Regista
La nascita della regia, agli inizi del 20° secolo, vide l'affermazione di una nuova figura e di un nuovo ruolo di artista e di creatore, in ambito sia teatrale sia cinematografico. Il regista cinematografico sovrintende creativamente e tecnicamente alla realizzazione del film in tutte le sue fasi: sceglie le inquadrature, guida gli attori, dà indicazioni sulla luce e sul suono, determina le scelte della scenografia, dei costumi e dei luoghi in cui girare e, nel caso in cui abbia il totale controllo artistico del film, si occupa anche della sceneggiatura e del montaggio.
Alle origini del cinema la figura del r. non si impose immediatamente nell'ambito del processo produttivo, almeno fino a quando si trattò di una semplice riproduzione della realtà. Quella del r. come nuova funzione emerse nel momento in cui nacquero i primi film a soggetto, si iniziarono a raccontare delle storie e a usare gli attori, non più intesi come semplici figuranti ma come personaggi e, dalla fotografia animata e dalla riproduzione della realtà in movimento, si passò alla narrazione attraverso il mezzo cinematografico.
Nei primi anni dell'invenzione del cinema l'operatore fotografava e dirigeva a un tempo. I film, della durata di pochi minuti, erano realizzati in forma anonima, l'unico dato di identità era il marchio della casa di produzione: si parlava dei film della Pathé, della Vitagraph o della Itala Film, ma non esistevano ancora i titoli di testa, perché il cinema era un terreno vergine privo di regole e di diritti, era un'industria con una serie di dipendenti senza un'identificazione e senza una qualifica. I primi nomi che apparvero sui titoli di testa o nelle locandine e nei manifesti pubblicitari dei film, furono quelli degli autori, soprattutto se scrittori e drammaturghi rinomati e famosi (e non semplici scenaristi di cinema), dalle cui opere il film era tratto, e degli attori e attrici. In Italia, per es., nell'epoca del divismo femminile, comparivano soprattutto i nomi di Francesca Bertini e di Lyda Borelli.
La brevità dei film, l'interesse per l'invenzione in sé, la necessità di perfezionare la tecnica, l'ostilità della borghesia nei confronti del cinematografo, considerato un fenomeno da baraccone, sono tra le ragioni più evidenti che possono spiegare il ritardo della nascita ‒ e contemporaneamente la difficoltà dell'affermazione ‒ della regia e della figura del r. nel cinema. E infatti, almeno fino al 1908, si può parlare più propriamente di una preistoria e non ancora di una storia della regia, con la predominanza di figure atipiche rispetto a quella che sarebbe stata la distinzione classica dei ruoli e che è arrivata fino ai nostri giorni.
Fu in quegli anni che apparve sul set una figura a cui più tardi sarebbe stato dato il nome di film director negli Stati Uniti e di metteur en scène in Francia. Grazie alla forte personalità e al talento di chi la ricopriva non di rado può definirsi come una figura completa di autore e con modalità difficilmente ripetibili negli anni a venire. I pionieri del cinema infatti furono non solo degli inventori, degli industriali o dei tecnici, ma anche dei bricoleurs, dei dilettanti e degli avventurieri, poiché il cinema, essendo un campo totalmente nuovo, aveva bisogno di grandi capacità di invenzione, fantasia e sperimentazione. La soluzione delle questioni tecniche e meccaniche (come il tremolio e lo scintillio delle immagini) era più importante e prioritaria rispetto a qualsiasi altro problema e il lavoro della regia era indissolubilmente legato alla qualità e allo sviluppo delle tecniche di ripresa. Inoltre non vi era ancora una precisa coscienza del nuovo ruolo del r., né una precisa volontà di occuparlo. Mentre le figure dello scienziato o dell'industriale erano socialmente definite e apprezzate, quella del r. non solo fino ad allora non esisteva, ma fare del cinema era ritenuto, in generale, poco dignitoso, se non disonorevole. Come ricorderà Marcel L'Herbier nell'autobiografia, ancora nel 1917 quello del metteur en scène era considerato "un mestiere che non è un mestiere… e che non porta da nessuna parte" (La tête qui tourne, Paris 1979, p. 29).
