Regionalismo
Il nuovo regionalismo economico
A cominciare dalla seconda metà degli anni Ottanta si è assistito in quasi tutti i continenti al proliferare di accordi formali di integrazione economica su base regionale costituiti al fine di liberalizzare, su base discriminatoria, il commercio tra i paesi membri. Tali accordi sono il risultato sia dell'operare delle forze del mercato, sia di decisioni politiche. L'integrazione regionale ha assunto forme che presentano intensità diversa. Questa è, infatti, più ridotta nel caso delle associazioni di commercio preferenziale e più forte in ordine crescente nelle aree di libero scambio, unioni doganali, mercati comuni e unioni economiche non solo per quanto riguarda gli impegni assunti verso i non membri, ma anche quanto a gradi di liberalizzazione interna che i paesi membri si impegnano a realizzare (v. unioni economiche, App. III, e unioni doganali, App. IV). Con riferimento a questo fenomeno si è parlato di secondo regionalismo per sottolineare che non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di un recente impulso al 'regionalismo economico commerciale'.
Già dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, si era manifestata, sia nei paesi industrializzati sia nei Paesi in via di sviluppo (PVS), la tendenza a costituire unioni economiche di portata diversa. Risalgono a questi anni sia la costituzione delle Comunità europee - la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) nel 1951, l'Euratom e la Comunità economica europea (sorta inizialmente come unione doganale, ma che aveva come obiettivo la costituzione di un mercato comune) nel 1957 - sia quella dell'Associazione europea di libero scambio (EFTA, v. App. III), un'area di libero scambio sorta nel 1960 che coinvolgeva un gruppo di paesi europei non ancora entrato a far parte della Comunità economica europea.
Nei PVS il fenomeno si manifestò sia in America Latina, dove nel 1960 si dette vita all'Area di libero scambio latino-americana (LAFTA, Latin American Free Trade Area, trasformatasi nel 1980 nella LAIA, Latin American Integration Association), ancora nel 1960 al CACM (Central American Common Market), nel 1965 al CARIFTA (Caribbean Free Trade Association, trasformatasi nel 1973 nel CARICOM, Caribbean Community and Common Market) e, nel 1969, al Patto Andino; sia in Africa, dove vennero istituite nel 1964 l'UDEAC (Union Douanière et Économique de l'Afrique Centrale), nel 1969 la SACU (Southern African Customs Union), nel 1975 l'ECOWAS (Economic Community of West African States); sia, infine, in Medio Oriente, dove nel 1964 si dette vita all'ACM (Arab Common Market). L'Asia ha invece aderito a questa tendenza solo nella seconda fase del r., cioè in quella tuttora in corso.
Gli accordi regionali della prima fase avevano la caratteristica di coinvolgere, nell'Europa occidentale, solamente paesi industrializzati (erano dunque accordi Nord-Nord), e nelle altre parti del mondo, esclusa la SACU di cui è membro anche il Sudafrica, solamente PVS (si trattava, dunque, di accordi Sud-Sud). Tutti miravano sostanzialmente alla riduzione delle barriere tariffarie e, quindi, alla definizione di preferenze nel commercio tra i membri. Tuttavia la spinta alla loro costituzione veniva da motivazioni non solo economiche (per es. ampliamento degli sbocchi del paese, aumento del potere contrattuale di gruppo), ma anche culturali e politiche. È il caso della Comunità economica europea, ma anche delle forme di integrazione regionale realizzate in Africa e in America Latina, regioni nelle quali la spinta all'integrazione è venuta, rispettivamente, da sentimenti di anticolonialismo e di nazionalismo.
