REFERENDUM
(XXVIII, p. 976; App. II, II, p. 674; App. IV, III, p. 185)
Successivamente alla tardiva legge di attuazione della disciplina costituzionale dei r. popolari (l. 25 maggio 1970 n. 352) e alle prime esperienze di r. abrogativi svoltisi rispettivamente nel 1974 (soltanto sulla legge disciplinante i casi di scioglimento del matrimonio, cioè il cosiddetto ''divorzio''), nel 1978 (sulla legge disciplinante il finanziamento dei partiti politici e su una legge a tutela dell'ordine pubblico), e nel 1981 (ben cinque consultazioni, di cui due concernenti l'interruzione volontaria della gravidanza, e le altre tre il porto d'armi, l'ergastolo e un'altra legge a tutela dell'ordine pubblico), il r. abrogativo, dopo un breve periodo di pausa, è divenuto elemento sempre più presente nella vita politica e istituzionale italiana, ove si è assistito allo svolgimento praticamente quasi periodico delle consultazioni referendarie; in particolare, si sono effettuati un r. nel 1985, sei nel 1987, tre nel 1990, uno nel 1991, e ben otto nel 1993.
Le altre forme di r. popolari previsti dalla Costituzione o non hanno ancora trovato concreta applicazione (e ciò è avvenuto per il r. sulle leggi costituzionali e di revisione della Costituzione), oppure hanno avuto un'attuazione molto limitata (per il r. sulle leggi e i provvedimenti delle regioni, e per i r. sulle modifiche territoriali delle regioni, province e comuni); in quest'ultimo caso, comunque, trattasi di forme di r. di per sé dotate di scarsa incidenza sull'operato dei corrispondenti livelli di governo. Talune regioni hanno tentato d'indire r. consultivi su questioni d'interesse nazionale − quali, per es., la difesa e la politica estera, oppure la stessa forma dello stato −, ma siffatti tentativi, impugnati dal governo in sede di conflitto di attribuzioni, sono stati correttamente respinti dalla Corte Costituzionale (v. per es. le sentenze n. 256 del 1989 e n. 470 del 1992).
D'altro canto la nuova legge sulle autonomie locali (l. 8 giugno 1990 n. 142) ha introdotto l'attesa disciplina generale sui r. nell'ambito dei comuni e delle province, disponendo che tali r. possono essere facoltativamente previsti nei rispettivi statuti, rispettando le seguenti condizioni: devono avere il solo effetto giuridico consultivo, ovvero il corpo votante può essere chiamato soltanto a esprimere un parere su una determinata questione, ma non a decidere direttamente su di essa; devono riguardare atti di competenza degli enti locali; possono indirsi anche su richiesta popolare; e infine non devono svolgersi in coincidenza con altre operazioni di voto.
Va inoltre ricordato l'atipico r. d'indirizzo europeo, introdotto in via eccezionale dalla l. cost. 3 aprile 1989 n. 2 (cui si è data attuazione con la l. 18 aprile 1989 n. 123), mediante il quale è stato chiesto al corpo votante di esprimersi sul conferimento di un ''mandato costituente'' al Parlamento europeo, al fine di redigere un progetto di Costituzione europea (da sottoporre direttamente alla ratifica da parte degli organi competenti degli stati membri) per creare una vera e propria ''unione'' dotata di un governo responsabile di fronte al Parlamento medesimo. Non possono qui specificarsi i tanti aspetti problematici sollevati da questa consultazione, che sembra distaccarsi dalla configurazione costituzionale dello strumento referendario, e che, secondo l'opinione di una parte della dottrina, avrebbe assunto il carattere di un precedente pericolosamente plebiscitario. Del resto, il pur favorevolissimo esito positivo della consultazione atipica eccezionalmente indetta (con una percentuale dell'88,1 di voti validi favorevoli) non ha sinora lasciato tracce consistenti né nell'effettiva evoluzione delle strutture giuridiche comunitarie, né, sembra, nella memoria del popolo italiano.
