Abstract
Le Regioni a statuto speciale vengono inquadrate nell’ordinamento repubblicano, in base all’assunto della loro problematica riconducibilità alle Regioni ordinarie, delle quali non paiono costituire semplicemente una variante, più o meno derogatoria rispetto al modello dettato dal titolo V, parte seconda Cost. In tale prospettiva, si esamina l’istituto della specialità regionale, al fine di individuarne la natura, il fondamento e i caratteri portanti, muovendo dalla disciplina dettata dai cinque statuti speciali e dalla sua attuazione in ciascuna corrispondente Regione, potenzialmente configurabile come un sistema di governo di una comunità, fortemente autonomo rispetto allo Stato.
L’istituto della specialità regionale è accolto dalla Costituzione italiana all’art. 116, co. 1, secondo cui, notoriamente, «il Friuli Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale». Si affida quindi a ogni statuto la definizione delle forme e la precisazione delle condizioni di speciale autonomia di ciascuna delle Regioni in discorso. Dal che discende che in ognuna di esse la specialità può assumere – e assume – caratteristiche differenti. Tuttavia la concisa ricostruzione del regionalismo speciale, in questa sede, sembra richiedere non solo e non tanto la descrizione delle caratteristiche delle cinque Regioni, quanto piuttosto l’analisi dei vari profili dell’istituto della specialità regionale, in tutto o in parte comuni a tali Regioni, con riferimento alla sua natura (par. 2), al suo fondamento (par. 3) e ai suoi caratteri portanti (par. 4). Conclusivamente, si vedrà come l’inveramento della specialità regionale abbia dato luogo a esiti più o meno felici nella varie Regioni ad autonomia differenziata (par. 5); in ciascuna di esse risultano però sempre presenti, almeno potenzialmente, quei caratteri in grado di farne un sistema di governo distinto e separato da quello operante nel resto del territorio nazionale.
Investigare la natura della specialità regionale significa coglierne l’essenza, in modo da apprezzarne il valore nel quadro dell’ordinamento repubblicano complessivamente inteso. Il che richiede, ad avviso di chi qui scrive, di assumere quest’ultimo come angolo visuale, ad esso rapportando, in termini di deroga, la disciplina di ciascuna Regione a statuto speciale. Sembra invece fuorviante leggere la Regione speciale primariamente e prevalentemente in termini di deroga alla (sola) disciplina comune delle Regioni ordinarie. Grossolanamente, ma efficacemente, potrebbe dirsi che la Regione speciale non è semplicemente una Regione ordinaria con più autonomia, più funzioni, più risorse finanziarie. Se si accedesse alla qui denegata ipotesi, si finirebbe probabilmente per limitarsi a descrivere ciascuna Regione a statuto speciale in termini tali da enfatizzarne le sole differenze rispetto alle Regioni ad autonomia ordinaria; descrizione che, soprattutto se condotta a prescindere dalle relazioni fra le Regioni speciali e l’ordinamento nel suo insieme, potrebbe superficialmente risolversi – come accade sempre più spesso nella vulgata giornalistica – nell’additarle alla pubblica riprovazione, quali luoghi del privilegio e dello spreco (evidenzia l’orientamento demagogico di tali ricostruzioni Ferrari, G.F., Il futuro delle specialità regionali, in Giur. cost., 2014, 1940).
Ma il legame fra Regione a statuto speciale e Regione a statuto ordinario è meno stretto di quanto l’assonanza tra i due sintagmi potrebbe suggerire. Sebbene il sostantivo “Regione” indichi il genere comune, l’accento dovrebbe piuttosto cadere sulla differenza specifica, espressa dai rispettivi aggettivi che qualificano lo statuto. È la tendenza all’euritmia che induce a raffigurare – un poco semplicisticamente – l’assetto regionale italiano come un insieme di venti Regioni, cinque delle quali dotate di autonomia speciale. Occorre invece rammentare che in origine la previsione dell’autonomia speciale non rientrava in un disegno complessivo di regionalizzazione, ma rispondeva piuttosto all’esigenza di conservare all’unità nazionale territori insulari e di confine, rappresentando «il tributo pagato per sottrarre consensi e togliere consistenza ad ambizioni ben più eversive» (Rotelli, E., L’avvento della Regione in Italia, Milano, 1967, 55). Tanto è vero che nel 1946-1947 la specialità regionale costituisce una sorta di «fatto compiuto, di cui l’Assemblea costituente è chiamata a tener conto» (Paladin, L., Diritto regionale, 7 ed., Padova, 2000, 9).