Alla fine degli anni Sessanta questa ondata di r. si arrestava. Alcuni degli accordi fallirono. Nei PVS si arenarono i tentativi di costituire aree commerciali regionali e unioni doganali, che negli anni Sessanta erano state considerate parte della generale strategia di industrializzazione sostitutiva delle importazioni seguita allora da questi paesi, e che venivano costituite per superare l'esiguità delle dimensioni economiche dei singoli paesi e la debolezza strutturale di tutti i PVS nelle relazioni economiche internazionali dominate dai paesi industrializzati. In questo fallimento ebbe un forte peso la difficoltà di accettare l'operare del libero mercato anche nelle decisioni riguardanti l'allocazione degli investimenti. Nei paesi industrializzati, d'altra parte, il r. certamente incontrava ancora un limite sia nell'atteggiamento sospettoso nei confronti degli accordi commerciali discriminatori mantenuto dagli Stati Uniti, sia nella posizione del Giappone, che continuava a mostrarsi più propenso a seguire una strategia commerciale multilaterale. Il r., tuttavia, continuò a manifestare segni di vivacità in Europa dove si ebbero l'allargamento della CEE, la creazione del Mercato comune europeo, la firma di accordi preferenziali tra CEE e i PVS dell'Africa, dei Caribi e della zona dell'Oceano Pacifico (denominati paesi ACP), associati tramite la Convenzione di Lomé del 1975, e la firma di accordi di associazione alla Comunità dei paesi rivieraschi del Mediterraneo.
È, tuttavia, nella seconda metà degli anni Ottanta che l'opzione regionale ha assunto ovunque nuovo vigore. Anche in questa seconda fase il r. ha avuto inizio nei paesi industrializzati. In Europa si sono registrati ulteriori progressi nella costruzione comunitaria realizzati con la firma nel 1986 dell'Atto Unico e la definizione del programma per l'instaurazione del mercato interno (comunitario) per il 1992.
Negli anni successivi si è assistito, inoltre, sia alla nascita dello Spazio economico europeo (SEE), derivante da un accordo tra EFTA e CE entrato in vigore nel 1994 e che ha portato alla costituzione di un'area di libero scambio di grandi dimensioni, sia alla conclusione di accordi di associazione tra la CE e alcuni paesi dell'Europa centro-orientale in via di transizione verso l'economia di mercato.
La ripresa della tendenza all'integrazione commerciale regionale si è manifestata in modo marcato anche nell'America Settentrionale a seguito di un mutamento sostanziale nell'atteggiamento assunto dagli Stati Uniti a tale riguardo (Bhagwati 1992, p. 540) e si è estesa anche ai paesi dell'America Meridionale. Si è avuta la creazione dell'area di libero scambio USA-Canada nel 1988; dell'area di libero scambio USA-Israele nel 1989; dell'Accordo di libero scambio dell'America Settentrionale tra USA, Canada e Messico (NAFTA, North American Free Trade Agreement) nel 1994, di un'area di libero scambio tra Argentina e Brasile nel 1990 e del Mercado Común del Sur (MERCOSUR) tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay nel 1991.
Nel 1990, inoltre, sono stati ripristinati il Patto Andino e il Mercato comune dell'America Centrale. Nel 1991 il presidente statunitense G. Bush ha lanciato l'Iniziativa per le Americhe, mirante alla creazione di una zona di libero scambio per l'intero emisfero occidentale. Manifestazioni della nuova tendenza alla regionalizzazione si sono avute anche negli altri continenti: in Africa, per es., e nella regione asiatica del Pacifico, dove si è dato vita per la prima volta a numerosissimi progetti di accordi economici e commerciali di intensità e ampiezza diverse. Si è prospettata, per es., l'ipotesi di creare un'area di libero scambio tra i paesi dell'ASEAN (Association of South East Asian Nations), l'AFTA (ASEAN Free Trade Area). Su iniziativa dell'Australia, nel 1989, è stato promosso un gruppo di cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC, Asia-Pacific Economic Cooperation) per giungere alla creazione di un foro regionale per la discussione della liberalizzazione e dell'espansione commerciale tra i paesi ASEAN, l'Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea.
In questa seconda fase il fenomeno ha di fatto interessato tutti i continenti, incluse regioni importanti dell'Asia che, come ricordato, nel passato non erano state coinvolte in questi sviluppi.
Ulteriore elemento di novità è la nascita di gruppi commerciali regionali che comprendono, su base di parità e reciprocità, PVS e paesi industrializzati. Questi accordi, sono, dunque, di tipo Nord-Sud, presentano caratteristiche interregionali e sembrano nati per motivi diversi da quelli che avevano caratterizzato la prima fase del regionalismo. Va tenuto conto, infatti, che tutti i paesi industrializzati in qualche modo coinvolti nel processo di integrazione regionale, e anche molti PVS che avevano dato vita a forme di integrazione regionale con essi, applicavano, ormai, tariffe esterne piuttosto basse a seguito dei vari rounds tariffari condotti nell'ambito del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), oppure avevano ridotto in modo unilaterale e indiscriminato le loro barriere tariffarie e non tariffarie al commercio. Di conseguenza, questo nuovo r. non ha alla sua base l'obiettivo di realizzare una discriminazione commerciale tramite le tariffe.