Ben altra è invece la recente storia del r. abrogativo: le richieste referendarie hanno infatti influito incisivamente sia sul concreto esercizio dell'indirizzo politico da parte del governo e del Parlamento, sia sulla compattezza e stabilità delle maggioranze parlamentari.
Si può ricordare, per es., che lo scioglimento anticipato delle Camere nel 1987 è stato probabilmente determinato anche dall'incerta posizione assunta dalle forze partitiche, e in particolare da quelle allora componenti la maggioranza di governo, circa i cinque quesiti referendari proposti. Per di più, la stretta connessione tra le predette richieste di r. e l'intricata situazione politica connessa allo scioglimento anticipato, è testimoniata dalla l. 7 agosto 1987 n. 332, approvata subito dopo l'inizio della nuova legislatura: tale legge derogava a quanto disposto in via generale dalla l. 352 del 1970, consentendo sia lo svolgimento dei predetti r. nel novembre dello stesso 1987 − anziché nella primavera dell'anno successivo, come sarebbe avvenuto sulla base del disposto della l. 352 del 1970 −, sia la facoltà di ritardare di ulteriori sessanta giorni (rispetto ai sessanta normalmente previsti dalla legge adesso citata) gli effetti delle eventuali abrogazioni che ne fossero conseguiti.
Più in generale, il r. abrogativo ha acquistato una rilevante carica innovativa nei confronti dell'ordinamento dello stato nel suo complesso. Ciò è stato presumibilmente determinato in primo luogo dal fatto che l'intero corpo votante ha avuto la possibilità di esprimere direttamente la propria volontà deliberativa su fondamentali questioni concernenti i comportamenti individuali (come, per es., l'interruzione volontaria della gravidanza) e lo stesso assetto dei pubblici poteri (quali, nelle consultazioni del 1991 e 1993, le leggi elettorali), e che quindi ben a ragione possono considerarsi ''materialmente'' costituzionali. In secondo luogo, contrariamente a quanto risulterebbe dal dettato costituzionale, il r. abrogativo di leggi o di atti aventi forza di legge dello stato si è dimostrato concretamente capace d'intervenire su principi direttamente introdotti nella Costituzione e comunque di superare nella sostanza i limiti costituzionalmente prefissati a tale forma di democrazia diretta. In sintesi, sebbene parte della dottrina ne sottolinei opportunamente i rischi, ricordando, tra l'altro, che secondo l'art. 1 della Costituzione la sovranità popolare dev'essere sempre esercitata "nei limiti e nelle forme della Costituzione", il r. abrogativo ha talvolta acquistato un certo plusvalore non solo rispetto alla posizione che il r., per la Costituzione, dovrebbe avere nel sistema delle fonti di diritto, ma anche nei confronti della volontà autoritativa espressa dagli organi statuali rappresentativi − governo e Parlamento − costituzionalmente contitolari dell'indirizzo politico nazionale.
A testimonianza di ciò, si ricordi che, in seguito all'esito positivo del r. abrogativo del 1987 − formalmente relativo alla cosiddetta ''Commissione inquirente'' spesso accusata di ostacolare le indagini concernenti i presunti illeciti dei ministri, ma in realtà rivolto a condannare il ''privilegio'' rappresentato dalla giustizia politica prevista dalla Costituzione nei confronti dei ministri −, il Parlamento si è sentito in obbligo di approvare la l. cost. 16 gennaio 1989 n. 1, e di modificare quindi gli artt. 89 e 134 della Costituzione nell'intera parte relativa ai procedimenti d'accusa per i reati ministeriali, sottraendo la relativa competenza alla Corte Costituzionale e attribuendola alla giurisdizione ordinaria, previa la sola autorizzazione di una delle due Camere. Oppure, in seguito all'esito positivo del r. del 1987, formalmente vertente su talune limitatissime disposizioni concernenti la politica energetica nucleare, ma sostanzialmente relativo alla ''scelta nucleare'' dell'intera nazione, si è giunti a bloccare nei fatti l'intero programma di produzione e di sviluppo dell'energia nucleare cui si era pattiziamente vincolati in sede comunitaria, scavalcando pertanto il limite costituzionale dell'inabrogabilità con r. delle leggi di autorizzazione dei trattati internazionali (v. art. 75 della Costituzione).
