Abstract
Viene esaminata la genealogia del diritto al reddito minimo garantito che si è andato costituzionalizzando, sopratutto in Europa, nella seconda metà del ‘900. Vengono poi commentate le fonti normative e le policies dell’Unione europea e ricostruiti i tentativi di istituire anche in Italia una misura di garanzia dei «minimi vitali».
Una premessa definitoria appare imprescindibile in una materia in cui la confusione terminologica, sebbene in parte giustificabile in relazione alla storia dell’idea stessa di una tutela dei “minimi vitali” ed alla sua progressiva declinazione giuridica, ha indebolito, sopratutto in Italia, le ragioni dell’introduzione di una misura del genere. Chiamiamo, in coerenza con le fonti europee e con le tendenze giuridiche planetarie, «reddito minimo garantito» (o espressioni ad esso riconducibili come «reddito minimo di inserimento», «bolsa social» etc.) l’attribuzione a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti di una prestazione in denaro per garantire loro un’esistenza libera e dignitosa.
Per «reddito di cittadinanza» (o anche «reddito minimo di base», «basic income», etc.) va, invece, inteso un reddito erogato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale, senza controllo ed esigenza di contropartite (Bronzini, G., Il reddito minimo garantito nell’Unione europea: dalla Carta di Nizza alle politiche di attuazione, in Dir. lav. e rel. ind., 2011, 225 ss.).
Pertanto per definizione quest’ultima misura è incondizionata ed universale perché prescinde dalle condizioni economiche e sociali del destinatario (anche se è rivolta ai soli cittadini), mentre la prima non ha queste caratteristiche in quanto è attribuita solo a chi concretamente ne ha bisogno e viene, in genere, condizionata in vario modo (dall’obbligo di accettare proposte lavorative, sino a quello di seguire corsi di formazione o di mandare i figli alla scuola primaria, etc.).
Nelle parole del Tribunale costituzionale tedesco (sent. del 9.2.2010): «garantisce ad ogni persona bisognosa le condizioni materiali che sono indispensabili alla sua esistenza ed ad un minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica». Termini, invece come ius vitae o ius existentiae hanno una capacità evocativa ed una tonalità emotiva più ampia e meno precisa e coprono sia la prima che la seconda area concettuale, soprattutto se si considerano le esperienze di reddito minimo, sottoposte al cosiddetto means text, ma non schiacciate sulla «rieducazione al lavoro».
Si può sinteticamente affermare che la proposta di un «reddito di cittadinanza» in senso stretto configura un «programma politico-radicale mirato ad implementare la giustizia sociale» o anche «un’utopia concreta» (Van Parijs, P.-Vanderborght, Y., Il reddito minimo universale, Milano, 2006; Bin-Italia, a cura di, Reddito per tutti. Un’utopia concreta, Roma, 2009), in linea astratta realizzabile, ma che implica profonde trasformazioni dell’intero assetto istituzionale contemporaneo (solo nello Stato USA dell’Alaska i cittadini godono di un modesto basic income attraverso i proventi petroliferi statali; nel 2015 gli svizzeri voteranno un referendum propositivo per l’introduzione di un vero basic income in quel paese). Il reddito minimo garantito (d’ora in poi RMG) invece è già una potente realtà istituzionale, non solo nell’UE (salvo Italia e Grecia) ma a livello mondiale (ad es. India, Brasile, Sudafrica, Namidia, etc.). L’Unicef appoggia ufficialmente molte esperienze di RMG nei paesi in via di sviluppo.
La ragione della confusione terminologica risiede nel fatto che i due concetti condividono una certa «area di famiglia», cioè una tradizione di pensiero ed anche di esperienze sociali concrete accumunate dall’idea di una partecipazione democratica effettiva e, quindi, di una cittadinanza inclusiva e promozionale delle capacità individuali e collettive da «giocarsi» nella sfera pubblica latamente intesa. Intendiamo dire che anche un RMG «all’europea», su cui torneremo, va correttamente pensato come una prestazione per la «cittadinanza democratica», pur svolgendo importanti funzioni di tutela del «lavoro» e di strumento di contrasto della povertà e dell’emarginazione sociale.