Inoltre, molti dei nuovi accordi costituiscono "forme di integrazione ibride". Da un lato essi sono forme "più ridotte (sotto il profilo istituzionale e degli obiettivi) delle unioni doganali e dei mercati comuni", dall'altro sono "avvicinabili a essi per l'ambito di copertura settoriale" (più ampia di quella caratteristica delle zone di libero scambio), cosicché "sembra diventare più sfumata la distinzione tra unione doganale e zone di libero scambio sia sotto il profilo istituzionale che quanto ai settori disciplinati" (Sacerdoti 1994, p. 8). Oltre che al commercio dei beni, gli accordi sono stati estesi anche al commercio dei servizi e sono stati a volte caratterizzati (ne è un esempio il NAFTA) da approcci di maggiore apertura rispetto a quelli raggiunti a livello multilaterale; essi hanno riguardato anche temi quali gli effetti sul commercio delle misure relative agli investimenti, delle misure di protezione ambientale, degli standard minimi di tutela dei lavoratori, temi sui quali è stato possibile giungere a un accordo a livello regionale prima che a livello multilaterale.
Coloro che, posti di fronte al nuovo proliferare del r., hanno cercato di individuare le possibili motivazioni delle scelte operate in tale direzione dalla quasi totalità dei paesi dei diversi continenti, hanno sottolineato come queste siano diverse a seconda degli accordi presi in considerazione e dei paesi a essi partecipanti (Harmsen, Leidy 1994, p. 90 e segg.). Alcune delle motivazioni individuate sono 'tradizionali', altre riflettono le caratteristiche del sistema degli scambi internazionali nel periodo in cui gli accordi sono stati siglati.
Uno stimolo alla stipulazione di accordi commerciali regionali può essere derivato da motivazioni politiche, quali l'obiettivo di rafforzare la coesione politica a livello regionale, oppure considerazioni di politica estera (per es., una delle motivazioni del NAFTA è stata il controllo dei flussi migratori), o ancora il desiderio di rafforzare l'attuazione di riforme interne di politica economica (per es., riforme orientate al mercato e alla privatizzazione). Tuttavia, la formalizzazione di accordi di integrazione regionale è quasi sempre da imputarsi al tentativo portato avanti dai paesi partecipanti di raggiungere una maggiore efficienza e un più elevato livello di sviluppo economico attraverso il perseguimento di obiettivi quali: la realizzazione di economie di scala; un miglioramento del potere di negoziazione e del rapporto di forza; l'acquisizione di vantaggi per il commercio estero derivanti dall'uso strategico della forza di gruppo; una sicurezza nell'accesso ai mercati dominanti reso sempre più incerto dalla diffusa adozione, soprattutto nei maggiori paesi industrializzati, di barriere non tariffarie; la necessità di evitare - in un mondo nel quale il fenomeno 'regionalismo' andava diffondendosi sempre più - i costi-opportunità derivanti dall'essere al di fuori di accordi (il cosiddetto effetto domino).
Gli accordi commerciali preferenziali a base regionale propri del secondo regionalismo costituiscono presumibilmente una risposta, oltre che ai fattori sopra ricordati, anche alla lentezza che, nel periodo della loro definizione, caratterizzava il processo di liberalizzazione del commercio internazionale. Le difficoltà incontrate dal sistema GATT nel controllare le pressioni protezionistiche e nel lanciare un nuovo round negoziale avevano fatto nascere sin dalla fine degli anni Settanta il timore che lo stesso GATT potesse fallire. Queste preoccupazioni vennero aggravate dagli ostacoli incontrati nel corso dei lavori dell'Uruguay Round che, iniziato nel 1986, si è concluso dopo molte difficoltà con tre anni di ritardo rispetto alla data prevista. I negoziati erano divenuti man mano più complessi a causa dei temi sempre più numerosi oggetto delle trattative e del numero crescente dei paesi membri del GATT, portatori di esigenze e priorità diverse. In questo contesto gli accordi preferenziali possono essere stati interpretati come una "opzione di sicurezza" (Grilli 1997, p. 141) che i paesi avrebbero deciso di seguire.