Il r. abrogativo ha visto cioè prodursi un'intricata intersezione tra effetti meramente giuridico-formali dell'abrogazione legislativa strettamente conseguente all'esito del voto popolare, ed effetti più latamente politico-istituzionali provenienti della volontà popolare genericamente espressa sul quesito ''implicito'', spesso sottostante a quello formalmente sottoposto ai votanti. La distinzione tra il quesito esplicito e quello implicito − che, pur soltanto latente, è risultato produrre conseguenze ben più rilevanti − è del resto conseguente all'evoluzione che ha caratterizzato la giurisprudenza della Corte Costituzionale in sede di giudizio preventivo di ammissibilità delle richieste di referendum. In particolare, in primo luogo sono stati ammessi, pur mostrandosi contraria − forse a ragione − una parte della dottrina, i r. ''manipolativi'', quelli cioè non meramente abrogativi di tutta o di un'intera parte della legge, ma aventi per oggetto singole porzioni o frazioni delle disposizioni contenute in una legge, in modo che, in seguito all'avvenuta abrogazione di questi ''frammenti'' normativi, il testo legislativo risulti non tanto mutilato, quanto ''manipolato'', vale a dire produttivo di altre norme, diverse da quelle preesistenti. In secondo luogo l'elaborazione giurisprudenziale ha dato origine a una serie di ragioni costituzionali d'inammissibilità, ulteriori e diverse rispetto ai limiti esplicitamente posti dall'art. 75 della Costituzione, il quale, com'è noto, fa esclusivo riferimento alle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e d'indulto, e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali. La Corte Costituzionale ha dedotto le nuove e ulteriori ragioni d'inammissibilità dall'intero dettato costituzionale, e in specie dai principi di libertà di voto, di sovranità del popolo e di rigidità della Costituzione (cioè immodificabilità di quest'ultima con legge ordinaria o atto equiparato); si tratta, più dettagliatamente, delle ragioni d'inammissibilità connesse all'omogeneità e chiarezza del quesito, alle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, alle leggi a forza passiva rinforzata, e alle leggi produttive di effetti strettamente collegati all'ambito di operatività delle leggi espressamente vietate dall'art. 75 della Costituzione.
Sebbene nella maggior parte dei casi l'introduzione dei predetti limiti ulteriori sia apparsa necessaria al fine di contemperare l'istituto del r. con la tutela di fondamentali principi costituzionali, secondo il giudizio pressoché unanime della dottrina l'interpretazione offertane dalla Corte Costituzionale nel corso degli anni non è stata sempre caratterizzata dalle indispensabili linearità e uniformità. Per di più, la stessa incertezza circa l'esatta demarcazione dei limiti di ammissibilità per i r. ha contribuito ad accentuare la sofisticazione della tecnica di elaborazione dei quesiti referendari, al fine di escogitare formulazioni che formalmente potessero superare il vaglio della Corte Costituzionale, ma sostanzialmente atte a superare taluni limiti costituzionalmente prescritti o deducibili, oppure, addirittura, capaci di attribuire al r. in oggetto una funzione più propositiva che abrogativa. Il giudizio preventivo di ammissibilità esercitato dalla Corte Costituzionale si è pertanto sovraccaricato di molteplici significati, divenendo anzi sempre più difficile non solo la ricostruzione sistematica delle singole ''ragioni'' costituzionali addotte a favore o contro l'ammissibilità delle richieste di r., ma soprattutto la loro prevedibilità da parte degli stessi promotori dei referendum.
Spesso altre difficoltà derivano dal sovrapporsi, successivamente alla presentazione delle richieste di r., di modifiche legislative tendenti a impedire il voto popolare mediante la preventiva abrogazione e sostituzione della legge sulla quale si è chiesto il referendum. In base alla sent. n. 68 del 1978 della Corte Costituzionale, spetta all'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione verificare se la nuova legge approvata per sostituire quella soggetta a richiesta di r. ne abbia effettivamente modificato "i principi ispiratori complessivi o i contenuti normativi essenziali", perché, in caso contrario, proprio per evitare un'abrogazione meramente apparente e sostanzialmente fraudolenta, il r. si svolgerà egualmente sulla nuova legge. Ma, forse a causa dell'ampia discrezionalità di cui gode l'Ufficio centrale per il referendum, anche siffatto controllo preventivo è apparso talvolta privo della necessaria uniformità di giudizio, provocando in qualche occasione critiche non del tutto infondate.