Come per i fratelli Lumière e Georges Méliès, la concentrazione delle funzioni fu la caratteristica di molti pionieri, non solo in Francia ‒ dove, tra gli altri, si può citare Ferdinand Zecca, r., produttore e supervisore alla Pathé fin dal 1901 ‒ ma anche negli altri Paesi: in Inghilterra per es., con i pionieri di Brighton, Robert William Paul, George Albert Smith e James Williamson (v. Brighton, scuola di); negli Stati Uniti con James Stuart Blackton, fondatore, insieme ad Albert E. Smith, della Vitagraph. Tra il 1896 e il 1908 circa, si iniziò a incontrare quella particolare figura, alla Méliès e alla Blackton, di inventore, operatore, scenarista, decoratore, produttore, a volte anche attore, e di regista-autore (sebbene tale ruolo non avesse ancora una sua riconoscibilità) che si sarebbe esaurita a poco a poco con il completamento e il perfezionamento dell'apparato tecnologico e la conseguente divisione del lavoro.
Le domande sull'origine della figura del r. sono molteplici. Ci si chiede se il r. sia nato come figura di artista che da altri campi si è spostato verso il cinema oppure se abbia caratteristiche e provenienze specifiche e originali; se la sua derivazione sia stata più da una figura di imprenditore come quella del produttore, da una figura tecnica nuova come quella dell'inventore o dell'operatore, oppure dal direttore di scena teatrale. O ancora da una figura di intellettuale-artista fin de siècle, drammaturgo, attore, scenarista, scenografo, giornalista. La risposta non può essere né semplice, né univoca, dato che almeno ognuna di queste professioni è stata all'origine di brillanti carriere di registi. Tuttavia alcuni percorsi sono più frequenti di altri: all'inizio le figure dell'operatore e del r. erano tutt'uno, poi si iniziarono a ingaggiare direttori di scena teatrali, i cosiddetti stage managers o stage-play directors (gli unici ad avere esperienza di soggetti e di recitazione) e, in un secondo momento, in quella che venne chiamata la prima vera generazione di r. (formatasi tra la fine del primo decennio del 20° sec. e i primi anni Dieci) vi fu una cospicua provenienza dalle fila degli attori, più spesso teatrali, ma a volte anche dello schermo. Guardando soltanto agli Stati Uniti si possono fare i nomi di David Wark Griffith, Mack Sennett, Charlie Chaplin, Thomas Ince, Rex Ingram, Cecil B. DeMille, Marshall Neilan, Frank Borzage. In quegli anni, soprattutto nel cinema, fare l'attore era il mezzo più semplice e più facile per entrare nel cosiddetto mondo dello spettacolo e farne esperienza. Essere attore era un 'trampolino di lancio' per passare a diventare r. di cinema, riprendendo ‒ in senso esattamente opposto ‒ la tradizione teatrale che vedeva l'attore più anziano, più esperto o di maggiore fama avere anche una funzione di 'direttore di scena'.
Quando, nel 1908, Griffith, il futuro r. di The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione) e di Intolerance (1916), ex drammaturgo fallito ed ex attore firmò il suo primo contratto di regia con la Biograph, tale ruolo era normalmente occupato o dall'operatore o da un direttore di scena proveniente dal teatro.L'espansione del cinema, l'aumento della lunghezza dei film, la costruzione di nuovi e più grandi teatri di posa, la necessità di avere molti operatori sia in esterni (per le riprese di attualità), sia nei set dei teatri di posa (per i film di finzione) e il fatto infine che erano pochi gli operatori in grado di ricoprire la produzione di un film nelle sue varie articolazioni (trovare il soggetto, organizzare, fotografare e dirigere le riprese, guidare gli attori, stampare e montare) indussero quasi tutte le cinematografie ad affidare la responsabilità delle riprese del film a una nuova figura, quella appunto del regista.
Negli Stati Uniti il cameraman system ‒ nel senso che il capo operatore era responsabile di tutto, dal contenuto del soggetto alla messa in scena fino al trucco degli attori ‒ dominò fino al 1907. Intorno al 1907-08 fu sanzionata la nascita vera e propria della funzione-regista, con il passaggio dal cameraman system al director system, e con la diversificazione dei due ruoli, l'uno riguardando la realizzazione del film e l'altro la sua concezione. Tra il 1909 e il 1914 il director system venne sostituito con il director unit system che diede ancora maggiore potere al r., il quale aveva allora sotto di sé delle squadre autonome con cui lavorava in modo indipendente, configurandosi di fatto come un director-producer. Fu proprio il cinema hollywoodiano (v. Hollywood) il primo a porre sistematicamente il nome del r. nei titoli di testa del film e a dedicargli il cartello unico, directed by, fatto che si sarebbe consolidato un po' dovunque fra la fine degli anni Dieci e l'inizio degli anni Venti.In Italia nel 1909 per la prima volta apparve in un film ‒ Beatrice Cenci di Mario Caserini, prodotto dalla Film d'arte italiana ‒ il nome di chi lo aveva diretto, con la dicitura "messa in scena di". Ma solo a partire dal 1918 il nome di quello che veniva ancora chiamato direttore artistico o direttore di scena (solo nel 1932 il linguista Bruno Migliorini coniò i neologismi regia e regista) non sarebbe stato più omesso nei titoli di testa del film.