Il regionalismo e il sistema GATT-WTO
Con gli accordi formali di integrazione regionale i paesi membri si impegnano a liberalizzare parzialmente o totalmente il commercio tra loro su base discriminatoria, costituendo in tal modo un'eccezione sostanziale al principio cardine del sistema GATT, prima, e WTO (World Trade Organization), ora, e cioè al principio di non discriminazione. Eccezione ammessa, ma a determinate condizioni, dallo stesso statuto del GATT all'art. xxiv per quanto riguarda le unioni doganali e le zone di libero scambio, riaffermata, per quanto concerne gli accordi preferenziali tra PVS, ai paragrafi 2/c e 3 della clausola di abilitazione approvata nel corso del Tokyo Round del GATT nel 1979 per garantire a essi un trattamento differenziale e più favorevole, e successivamente inserita nell'accordo GATS (General Agreement on Trade in Services) sul commercio di Servizi (art. v).
Alla base delle eccezioni ricordate sta l'idea che le unioni doganali e le zone di libero scambio (ma anche gli accordi commerciali preferenziali tra PVS) debbano facilitare e promuovere il commercio tra i territori dei paesi membri senza frapporre ostacoli al commercio di altre parti contraenti. Perché questo risultato venga raggiunto, al momento della creazione dei tipi di integrazione ricordati dovranno essere rispettate le condizioni, in parte di sostanza, in parte di procedura, indicate nello stesso art. xxiv. Tali condizioni hanno suscitato notevoli problemi interpretativi, in parte risolti nel corso dell'Uruguay Round del GATT con l'Intesa sull'articolo in esame approvata dai paesi partecipanti. Sinteticamente, per essere ammissibili, in base al dettato dell'art. xxiv, gli accordi commerciali preferenziali dovrebbero "avere come obiettivo la liberalizzazione completa del commercio tra i membri da realizzare in un periodo di tempo ragionevole e dovrebbero essere tali da non discriminare troppo (o di più) nei confronti dei paesi terzi" (Grilli 1997, p.169). Inoltre essi, corredati del piano o del programma relativo, dovranno essere notificati alle parti contraenti del GATT al fine di consentire a queste l'esame della loro conformità con l'art. xxiv dell'accordo.
Forti critiche sono state rivolte ai criteri indicati e all'applicazione pratica data dal GATT al dettato dell'articolo citato. Per quanto riguarda la condizione della "liberalizzazione completa" si è discusso della ratio della clausola ed è stato sottolineato come questa sia forse più politica che economica e presumibilmente risieda, secondo alcuni, nel tentativo di minimizzare il numero di accordi regionali più che la discriminazione dei paesi terzi (a questo riguardo: Grilli 1997, p. 169; Bhagwati 1992, p. 537; De la Torre-Kelly, 1992, p. 43).
Altri, invece, hanno sottolineato le difficoltà interpretative, e quindi di applicazione, dell'art. xxiv che non fornisce una definizione precisa di cosa debba intendersi per "sostanzialmente tutto il commercio". Ne è derivato che i gruppi di lavoro creati per l'esame degli accordi proposti abbiano operato interpretando l'espressione in alcuni casi in senso quantitativo (percentuale del commercio sulla quale gli accordi eliminano gli ostacoli), e in altri casi (WTO 1995, p. 13) in senso qualitativo (esclusione o meno dalla liberalizzazione dei settori principali).
Altra condizione posta dall'art. xxiv per l'ammissibilità degli accordi regionali a fini discriminatori, che ha suscitato anch'essa numerosi problemi interpretativi (per es. al momento della decisione sulla compatibilità del Trattato di Roma con l'articolo preso in esame), è quella, sopra ricordata, per la quale i paesi partecipanti agli accordi dovrebbero mantenere nei confronti dei paesi terzi un trattamento tariffario nel complesso né più elevato, né più restrittivo di quello imposto precedentemente all'accordo. Mentre alcuni, per es. nel caso delle unioni doganali, hanno proposto il ricorso alla media aritmetica semplice delle tariffe applicate da ognuno dei paesi membri, altri hanno suggerito l'adozione di medie ponderate rispetto al commercio, o l'allineamento alla tariffa più bassa (al riguardo v. WTO 1995, p. 14).