L’idea di un ius existentiae non è di certo nuova. Fu già avanzata da Bertrand Russel, dai Fabiani, dai Fourieristi, da Thomas Paine ed argomenti a suo sostegno possiamo trovarli persino nella filosofia classica tedesca. Si può, anzi, osservare che questo nesso tra comunità politica e soddisfazione dei bisogni primari è, sin dal sorgere della civiltà occidentale, attestato dall’uso dei pranzi in comune nelle antiche Sparta o Atene. Riscontri importanti di questa tensione verso la tutela dei «minimi vitali» emergono nella Costituzione giacobina del 1793 al suo art. 21: «i soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che non sono in età di poter lavorare», o all’art. 151 della Costituzione di Weimar secondo cui «l’ordinamento della vita economica deve garantire a tutti un’esistenza degna». Ma la vera fortuna di questo concetto si è avuta nella seconda metà del ventesimo secolo, investendo in modo penetrante non solo il dibattito teorico, ma la realtà profonda delle istituzioni sociali. La premessa di questa esplosione del tema risiede nella vittoria sulle forze nazifasciste. Con essa il tema della dignità dell’uomo ha trovato una nuova energia costituzionale; ne sono conferma sul piano nazionale la Costituzione di Bonn che poggia su questo valore (art. 1) e su quello internazionale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che menziona la dignità sia nel preambolo «Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo» che all’art. 1. Sul piano sociale gli artt. 22 e 25 della Dichiarazione richiamano la necessità della garanzia di risorse sufficienti per condurre una vita decorosa, così come il Patto ONU del 1966 (art. 11) sui diritti socio-economici (mai accettato però da USA e Gran Bretagna).
Sintetizzando un ampio e sofisticato dibattito possiamo distinguere tre principali linee di giustificazione dello ius existentiae.
La prima, già richiamata, proviene dal dispiegamento progressivo del meta-principio costituzionale della dignità della persona con l’attenuarsi dell’originaria impostazione neo-giusnaturalista che valorizzava la nozione soprattutto nei rapporti tra le libertà individuali e l’autorità pubblica. Si tratta di una dilatazione dell’originaria nozione che Stefano Rodotà ha riassunto nel processo di «costituzionalizzazione della persona» nei suoi bisogni ed aspetti cruciali e quindi anche con riferimento alla relazioni sociali e comunicative in cui il singolo è «gettato» o ha scelto di aderire (Rodotà, S., Il diritto di avere dei diritti, Bari, 2012).
La seconda linea argomentativa ha il suo fulcro nel tentativo promosso da John Rawls nella sua seminale opera, Una teoria della giustizia (Milano 1982), di definire le condizioni istituzionali di sfondo di una società giusta, tra le quali il «minimo sociale». Sebbene il filosofo di Harvard abbia poi criticato l’idea di un basic income incondizionato ed universale con la famosa immagine del «surfista di Malibù» che si sottrae agli obblighi di un’equa cooperazione sociale, in realtà il neo-contrattualismo di stampo rawlsiano ha offerto uno schema generale di ragionamento «contro fattuale» per verificare i presupposti di una comunità politica che assicuri quantomeno eguaglianza di opportunità per tutti. Questo schema sarà così utilizzato da diverse teorie costituzionali e di filosofia politica, dall’approccio dialogico di Bruce Ackerman a quello repubblicano di Philip Pettit, o – più recentemente – da Luigi Ferrajoli (Ferrajoli, L., Principia Juris, Bari, 2007), per arrivare alla conclusione dell’inaccettabilità di sistemi che negano ai cittadini i bisogni elementari. La terza ondata proviene dalla sociologia contemporanea e dagli studiosi di welfare che cercano di comporre a sistema la ratio di «de mercificazione» dei bisogni primari delle esperienze del Nord-Europa e di arricchire la nozione pionierista di Thomas H. Marshall di cittadinanza sociale (Marshall, T.H., La cittadinanza sociale, Milano, 1970). Il fondersi tra loro di questi temi (nella saldatura tra dignità della persona e cittadinanza sociale) e la contaminazione con le emergenze derivate dalla crisi della società dell’«impiego», dal cosiddetto passaggio alla società post-fordista, e dall’esplosione del fenomeno della disoccupazione di massa ha condotto in Europa e, tendenzialmente, a livello planetario ad una costituzionalizzazione dello ius existentiae.