I r. ''elettorali'', in particolar modo, rappresentano il naturale punto di arrivo dell'evoluzione adesso sintetizzata: trattasi di due r. svoltisi il primo nel 1991 e il secondo nel 1993, che hanno avuto per oggetto rispettivamente le leggi elettorali della Camera dei deputati (per la limitazione del voto di preferenza) e del Senato della Repubblica (per l'instaurazione di un sistema prevalentemente maggioritario a un turno unico). Ammessi dalla Corte Costituzionale dopo un primo giudizio parzialmente sfavorevole (v. sent. n. 47 del 1991, che ammise il solo r. riguardante la Camera dei deputati, e la successiva sent. n. 32 del 1993, che ha dichiarato ammissibile una nuova formulazione del quesito relativo al Senato), i predetti r. hanno contribuito decisamente sia alla successiva approvazione parlamentare delle nuove leggi elettorali (l. 276 e 277 del 4 agosto 1993) − da tanti auspicate, ma ben difficilmente realizzabili senza l'impulso referendario −, sia soprattutto alla destrutturazione dell'assetto partitico da lungo tempo consolidato e correlativamente all'avvio di una fase di transizione sia politica che ordinamentale ancora in corso.
Anche un r. sulle leggi elettorali dei comuni e delle province era stato richiesto al fine di abrogare il sistema proporzionale e di estendere l'applicazione di quello maggioritario, precedentemente previsto, soltanto per i piccoli comuni; questa richiesta, dopo essere stata una prima volta respinta dalla Corte Costituzionale nel 1991 (v. sempre sent. n. 47 del 1991), è stata dichiarata ammissibile nella nuova formulazione presentata nel 1993 (sent. n. 33 del 1993); non si è però giunti al voto popolare, in quanto il r. ha trovato preventiva accoglienza nella nuova legge elettorale sui comuni e province (l. 182 del 7 giugno 1991), che ha introdotto anche l'elezione diretta del sindaco.
I predetti r. ''elettorali'', tipicamente ''manipolativi'' − secondo quanto sopra spiegato − e caratterizzati da un quesito implicito rivolto al generale rinnovamento della classe politica, hanno riscosso un così largo consenso popolare da produrre effetti ben superiori a quelli strettamente conseguenti alle abrogazioni legislative specificamente richieste. Infatti da un lato il r. sulla legge elettorale della Camera ha spezzato i tradizionali sistemi di formazione del consenso elettorale (incidendo sulle relative prassi di reperimento dei finanziamenti da parte dei candidati che sollecitavano congiuntamente il voto di preferenza), dall'altro lato il r. sulla legge elettorale del Senato − che ha abolito la prescritta necessità di raggiungere il quorum del 65% dei voti validi per far scattare il meccanismo del metodo maggioritario nel 75% dei collegi − ha determinato l'esigenza di modificare in senso prevalentemente maggioritario le modalità di elezione di tutte e due le Camere. Queste, infatti, in precedenza risultavano elette sulla base di sistemi elettorali proporzionali, parzialmente diversi ma dai risultati sostanzialmente simili.
Si deve del resto tener conto del fatto che, in assenza di altre e ben più strutturali innovazioni dell'ordinamento costituzionale (che incidessero, per es., sull'attuale bicameralismo perfetto, oppure che tendessero a creare una ''Camera delle regioni'' o addirittura a instaurare una forma di governo diversa da quella attualmente vigente), alla modifica in senso maggioritario del sistema elettorale di una delle due Assemblee non poteva non seguire quella sostanzialmente corrispondente dell'altro ramo del Parlamento: infatti una netta differenziazione tra i metodi di selezione dell'una e dell'altra Camera avrebbe comportato l'inevitabile conseguenza di render ancor più difficoltosa la creazione di un'omogenea maggioranza in entrambe le Assemblee.
