Regione, regionalismo, regionalizzazione
Il dibattito teorico sul concetto geografico di regione, che aveva caratterizzato il quadro disciplinare negli anni Settanta e Ottanta del 20° sec., ha fatto registrare un ulteriore rallentamento, dopo che, negli anni Novanta, le rivoluzionarie trasformazioni geopolitiche del contesto mondiale lo avevano trasferito, piuttosto, sui nuovi orizzonti del regionalismo economico e della regionalizzazione strategica.
Alla base del rinnovato schema teorico e metodologico si pongono i mutamenti intervenuti nello scenario economico della produzione, e in primo luogo l'introduzione della Information and Communication Technology (ICT: v. anche geomarketing), con una serie di effetti che vanno dalla sempre più marcata separazione spaziale delle attività decisionali e produttive alla sostituzione, nelle regioni mature, della produzione di beni fisici con quella di beni immateriali (scambio, innovazione) e, soprattutto, all'introduzione di un approccio di tipo endogeno, basato sull'assunto che i fattori di sviluppo regionale siano precisamente localizzati. Quest'ultimo sembrerebbe avere l'effetto di ricondurre la regione a una dimensione identitaria che la geografia ha sempre coltivato; e, per certi aspetti, il localismo - inteso come prodotto di fattori ambientali e qualità umane autoctone - porta nuovamente in auge quelle caratteristiche oggettive che fanno di ogni sistema regionale, ancor più se di piccole dimensioni, una entità peculiare e irripetibile. Sarebbe tuttavia semplicistico recuperare integralmente i concetti (specificamente, genere di vita e paesaggio) elaborati nella prima metà del 20° sec. e tipici della regione umanizzata di scuola francese, in quanto tali concetti si legano proprio a quella stabilità spazio-temporale che la dimensione globale dei processi sociali ed economici rende del tutto anacronistica. La regione, come sistema locale, è chiamata a misurarsi con la crescente competizione nazionale e internazionale. Ciò valorizza la logica transcalare solidamente affermatasi, nel pensiero geografico contemporaneo, in sostituzione di quella multiscalare espressa, nel pensiero novecentesco, dalla classificazione di regione elementare, complessa e integrale, che tentava di ricomporre, dal basso, un sistema planetario all'epoca fortemente diviso sotto ogni profilo: relazionale, per la minore efficienza del sistema di comunicazioni; politico, per la presenza di blocchi contrapposti; sociale ed economico, come effetto delle due condizioni precedenti ma anche di uno sviluppo tecnologico nettamente inferiore.
In tale nuovo modello, "non si tratta di rivendicare la supremazia di un paradigma su un altro, quanto piuttosto di prendere atto che il concetto di regione e il significato stesso di regionalizzazione hanno perso, nel senso classico del termine, significato e identità perché sono cambiati i contenuti e le modalità della produzione e le relazioni tra i luoghi di produzione e lo spazio geografico circostante" (Lefebvre 1999, p. 22). Il ruolo della città potrebbe definirsi - a sua volta - transregionale, in quanto la localizzazione dei processi di innovazione e di elaborazione delle decisioni nei principali nodi della rete urbana mondiale ne esalta il ruolo strategico ma, nel contempo, tende a deregionalizzarne gli effetti. Le modalità di sviluppo si compongono dunque di fattori esogeni, tanto più rilevanti quanto più forti sono le interconnessioni a scala planetaria, e di fattori endogeni, ai quali si richiede la capacità di rielaborare i contenuti innovativi dei flussi di informazione.
Sfuma, come detto, l'importanza della contiguità territoriale, il che, se da un lato contraddice la rivalorizzazione dei sistemi locali intesi come regioni omogenee (dal punto di vista naturale, storico, culturale), dall'altro confligge inesorabilmente con una dimensione necessaria e presente in ogni organizzazione territoriale del mondo, a cominciare dagli Stati, ovvero quella politico-amministrativa. Riemerge, così, il problema fondamentale della delimitazione regionale e dei poteri connessi alla gestione del territorio in tutte le sue trasformazioni: ambientali, urbanistiche, economiche. Da qui, il dibattito fortemente multidisciplinare sui concetti, e gli effetti, discendenti dalla figura della regione: regionalismo e regionalizzazione in primo luogo.