Si osservi come i territori che corrispondono alle Regioni a statuto speciale non abbiano necessariamente le tipiche dimensioni regionali. Così la Valle d’Aosta ha una pezzatura provinciale (se non subprovinciale), in quanto la sua specialità sorse con l’attribuzione di funzioni amministrative a quella parte della Provincia di Aosta corrispondente ai suoi Comuni francofoni, «costituita in circoscrizione autonoma con capoluogo Aosta» (art. 1, co. 1, d.lgs.lgt. 7.9.1945, n. 545). Analogamente, la dimensione provinciale connota profondamente il Trentino-Alto Adige, dove, nella sempre più fragile cornice regionale, la stragrande maggioranza delle funzioni viene statutariamente attribuita o comunque esercitata dalle Province autonome di Trento e di Bolzano. Il grezzo dato dimensionale, ora richiamato, evidenzia come la specialità regionale non vada ricostruita soltanto in termini di attribuzione a cinque Regioni su venti di «forme e condizioni particolari di autonomia», più ampie, può presumersi, di quelle di cui uniformemente (salvo che non venga attuato l’art. 116, co. 3, Cost.) dispongono le rimanenti quindici Regioni, cosiddette ordinarie. Tale non condivisibile ricostruzione legge topograficamente l’art. 116, co. 1, Cost., in modo da valorizzarne la collocazione nel titolo V della parte seconda Cost. e da razionalizzare a posteriori un processo, in misura non trascurabile di origine precostituzionale, che ha condotto a introdurre, in cinque territori, cinque discipline regionali speciali. Appare invece preferibile leggere non tanto topograficamente, quanto sistematicamente le «forme e condizioni particolari di autonomia», riferendole dunque all’intero testo costituzionale. Così, ad esempio, l’uso in un dato territorio, accanto all’italiano, di altri idiomi quali lingue coufficiali (così il tedesco, ex art. 99 st. Trentino-Alto Adige e il francese, ex art. 38, co. 1, st. Valle d’Aosta che peraltro si limita a parificarlo all’italiano, senza dichiararlo lingua ufficiale) rappresenta evidentemente una deroga non alla disciplina dettata dal titolo V, ma alla previsione, implicitamente ricavabile dal testo costituzionale (C. cost., 11.2.1982, n. 28, ed esplicitata, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 1, co. 1, l. 15.12.1999, n. 482), secondo cui la (sola) lingua ufficiale della Repubblica è appunto l’italiano.
Il dato comparatistico sembra confermare come le Regioni speciali possano costituire una variabile indipendente rispetto alle Regioni ordinarie: sia la Finlandia, sia il Portogallo, sono esempi di Stati unitari centralizzati, nell’ambito dei quali sono state istituite Regioni autonome, dotate di funzioni legislative, soltanto in un parte esigua del loro territorio (rispettivamente gli arcipelaghi delle Åland, da un lato, e delle Azzorre e di Madera, dall’altro), per il resto non regionalizzato (Cariola, A.-Leotta, F., Art. 116 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto e M. Olivetti, III, Torino, 2006, 2209). D’altra parte, anche nel nostro paese la specialità regionale ha operato per lunghi decenni, in mancanza della regionalizzazione della restante parte del territorio nazionale.
L’indipendenza concettuale delle Regioni speciali rispetto alle Regioni ordinarie emerge anche qualora si rifletta sulle rationes della rispettiva istituzione. Mentre la regionalizzazione dell’intero territorio dello Stato permette a quest’ultimo di liberarsi di competenze che, secondo una ratio traslativa, vengono esercitate ovunque dalle Regioni, la specialità regionale non fa venir meno le competenze dello Stato, delle quali la Regione speciale potrà soltanto delimitare l’efficacia, escludendola dal proprio territorio, secondo una ratio derogatoria (D’Atena, A., Passato, presente … e futuro delle autonomie regionali speciali, in Rivista AIC, 4, 2014, 5; adde amplius D’Atena, A., L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, spec. 155-161 e 184-188), non tanto nei confronti dell’eventuale Regione ordinaria, quanto rispetto allo Stato; il che significa riferirsi a deroghe rispetto all’ordinamento complessivamente inteso, come sin qui sostenuto.
Forse non del tutto casualmente, è integralmente fallito il tentativo, posto in essere dalla l.cost. 18.10.2001, n. 3, di rendere meno dissimili le (discipline delle) Regioni ordinarie e di quelle speciali (sul quale vedi Malfatti, E., Legge cost. n. 3/2001, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 2006, 389-390). Così può oggi constatarsi come quindici anni non siano stati sufficienti: né per adeguare gli statuti speciali, ex art. 10 l.cost. n. 3 del 2001, con specifico riferimento alle «forme di autonomia più ampie», espressamente attribuite dalla stessa l.cost. alle Regioni ordinarie; né per attuare la specializzabilità delle Regioni ordinarie, che le avrebbe in qualche misura avvicinate alle Regioni speciali, per il tramite dell'attribuzione alle prime (o ad alcune di esse) di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», ex art. 116, co. 3, Cost.
