Referendum Fiat e relazioni industriali
Dopo Cesare Romiti, la Fiat non aveva ancora trovato un leader capace quanto Sergio Marchionne di imporre la sua personalità e dare quindi la sua impronta alla gestione. Come con Vittorio Valletta (1883-1967) e poi con Romiti, anche oggi in testa all’agenda della Fiat sta il rapporto con il sindacato. Un rapporto duro, ricco di spigoli. Intendiamoci, sicuramente produrre auto capaci di convincere i consumatori è comunque nell’agenda di Marchionne, ma il conflitto interno è quello che indubbiamente colpisce di più.
Rispetto ai suoi predecessori, Marchionne è meno legato all’Italia, e questo è il segno principale del cambiamento che abbiamo osservato. Culturalmente e politicamente la Fiat oggi fa parte di un mondo più articolato, nel quale lo scambio politico con il governo italiano conta sempre meno. Questo vale per le relazioni industriali, ma si concretizza poi anche nella minaccia di trasferire il quartier generale. La Fiat è cambiata, e avremmo dovuto stupirci se questo non fosse successo: si sta semplicemente adattando a un mondo che muta a un ritmo molto superiore a quello al quale eravamo abituati. Ma non è solo adattamento. La Fiat di Marchionne cerca di svolgere un ruolo politico propositivo, sia rispetto alla relazione con il sindacato sia con riferimento alla rappresentanza degli imprenditori.
Una delle missioni che il primo ministro Margaret Thatcher assunse su di sé qualche decennio fa in Gran Bretagna fu quella di cancellare alcune tradizioni sindacali che a molti parevano non più sostenibili. Così facendo dovette affrontare lo sciopero dei minatori, ma vinse la sua battaglia. In Italia non abbiamo avuto – né, verosimilmente, mai avremo – un premier con quell’impostazione, ma abbiamo Marchionne. È la stessa cosa? Solo fino a un certo punto, perché di sicuro oggi in Italia si confrontano due posizioni molto radicali e distanti. Nelle contrattazioni su Pomigliano e Mirafiori, infatti,si sono toccati alcuni temi concreti (i meno rilevanti, a ben vedere) e questioni di principio, attorno alle quali lo scontro è stato forte.
La prima idea di Marchionne, che nella sua semplicità è dirompente nel rapporto con il sindacato, è che il contratto si fa con chi ci sta, ovvero che non si cerca l’accordo con tutti. La conseguenza è che a molti dipendenti Fiat viene offerto un contratto che non vogliono; unica alternativa, andarsene. Questo è il punto che la FIOM (Federazione impiegati operai metallurgici) fatica di più a digerire e sul quale, in un periodo di enormi tensioni sociali che trovano sfogo anche in atti di terrorismo, faremmo bene a riflettere tutti. Senza preconcetti, ma con molto realismo. Le relazioni industriali tradizionali erano concepite in modo da includere tutti o quasi. La logica del prendere o lasciare, no. La seconda idea, ugualmente semplice, è che il contratto si fa in azienda, non tra associazioni di categoria. Questo è più efficiente per l’azienda, che avrà un contratto maggiormente legato ai problemi effettivi del suo contesto produttivo, ma rende quasi inutili organismi quali la Confindustria e i sindacati nazionali. Non a caso, le organizzazioni centrali delle due parti nicchiano rispetto a questa prospettiva. Soprattutto le organizzazioni sindacali temono di perdere peso, in un sistema economico dove la stragrande maggioranza delle imprese ha meno di dieci addetti, e verosimilmente nessun sindacalista. Senza contratti nazionali, il sindacato rischia di essere marginalizzato, ma anche la pesante burocrazia confindustriale sarebbe da smantellare.
La posizione di Marchionne appare allora in tutta la sua pacata radicalità. È pacata nei modi, ma nella sostanza richiede un cambiamento profondo nel modo di concepire le relazioni industriali.
È un cambiamento forse necessario per mantenersi a galla nella concorrenza con paesi che questa maturazione l’hanno compiuta da tempo, ma – come tutti i cambiamenti – non sarà indolore.
E, si noti, mentre Marchionne legittimamente ha considerato questa una trattativa tra un privato e i sindacati, su di essa si decide il futuro anche di altri settori, il che trasforma l’intera vicenda in un fatto politico molto rilevante, di fronte al quale la nostra classe politica, con poco coraggio e meno idee, in parte si è nascosta in silenzio dietro l’amministratore della Fiat e in parte ha usato l’occasione per contarsi.
Le delusioni non finiscono più.
La Fiat entra in Chrysler
L’alleanza strategica tra Fiat e Chrysler è cominciata con l’acquisizione da parte della casa torinese del 20% delle azioni dell’azienda di Detroit, effettuata nel 2009 in cambio della fornitura di tecnologie per costruire veicoli più piccoli ed efficienti di quelli tradizionalmente prodotti dalla Chrysler. All’epoca, quest’ultima era sull’orlo della bancarotta e indebitata col governo federale americano; man mano che i prestiti ricevuti sono stati ripagati, la quota di azioni Chrysler detenuta dal gruppo Fiat è cresciuta e a luglio 2011 superava il 53%. La Fiat è infatti entrata in possesso di pacchetti azionari acquisiti dal governo degli Stati Uniti e da quest’ultimo rivenduti all’azienda italiana man mano che la situazione della Chrysler migliorava. L’alleanza tra i due gruppi ha ricondotto sul mercato statunitense la Fiat, assente dal 1984, e ha portato allo sviluppo in joint venture di modelli che saranno commercializzati sotto marchi diversi in Europa e negli Stati Uniti.
I precedenti da Valletta a Romiti
I recenti contrasti tra azienda e sindacati hanno precedenti nell’ormai secolare storia della Fiat, in particolare per quanto riguarda i rapporti tra quest’ultima e la FIOM-CGIL. Negli anni Cinquanta Vittorio Valletta tentò di indebolire l’influenza di quest’ultima nelle fabbriche giocando sulla contrapposizione, all’epoca fortemente connotata anche in senso politico, con la CISL e la UIL: una strategia che non escluse l’impiego di mezzi discutibili ma si risolse nella disastrosa sconfitta della FIOM alle elezioni delle commissioni interne nel marzo 1955.
Più di recente, nel settembre 1980, l’annuncio di migliaia di licenziamenti portò i sindacati a minacciare l’occupazione delle fabbriche (com’era accaduto durante il ‘biennio rosso’ nel primo dopoguerra) con l’appoggio politico del Partito comunista italiano e del suo segretario Enrico Berlinguer (1922-1984). Anche in quell’occasione il risultato finale fu una dura sconfitta, propiziata dalla cosiddetta ‘marcia dei quarantamila’ e seguita da una ristrutturazione aziendale di notevole portata, sotto la guida di Romiti.
Il verdetto della magistratura
Il 16 luglio 2011, il giudice del lavoro di Torino ha respinto il ricorso della FIOM contro l’accordo stipulato per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco e ha quindi sancito la legittimità di quest’ultimo. Al tempo stesso ha giudicato la Fiat colpevole di comportamento antisindacale perché la sua condotta ha de facto estromesso la FIOM dallo stabilimento stesso, e ha riconosciuto a quest’ultima il diritto a riottenere i diritti relativi all’agibilità sindacale, quindi ad avere propri rappresentanti, la possibilità di indire assemblee, nonché l’uso della bacheca e dei locali sindacali. Nondimeno, tutte le richieste contrattuali della FIOM stessa sono state respinte, e sono state quindi legittimate le deroghe al contratto collettivo nazionale del lavoro inserite per migliorare la competitività dello stabilimento campano e accettate dalle altre organizzazioni sindacali.
Fiat esce da Confindustria
Sergio Marchionne, con una lettera inviata il 30 settembre 2011 al presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, comunica l’uscita di Fiat da Confindustria a partire dal 1° gennaio 2012. Le motivazioni di tale decisione puntano il dito sull’accordo del 21 settembre 2011 tra CGIL, CISL e UIL e Confindustria, accordo che, secondo le parole di Marchionne, «ha fortemente ridimensionato le aspettative sull'efficacia dell'articolo 8», col rischio «di snaturare l'impianto previsto dalla nuova legge e di limitare fortemente la flessibilità gestionale». L’articolo 8 cui fa riferimento l’amministratore delegato di Fiat è quello della cosiddetta manovra di Ferragosto, che prevedeva, in sede di contrattazione aziendale e territoriale, la possibilità di derogare alle leggi in materia di lavoro, e dunque anche alle tutele dell’art. 18 sui licenziamenti. Pronta è stata comunque la difesa di Emma Marcegaglia sulle scelte di Confindustria, la cui forza, ha ribadito, non viene indebolita dall’uscita di Fiat.
I libri
Valerio Castronovo, Fiat: una storia del capitalismo italiano: 1899-2005, 2005
Pietro Ichino, Il diritto del lavoro nell’Italia republicana, 2008
Donatello Garcea, I rapporti di lavoro speciali (con CD-rom), 2010
Marco Ferrante, Marchionne. Rivoluzione Fiat, 2011