Pertanto già sulla base dell’affermazione nelle varie costituzioni nazionali del principio della dignità della persona sono stati avviati in vari paesi europei (nel Nord scandinavo, come in Svizzera, in Austria, etc.) esperienze di RMG che guardano al solo aspetto di una cittadinanza inclusiva. Tuttavia, con il Trattato di Amsterdam, il varo di una politica occupazionale dell’Unione e la costruzione del capitolo sociale comunitario, il RMG si carica di funzioni ulteriori e più incisive, diventando una prerogativa tipica del «cittadino laborioso», una tutela essenziale di questi nel mercato che si accompagna e salda con quella di cui gode «nel contratto». È sulla base, in realtà, di questa fusione di orizzonti che è avvenuta la definitiva costituzionalizzazione del diritto ad un RMG come pretesa di matrice «sovra-nazionale». Va da ultimo ricordato che la Corte interamericana dei diritti dell’uomo ha ritenuto in alcune decisioni che nel «diritto alla vita» sia compresa la tutela dei «minimi vitali», opzione interpretativa non ancora seguita dalla Corte di Strasburgo (le due Convenzioni, alla base delle rispettive Corti, sono molto simili).
Il RMG è divenuto un fundamental right dotato della stessa «forza» (legal value) delle norme sui Trattati, nella nuova formulazione dell’art. 6 TUE con l’entrata in vigore il 1.12.2009 del Trattato di Lisbona, in quanto solennemente sancito all’art. 34, co. 3 della Carta dei diritti UE (più nota come Carta di Nizza). Ciò premesso va riconosciuto che la formulazione prescelta «al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà l’Unione rispetta e riconosce il diritto all’assistenza sociale ed abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» non è felice da punto di vista espressivo. Sembra in effetti che si sia voluto mascherare con termini tecnico-giuridici, come può essere quello di «assistenza sociale», il riconoscimento di una prerogativa che ben potrebbe rappresentare il simbolo di una cittadinanza sociale europea, sancendo proprio un dovere di integrazione sociale, politica e culturale di tutti nella «società europea». In ogni caso il significato della norma non è certo oscuro; alla luce dei chiarimenti offerti sul punto da Raccomandazioni del Consiglio e della Commissione e da Risoluzioni del Parlamento europeo, è facile determinarne il suo «contenuto essenziale», il limite – secondo la prevalente Dottrina – oltre il quale non può spingersi la discrezionalità del legislatore sovranazionale e di quello interno, fatta salva nell’ultimissima parte della disposizione «secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali». La norma si compone di tre segmenti che vanno letti unitariamente: il primo è l’accesso alle prestazioni di assistenza sociale, il secondo il concetto di esistenza dignitosa ed il terzo la mancanza di risorse sufficienti e cioè una situazione concreta e verificabile di bisogno. Non vi è dubbio che la garanzia di condizioni di vita «dignitose» implichi in primo luogo la disponibilità di un reddito idoneo a soddisfare le necessità primarie, da non intendersi in senso solo materiale. Gli obblighi derivanti dall’art. 34, co. 3, non sembrano comunque esaurirsi nel sostegno reddituale non solo perché si richiama espressamente anche l’assistenza abitativa, ma in quanto è evidente che il rischio di esclusione sociale si combatte anche sul terreno dei servizi sociali e di tutti gli strumenti che l’esperienza più avanzata europea ha elaborato nel promuovere un ruolo attivo del «cittadino laborioso» (diritti previsti anche da norme della Carta, come il diritto alla formazione permanente e continua all’art. 14 o il diritto di accesso a servizi di collocamento gratuito all’art. 29). Il titolare del diritto non è indicato e quindi, secondo un metodo generale di codificazione per cui ogni volta che si è voluto ascrivere una certa prerogativa al cittadino europeo, lo si è detto esplicitamente (cfr. il capo sulla cittadinanza) si deve intendere anche il residente «stabile» nell’Unione. Trattandosi di prestazioni di natura assistenziale e collegate ad un bisogno effettivo del soggetto ogni restrizione irragionevole e non giustificata appare illegittima, anche se la norma va ovviamente coordinata con le disposizioni sulla libertà di circolazione e di stabilimento, soprattutto a fini lavorativi. Si tratta di una previsione contenuta nel titolo dei diritti della «solidarietà», come altre tipiche pretese del lavoro e della sicurezza sociale, ma il collegamento così stretto con il concetto di dignità della persona conferisce alla stessa un più ampio spettro di rilevanza. Va anche osservato che il titolare della prestazione è il singolo soggetto che non «dispone di risorse sufficienti»: la dimensione cui guardare è quella strettamente individuale e non anche le complessive condizioni reddituali e patrimoniali della famiglia cui appartiene il soggetto, dovendo la norma tutelare, attraverso l’intervento pubblico, la dignità di un soggetto in quanto tale, senza abbandonarlo alla carità familiare.