Il termine regionalismo è stato ampiamente interpretato in senso economico, con riguardo agli accordi di integrazione su base regionale stipulati, in tutte le aree del pianeta, nella fase di internazionalizzazione e liberalizzazione degli scambi commerciali avviata fin dagli anni Ottanta del secolo scorso. Tale fase, unitamente al cambiamento degli assetti politici in senso stretto, si è di fatto tradotta in una nuova regionalizzazione degli spazi mondiali, con effetti anche sulla pianificazione del territorio e, in particolare, sui sistemi infrastrutturali e di servizi: emblematico, in proposito, è il caso dell'Unione Europea per quanto concerne la politica delle reti e delle grandi direttrici di comunicazione (corridoi transeuropei).
Il regionalismo è venuto ad assumere un significato maggiormente sociopolitico, con sostanziali riflessi istituzionali sulle competenze degli enti territoriali sottordinati rispetto allo Stato. Prima di affrontarne i contenuti, con particolare riferimento al caso italiano, è peraltro opportuno richiamare come la regione amministrativa assuma, nel panorama mondiale, connotazioni estremamente differenziate: la consultazione di qualsiasi strumento manualistico permette di verificare come, tra gli Stati di ogni continente, la denominazione (regioni, dipartimenti, contee, distretti, prefetture, province), la dimensione superficiale, demografica ed economica, come pure l'articolazione gerarchica e i poteri decisionali di tali entità, risultino generalmente inconfrontabili. Ciò deriva, ovviamente, dalle discontinuità dello spazio geografico e del percorso storico dei diversi territori; nondimeno, testimonia l'incidenza e accresce l'attenzione per la complessità della maglia regionale politica.
La stessa tendenza a identificare il regionalismo con il federalismo non basta a semplificare il quadro geografico né quello istituzionale. In primo luogo, emerge la banale quanto oggettiva considerazione che gli ordinamenti federali spaziano da interi subcontinenti (Stati Uniti, Unione Indiana, Australia) a regioni piccole (Belgio), interessando situazioni geopolitiche assolutamente diverse. Ove, poi, si guardi ai riflessi sul governo del territorio, prendendo, per es., l'ambito europeo, si osserva come uno Stato centralista, la Francia, e uno federale, la Germania, esprimano orientamenti regionalisti sostanzialmente convergenti. Nel primo, nonostante una devoluzione molto limitata alle regioni (istituite solo nel 1982), l'attenzione per la pianificazione e l'accessibilità ai servizi pubblici è molto marcata; nel secondo, il livello centrale mantiene un ruolo predominante in settori fondamentali come energia e trasporti, stabilendo comunque una stretta integrazione con i Länder in tutte le decisioni mirate allo sviluppo della struttura economica regionale. Dopo la riunificazione tedesca questo atteggiamento di controllo, pur nella forma del coordinamento, si è persino accentuato; a sua volta lo Stato francese - di fronte alla varietà di condizioni del proprio territorio, che determinava forti sperequazioni nei costi dei servizi - ha introdotto nuove procedure di concertazione con gli enti locali: di fatto, fra i due sistemi, si evidenzia una sostanziale convergenza nelle politiche regionali. Anche nel Regno Unito il centralismo (testimoniato dalla revisione amministrativa imposta negli anni Settanta del 20° sec., con il generale ridisegno delle contee e la drastica riduzione delle stesse, in particolare, nel Galles), pur manifestandosi chiaramente nei servizi sociali, non esclude attenzione per gli orientamenti delle collettività locali, mentre la diffusa presenza di agenzie territoriali, come emanazione dei diversi ministeri, favorisce politiche differenziate e mirate ai singoli contesti economici regionali. Infine, emblematico è il caso dei Paesi Bassi, dove la centralizzazione è spinta al punto che i commissari delle province non vengono eletti bensì delegati dal governo, ma il ruolo degli enti locali non è per questo meno rilevante e il livello di partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche molto alto.