Secondo l’orientamento proposto nella presente voce, la specialità regionale può essere ricostruita in termini di singola eccezione nell’ambito dell’ordinamento, per rispondere a peculiari (e non necessariamente uniformi tra loro) esigenze di autonomia, che si sono manifestate attraverso una forte domanda sociale, in quanto radicata in una identità culturale assai sentita. Non per nulla, tali esigenze autonomistiche caratterizzano determinati territori anche in ragione del loro sviluppo storico, condizionato vuoi dall’isolamento dovuto all’insularità, vuoi dalla collocazione su un confine che separa una minoranza linguistica dalla restante parte del medesimo gruppo linguistico, maggioritario nello Stato posto al di là del confine stesso (vale a dire la collocazione su un confine politico che non è anche un confine linguistico e dunque in qualche misura culturale, in quanto la minoranza linguistica stanziata in Italia si riconosce – in misura maggiore o minore – nell’appartenenza nazionale propria dello Stato confinante). Le esigenze di autonomia in discorso non potevano essere soddisfatte attraverso la disciplina generale prevista dall’ordinamento che, avendole valutate favorevolmente – anche per ragioni di carattere internazionale – vi ha fatto corrispondere il riconoscimento della specialità. Il convergere tra le peculiari esigenze di autonomia di comunità e territori contraddistinti dalle particolari caratteristiche storico-geografiche ora delineate, da un lato, e, dall’altro, il singolare, puntuale riconoscimento di tali esigenze da parte dell’ordinamento, può reputarsi costituisca l’essenza stessa della specialità regionale, il cui valore va identificato nella riconduzione delle accentuate istanze autonomistiche, proprie di tali parti della Repubblica, all’unità nazionale che, in quanto principio fondamentale della Costituzione, limita la stessa specialità regionale; altrimenti detto, va identificato nella piena realizzazione, anche dove potrebbe risultare meno agevole, dell’armoniosa sintesi tra autonomia e unità, tratteggiata dall’art. 5 Cost.
Le Regioni a statuto speciale trovano il loro fondamento costituzionale nell’art. 116, co. 1, Cost. che, sia nel testo originario, sia in quello vigente, introdotto dalla legge cost. n. 3/2001, notoriamente prevede per loro «forme e condizioni particolari di autonomia». Peraltro la disposizione costituzionale vigente risulta diversamente formulata rispetto a quella originaria: mentre quest’ultima disponeva che le «forme e condizioni particolari di autonomia» fossero «attribuite» alle Regioni a statuto speciale, la prima statuisce che esse ne «dispongono». La formulazione prescelta dal revisore costituzionale del 2001 risulta maggiormente perspicua, in quanto il ricorso al verbo “disporre” evidenzia il «carattere originario» della specialità regionale (Mangiameli, S., Regioni a statuto speciale, in Diz. dir. pubb. Cassese, 2006, 4986), e dunque il suo fondamento precostituzionale, se non extracostituzionale. In altre parole, prevedere che le cinque Regioni esplicitamente menzionate all’art. 116, co. 1, Cost. «dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia», sulla base dei rispettivi statuti speciali, sembra significare che la Costituzione, più che istituire le autonomie speciali (come pareva sottintendere il testo originario dell’art. 116), prende atto della loro esistenza, riconoscendola. In questa prospettiva, la specialità regionale è stata qualificata come un limite alla stessa revisione costituzionale: poiché infatti «la creazione di Regioni a statuto speciale non è stata l’effetto di pure volizioni politiche, ma è stato un portato della storia, allo stesso modo non è possibile la loro cancellazione per pura volontà politica» (Silvestri, G., Le autonomie regionali speciali: una risorsa costituzionale da valorizzare, Trieste, 26.5.2014, in www.cortecostituzionale.it, 9), qual è appunto quella sottesa al procedimento ex art. 138 Cost.
Il riconoscimento da parte della Costituzione repubblicana delle autonomie regionali speciali sembra dunque presupporne un fondamento extracostituzionale, sia di natura internazionale, sia di natura metagiuridica (Rolla, G., Alcune considerazioni in merito al fondamento costituzionale del regionalismo speciale. L’apporto del diritto comparato, in le Regioni, 2015, 342-344).