Le spiegazioni alla Carta indicano come prima fonte della pretesa l’art. 10 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali del 1989 «le persone escluse dal mercato del lavoro o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirvi e che sono prive di mezzi di sostentamento devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse sufficienti adeguate alla loro situazione personale». Nella Carta dei diritti Ue è stata rimossa l’implicazione tra il diritto previsto e la condizione di «lavoratore», anche sotto il profilo dei presupposti per le prestazioni richieste. Dalla norma della Carta si evince solo la necessità di un means text cioè di un accertamento di una condizione di rischio di esclusione sociale o di povertà (che l’Unione combatte attraverso il diritto in questione), nella Carta del 1989 invece il presupposto sembra poter consistere nella dimostrazione di essere disoccupati involontari o soggetti che non riescono a trovare un’attività lavorativa. La norma della Carta di Nizza si allontana di molto dallo scenario strettamente lavoristico del Testo del 1989, attraverso la connessione alla dignità «di base» dell’individuo in quanto tale, in una logica universalistica più ampia ed inclusiva. L’altra fonte è l’art. 30 della Carta sociale revisionata che così recita: «Diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale. Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale le Parti si impegnano: a) prendere misure nell’ambio di un approccio globale e coordinato per promuovere l’effettivo accesso al lavoro, all’abitazione alla formazione professionale, all’insegnamento, alla cultura, all’assistenza sociale e medica delle persone che si trovano o rischiano di trovarsi in situazione di emergenza sociale o di povertà e delle loro famiglie. A riesaminare queste misure in vista del loro adattamento se del caso». La mancanza di un punto di appoggio al concetto di «esistenza dignitosa», che vanta un’elaborazione giurisprudenziale piuttosto ampia soprattutto ad opera del Tribunale costituzionale tedesco che rifluisce nelle nozioni europee, rende la formulazione piuttosto vaga e la confina in un ambito di tutela «minimalistica» ed emergenziale che invece sembra estranea al diritto come riconosciuto nel Testo varato a Nizza nel 2000.
Nell’assenza di una disciplina di attuazione dell’Unione (che secondo l’opinione prevalente avrebbe come base giuridica l’art. 153, lett. h) sull’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro) la giurisprudenza della Corte di giustizia ha già trattato del RMG in numerose decisioni e richiamato in particolare l’art. 34, co. 4 della Carta nella sentenza Kamberay (C. giust., 14.4.2012, C-571/10, Kamberaj c. Ipes Bolzano) ma solo per stabilire la legittimità nelle condizioni di accesso al RMG stabilite dagli Stati, precisando – ad esempio – quando si può affermare che un lavoratore comunitario migrante in altro Stato perda il diritto a godere del beneficio o se sia legittimo stabilire requisiti di anzianità di residenza troppo severi che potrebbero discriminare lavoratori che hanno esercitato il loro diritto alla libertà di circolazione. Pertanto il controllo della Corte di giustizia è limitato, allo stato, al profilo della non discriminazione da parte di uno Stato di soggetti che legittimamente lavorano sul loro territorio.