Va aggiunto che l'esito positivo del r. abrogativo del 1993 (relativo al sistema elettorale del Senato della Repubblica) è stato espressamente richiamato dal presidente della Repubblica, O.L. Scalfaro, quale prima motivazione dello scioglimento anticipato − decretato il 16 gennaio 1994 − delle Camere elette nell'aprile del 1992. Scalfaro ha anche messo in risalto altre due considerazioni, cioè: da un lato l'esaurirsi dei compiti che la maggioranza parlamentare aveva attribuito al momento della concessione della fiducia al governo presieduto da C.A. Ciampi − rimasto comunque in carica −, e dall'altro lato gli effetti complessivamente negativi dovuti all'esplodere dello scandalo che, collegato ai finanziamenti illegali ai partiti e al fenomeno delle ''tangenti'', aveva colpito una non piccola parte della rappresentanza parlamentare. Si è quindi accolta, seppure forse accentuandone i toni, la tesi di una parte della dottrina (C. Mortati) secondo cui l'esito del r. abrogativo sarebbe uno dei presupposti valutabili dal capo dello Stato per procedere allo scioglimento anticipato delle Camere.
Non può del resto non riconoscersi l'assoluta eccezionalità della forza dirompente che il predetto r. abrogativo ha dimostrato nei confronti del rapporto di rappresentanza esistente tra il popolo e il Parlamento, dato che − in ossequio ai classici principi della democrazia rappresentativa e quindi non plebiscitaria ma soltanto corretta e rafforzata dagli strumenti di democrazia diretta − il rapporto di rappresentanza politica tra corpo elettorale e Parlamento deve trovare sanzione e verifica per esclusivo tramite del voto elettorale. In caso contrario, se si attribuisse al r. l'idoneità a incidere ordinariamente sul predetto rapporto, il r. abrogativo assumerebbe quel ruolo che gli è stato espressamente precluso dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 16 del 1978, vale a dire il carattere di "distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto o sostenuto le iniziative referendarie". In questo quadro, possono ricordarsi le critiche sollevate da una parte della dottrina nei confronti di taluni aspetti delle proposte contenute nel messaggio sulle riforme istituzionali, inviato precedentemente alle Camere (il 26 giugno 1991) dal presidente della Repubblica F. Cossiga, e incentrato sul necessario ricorso al r. (non abrogativo, ma presumibilmente, stavolta, approvativo o d'indirizzo) quale strumento per sottoporre un'eventuale decisione costituente al popolo, inteso quale ''sovrano reale'' in contrapposizione − sin troppo radicale − al ''sovrano legale'', cioè agli organi rappresentativi elettivamente selezionati.
Infine si ricordi che lo scioglimento anticipato delle Camere nel 1994, ''ufficialmente'' provocato dall'esito del r. del 1993, ha prodotto un'ulteriore ed eccezionale conseguenza ''derogativa'': è stato infatti emanato il D.L. 19 gennaio 1994 n. 41 (successivamente convertito in legge), che consente di prorogare di alcuni giorni i termini previsti dalla l. 352 del 1970 per la raccolta e il deposito delle sottoscrizioni necessarie per le richieste popolari di r. in corso di svolgimento alla data dello scioglimento anticipato. Il citato D.L., se da un lato concerne un'ipotesi non espressamente contemplata dalla l. 352 del 1970, dall'altro lato interviene nei procedimenti referendari già in corso, alterando le ''regole del gioco'' stabilite in via generale dalla legge di attuazione della Costituzione (si ricordi che nel giugno 1980 un decreto-legge modificante la disciplina dei r. abrogativi in corso di svolgimento fu rinviato dall'allora presidente della Repubblica A. Pertini al governo, che decise di non ripresentarlo), stabilendo nel caso in questione un privilegio precedentemente mai concesso.