Quanto al fondamento internazionale, il caso più noto è quello del Trentino-Alto Adige, la cui specialità regionale, nella peculiare articolazione in due Province autonome, trova origine nell’accordo De Gasperi-Gruber (Parigi, 5.9.1946), che costituisce l’allegato IV del trattato di pace fra l’Italia e le Potenze alleate ed associate (Parigi, 10.2.1947, ratificato dal nostro paese con l. 2.8.1947, n. 811), che all’ art. 10, co. 2, espressamente ne prende atto. L’art. 2 dell’accordo italo-austriaco prevede che ai «German speaking inhabitants of the Bolzano Province and of the neighbouring bilingual townships of the Trento Province» «will be granted the exercise of an autonomous legislative and executive regional power». Come l’accordo De Gasperi-Gruber del 1946 fonda il cosiddetto primo statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige (adottato con l.cost. 26.5.1948, n. 5), così alla base del secondo statuto (risultante dalle modifiche apportate al primo statuto dalla l.cost. 10.11.1971, n. 1, successivamente trasfuse nel d.p.r. 31.8.1972, n. 670) si pone l’intesa Moro-Waldheim (Copenhagen, 30.11.1969) che condusse all’introduzione delle misure previste dal «pacchetto per l’Alto Adige», realizzate anche con lo statuto speciale del 1972.
Quella trentino-altoatesina non è peraltro l’unica autonomia speciale almeno in parte riconducibile alla tutela internazionale delle minoranze linguistiche che concorrono a costituire la comunità regionale. Nel caso del Friuli Venezia Giulia la specialità si fonda infatti anche sulla tutela della minoranza linguistica slovena, presente nella parte orientale del territorio regionale (come la minoranza germanofona è stanziata quasi esclusivamente nella parte settentrionale della Regione Trentino-Alto Adige). Quanto al Friuli Venezia Giulia, il memorandum d’intesa (Londra, 5.10.1954) tra i Governi d’Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Jugoslavia prevede(va), al suo allegato II, uno statuto speciale per il Territorio Libero di Trieste, contenente, con riferimento alla parte destinata all’amministrazione civile italiana, varie forme di tutela per il «gruppo etnico jugoslavo» (rectius gruppo linguistico sloveno). È ben vero che il memorandum non è mai stato ratificato dal nostro paese, ma le sue previsioni sono state in gran parte applicate e successivamente garantite dal trattato italo-jugoslavo di Osimo (10.11.1975; esso sì ratificato dall’Italia, con l. 14.3.1973, n. 77), che all’art. 7 stabilisce la cessazione degli effetti del memorandum d’intesa e dei suoi allegati, ma al successivo art. 8 prevede che ciascuna parte «maintiendra en vigueur les mesures internes déjà adoptées» sulla base del citato statuto speciale, allegato al memorandum stesso.
Pur in assenza di atti di diritto internazionale pattizio, altre autonomie regionali speciali non sembrano del tutto prive di una qualche forma di fondamento internazionale, quantomeno in termini di ragioni di politica estera che hanno favorito il sorgere della corrispondente specialità. Si pensi alla peculiare situazione della Valle d’Aosta, dove gli orientamenti secessionisti si intrecciavano con la presenza delle truppe francesi d’occupazione, lì stanziate sino al luglio 1945, vale a dire contestualmente alla redazione del d.lgs.lgt. n. 545/1945, origine dell’autonomia valdostana, emanato poche settimane dopo, anche come una sorta di contropartita della rinunzia francese ai propositi annessionistici (vedi Carrozza, P., Legge cost. n. 4/1948, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1995, 404, nt. 9). Può infine rammentarsi il movimento indipendentista siciliano, che venne fronteggiato anche attraverso l’assai tempestiva adozione dello statuto regionale (r.d.lgs. 15.5.1946, n. 455), oltre due anni prima dell’elezione dell’Assemblea costituente.