È solo con l'Intesa sull'art. xxiv approvata nel corso dell'Uruguay Round che si è definito finalmente il metodo da seguire (medie ponderate delle aliquote tariffarie e dell'ammontare dei dazi riscossi e non medie semplici) per valutare l'incidenza delle tariffe e dei dazi doganali applicati prima e dopo l'accordo. La stessa Intesa ha affrontato anche altri problemi sorti nell'applicazione dell'articolo in esame eliminando incertezze interpretative su altri punti dell'articolo che in passato avevano causato controversie tra le parti. Per es., è stata definita la dimensione temporale del periodo di tempo 'ragionevole' entro il quale un accordo regionale deve divenire operante. In base all'Intesa, salvo eccezioni, questo non dovrebbe superare i dieci anni, così da non rendere troppo lungo il periodo transitorio nel corso del quale unioni doganali o zone di libero scambio operano di fatto come aree preferenziali (WTO 1995, p. 191). Le incertezze interpretative sui punti ricordati e la mancanza di una struttura istituzionale hanno fatto sì che l'applicazione pratica dell'art. xxiv non sia stata soddisfacente: spesso i processi di valutazione si sono chiusi con un 'giudizio inconclusivo' per quanto riguarda la compatibilità degli accordi proposti con il sistema GATT (Grilli 1997, p. 170). È anche per superare questo stato di cose che la WTO ha deciso di creare nel febbraio 1996 la Commissione sugli accordi commerciali regionali, affidandole non solo il compito di esaminare gli accordi commerciali regionali a essa notificati e di valutare le implicazioni sistemiche della relazione regionalismo/multilateralismo, ma anche quello di formulare procedure che consentano di migliorare il processo di esame degli accordi regionali stessi e di seguire, in base ai rapporti biennali presentati, l'evoluzione di quelli già costituiti (WTO 1996, p. 147).
Regionalismo e sistema commerciale multilaterale
A cominciare dalla seconda metà degli anni Ottanta si è assistito, dunque, a un forte impulso al regionalismo. Esso, tuttora in corso, si è verificato contemporaneamente al realizzarsi di progressi rilevanti nella liberalizzazione del commercio in ambito GATT, raggiunti anche a opera di paesi impegnati nelle stesse iniziative di liberalizzazione regionale. Malgrado tali progressi, ha continuato ad affiorare la preoccupazione che il mondo vada evolvendo nella direzione di un sistema regionale tripolare di blocchi commerciali imperniati rispettivamente sugli USA, sulla UE e sul Giappone, con effetti incerti sul sistema multilaterale degli scambi internazionali. Questo stato di cose ha stimolato una ripresa del dibattito che si era sviluppato a livello teorico già negli anni Cinquanta e Sessanta sia sulla compatibilità/conflittualità tra r. e multilateralismo, sia sulle conseguenze, in termini di benessere e di crescita, degli accordi commerciali regionali su base discriminatoria.
Su questo punto è divenuta ormai 'classica' la distinzione seminale introdotta da J. Viner, nel 1950, tra "effetto di diversione del commercio" ed "effetto di creazione di commercio" delle forme di integrazione regionale (v. unioni doganali, App. IV). Come'è noto, con la prima espressione Viner si riferisce a ciò che accade quando in un'unione doganale si sostituiscono con importazioni più costose provenienti da un paese-membro importazioni meno costose realizzate da paesi non-membri, con risultati negativi in termini di benessere. La seconda espressione, invece, sta a indicare la sostituzione della produzione interna di un paese-membro dell'unione doganale con importazioni meno costose provenienti da un altro paese membro dell'unione stessa, con effetti positivi dal punto di vista del benessere.