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Lo svolgimento dei referendum in Italia (1974-1993). - Delle tre ipotesi referendarie previste dalla Costituzione, la prima, cioè quella riguardante l'abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente valore di legge (art. 75 Cost.), ha avuto rispetto alle altre maggiore applicazione. A partire dagli anni Settanta, infatti, sono stati successivamente proposti numerosi r. abrogativi (dei quali 37 sono stati dichiarati ammissibili, 22 inammissibili e 26 hanno avuto corso). Il primo, richiesto il 19 giugno 1971 per l'abrogazione della l. 1° dicembre 1979 n. 898 introduttiva del divorzio, accolto dall'Ufficio centrale per il referendum e dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale, venne indetto ma non poté essere effettuato per lo scioglimento anticipato delle Camere. Con la legge sul divorzio le forze politiche avevano dovuto accettare l'utilizzazione dello strumento referendario verso il quale non erano mancate diffidenze. Il r. venne nuovamente indetto per il 12 maggio 1974 e diede esito negativo, sancendo il mantenimento della legge che aveva introdotto il divorzio nel nostro ordinamento e segnando nella storia dei r. un dato che non sarà mai più raggiunto: l'elevata affluenza ai seggi degli elettori chiamati per la prima volta nel nostro paese a esprimere un voto di opinione.
Esito negativo ebbero anche altri due r., richiesti dal Partito radicale in un pacchetto contenente altre ipotesi abrogative (Commissione inquirente, Concordato, 97 articoli del codice penale, legge sui manicomi, codici militari, ordinamento giudiziario militare, aborto, non ammessi dalla Corte Costituzionale) ed effettuati nel 1978: quelli sull'abrogazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti (l. 2 maggio 1974 n. 195) e sull'abrogazione della cosiddetta ''legge Reale'' (l. 22 maggio 1975 n. 152) riguardante la tutela dell'ordine pubblico.
Nel 1981 altri cinque r., richiesti sempre dai radicali in un pacchetto più ampio (comprendente la cosiddetta ''legge Cossiga'' sull'ordine pubblico, reati di opinione, riunione e associazione, ergastolo, caccia, porto d'armi, tribunali militari, liberalizzazione delle droghe leggere, centrali nucleari, smilitarizzazione della Guardia di finanza, più tre per la liberalizzazione di alcune norme della legge sull'aborto cui si sono affiancate le due iniziative referendarie avanzate, con finalità opposte, dai cattolici del Movimento per la vita), diedero esito negativo: due relativi all'aborto e quelli riguardanti l'ordine pubblico, l'ergastolo e il porto d'armi. Con le consultazioni popolari del 1981 è finita la stagione dei r. promossi quasi esclusivamente dal Partito radicale e concepiti come strumento di lotta contro la politica del consociativismo partitico (DC-PCI).
Nel 1985, quando il r. venne nuovamente proposto agli elettori, il clima politico era profondamente mutato: il governo Craxi era impegnato a fronteggiare una pesante crisi economica, che cercava di tamponare con il congelamento degli scatti della scala mobile e con il raffreddamento, quindi, del costo del lavoro. Dopo l'opposizione delle parti sociali e l'ostruzionismo parlamentare da parte comunista, il D.L. del 15 febbraio 1984 n. 10 contenente tale manovra non venne convertito in legge; qualche mese più tardi venne emanato un nuovo decreto legge e il PCI, che pure aveva sempre osteggiato l'utilizzazione del r. e le iniziative referendarie dei radicali, chiese che il provvedimento su cui si era appena espressa la maggioranza del Parlamento fosse sottoposto al giudizio degli elettori. Ammesso dalla Corte Costituzionale, il r. abrogativo dell'art. 3 del D.L. 17 aprile 1984 n. 70 (poi l. 12 giugno 1984 n. 219), riguardante la determinazione dei punti di variazione trimestrale della contingenza per lo stesso anno, venne effettuato il 9 giugno 1985 e diede esito negativo.