La messa in scena teatrale era, insieme alla fotografia, il modello di riferimento, negli anni Dieci, di operatori e r. di cinema. E in quegli anni la figura in embrione del r., del movie director, corse su questi due fili paralleli. Solo quando le competenze artistiche del cosiddetto direttore di scena teatrale (controllo e scelta del soggetto, recitazione e posizione degli attori, ambientazione, scenografia, costumi) si saldarono con quelle tecniche e sperimentali dell'operatore (controllo e conoscenza della macchina da presa e delle luci, scelta, distanza e durata dell'inquadratura e montaggio), si poté avere, nell'ambito del cinema, una vera figura di r., e sorse una nuova generazione ‒ il cui maggiore rappresentante fu Griffith ‒ che considerava l'uso teatrale del cinema, il cosiddetto teatro filmato, una limitazione ai mezzi espressivi del nuovo linguaggio. Tra i compiti principali del r. cinematografico vi erano infatti la necessità e la volontà di liberare la nuova arte dai condizionamenti teatrali e di fare emergere la sostanziale differenza tra la regia teatrale e quella cinematografica. È la ragione sostanziale per cui era definita inadeguata in Francia la denominazione di metteur en scène, derivata dal teatro, anche per il r. cinematografico. Come scrive Jean Giraud nel suo Lexique français du cinéma (1958) "il metteur en scène di teatro, caricato dei preparativi e delle prove che esige la rappresentazione, non è che il collaboratore tecnico dell'autore. Senza il metteur en scène di cinema, il film non avrebbe forma scritta, cioè non esisterebbe" (ad vocem).
In generale le considerazioni sui rapporti di 'discrezione', di 'valorizzazione' e di 'sottomissione' della regia teatrale al testo, sarebbero inammissibili per il cinema (sono poi diventati insostenibili anche per il teatro) e pongono sostanzialmente la differenza tra la regia teatrale e quella cinematografica. Al cinema infatti il r. inventa il film ‒ come ha scritto I. Pichel (1945), riferendosi all'epoca di Griffith, al periodo "magico" e pionieristico, in cui i film "non erano scritti o prodotti, erano diretti" ‒ che parta da una sceneggiatura originale o da un testo già conosciuto, per es. un romanzo o una pièce teatrale. Mentre nel teatro tradizionale di prosa il testo è scritto direttamente per il teatro e spesso è già conosciuto in quanto tale (insieme alla tradizione della sua messa in scena), il film "tratto da" deve sempre passare attraverso la sceneggiatura, che rende quindi 'cinematografico' il testo di partenza, il quale a sua volta, e quindi con altre fondamentali trasformazioni, diventerà un film, lasciando il r. libero di dirigerlo come meglio crede. Inoltre il cinema nasce muto, quindi l'autonomia dal testo di partenza è tecnicamente 'imposta' dalla necessità di raccontare solo per immagini: in questo caso una limitazione tecnica ha generato una liber-tà creativa, dato che, come hanno scritto F. Pasinetti e G. Puccini, "realizzare un film significa inventare un film" (p. 27) o, come ha detto Jean-Luc Godard, "ciò che è filmato è automaticamente diverso da ciò che è scritto, dunque originale" (1968; trad. it. 1971, p. 206).Molti grandi r. degli anni Dieci del Novecento, da Giovanni Pastrone a Griffith, da Enrico Guazzoni a DeMille, si mossero in almeno due direzioni per far crescere la nuova arte del nuovo secolo. Da una parte la creazione del racconto filmico attraverso la messa a punto di un linguaggio specificamente cinematografico: il completo sfruttamento della scala dei piani e delle varie angolazioni dell'inquadratura, l'imposizione del primo piano, lo spostamento e il successivo movimento della macchina da presa (v. movimenti di macchina), l'invenzione del montaggio e la creazione di uno spazio-tempo lineare. Infine, l'esaltazione delle possibilità spettacolari del cinema, lo sfruttamento della bellezza di luoghi e paesaggi nelle riprese in esterni, la valorizzazione della presenza e della recitazione degli attori (con la conseguente nascita del divismo e dello star system) e l'affermazione del lungometraggio, tra il 1911 e il 1914.