Accanto al fondamento internazionale della specialità regionale, se ne può riscontrare un altro, per così dire metagiuridico, riconducibile alle caratteristiche delle comunità interessate, che – come si accennava – presentano un’identità culturale molto sentita, specifica e fortemente differenziata da quella del resto del paese, in ragione di uno sviluppo storico condizionato da fattori particolari: il plurilinguismo o l’insularità o la protratta appartenenza a un altro ordinamento giuridico, dal quale si sono ereditati istituti peculiari (si pensi al sistema del libro fondiario, tutt’ora in uso in quei territori inclusi più a lungo nell’Impero asburgico e alternativo al catasto ordinario, proprio del resto d’Italia). Può rilevarsi come tutti gli statuti speciali dimostrino, nell’elencazione delle materie di competenza legislativa e – in virtù del principio del parallelismo delle funzioni (per tutti gli statuti, vedi art. 6 st. Sard.) – amministrativa della corrispondente Regione (o Provincia autonoma), una particolare attenzione a quei profili che esprimono l’identità culturale della corrispondente comunità. Così, accanto al già menzionato «impianto e tenuta dei libri fondiari» (art. 4, co. 1, n. 5, st. Friuli Venezia Giulia; art. 4, co. 1, n. 5, st. Trentino-Alto Adige), possono richiamarsi gli «usi civici» (art. 4, co. 1, n. 4, st. Friuli Venezia Giulia; art. 3, co. 1, lett. n, st. Sardegna; art. 14, co. 1, lett. c, st. Sicilia; art. 8, co. 1, n. 7, st. Trentino-Alto Adige; art. 2, co. 1, lett. o st. Valle d’Aosta), l’«ordinamento delle minime proprietà colturali» (art. 8, co. 1, n. 8 st. Trentino-Alto Adige; art. 2, co. 1, lett. o, st. Valle d’Aosta), la «toponomastica» (art. 5, co. 1, n. 19, st. Friuli Venezia Giulia; art. 8, co. 1, n. 2 st. Trentino-Alto Adige; art. 2, co. 1, lett. v, st. Valle d’Aosta, di cui non sfugge la rilevanza culturale in territori caratterizzati da plurilinguismo), nonché, in Trentino-Alto Adige, l’«ordinamento dei “masi chiusi” e delle comunità familiari rette da antichi statuti o consuetudini» (art. 8, co. 1, n. 5), l’«alpicoltura» (art. 8, co. 1, n. 16), «le guide, i portatori alpini, i maestri e le scuole di sci» (art. 8, co. 1, n. 20) e, in Valle d’Aosta, l’«incremento dei prodotti tipici della Valle» (art. 2, co. 1, lett. n ), le «consorterie, promiscuità per condomini agrari e forestali» (art. 2, co. 1, lett. o ), l’«ordinamento delle guide, scuole di sci e dei portatori alpini» (art. 2, co. 1, lett. u ).
D’altra parte, che la specialità regionale esprima una forte esigenza autonomistica della comunità interessata, sembra trovare conferma nella circostanza che «buona parte degli statuti speciali (…) o sono stati elaborati in sede locale o sono risultati da una contrattazione cui hanno partecipato anche forze politiche locali» (Mor, G., Le Regioni a statuto speciale nel processo di riforma costituzionale, in le Regioni, 1999, 208). Si fa riferimento in particolare al ruolo svolto dalla Consulta regionale siciliana e da quella sarda (rispettivamente istituite dall’art. 3 d.lgs.lgt. 28.12.1944, n. 416 e dall’art. 3 d.lgs.lgt. 28.12.1944, n. 417) che intrapresero «veri e propri lavori di elaborazione di bozze di statuti speciali» (Giangaspero, P., La nascita delle Regioni speciali, in Mangiameli, S., a cura di, Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, I, Milano, 2012, 126), sostanzialmente corrispondenti ai testi successivamente adottati. Del pari, sia il primo, sia il secondo statuto trentino-altoatesino sono il risultato di processi che hanno origine da testi elaborati localmente (vedi, con riferimento all’uno, Piccoli, P. - Vadagnini, A., a cura di, Progetti e documenti per lo statuto speciale di autonomia del 1948, Bologna, 2010, e all’altro, i lavori della «Commissione dei diciannove», richiamati da Andreatta, G., La specialità: costituzione materiale e costituzione formale. Il passaggio del 1972, in Marcantoni, M. - Postal, G. - Toniatti, R., a cura di, Trent’anni di autonomia, I, Bologna, 2005, 22-24).
Proprio in quanto il regionalismo speciale corrisponde alle esigenze autonomistiche di una comunità stanziata su un certo territorio, questo (e di conseguenza quella), viene assai precisamente delimitato, quando detta operazione non risulti superflua in ragione dell’insularità. Così il territorio valdostano è individuato, Comune per Comune, dall’allegato 1 al d.lgt.lgs. n. 545/1945 (implicitamente ripreso all’art. 1, co. 2, st. Valle d’Aosta), mentre lo statuto trentino-altoatesino fa acribiamente coincidere il confine interprovinciale con quello linguistico, spingendosi sino al livello di frazione comunale (art. 3, co. 2). Il territorio sembra quindi costituire un elemento identitario della specialità regionale (o provinciale), sulla base di considerazioni storico-culturali. Caratteristica che pare invece più difficilmente propria del territorio della Regione ad autonomia ordinaria che non risponde tanto al senso di appartenenza della rispettiva collettività, quanto alla volontà del centro politico di suddividere in Regioni l’intero territorio nazionale, onde poter riorganizzare le funzioni (e gli apparati) dello Stato, trasferendone una parte a livello regionale. Tanto è vero che le Regioni ordinarie vengono delimitate secondo confini in buona misura artificiali, corrispondenti ai compartimenti statistici, individuati a partire dal 1864 appunto per finalità statistiche, semplicemente raggruppando le varie Province che a loro volta risulta(va)no artificiali, in quanto notoriamente rispondenti a esigenze (non certo di autonomia, ma) di controllo amministrativo e militare del territorio, su modello dei Dipartimenti francesi. Emblematica sul punto fu l’approvazione, da parte dell’Assemblea costituente, dell’o.d.g. Targetti, che ripropose i vecchi compartimenti statistici proprio per «troncare i vari tentativi localistici» di perimetrare altre Regioni (Cuocolo, F., Diritto regionale italiano, Torino, 1991, 29). A ben vedere, l’esatto opposto di quanto avvenne nella definizione del territorio delle Regioni a statuto speciale.