Nel marzo 1986 i radicali insieme con i liberali, a cui poi si sono aggiunti i socialisti, hanno promosso tre r. sulla responsabilità civile dei magistrati (problema che ha trovato larga eco nella vicenda giudiziaria del presentatore televisivo E. Tortora), sulla Commissione inquirente e sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. A questi r. si sono affiancati qualche mese più tardi tre r. antinucleari e due r. sulla caccia promossi da Verdi, DP, ARCI, FGCI e Sinistra indipendente. Di queste otto richieste di r. la Corte Costituzionale ha ammesso soltanto quelle sulla giustizia e sul nucleare. Sciolte nel frattempo anticipatamente le Camere, la nuova legislatura ha fissato per l'8 e il 9 novembre 1987 le consultazioni per i cinque r. ammessi, consentendone lo svolgimento anticipato con un'apposita legge (l. 7 agosto 1987 n. 332) che ha modificato per siffatta circostanza quella ordinaria.
Intorno al r. sulla giustizia si è aperto un vivace dibattito dal momento che per la prima volta si trattava di un voto avente per oggetto l'ordinamento di una categoria professionale, quella dei magistrati, e che ad alcuni sembrava alterare l'indipendenza di una categoria tutelata e garantita dalla Costituzione. E proprio su questo punto si è delineato uno scontro tra potere giudiziario e potere politico in nome di quella che i promotori del r. hanno definito una campagna ''per una giustizia giusta''. Nella probabilità di un esito vittorioso del fronte ''antimagistratura'' si sono avvicinati ai promotori del r. anche la DC e il PCI, mentre il fronte del ''No'' guidato dai repubblicani è stato caratterizzato dalla presenza di intellettuali di area cattolica o comunista che hanno invitato gli elettori all'astensione dal voto.
Il risultato di questo r., che ha determinato l'abrogazione della disciplina fino allora applicata, che rendeva i giudici non responsabili anche in caso di risarcimento in sede civile dei danni, ha comportato, come peraltro quello degli altri due r. (abolizione della possibilità per i ministri di essere prosciolti, senza processo, da un voto del Parlamento e prosecuzione o meno dei piani di produzione di energia nucleare), l'intervento delle Assemblee legislative.
Il 3 giugno 1990 si sono tenuti con esito negativo i tre r. sulla caccia e sui pesticidi sostenuti in modo assai blando da PSI, PCI e DP e avversati da un forte partito degli astensionisti (cacciatori, agricoltori e imprenditori agricoli): l'affluenza alle urne degli elettori ha toccato il minimo storico e la barriera del 50,1% necessaria per la validità del r. a livello nazionale non è stata raggiunta. A parte la stanchezza, il disinteresse, la sfiducia che gli elettori hanno dimostrato in questo caso nei confronti dello strumento referendario, anche forse per un suo uso troppo frequente, il fallimento di questi r. ha segnato la prima sconfitta elettorale dei Verdi dopo il largo favore ottenuto successivamente al disastro di Černobyl, mentre la politica ecologista di PSI e PCI è stata frenata dall'alto numero di elettori praticanti la caccia e che hanno fatto dell'astensionismo la loro arma di ricatto.
Di fronte alla sconfitta referendaria del giugno 1990 le forze politiche si sono interrogate sull'effettiva efficacia del principale strumento di democrazia diretta che la Costituzione prevede. Il r. viene però richiamato a nuova vita grazie all'iniziativa del COREL (Comitato per la Riforma Elettorale), guidato da M. Segni e composto da ''trasversali'' provenienti da aree diverse (DC, Rifondazione comunista, PSDI, ACLI, Verdi, liberali, MSI, ecc.), che ha proposto tre r. in materia elettorale, dei quali soltanto uno è stato ammesso (quello sul sistema elettorale della Camera che prevede la riduzione delle preferenze a una, mentre quelli sulla modificazione della legge elettorale del Senato con l'introduzione del sistema maggioritario al posto di quello proporzionale e sull'estensione del sistema maggioritario ai comuni con più di cinquemila abitanti sono stati respinti).
Ha preso così avvio la prima di quelle riforme istituzionali che, pur da anni e da più parti auspicate, il cosiddetto ''consociativismo'' partitico non aveva realizzato: dalla riforma promessa e mai varata dai partiti si è passati, quindi, alla riforma attribuita alla volontà dei cittadini, di cui Segni ha ben percepito l'alto valore simbolico.