L'altra via ‒ quella dell'invenzione di trucchi e di sotterfugi per imporre il cinema come arte ‒ è consistita nell'avvalersi di funzioni e procedimenti che venivano considerati artistici. Dall'uso del grande poeta (basti pensare alla collaborazione di Pastrone con Gabriele D'Annunzio) a quello della grande attrice di teatro, dal ricorso alla luce della grande pittura, alla trasformazione del verso in didascalia.
Negli anni Dieci la creazione del film avveniva durante le riprese, l'improvvisazione sul set era un fatto naturale, organico al modo di produzione di quegli anni, in cui le sceneggiature erano poco più che un canovaccio, si girava in esterni e con la luce del sole e il cinema era ancora un fatto artigianale. I r. inventavano affrettatamente, velocemente e furiosamente, come nel grande cinema comico dei Sennett, dei Chaplin, dei Keaton e dei Lloyd, imponendo un primato e una libertà della regia che probabilmente non sarebbero tornati mai più.Per gli sperimentatori e gli innovatori non sarebbe stato però compito facile venire riconosciuti o semplicemente non essere avversati da produttori e distributori. Griffith ricorda che nel 1913 la sua compagnia, la Biograph, lo considerava only a movie man, "solo un uomo di cinema", non degno quindi di dirigere un film con la stessa autorità di un vero stage-play director. Ma furono proprio le geniali invenzioni del primo grande 'uomo di cinema' ad accelerare l'evoluzione del nuovo linguaggio prendendo procedimenti e metodi di lavoro là dove gli servivano, come il trasferimento, nel cinema, del metodo tipicamente teatrale delle prove e, soprattutto, la messa a punto di storie per lo schermo riprese dai 'migliori autori' e rimaneggiate e fatte proprie, imponendo il fatto che il cinema non era da meno della letteratura e del teatro e che anche i film potevano mettere in scena delle grandi storie e dei grandi drammi (e melodrammi); che anche il cinema poteva raccontare per ellissi saltando tutto ciò che era ripetitivo, inutile o non interessante (Griffith, per far accettare ai produttori riluttanti i salti di montaggio, dichiarava che i suoi film erano come i romanzi di Ch. Dickens); che, con un vantaggio in più rispetto al teatro, era libero di avvicinarsi al personaggio fino a farne vedere il volto in primo piano; che la luce non doveva essere uniforme ma poteva giocare con le ombre per creare un'atmosfera (si pensi alla luce 'alla Rembrandt' di DeMille); infine, che anche il cinema era in grado di usare una sorta di punteggiatura attraverso l'uso della macchina da presa, dei mascherini e delle dissolvenze.Se con i due grandi film di Griffith, nella seconda metà degli anni Dieci, venivano sancite l'autonomia e l'indipendenza del cinema come arte, gli anni Venti segnarono uno spartiacque definitivo tra il 'regno degli operatori' e 'il regno dei registi'. Non solamente nel senso che il ruolo della regia si imponeva ovunque nel processo produttivo, ma anche perché, almeno per quanto riguarda le situazioni più avanzate, si sviluppava un'interessante dialettica, a volte addirittura un deciso braccio di ferro, tra una certa convenzionalità fotografica, ormai acquisita, degli operatori e le innovazioni, le sperimentazioni dei registi.In Germania, in Francia, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, la capacità di inventare 'visivamente' era all'ordine del giorno e i nomi che riguardano questa invenzione appartengono in pieno a quell'età dei metteurs en scène, a quel regno dei r. ‒ da Friedrich W. Murnau a Ewald A. Dupont e a Ernst Lubitsch, da Abel Gance a Marcel L'Herbier, Jean Epstein e Luis Buñuel, da Lev V. Kulešov a Vsevolod I. Pudovkin, Sergej M. Ejzenštejn e Dziga Vertov, da Griffith a Chaplin e a King Vidor, da Eric von Stroheim a Josef von Sternberg ‒ che si può collocare tra l'inizio della Prima guerra mondiale e l'avvento del sonoro e in cui furono realizzati molti dei capolavori della storia del cinema.