L’Unione ha da tempo individuato il RMG come una policy da connettersi strettamente alle altre politiche occupazionali e di crescita che i Trattati contemplano da decenni ma, molto più chiaramente, da quanto il Trattato di Amsterdam ha introdotto un capitolo sociale ad hoc. Gli strumenti adottati per implementare queste politiche sono, però, in genere quelli propri del metodo di coordinamento aperto e cioè atti di indirizzo, raccomandazioni, scambio di informazioni e promozione di best practises per raggiungere gli obiettivi comunemente stabiliti. Ora, poco prima dell’inizio dei negoziati che portarono all’approvazione del Trattato di Maastricht, l’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors tentò di far approvare una Direttiva che obbligasse tutti gli Stati ad adottare schemi di RMG, ma senza riuscirvi. L’idea era quella di coniugare l’intensificazione dei legami economici tra i paesi membri con l’approntamento di standards minimi di trattamento di natura sociale, si da impedire il pericolo di un social dumping tra paesi membri, cioè una concorrenza sleale nell’abbassare le tutele sociali onde attirare gli investimenti. Si riuscì, tuttavia, ad emanare una storica raccomandazione, la n. 441/92 che ancora rappresenta un punto di riferimento essenziale in materia. La Raccomandazione (reiterata nel 2008 in piena crisi economica) in primo luogo invita tutti gli Stati ad introdurre questo istituto ed offre precisi paradigmi di ordine quantitativo e qualitativo per determinarne i contorni precisi. Sintetizzando le indicazioni delle due Raccomandazioni, delle due Risoluzioni del Parlamento europeo di cui parleremo più avanti ed i risultati complessivamente raggiunti in sede di metodo aperto di coordinamento: il RMG non può essere inferiore al 60% del reddito mediano da lavoro dipendente valutato per ciascuno Stato; oltre all’erogazione monetaria il beneficiario deve essere eventualmente sostenuto nelle spese per l’affitto ed aiutato con forme di tariffazione agevolata nell’accesso ai servizi pubblici essenziali (luce, gas etc.); infine anche per le spese impreviste ed eccezionali serve un aiuto pubblico in quanto il soggetto povero o a rischio di esclusione sociale si troverebbe nell’impossibilità di coprirle. Servizi sociali e servizi per l’impiego devono accompagnare le persone assistite in un percorso di reinserimento.
Due Risoluzioni del Parlamento europeo del 6.5.2009 e del 21.10.2010, relative proprio al tema dell’RMG, hanno ulteriormente chiarito i contenuti del diritto, con un richiamo stringente alle disposizioni della Carta UE. La prima delle Risoluzioni insiste in particolare sul rapporto tra reddito minimo e lotta all’esclusione sociale, sottolineando la possibile non coerenza tra l’individuazione da parte di organi pubblici di un percorso di reinserimento lavorativo e situazioni di acuto disagio sociale da trattare prioritariamente attraverso i servizi sociali e non a mezzo degli uffici di collocamento. La seconda, approvata quasi all’unanimità, ricorda che «la dignità è un principio fondante dell’Unione europea», e che si tratta di garantire ad ogni cittadino la «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica». Conseguentemente le misure concesse degli Stati devono essere «adeguate» e giustificate secondo indicatori «affidabili e pertinenti»; le politiche in corso di aggiustamento dei conti pubblici non possono pregiudicare il diritto in questione. Di qui l’invito alla Commissione e agli Stati membri «a esaminare in che modo i diversi modelli non condizionali e preclusivi della povertà per tutti, possano contribuire all’inclusione sociale, culturale e politica, tenuto conto in particolare del loro carattere non stigmatizzante». La Risoluzione insiste sulle fonti internazionali e su quelle dell’Unione che configurano l’RMG come un diritto sociale fondamentale: sembra così evidente che, alla luce della Risoluzione, sarebbero illegittime tutte le forme di erogazione del reddito che finiscano con il mortificare quella dignità essenziale della persona che con l’istituto si vuole invece salvaguardare come il condizionamento dell’aiuto previsto all’accettazione di lavori che non siano coerenti con il bagaglio professionale ed il curriculum di studio della persona o l’imposizione di controlli umilianti. Ma a spingere verso efficienti forme