Venendo al caso italiano, la riforma attuata a partire dalla l. cost. 18 ottobre 2001 nr. 3 ha definito (all'art. 3, sostitutivo dell'art. 117 della Costituzione) le materie di esclusiva legislazione statale e di legislazione concorrente; per queste ultime, la potestà legislativa è devoluta alle regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali. Si tratta, nello specifico, di rapporti internazionali delle regioni, commercio con l'estero, sicurezza del lavoro, istruzione, professioni, ricerca scientifica e tecnologica (con particolare attenzione per il sostegno all'innovazione nei settori produttivi), tutela della salute, alimentazione, protezione civile, pianificazione e governo del territorio, nodi e grandi reti di trasporto (ivi compresi porti e aeroporti civili), comunicazione, produzione e distribuzione dell'energia, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, oltre a rilevanti profili previdenziali, finanziari e contabili. Dunque, uno spettro amplissimo di competenze che spaziano dal campo sociale a quello economico e territoriale. In più, la stessa legge (all'art. 4, sostitutivo dell'art. 118 della Costituzione) recita: "le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza". Si stabilisce, pertanto, la sostanziale equiordinazione degli enti locali, abolendo quella gerarchia amministrativa che, specie nel campo della pianificazione, aveva determinato forme di controllo tali da limitare decisamente la ricezione delle istanze provenienti dal territorio e consentendo l'introduzione di nuove forme di concertazione (v. anche spazio geografico).
Si è aperta dunque, per le regioni italiane, una fase di cambiamento strutturale nel governo del territorio, già avviata dalla l. 8 giugno 1990 nr. 142. Invero, la materia della pianificazione territoriale era stata, fra le prime, oggetto di devoluzione dallo Stato alle regioni (art. 80 nel d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616, in attuazione della delega di cui all'art. 1 nella l. 22 luglio 1975 nr. 382). Tuttavia, dopo una lunga stagione in cui la normativa urbanistica si era fondata sulla centralità giuridica dei procedimenti, da cui discendevano più o meno rigide gerarchie di piani alle diverse scale (regionale, provinciale, comunale), la rinnovata attività legislativa regionale in materia di pianificazione presenta aspetti decisamente evolutivi, che, muovendo dalla definizione e costruzione del piano, vengono a sostanziarne la gestione, il controllo e il monitoraggio degli effetti. Le leggi urbanistiche regionali maggiormente innovative in tal senso (Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Basilicata, Calabria) hanno manifestato interesse per la formazione di un impianto conoscitivo geografico ed economico non tanto per la sua natura 'giustificativa' quanto per un nuovo ruolo nei processi valutativi e, quindi, nella evidenza pubblica. Subentra, dunque, una concezione strategica della governance territoriale, basata su un approccio attivo ai problemi, su scenari programmatici di investimento delle risorse nonché su un impianto aperto verso la rete dei soggetti attuatori, pubblici e privati. Ciò comporta - e la modifica costituzionale lo consente - il superamento della tradizionale separazione fra i vari livelli istituzionali e di governo, con l'affermazione dei principi di sussidiarietà e cooperazione interistituzionale.
In un primo momento, tuttavia, al centralismo statale sembra sostituirsi una sorta di centralismo regionale, il quale rischia di penalizzare il livello intermedio di pianificazione, quello provinciale, alla ricerca di un ruolo che esca dalle mere competenze settoriali delegate. Appare evidente che, nel processo di decentramento, la provincia soffre di una duplice debolezza, non disponendo né del radicamento sociale e del ruolo diretto che attiene ai comuni, né dei poteri legislativi e del volano di risorse di cui sono titolari le regioni. Il superamento di questa doppia debolezza rappresenta pertanto il primo obiettivo della pianificazione provinciale, se non la sua stessa ragione di essere. Da questo punto di vista, risulta chiaro che, nel lungo periodo, non possono sostenersi due sistemi di pianificazione territoriale sovrapposti, e il dato emerge in termini di sufficiente chiarezza laddove queste esperienze sono venute sviluppandosi con maggiore frequenza e impegno: ciò comporterà l'esigenza che le regioni operino sempre più attraverso direttive e orientamenti programmatici, lasciando alle province la vera e propria dimensione territoriale del processo di piano. D'altro canto, il rapporto più stretto con i comuni attribuisce al livello intermedio - per le esigenze di sussidiarietà richiamate - un ruolo essenziale di coordinamento e di sostegno tecnico della pianificazione, specie nei confronti delle entità comunali più piccole e marginali, incapaci di una reale autonomia. Esiste, peraltro, un terzo elemento di debolezza della pianificazione provinciale: la scarsità di risorse finanziarie proprie, che rischia di rendere insufficiente, o del tutto virtuale, un processo di piano basato solo su impulsi di indirizzo e riferimenti normativi. Si tratta, allora, di mobilitare risorse indirette, reperibili anche attraverso le procedure dell'Unione Europea; in questa prospettiva, molti sono i settori suscettibili di finanziamento: ambiente, paesaggio e beni storico-culturali, occupazione, innovazione, sviluppo sostenibile di comparti produttivi, reti urbane e di relazione con i corrispondenti subsistemi regionali europei.