Il proliferare degli accordi di integrazione regionale ha anche stimolato numerosi lavori empirici tendenti a misurare sia il grado di regionalizzazione raggiunto dagli scambi (su questo tema, Faini 1997 e Baldwin, Venables 1995), sia i benefici derivanti dall'integrazione regionale ai paesi che partecipano agli accordi e ai non-membri (New dimensions in regional integration, 1993). Il dibattito teorico si è incentrato sulle conseguenze della formazione di blocchi commerciali sull'economia mondiale e sul sistema multilaterale degli scambi. In particolare, sono stati analizzati due aspetti della questione: l'impatto immediato dei blocchi commerciali preferenziali sul benessere mondiale (sul benessere dei paesi membri e non-membri) e la possibilità che il r., nel tempo (ossia lungo il dynamic-time path nella terminologia proposta da Bhagwati 1992, p. 548), porti al libero commercio multilaterale attraverso la continua espansione dei blocchi o, al contrario, a una frammentazione dell'economia (Winters 1996; Bhagwati 1992; Krugman 1993).
Secondo un primo punto di vista (Bergsten 1997, p. 546), gli accordi regionali potrebbero determinare un effetto di diversione di commercio superiore a quello di creazione di commercio a seguito del trattamento preferenziale previsto a favore dei paesi membri rispetto ai non-membri e inciderebbero, quindi, negativamente sul benessere mondiale. Al contrario, coloro che considerano il r. in modo favorevole (Bergsten 1997, p. 547) sottolineano l'effetto netto positivo tra creazione e diversione di commercio che può derivare dagli accordi regionali. Il risultato finale, infatti, oltre agli effetti statici dell'integrazione riflette anche gli effetti che l'integrazione potrebbe avere sulla crescita dell'economia, che si ritiene siano positivi.
A proposito del secondo punto altri sottolineano come gli accordi regionali non possano considerarsi un ostacolo, ma costituiscano al contrario uno stimolo al multilateralismo (Bhagwati 1992, p. 541 e segg.; Bergsten 1997, p. 546 e segg.; WTO 1995, p. 55 e segg.). La loro costituzione comporta un processo di liberalizzazione del commercio e, in realtà, un esame degli accordi regionali fin qui attivati mostra come spesso questi abbiano realizzato un processo di liberalizzazione in aree nelle quali, al momento della loro costituzione, esso non era stato raggiunto a livello multilaterale. Questo perché spesso i negoziati commerciali regionali, per la loro minore complessità, possono essere conclusi con minori difficoltà rispetto ai negoziati multilaterali.
Gli accordi commerciali regionali possono anche facilitare la liberalizzazione (e di fatto l'hanno facilitata) per gli effetti sistemici da essi prodotti sul sistema multilaterale degli scambi. Se propriamente concepiti e applicati, essi possono svolgere in questo senso un ruolo importante e contribuire al raggiungimento di un libero commercio globale. Il vero problema posto in evidenza dal dibattito sulla tendenza manifestatasi a livello mondiale a organizzarsi in blocchi commerciali è, in realtà, quello della compatibilità del comportamento dei partecipanti alle aree con l'obiettivo della liberalizzazione multilaterale del commercio. I blocchi, infatti, se da un lato possono facilitare il compimento di ulteriori progressi verso la liberalizzazione del commercio, dall'altro, qualora assumano un comportamento protezionista nei confronti dei non-membri, possono determinare effetti negativi su di essa. Come ricorda Krugman (1993, p. 73), un blocco commerciale che accresca la sua dimensione economica potrebbe cercare di approfittare del suo potere di mercato per imporre elevate tariffe esterne con effetti negativi in termini di benessere mondiale. Blocchi commerciali numerosi, con ridotto potere di mercato, potranno al contrario avere un impatto positivo sul benessere mondiale, essendo in questo caso l'effetto di creazione di commercio superiore a quello di diversione del commercio stesso.
La globalizzazione degli investimenti e della produzione, e le strategie internazionali adottate dalle imprese, d'altra parte, dovrebbero ridurre il rischio che gli accordi regionali diventino blocchi chiusi (De la Torre, Kelly 1992, p. 41) e dovrebbero, quindi, consentire loro di fungere da supporto più che da ostacolo alla liberalizzazione multilaterale. Comunque, come sottolinea J. Bhagwati (1992, p. 554), solo il tempo potrà dire se il proliferare del r. sarà stato una forza benigna o una forza maligna capace di minare l'obiettivo ampiamente sentito di un commercio multilaterale.
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