di RMG è stata anche l’esperienza del cosidetto «metodo aperto di coordinamento, MAC », il dialogo tra stati ed Unione attraverso la definizione di obiettivi comuni a lungo termine e lo scambio delle best practises in materia sociale. Nelle procedure del MAC sono state privilegiate le esperienze, soprattutto scandinave (ma non solo), che hanno compiuto il salto in un sistema di flexicurity nel quale la garanzia di un reddito minimo garantito (nella duplice forma della assicurazione per tutti dei mezzi necessari a un’esistenza libera e dignitosa e di sostegno al reddito tra un impiego e un altro) è uno dei pilastri del rinnovamento e dell’universalizzazione degli apparati del welfare state, accanto al diritto alla formazione permanente e continua e all’acceso a gratuiti ed efficaci servizi di collocamento. Nel dicembre 2007 si è poi avuta l’approvazione di alcuni principi comuni di flexicurity che contemplano il diritto a un reddito minimo sia nelle fasi di transizione da un'occupazione a un’altra sia per assicurare ai più bisognosi un'esistenza dignitosa. Da quella data le politiche dell’occupazione dei singoli Stati (che vengono coordinate a livello europeo) devono indicare in che modo rispettano i principi comuni e quali sono i percorsi che stanno seguendo per valorizzarli. I principi di flexicurity devono anche guidare l’Unione e i Paesi membri nel perseguire gli obiettivi della «Strategia 2020» che ha sostituito nel Giugno 2010 la vecchia Lisbon Agenda. Nella nuova strategia, ai vecchi targets, si è aggiunto un obiettivo inedito e concernente direttamente il tema in discorso della riduzione di almeno di 20 milioni a rischio di povertà o di esclusione sociale. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo il RMG diventa strumento essenziale essendo l’unica misura in grado di incidere direttamente ed in tempi brevi sul livelli di povertà e sul rischio di esclusione sociale. Certamente questi anni di crisi hanno condotto molti Stati ad accentuare i meccanismi di condizionamento della misura, ma nel complesso si deve sottolineare che la Commissione non ha mai richiesto ad alcun paese di rendere meno generose le prestazioni di RMG (anzi ha invitato costantemente Grecia ed Italia ad introdurre una misura del genere) e che neppure gli Stati in default come il Portogallo e l’Irlanda lo hanno fatto (anzi le hanno leggermente incrementate), il che testimonia il fortissimo radicamento nelle politiche sociali europee del principio di una tutela dei «minimi vitali».
Nessuna norma della nostra Costituzione prevede direttamente o indirettamente un RMG, posto che l’art. 38 al suo primo comma prevede «il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» per i soli inabili al lavoro ed il comma successivo assegna ai soli «lavoratori» «mezzi adeguati di vita in caso di …disoccupazione involontaria». Tuttavia, il riferimento in numerosi articoli della Carta al concetto di dignità della persona e di esistenza libera e dignitosa (come all’art. 36) ha condotto i commentatori a ritenere che una prestazione del genere sia non solo compatibile con l’impianto costituzionale, ma anche costituzionalmente necessaria, soprattutto in relazione alla condizioni occupazionali italiane (Tripolina, C., Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa., Torino, 2013). Già Costantino Mortati negli anni ‘50 vedeva nella garanzia dei «mezzi vitali» una forma di risarcimento per la mancata attuazione del diritto al lavoro di cui parla l’art. 4.
Dopo le conclusioni del Rapporto della Commissione Onofri voluta dal primo governo Prodi nel 1998, che aveva individuato un vistoso ritardo nel nostra paese nella lotta all’esclusione sociale ed una mancanza di universalità degli istituti del nostro welfare, si ebbe il primo tentativo di istituzione in Italia di una sorta di RMG (realizzato con il d.lgs. n. 18.6.1998, n. 237). In via sperimentale in alcune zone particolarmente disagiate della penisola fu avviato il nuovo istituto del reddito minimo di inserimento, prestazione di 390.000 lire per soggetti a rischio di esclusione sociale, misura poi accantonata dopo il cambio di maggioranza nel 2001. Una nuova misura, cupamente definita «reddito di ultima istanza», è stata poi annullata, prima ancora di decollare sul piano operativo, dalla sentenza della Corte costituzionale, 29.12.2004, n. 423.