Nell’ambito della disciplina dettata dai vari statuti speciali, possono evidenziarsi alcuni caratteri portanti delle Regioni ad autonomia differenziata che, complessivamente intesi, permettono di configurare ciascuna di esse come un sistema di governo di un territorio e della corrispondente comunità, marcatamente autonomo, almeno in potenza, rispetto a quello statale.
Quanto alla funzione legislativa, può anzitutto osservarsi come negli statuti speciali venga utilizzata la tecnica dell’espressa enumerazione delle materie rientranti nella competenza regionale; il che risulta particolarmente significativo con riferimento alla potestà legislativa primaria (art. 4, st. Friuli Venezia Giulia; art. 3, st. Sardegna; art. 14, st. Sicilia; artt. 4 e 8, st. Trentino-Alto Adige; art. 2, st. Valle d’Aosta). Se infatti l’enumerazione delle materie ricomprese nella legislazione concorrente caratterizza da sempre anche le Regioni ordinarie ex art. 117 Cost. (sia nella formulazione originaria, sia in quella vigente), la potestà legislativa attribuita a queste ultime che più si avvicina alla legislazione primaria delle Regioni speciali, vale a dire la legislazione residuale, vede il suo ambito materiale individuato a contrario, appunto residualmente, rispetto alle materie incluse nella potestà legislativa statale esclusiva e nella legislazione concorrente. Di conseguenza, le materie rientranti nella legislazione primaria delle Regioni speciali risultano più precisamente definite – e dunque meglio tutelate dalle ingerenze della legislazione statale – di quanto non lo siano le materie riconducibili alla legislazione residuale delle Regioni ordinarie. Tanto più che in ciascuna Regione speciale la portata semantica dei sintagmi indicanti le materie può essere ulteriormente precisata attraverso norme di attuazione statutaria, vale a dire ricorrendo a decreti legislativi adottati con il concorso di Commissioni paritetiche, formate in egual misura da rappresentanti dello Stato e della Regione interessata (ad es. art. 56, st. Sardegna), su cui torneremo fra breve. È ben vero che, da un canto, l’art. 10 l.cost. 3/2001 ha introdotto anche per le Regioni speciali la possibilità di legiferare in ambiti innominati, in quanto corrispondenti alle materie spettanti a contrario alle Regioni ordinarie ex art. 117, co. 4, Cost., e, dall’altro, che le materie cosiddette trasversali dello Stato non mancano di incidere anche sulle materie attribuite alla legislazione delle Regioni a statuto speciale (così, i «livelli essenziali delle prestazioni» ex art. 117, co. 2, lett. m, Cost., ad esempio secondo C. cost. 23.3.2006, n. 134, in materia sanitaria). Tuttavia è sufficiente confrontare la timida legislazione residuale adottata dalle Regioni ordinarie nell’ultimo quindicennio (al riguardo, ragiona di scarso “coraggio” delle Regioni a statuto ordinario, Ruotolo, M., Il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, a dieci anni dalla riforma costituzionale, in Diritto e Società, 2011, 132) con l’ampia legislazione primaria delle Regioni speciali per rendersi conto di quanto, al di là di ogni altra considerazione, l’espressa enumerazione delle materie favorisca il legislatore regionale.
In forza della l. cost. 23.9.1993, n. 2, tra le materie espressamente attribuite alla legislazione primaria di tutte le Regioni speciali rientra l’«ordinamento degli enti locali». In tal modo si è consentito il sorgere nelle varie Regioni a statuto speciale di altrettanti «sistemi regionali di autonomie territoriali» (Ferrara, A., I poteri ordinamentali sugli enti locali tra passato e futuro della specialità regionale, in Ferrara, A. - Salerno, G.M., a cura di, Le nuove specialità nella riforma dell’ordinamento regionale, Milano, 2003, 254), disciplinati dalla legislazione regionale, distinti e separati dal sistema degli enti locali vigente nelle restanti quindici Regioni (ordinarie), di fonte quasi esclusivamente statale (grazie alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, co. 2, lett. p, Cost.).
Quanto alla funzione amministrativa, nelle Regioni a statuto speciale continua a vigere il principio del parallelismo delle funzioni (ad es., art. 8, st. Friuli Venezia Giulia), non trovandovi automatica applicazione il principio di sussidiarietà ex art. 118, co. 1, Cost. (C. cost. 18.6.2007, n. 238 e 4.7.2007, n. 286). Il che significa che la Regione speciale applica amministrativamente le proprie leggi, potendo dar vita a un vero e proprio sistema regionale, almeno potenzialmente chiuso rispetto ad altri enti territoriali.
La natura distinta e separata della Regione a statuto speciale rispetto allo Stato sembra emergere qualora si rammentino le modalità di raccordo tra i due enti, caratterizzate da un’accentuata bilateralità, espressa – più che dalla pur prevista partecipazione del Presidente della Regione al Consiglio dei ministri (ad esempio, art. 44, st. Friuli Venezia Giulia) – dalle Commissioni paritetiche, la cui composizione richiama quella di un organo arbitrale: formate per metà da rappresentanti della Regione speciale e per metà da rappresentanti dello Stato, sono chiamate a intervenire nel procedimento di formazione delle norme di attuazione statutaria, successivamente adottate con decreto legislativo (vedi, per tutti, art. 48-bis, st. Valle d’Aosta). In tal modo, l’inverarsi delle previsioni statutarie viene sostanzialmente a dipendere dall’accordo fra lo Stato e la Regione interessata, vale a dire, almeno in certa misura, anche dalla volontà di quest’ultima; accordo che può risultare praeter statutum, quando comporta l’attribuzione alla Regione speciale (o alla Provincia autonoma) di funzioni statutariamente non previste (così, ad esempio, il d.lgs. 18.7.2011, n. 142, relativo all’Università degli studi di Trento, sul quale vedi Verde, G., Uniformità e specialità delle Regioni, in Rivista AIC, 4, 2015, 14). Proprio il d.lgs. da ultimo citato – in quanto attuativo dell’accordo di Milano, di cui si dirà tra breve – ci rammenta come, con particolare riferimento al Trentino-Alto Adige, la bilateralità dei rapporti fra Regione speciale-Province autonome, da un canto, e Stato, dall’altro, passi anche attraverso accordi volti a modificare le disposizioni statutarie in materia finanziaria che lo statuto stesso ha decostituzionalizzato, prevedendo la loro revisione attraverso legge ordinaria, «su concorde richiesta del Governo e, per quanto di rispettiva competenza, della Regione o delle due Province» (art. 104, co. 1). L’economia della presente voce induce a limitarsi a citare l’accordo di Milano del 30.11.2009 e l’accordo di Roma del 15.10.2014, rispettivamente trasfusi nella legge finanziaria 2010 (l. 23.12.2009, n. 191) e nella legge di stabilità 2015 (l. 23.12.2014, n. 190), modificative, per quel che qui interessa, del titolo VI (“Finanza della Regione e delle Province”) dello Statuto del Trentino-Alto Adige.
I profili finanziari cui ora si accennava costituiscono un ulteriore carattere portante delle Regioni speciali. La specialità finanziaria regionale si traduce soprattutto nella compartecipazione, statutariamente garantita, al gettito erariale riferibile al territorio regionale (ad esempio, art. 49 st. Friuli Venezia Giulia). Anche dal punto di vista finanziario, la Regione speciale si configura quindi come un sistema chiuso, capace di trattenere al suo interno la gran parte della ricchezza ivi prodotta, partecipando assai limitatamente al processo di redistribuzione delle risorse a favore delle aree economicamente svantaggiate del paese. Il che implica una distinzione, nell’ambito delle Regioni speciali, basata sulle loro condizioni fattuali; più specificamente, sulla loro capacità fiscale per abitante. Com’è evidente, soltanto se quest’ultima è elevata, la Regione (o la Provincia autonoma) può porsi come un sistema finanziario sostanzialmente autonomo dallo Stato, in grado di contrattare con esso «un costante scambio tra innalzamento delle compartecipazioni (o interpretazione/applicazione estensiva dei criteri di compartecipazione) e oneri aggiuntivi legati alla regionalizzazione di funzioni originariamente statali» (Chessa, O., Specialità e asimmetria nel sistema regionale italiano, in Mangiameli, S., a cura di, Il regionalismo italiano, cit., 173), attraverso le norme di attuazione e gli accordi Regione-Stato. Al riguardo, occorre rammentare come la disponibilità di risorse finanziarie propria delle Regioni speciali, e dunque la spesa per abitante delle stesse, vada rapportata non solo e non tanto a quella propria delle Regioni ordinarie, quanto piuttosto alle funzioni esercitate da ciascuna autonomia speciale, tenuta a finanziare servizi che nel resto d’Italia sono a carico dello Stato, come ad esempio gli stipendi del personale della scuola pubblica, in Trentino-Alto Adige gravanti sulle Province autonome (Cerea, G., Le autonomie speciali, Milano, 2013, 54-56).