Più in generale, la riforma dello Stato italiano in senso regionalista mantiene aperto il dibattito politico tra fautori - talora estremi - di un federalismo compiuto e sostenitori di un centralismo più o meno flessibile. È generalmente riconosciuto che permangano comunque irrisolte questioni di carattere sia storico-geografico, sia istituzionale: le prime si rifanno al tema, ampiamente noto e trattato, di una regionalizzazione amministrativa ormai largamente obsoleta del territorio italiano; le seconde alla permanenza di regioni a statuto speciale, le quali avrebbero esaurito la propria ragione di essere in relazione alle mutate condizioni geopolitiche e risulterebbero detentrici di privilegi immotivati, ancorché la loro condizione risulti paradossalmente penalizzata, proprio in termini di autonomia, dal fatto che i relativi statuti debbano essere approvati dal Parlamento nazionale. E se l'art. 2 nella citata l. cost. 3/2001 (sostitutivo dell'art. 116 della Costituzione) prevede analoga procedura per la possibile attribuzione ad altre regioni di "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia", comunque nel rispetto del principio di sussidiarietà e di perequazione finanziaria (quest'ultimo contenuto nell'art. 5, sostitutivo dell'art. 119), appare diffusa la preoccupazione che il nuovo assetto del rapporto centro/periferia, al di là di ogni valutazione formale, possa tendere a rafforzare la differenziazione sostanziale tra le regioni dotate di capacità promozionali e quelle già situate ai margini dello sviluppo. Secondo alcuni, addirittura, il regionalismo farebbe da schermo, in Italia, alla mancata assimilazione di una compiuta idea di Stato nazionale, per cui i sistemi locali - in nome delle proprie conclamate specificità culturali ed economiche - finirebbero con il prescegliere, più o meno consapevolmente, l'omologazione nel contesto globale.
Un dibattito analogo si sviluppa a scala europea, tra l'ipotesi in cui gli Stati verrebbero a perdere ogni potere sostanziale e quella in cui permarrebbero soggetti attivi di una federazione continentale; o, forse più, tra il modello eurocratico, centralista e privo di consenso popolare, e quello democratico, federalista ma decentrato su regioni comunque deboli. In effetti, la maglia delle regioni amministrative derivante da una semplice sommatoria delle situazioni attuali mostra - come detto - una disomogeneità estrema e non sostenibile nell'ottica di un vero approccio regionalista. Al fine di superare i limiti della dimensione territoriale, ancor più che della separazione politica, sono da considerare positivamente gli orientamenti dati da alcuni piccoli Stati (per es., le repubbliche baltiche), per l'ampia disponibilità alla cooperazione, e dalle poche regioni transfrontaliere realmente attive (per es., Alpe Adria e Øresund), per il tentativo di costituire vere strutture di raccordo nella soluzione di problemi comuni.
A scala mondiale, dopo la fine della cosiddetta guerra fredda e della contrapposizione Ovest-Est, il quadro della regionalizzazione si configura aperto su un ventaglio di possibili ipotesi (ISPI, TCI 2002, 20042, pp. 381-97). La prima è che la grande potenza economica, politica e militare degli Stati Uniti si traduca in un sistema monopolare, nell'ambito del quale l'ordine internazionale e - per conseguenza - l'assetto regionale siano disegnati e garantiti, appunto, dalla potenza egemone, come alcuni interventi militari (emblematico il caso dell'Irāq, 2003) prefigurerebbero. È questa, tuttavia, un'ipotesi con la quale contrastano l'eterogeneità degli ordinamenti statali, i divari economici Nord-Sud e, non ultimo, il circolo vizioso - già ampiamente sperimentato nella storia e reso più che mai probabile dalla complessità dell'economia - per cui i costi di mantenimento dell'unità diverrebbero insostenibili (e il crescente indebitamento degli Stati Uniti lascia intravedere un esito del genere).
Parziale alternativa sarebbe una regionalizzazione per grandi aree, imperniata su Stati che, in ciascuna di esse, abbiano capacità di aggregazione - politica e ancor più culturale, alla luce delle tensioni etnico-religiose perduranti o emergenti - e che, a loro volta, si riferiscano agli orientamenti della grande potenza. Tali Stati-perno si potrebbero individuare nella Russia per l'Europa orientale, il Caucaso e l'Asia centrale; nella Turchia, come nodo fra i grandi assi Ovest-Est e Nord-Sud; nell'Egitto, per il mondo arabo; nell'Unione Indiana e nel Pakistan per l'Asia meridionale; nella Cina per l'Asia orientale; nella Repubblica Sudafricana per la sezione meridionale di quel continente; nel Brasile per l'America Latina. Un ruolo fondamentale di raccordo assumerebbero, in questo scenario, le organizzazioni internazionali (ONU, G8, World trade organization, Fondo monetario internazionale), le quali, tuttavia, mostrano già di non riuscire a 'tenere il ritmo' dei sempre più rapidi e articolati processi di globalizzazione. Resterebbero, inoltre, molte incongruenze legate alle difficoltà politiche evidenti per alcuni di quei Paesi (in particolare Egitto e Pakistan) e all'ascesa, fra gli stessi, di competitori economici aggressivi come la Cina. Più in generale, appare problematico il confronto fra un modello liberale, che la globalizzazione tende a estendere oltre il novero degli attuali Paesi democratici, e un modello radicale, che mette in luce i divari socioeconomici e gli ulteriori svantaggi subiti dai Paesi in ritardo di sviluppo.
A quest'ultima forma di dualismo, evidenziata dalle posizioni dei movimenti antiglobalizzazione, si agganciano i conflitti culturali - in primo luogo, l'integralismo islamico - che, secondo alcune interpretazioni, rappresenterebbero una sorta di 'rivolta contro l'Occidente'. La regionalizzazione mondiale verrebbe dunque ad articolarsi sulla base delle diverse 'civiltà': islamica, confuciana, giapponese, induista, slava, latino-americana, africana (con tutte le difficoltà, peraltro, di definire elementi comuni al mosaico culturale e religioso del continente nero), oltre a quella occidentale.
Ultima ipotesi è il riemergere di un sistema internazionale che veda il coordinamento, da un lato, e la competizione, dall'altro, fra un certo numero di grandi potenze: dunque, una regionalizzazione propriamente 'multipolare'. Insieme agli Stati Uniti, tali potenze si prefigurano nell'Unione Europea, che, mentre ne avrebbe già la caratteristica in termini di massa di popolazione e capacità economica, denuncia viceversa scarsa coesione non solo nella politica estera ma anche nell'applicazione di regole univoche di mercato; nella Russia, dotata di un prestigio militare pressoché intatto e di grandissime risorse, la cui gestione richiede tuttavia una più matura transizione al liberalismo; nel Giappone, che, dopo una crisi istituzionale e finanziaria protrattasi per oltre un decennio, va riassumendo il ruolo industriale conquistato nella seconda metà del 20° sec.; infine nella Cina, il cui modello politico-economico detto socialismo di mercato risulta fortemente equivoco e non potrà rinviare indefinitamente l'assunzione di una più precisa struttura.
Non mancano - come si vede - le incognite. È certo, in ogni caso, che gli scenari della regionalizzazione dovranno affrontare, nel 21° sec., ulteriori cambiamenti o vere e proprie fasi rivoluzionarie; e se è improbabile che gli Stati nazionali possano abdicare alla propria funzione politica, appare altrettanto ineludibile la ricerca di equilibri planetari capaci di coniugare liberalismo di mercato e democrazia 'dal basso', continuando a perseguire quella convergenza economica e sociale che il pensiero geografico regionale porta a definire come sistema-mondo.
bibliografia
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