Il cammino verso gli standard europei deve però salvaguardare la ripartizione di competenze tra Stato e Regioni conseguente alla riforma in senso federalista del nostro ordinamento costituzionale, che, attribuendo alle seconde la materia assistenziale, sembrerebbe lasciare allo Stato il compito di determinare «i livelli essenziali delle prestazioni» e, forse, anche i presupposti di ordine generale per la loro erogazione e per la loro revoca, riservando alle Regioni uno spazio importante per una più puntuale regolamentazione della materia e per il coordinamento con altre misure di promozione dell’inclusione sociale. La giurisprudenza della Corte costituzionale non offre, allo stato, indicazioni univoche anche se la sentenza, 11.1.2010, n. 10 sembra convalidare la tesi che lo Stato non può abdicare al compito di fissare il livello dei «minimi vitali». In tale decisione la Corte, sulla cd. social card, ha precisato che la stessa è mirata a «assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana … deve poter essere garantito su tutto il territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo».
In questi ultimi anni solo alcune Regioni hanno, in realtà, tentato di fronteggiare l’anomalia italiana cercando di offrirsi come terminale delle inascoltate guidelines dell’Unione europea, nel quadro quindi di una sussidiarietà verticale anche in materia sociale.
Dopo i tentativi – oggi revocati – della Campania e poi del Friuli Venezia Giulia (e una parziale sperimentazione della Lucania) è stata la Regione Lazio ad adottare la legge n. 4/ 2009 di «Istituzione di un reddito minimo garantito». Tale provvedimento (non abrogato ma non rifinanziato per il 2011) ha cercato di coniugare un sostegno monetario con forme di tariffazione sociale (seguendo le indicazioni della Carta di Nizza, richiamata nelle premesse della legge).
Il fulcro della legge della Regione Lazio risiede negli artt. 3 e 4 che prevedono a favore di disoccupati, inoccupati, lavoratori precari con un reddito personale imponibile non superiore a 8 mila euro nell’anno precedente la presentazione dell’istanza, l’erogazione di somme non superiori ai 7 mila euro annui (per i lavoratori precari in una misura che adegui quanto percepito sino alla soglia prima indicata). L’art. 6 indica, poi, alcune forme di sostegno come un contributo all’acquisto di libri scolastici o per l’affitto, la circolazione gratuita sui mezzi pubblici. Ai sensi dell’art. 6 si perde il diritto alla prestazione ove si rifiuti una proposta di impiego coerente con il salario precedentemente percepito, la professionalità acquisita, la formazione ricevuta e il riconoscimento delle competenze formali e informali in possesso del soggetto. Anche la provincia di Trento ha adottato una forma locale di RMG, ancora operante. Attualmente, sono pendenti in Parlamento numerose proposte di legge che si ispirano alla Carta di Nizza ed alle indicazioni sovranazionali che abbiamo prima sintetizzato.
Art. 34, co. 3, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 10 Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori; art. 30 Carta sociale europea.
AA.VV, La democrazia del reddito universale, Roma, 1997; Bin- Italia, a cura di, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Torino, 2012; Bin-Italia, a cura di, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’età globale, Roma, 2009; Bozzao, P., Reddito minimo e welfare multilivello: percorsi normativi e giurisprudenziali, in Dir. lav. rel. ind., 2011, 549 ss.; Bronzini, G., Il reddito minimo garantito nell’Unione europea: dalla Carta di Nizza alle politiche di attuazione, in Dir. lav. rel. ind., n. 11, 225 ss.; Bronzini, G., Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Torino, 2011; Bronzini, G. Il reddito di cittadinanza tra aspetti definitori ed esperienze applicative, in Riv. dir. sic. soc.,, 2014, 1 ss; Del Bò C., Un reddito per tutti. Un’introduzione al basic income, Pavia, 2004; Ferrajoli, L., Principia Juris, Teoria del diritto e della democrazia, Bari, 2007; Giubboni, S., Diritti e solidarietà in Europa, Bologna, 2012; Häberle P., Cultura dei diritti e diritti della cultura nello spazio costituzionale europeo, Milano, 2003; Mortati, C., Il lavoro nella costituzione, in Il Diritto del lavoro, 1954, 148 ss.; Rawls, J., Una teoria della giustizia, Milano 1982; Rodotà, S., Il diritto di avere dei diritti, Bari, 2012; Tripolina, C., Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa, Torino, 2013; Van Parijs, P.-Vanderborght, Y., Il reddito minimo universale, Milano, 2006.