In prossimità delle votazioni il sistema dei partiti tradizionali con in testa il leader socialista B. Craxi ha cercato di reagire al pericolo referendario con l'invito all'astensionismo, mentre il fronte dei riformatori ha registrato diverse defezioni. Malgrado ciò la risposta degli elettori è stata netta e precisa: a differenza della precedente consultazione referendaria l'affluenza alle urne è risalita in modo massiccio e il quorum richiesto per la validità del voto è stato superato abbondantemente. Di fronte a questo risultato i partiti hanno compreso la necessità di varare in tempi brevissimi una nuova legge elettorale che permettesse di evitare una nuova consultazione referendaria, la quale avrebbe avuto effetti destabilizzanti sull'intero sistema; e tramite la Commissione Bicamerale hanno formulato diverse proposte. Nella confusione e nell'incertezza dominanti sono stati proposti da Segni, dai radicali e da altre formazioni (Comitato per le riforme democratiche, detto ''Comitato Giannini'', e Amici della Terra) tredici nuovi r. (di questi alcuni non hanno avuto corso: quello sull'abolizione dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno e quello sull'abolizione della legge sul trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative dello stato, perché risolti da interventi legislativi − rispettivamente: decreto legisl. 3 aprile 1993 n. 96 e l. 25 marzo 1993 n. 81 −; quelli proposti da alcuni consigli regionali sull'abolizione dei ministeri della Sanità e dell'Industria e Commercio, sulla modifica delle norme in materia di elezioni e di nomine presso le regioni e gli enti locali, perché dichiarati inammissibili).
Il 18 aprile 1993 otto quesiti referendari vengono proposti agli elettori: abrogazione della legge antidroga (modificazione della legge Jervolino-Vassalli per abolire: le sanzioni penali per il tossicodipendente; il concetto di dose media e l'obbligo per i medici di segnalare chi usa droga. Viene così liberalizzato l'uso della droga ma rimangono le sanzioni amministrative); abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti in vigore dal 1974 (salvo i contributi elettorali, senza modificare le sanzioni penali per la violazione a questa legge); abolizione del potere di nomina da parte del ministro del Tesoro dei vertici bancari; sottrazione alle USL della tutela dell'ambiente (con la conseguente creazione di agenzie ad hoc); abolizione del ministero delle Partecipazioni Statali (che gestisce i grandi colossi di stato, cioè ENI, IRI, EFIM, perché pur nel varo delle privatizzazioni il ministero non è stato ancora soppresso); abolizione del ministero dell'Agricoltura e Foreste (proposto da cinque consigli regionali per l'attribuzione della gestione di questo settore dell'economia nazionale alle regioni); abolizione del ministero del Turismo e Spettacolo. Il più importante politicamente è quello che modifica il sistema elettorale del Senato (abrogazione della soglia del 65% dei voti necessari perché un senatore venga eletto direttamente con il sistema maggioritario uninominale. Con l'eliminazione di questo tetto si utilizzerebbe il sistema uninominale a maggioranza semplice per 238 senatori su 315, mentre i restanti 77 sarebbero eletti su base proporzionale). Per la risposta positiva offerta dall'elettorato i r. dell'aprile 1993 hanno segnato un cambiamento radicale nel sistema politico italiano.
A causa dello scioglimento anticipato delle Camere (16 gennaio 1994) risultano essere pendenti alcuni r. abrogativi (abrogazione parziale dell'art. 19 della l. 20 maggio 1970 n. 300 in materia di tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale sui luoghi di lavoro e in materia di collocamento; abrogazione parziale dell'art. 47 del decreto legisl. 3 febbraio 1993 n. 29 riguardante l'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e la revisione della disciplina del pubblico impiego), mentre altri sono stati dichiarati inammissibili (abrogazione dell'art. 2 del D.L. 5 dicembre 1991 n. 386, convertito nella l. 29 gennaio 1993 n. 35, in materia di trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali e alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica; abrogazione del decreto legisl. 30 dicembre 1992 n. 503 per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici).