Regione
(XXVIII, p. 1000; App. II, ii, p. 680; IV, iii, p. 194; V, iv, p. 438)
Regione e regionalismo
Nel pieno degli anni Novanta, il concetto di r. ha attraversato una fase di ulteriore, profonda rivisitazione, non tanto sotto l'aspetto teorico quanto per le implicazioni con le nuove situazioni geopolitiche venutesi a creare su scala mondiale, continentale (in particolare, europea), nazionale e locale.
La caduta delle barriere ideologiche e il venir meno della contrapposizione fra grandi 'blocchi' regionali hanno dato nuovo impulso a quel processo di globalizzazione che - esaltando la competizione sui mercati internazionali e, pertanto, il ruolo delle reti infrastrutturali e dell'innovazione tecnologica - tende a configurare un unico sistema economico, estremamente permeabile alle informazioni ma anche sensibile agli eventi 'rivoluzionari', specie di natura finanziaria, in qualunque parte del territorio mondiale essi accadano. Sembra concretizzarsi, dunque, lo scenario disegnato dalla teoria regionale sistemica (v. regione, App. V), anche sotto il profilo della salvaguardia ambientale e della sua compatibilità con lo sviluppo, cui è stata dedicata la Conferenza delle Nazioni Unite svoltasi a Rio de Janeiro nel 1992 (v. oltre); ma riemergono le perplessità per quel che riguarda le capacità di autoregolazione di un sistema planetario che resta sostanzialmente 'chiuso', evidenziate, per esempio, dai contrasti emersi (o, se si vuole, dai difficili equilibri raggiunti) durante la riunione dei paesi maggiormente industrializzati tenutasi a Kyoto, nel 1997, per la riduzione delle fonti di inquinamento atmosferico.
All'interno di quella che potremmo definire, dunque, regione globale, la dimensione statale è ormai avvertita come insufficiente a fronteggiare tali eventi, anche nel caso di grandi potenze sia politiche, sia economiche. Tendono a moltiplicarsi, così, le iniziative per la creazione di organismi sovranazionali di cooperazione e libero scambio, che hanno avuto nell'Unione Europea - dopo la decisiva accelerazione impressa, nel 1992, dal Trattato di Maastricht - una sorta di propulsore: dall'Asia sud-orientale con l'ASEAN (Association of South East Asian Nations, il cui regional forum è stato esteso nel 1993 all'intera area dell'Oceano Pacifico), all'America Settentrionale con il NAFTA (North American Free Trade Agreement, 1994) e Meridionale con il MERCOSUR (Mercado Común del Sur, 1995), tutti i complessi regionali avanzati o emergenti hanno stretto i tempi di una sostanziale integrazione, approfondendo ulteriormente il divario con le r. totalmente sottosviluppate, in particolare africane, che stentano a darsi tali obiettivi, rischiando di vedersi ancora più emarginate dal quadro del commercio internazionale.
All'estremo opposto dei valori di scala geografica, riemergono ormai definitivamente gli ambiti locali, la cui individualità regionale era stata messa in ombra, se non sostanzialmente alterata, nella fase della crescita urbano-industriale massiva, quando tali ambiti erano stati inglobati nelle periferie metropolitane o discriminati dai grandi 'poli di sviluppo'.
In un primo tempo, il localismo veniva pressoché esclusivamente identificato nel 'distretto industriale', concentrazione di imprese con dimensione piccola o media, strettamente interconnesse, come forma di decentramento della grande impresa integrata. Il concetto, in realtà, esprime ben più ampiamente i caratteri autopropulsivi di un sistema territoriale la cui caratterizzazione regionale risiede, innanzitutto, nella storia sociale ed economica, nella divisione spaziale del lavoro, e dunque nel genere di vita della popolazione: quest'ultimo deve assumere, di certo, carattere evolutivo, per aprirsi alle relazioni con l'esterno e adeguarsi alla domanda del mercato, ma non necessariamente orientarsi verso il settore industriale. Sono sempre più numerosi, infatti, i casi in cui r. marginalizzate dalle grandi concentrazioni produttive divengono incubatrici di attività terziarie avanzate, sedi di parchi scientifici e tecnologici, o riscoprono - in stretta integrazione con le attività primarie - le proprie valenze ambientali, fatte poi oggetto di salvaguardia e meta di flussi turistici selezionati.
Si afferma, in tal modo, il valore dell'identità regionale, su base culturale prima ancora che economica o amministrativa. Quando, poi, si aggiunge una forte connotazione etnica, ciò comporta profonde tensioni nella politica degli aggregati statali, qualunque ne sia la forma. Le drammatiche vicende che hanno accompagnato il dissolvimento dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia hanno evidenziato come una base multietnica non possa essere ricondotta a confinazioni e ritagli territoriali; allo stesso modo in cui nazionalità private di unità politica, ma profondamente vive (si prendano, per es., i casi dei Curdi e dei Palestinesi), continuano a rappresentare fattori destabilizzanti nel quadro geopolitico, con ripercussioni a scala mondiale.
Dalla rivalutazione della r. come fattore di territorialità scaturisce la progressiva riaffermazione del regionalismo: termine a sua volta soggetto, in prospettiva storica, a molteplici interpretazioni e definizioni, ma che sembra oggi, con sempre maggiore evidenza, venire omologato alla concezione di federalismo. Il problema è particolarmente avvertito in Italia, dove, per tutto l'arco degli anni Novanta, il dibattito sulla riforma dello Stato ha preso a base la r. come entità geografica fondamentale, tuttavia spesso trascendendo la valutazione dei dati ambientali, socioculturali e funzionali per assumere carattere meramente giuridico o politico, fino a sboccare in tensioni secessioniste (così da parte della Lega Nord).
Un primo aspetto da valutare, sul versante della geografia e delle scienze regionali, è rappresentato dai requisiti che una porzione di territorio deve possedere per definirsi regione: tema assai controverso e sul quale si confrontano tuttora le scuole di pensiero rappresentative delle tendenze ambientalista, storicista ed economica. Queste, pur non rifacendosi direttamente alle correnti di pensiero determinista, possibilista e funzionalista che hanno costruito l'epistemologia geografica in materia, ne ripropongono, a ben vedere, più di una impostazione: dalla rigorosa prevalenza della componente naturale su quella antropica, per la prima; alla valutazione fondamentale dell'identità culturale, per la seconda; fino alla prevalenza data, dalla terza, ai parametri di ordine finanziario.
Carattere essenziale della r. deve considerarsi, in ogni caso, un'autonoma capacità propulsiva: e poiché, nel caso italiano, il limite del decentramento regionale è consistito proprio nella forte dipendenza dal governo nazionale, innanzitutto in termini di bilancio, si sono fatte strada ipotesi di riorganizzazione territoriale del paese che, una volta attribuite alle r. le fonti di finanziamento, ne garantissero quanto più possibile l'autosufficienza.
Da tempo, invero, i geografi avevano sottolineato la crescente inadeguatezza della maglia amministrativa rispetto all'evoluzione reale dei fenomeni territoriali. Già nel 1947, in un congresso nazionale concomitante ai lavori dell'Assemblea costituente, A. Sestini, criticando il persistente centralismo burocratico dello Stato italiano, che aveva compresso le esigenze di autonomia di r. concretamente esistenti, sottolineava come queste fossero tutt'altra cosa dai compartimenti adottati, all'indomani dell'unità del paese, per mere finalità geografico-statistiche. All'epoca, tuttavia, prevaleva ancora, nella disciplina, una marcata concezione della r. su basi fisiche, considerata supporto inderogabile della differenziazione regionale, come affermava U. Toschi nello stesso anno. Si dovrà attendere la fine degli anni Sessanta per vedere formulata una proposta di forte contenuto politico, oltre che geografico: F. Compagna schematizzava un possibile riordinamento territoriale delle r. italiane che prevedeva il riassorbimento delle più piccole, non ritenute in condizioni di esprimere quegli orientamenti autopropulsivi di cui si è sottolineata la rilevanza, mediante aggregazione delle loro singole parti (province o subregioni geografiche) alle r. contermini.
La proposta di Compagna anticipava di un quarto di secolo, in termini quasi identici, quella che sarebbe stata avanzata nei primi anni Novanta, per iniziativa della Fondazione Giovanni Agnelli, nell'ambito di una ricerca su Geografia e istituzioni della nuova Italia. Si tratta di 12 'macroregioni', per cui, nel Nord, si ipotizza di aggregare la Liguria al Piemonte e le tre Venezie fra loro; nel Centro, di estendere la Toscana e il Lazio, rispettivamente, sulle province umbre di Perugia e Terni, e di formare una grande r. medio-adriatica, dalle Marche al Molise; nel Sud, di assorbire nella Campania e nella Puglia le province lucane di Potenza e Matera. Altro elemento di singolare corrispondenza è l'attenzione alle aree metropolitane: Compagna le vedeva come fulcri dei nuovi organismi regionali e la loro funzione appare oggi ancora più decisiva, in considerazione della via aperta alla riforma amministrativa territoriale dalle leggi 8 giugno 1990 nr. 142 e 3 ag. 1999 nr. 265 (v. metropolitane, aree, App. V; metropoli: L'assetto metropolitano in Italia, in questa Appendice).
Le strategie della nuova regionalizzazione sono invece molto cambiate, soprattutto in termini di programmazione: mentre negli anni Sessanta e Settanta questa era completamente impostata - specie per le r. meridionali - sull'intervento straordinario, ora l'obiettivo è divenuto, come si è detto, quello di conseguire l'autosufficienza finanziaria, affinché ogni r. possa gestire autonomamente le proprie risorse, pur senza rinunciare al principio della solidarietà (sussidiarietà) delle r. più ricche nei confronti di quelle che, nonostante la riforma, non riuscissero comunque a raggiungere l'equilibrio. In ogni caso, si tende a valorizzare lo spirito di iniziativa dei soggetti regionali e a promuovere una maggiore integrazione economica a scala sia interregionale che internazionale, soprattutto per le r. periferiche. Abbandonando ogni forma di mero assistenzialismo, si afferma che il processo di sviluppo regionale deve basarsi sulla produttività del lavoro, in quanto essa consente una maggiore competitività delle produzioni locali, l'autofinanziamento degli investimenti delle imprese endogene, l'allargamento della base produttiva a nuovi settori, la creazione di nuova occupazione e la crescita del consenso sociale, nonché una maggiore ricettività all'innovazione e alle relazioni con l'esterno (così R. Cappellin, in Federalismo e regionalismo in Italia, 1997).
La posizione degli economisti regionali, dunque, torna a porre l'accento sul dinamismo interno alla r.: caratteri che lo stesso funzionalismo geografico, attraverso il concetto di polarizzazione, aveva sostanzialmente anticipato, pur se talora sopravvalutando il ruolo dei fattori esogeni, come nel caso del 'polo di sviluppo industriale', il cui indotto locale si è rivelato molto spesso modesto, quando non addirittura nullo, e gli effetti sull'organizzazione del territorio controproducenti, specie in termini ambientali e di qualità della vita.
Resta aperto il problema di una sufficiente omogeneità culturale della r., perseguendo la quale, indubbiamente, si tende a restringerne i confini e a limitarne i criteri di efficienza economica. Oggetto di acceso dibattito, per tale motivo, sono le r. dei parchi, dove si vorrebbe, da taluni, la conservazione assoluta dei rapporti ambientali tradizionali, consolidatisi nei tempi della totale dipendenza dell'uomo dalla natura e, generalmente, dell'isolamento geografico; mentre altri sostengono la strategia di uno sviluppo economico innovativo e compatibile, aperto a flussi di interscambio e di fruizione turistica esterna.
Il tema dello sviluppo sostenibile, a partire dalla citata Conferenza delle Nazioni Unite del 1992, investe comunque in pieno la r. come unità di base dell'assetto geografico mondiale. Emerge subito il fondamentale parametro della scala dei fenomeni, per stabilirne il grado di interazione, individuando i livelli di responsabilità all'interno della gerarchia regionale. Mentre l'ambiente agisce alla scala globale (per es. attraverso i cicli climatici o eventi eccezionali che assumono portata planetaria, come una grande eruzione vulcanica o le anomalie meteorologiche provocate da El Niño), pur con effetti differenziati sulle r. a seconda della loro posizione geografica, i sistemi regionali manifestano azioni tanto più rilevanti sull'ecosistema globale quanto più complessa è la loro organizzazione e ampia la dimensione produttiva (così per l'emissione di composti chimici e calore da parte delle grandi aree urbano-industriali). I rischi evidenti di alterazioni irreversibili hanno reso le collettività regionali sempre più sensibili al problema della sostenibilità dello sviluppo, dando corpo alle tendenze già manifestatesi nell'ambito della geografia regionale verso una maggiore valutazione degli elementi qualitativi nei confronti del quantitativismo funzionalista e del produttivismo economico.
La pianificazione territoriale è chiamata, pertanto, a nuove metodologie, dovendo passare da programmi settoriali a strategie globali, che tengano soprattutto conto dell'impatto ambientale cui l'uso delle risorse sottopone lo spazio regionale. Ogni nuova ipotesi di regionalizzazione dovrà assumere, pertanto, una divisione del lavoro equilibrata e sostenibile da ciascuna componente, fisica e antropica, di tale assetto spaziale, evitando le concentrazioni esasperate, causa di altrettanto violente rarefazioni, che hanno caratterizzato, come si è detto, la fase della crescita agglomerativa.
Il modello insediativo diffuso, tipico delle r. dell'Italia 'di mezzo' (Nord-Est e Centro), sembrerebbe contenere in sé i presupposti dell'efficienza unita alla 'equità' territoriale; così come la tendenza al decentramento verificatasi, in generale, nei paesi sviluppati potrebbe indicare la nuova dimensione dello sviluppo endogeno, progressivamente sottratto al centralismo, sia politico sia economico. Il processo appare, peraltro, ancora lungo: fanno riflettere, da un lato, i pur deboli segnali di ricentralizzazione, anche demografica, manifestatisi negli anni Novanta; e, dall'altro lato, i limiti dello sviluppo autopropulsivo, per i quali basti pensare all'inquinamento prodotto da molte delle forme più note e diffuse dell'industrializzazione spontanea (i distretti del cuoio, per fare un solo esempio), in carenza di strutture associative e controlli pubblici.
Regione e regionalismo appaiono dunque oggi come i termini di un confronto iniziato, per l'Italia come per tutti i paesi maggiormente sviluppati, con la formazione dello Stato moderno, sia esso unitario o federale: confronto fra il ritaglio territoriale delle unità politico-amministrative, da parte del governo centrale, e la consapevolezza di appartenere a entità costitutive di un organismo più ampio, ma dotate di sostanziale autonomia culturale ed economica, da parte delle comunità regionali. La convergenza verso forme istituzionali che, progressivamente, conducano i due termini a identificarsi ne appare l'evoluzione normale e auspicabile.
bibliografia
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Federalismo e regionalismo in Italia, a cura di F. Bencardino, Napoli 1997.