I profili finanziari della specialità regionale evidenziano come i caratteri portanti di quest’ultima possano realizzarsi in modo più o meno pieno. Così nelle specialità insulari non solo la debole capacità fiscale impedisce l’autonomia finanziaria della Regione e il suo contrattare con lo Stato l’esercizio di nuove funzioni a fronte di un aumento del gettito tributario regionale trattenuto in loco, ma, più in generale, la costruzione dell’autonomia speciale come sistema di governo separato dallo Stato procede a fatica, pur in presenza di disposizioni statutarie sostanzialmente simili a quelle delle specialità alpine. La debolezza economica delle società insulari ha probabilmente contribuito a rendere le corrispondenti Regioni assai meno ansiose di liberarsi degli interventi centralistici dello Stato di quanto non lo siano state le autonomie speciali dell’Italia settentrionale. Basti riflettere sulla circostanza che in queste ultime, e soprattutto in Trentino-Alto Adige, una pervasiva legislazione regionale (o provinciale) ha progressivamente soppiantato la legislazione dello Stato in tutte le materie di competenza della Regione (o della Provincia autonoma), in modo da far venir meno il rinvio ad atti legislativi dello Stato. Parallelamente, si è fatto un massiccio ricorso alle norme di attuazione che spesso hanno fornito un’interpretazione estensiva delle materie di competenza legislativa della Regione e (soprattutto) delle Province autonome, trasferendo (o delegando) ad esse funzioni amministrative prima statali (sulle «maggiori potenzialità» della Regione Trentino-Alto Adige e soprattutto delle sue Province autonome, si veda Allegretti, U., Presente e futuro delle autonomie regionali in Italia e in Europa, in le Regioni, 2016, 43). Nulla di paragonabile è avvenuto nelle specialità insulari, dove ampi settori materiali continuano a essere disciplinati da atti legislativi statali, nonostante la competenza legislativa regionale statutariamente prevista, ma debolmente esercitata, e dove le norme di attuazione hanno spesso faticosamente e tardivamente inseguito i decreti legislativi di trasferimento di funzioni alle Regioni ordinarie.
Non stupirà dunque constatare come, non di rado, i rilievi critici sulla specialità regionale muovano soprattutto dall’analisi delle Regioni insulari, con particolare riferimento alla Sicilia. Occorrerebbe però rammentare che inferire da considerazioni descrittive sulle singole Regioni speciali alcune conseguenze prescrittive sulla futura disciplina della specialità regionale violerebbe la legge di Hume; peraltro, anche se si reputasse corretto il passaggio da proposizioni descrittive a proposizioni prescrittive, non potrebbe sottacersi che l’insoddisfacente realizzazione di un modello (la specialità regionale), non implica necessariamente un giudizio negativo sul modello stesso, se altrove ha dato luogo a risultati apprezzabili.
D’altra parte, l’odierna valutazione della specialità regionale in Italia non dev’essere poi così negativa, se la revisione costituzionale in corso (vedine il testo pubblicato notizialmente in Gazzetta Ufficiale, serie generale, 15.4.2016, n. 88), pur modificando profondamente la disciplina costituzionale delle Regioni ordinarie, non è intervenuta in alcun modo sulle Regioni speciali. Anzi, de iure condendo, i caratteri propri della specialità regionale risulterebbero rafforzati, con riferimento alla bilateralità dei rapporti con lo Stato, spinta sino al punto di prevedere intese per revisionare i rispettivi statuti, al fine – può presumersi – di applicarvi la disciplina dettata dalla revisione costituzionale stessa (art. 39, co. 13). Più in generale, la significativa compressione delle funzioni, soprattutto legislative, delle Regioni ordinarie, introdotta dalla revisione costituzionale, accentuerebbe il divario tra queste ultime e le Regioni speciali, separando in qualche modo la vita e il destino delle une e delle altre; verrebbe così fornita indiretta conferma della tesi, qui sostenuta, secondo cui la specialità regionale va letta in termini di deroga all’ordinamento complessivamente inteso, più che alla disciplina delle Regioni ordinarie.
Art. 116 Cost.; r.d.lgs. 15.5.1946, n. 455; l.cost. 26.2.1948, n. 2; l.cost. 26.2.1948, n. 3; l.cost. 26.2.1948, n. 4; l.cost. 26.2.1948, n. 5; l.cost. 31.1.1963, n. 1; d.P.R. 31.8.1972, n. 670.
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