguate, il metodo più frequentemente usato, pur con i suoi inconvenienti, è il secondo.
A questo punto si deve però osservare che il fatto che gli inputs considerati in precedenza, e cioè gli inputs di capitale e di lavoro, siano stimati in modo autonomo non deve far pensare che essi siano sempre redditi puri; generalmente sono invece redditi misti. Infatti, se si potesse valutare direttamente la produzione applicando un prezzo di mercato e detrarre dopo da essa gli inputs di materie prime, ausiliarie e servizi impiegati, nonché le retribuzioni eventualmente pagate, il risultato, cioè la differenza, sarebbe un reddito misto, una remunerazione del capitale e del lavoro impiegati dai familiari, e non si potrebbe distinguere quanta parte di esso costituisce reddito da capitale e quanta, invece, reddito da lavoro.
Non essendo disponibili dati su redditi misti familiari, per avere un'idea della loro importanza, si citano qui appresso alcuni dati che si riferiscono al solo reddito da lavoro derivante dalle attività familiari produttive. Per l'Italia, con riferimento al 1951, tale reddito - espresso in lire con potere di acquisto del 1963 - ammonterebbe a 5.335 miliardi, pari a poco meno del 50% dei consumi finali delle famiglie calcolati in sede di contabilità nazionale; la cifra sale a 11.751 miliardi per il 1973, ma la percentuale sui consumi finali scende al 36% (v. Giannone, 1992).
L'importanza dei redditi da lavoro derivanti dalle attività familiari produttive sarebbe quindi sensibilmente diminuita tra i due anni, in conseguenza soprattutto del minor tempo destinato dalle famiglie alle predette attività.Infine, per concludere, data la scarsità dei dati disponibili in questa materia, può essere interessante citare i risultati di una recente ricerca eseguita per il Regno Unito (v. Jenkins e O'Leary, 1994). Da essa risulterebbe che aggiungendo alla distribuzione dei redditi monetari delle famiglie per il 1986 i redditi da lavoro stimati per le attività familiari produttive, si ottiene una distribuzione per classi di ammontare molto meno diseguale della distribuzione dei soli redditi monetari (l'indice di concentrazione del Gini scenderebbe da 0,292 a 0,172), con la conseguenza che anche la disparità tra famiglie in termini di benessere economico risulterebbe molto minore. Inoltre, come era da attendersi, la percentuale dei redditi da lavoro derivanti dalle attività familiari rispetto al reddito 'esteso' (redditi monetari più redditi da lavoro da produzione familiare) è risultata molto più elevata per le famiglie più povere che per quelle più ricche.
Una prima conclusione che si può trarre dalle pagine precedenti è la seguente: i redditi misti, intesi come redditi da lavoro e da capitale insieme, hanno ancora, almeno nell'economia italiana, una grande importanza in quanto il loro 'peso' si aggira intorno a un terzo del reddito nazionale; se poi si aggiungono a essi i redditi prelevati dai membri delle quasi-società, di natura un po' controversa, la quota sale, ma di molto poco. Una seconda conclusione è che i redditi da lavoro dipendente (la quota più elevata del reddito nazionale) nella recente esperienza italiana risultano, in termini relativi, sufficientemente stabili rispetto all'andamento dell'economia, mentre il peso dei redditi misti segue le sorti del ciclo, crescendo quindi nelle fasi di sviluppo e riducendosi nelle fasi di recessione. Terza conclusione: i redditi misti sono meno attendibili di quelli delle altre categorie a causa soprattutto della difficoltà di separare nettamente le entrate e le spese della famiglia dalle entrate e spese dell'impresa individuale.Infine, se si considera la famiglia come un'impresa che produce beni e servizi, sia pure destinati al soddisfacimento dei bisogni familiari (autoconsumi), dovrebbero essere considerati come redditi misti i redditi 'imputati' dei membri familiari occupati nelle attività produttive della famiglia; l'aggiunta di questi redditi a quelli monetari produce, secondo una recente esperienza inglese, una distribuzione dei redditi individuali e familiari significativamente meno diseguale, con la conseguenza che il benessere economico e sociale risulterà maggiore di quanto non appaia dalla semplice distribuzione dei redditi monetari. (V. anche Contabilità nazionale; Economia sommersa; Lavoro; Reddito).
Eurostat, Sistema Europeo dei Conti, SEC, Lussemburgo 1995.
Giannone, A., Sistemi di contabilità economica e sociale, Padova 1992.
ISTAT, Conti economici nazionali, anni 1970-1993, collana d'informazione, n. 19, 1994.
ISTAT, Conti nazionali economici e finanziari dei settori istituzionali, 1988-1994, collana d'informazione, n. 1, 1996.
Jenkins, S.P., O'Leary, N.C., Household income plus household production: the distribution of 'extended' income in the UK, comunicazione presentata alla XXIII Conferenza della International Association for Research in Income and Wealth, St. Andrews, Canada, 1994.
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ONU, System of national accounts 1993, New York 1993.
Sylos labini, P., Lezioni di economia, vol. I, Roma 1979.