Tra la metà degli anni Dieci e la fine del cinema muto (intorno al 1928-29) quindi il r. creatore e indipendente iniziò a dominare il nuovo mezzo espressivo. Il suo ruolo creativo e la sua libertà non erano stati ancora messi in discussione, ma furono proprio la crescita dell'industria cinematografica e l'indispensabile organizzazione di un sistema integrato di produzione, distribuzione ed esercizio (v. impresa cinematografica) a portare a una limitazione della libertà creativa del r., soprattutto negli Stati Uniti, dove perse progressivamente la sua indipendenza con l'inizio dello studio system, quando il potere passò in mano al produttore, che da allora in poi avrebbe sovrinteso e controllato la produzione del film in tutte le sue fasi.
Insieme all'affermazione del sonoro, a cavallo tra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Trenta, vi fu una graduale imposizione del sistema hollywoodiano degli studios, il cosiddetto studio system, e una graduale perdita d'indipendenza del regista. A partire dal 1931 si impose, difatti, un producer unit che sarebbe durato fino al 1955, all'interno del quale il r. era spesso considerato un impiegato, se non addirittura un 'ingranaggio nella macchina', come ebbe a dichiarare uno dei più importanti produttori di Hollywood, David O. Selznick.
Venne lasciata al talento, all'autorità e soprattutto al successo dei film, la possibilità, per il r., di riacquistare, partendo da una posizione di dipendenza, un ruolo più autonomo e di maggiore potere rispetto ai produttori, ma non avrebbe riacquistato mai più, almeno negli Stati Uniti, quel controllo totale sulla propria opera che gli era consentito, prima di tutto, da una certa semplicità dell'organizzazione del set e delle riprese venuta meno con la realizzazione di grandi film e soprattutto con l'avvento del sonoro che rese molto più complesse le diverse fasi di lavorazione di un film. L'unica possibilità per il r. di riacquistare l'indipendenza fu quella di diventare producer-director, ossia di organizzare autonomamente la produzione di propri film come fecero, con alterne fortune, Ernst Lubitsch, DeMille, Frank Capra, Gregory La Cava, John M. Stahl, Leo McCarey oppure Lewis Milestone. Tra gli anni Trenta e Quaranta il lavoro del r. hollywoodiano subì poche modifiche, sia rispetto al proprio ruolo, sia riguardo ai limiti creativi e di intervento nella scelta e nella concezione del film, imposti dalle varie figure di producers, rappresentanti dei grandi banchieri e finanzieri di Wall Street.
La produzione di un film procedeva collettivamente, come una catena di montaggio: smembrato nei suoi vari elementi costitutivi ‒ soggetto, sceneggiatura, scenografia, costumi, luci, casting, e così via ‒ veniva affidato ai diversi departments, reparti circoscritti e indipendenti in cui spesso l'uno non sapeva cosa faceva l'altro, mentre il r. rischiava di essere estromesso anche dalle scelte che più gli competevano, come per es. la posizione della macchina da presa. Il talento, il gusto e le competenze dei singoli r. venivano scoraggiati e mortificati dalle grandi case per imporre una house aesthetic, un'estetica dello studio che era insieme norma stilistica, narrativa e ideologica. Infine il r. non aveva il diritto di partecipare attivamente al montaggio, né soprattutto al final cut, cioè alla decisione ultima sulla forma definitiva del film.I migliori r. americani del cinema classico ‒ quelli che più tardi la critica europea avrebbe definito autori, da Howard Hawks ad Alfred Hitchcock, da Douglas Sirk a Vincente Minnelli, da John Ford a William Wyler, a Nicholas Ray e a Samuel Fuller ‒ quasi sempre riuscivano a tenere a bada i produttori o a escogitare i sistemi più vari perché la loro leadership non venisse messa in discussione, cercando di girare il più possibile in esterni o usando un sistema di riprese definito cut in the camera (taglio in macchina), attraverso il quale il r. anticipava il processo stesso del montaggio girando solo le inquadrature necessarie e da un unico punto di vista, in modo tale che la mancanza di alternative avrebbe imposto al montatore una sola e possibile via, quella indicata dal regista. Fu il caso di Ford e di Hawks.Anche molti r. europei emigrati a Hollywood, a causa dell'avvento del nazismo e dello scoppio della Seconda guerra mondiale, per es. Jean Renoir e Fritz Lang ‒ i quali si trovarono improvvisamente a passare dal modello artigianale del vecchio continente (dove il film veniva costruito dall'inizio alla fine da un'unica mente creativa) al modello industriale discontinuo e standardizzato della fabbrica hollywoodiana ‒ opposero una certa resistenza e rivendicarono la possibilità di agire più liberamente durante le riprese o di non essere estromessi da alcuni dei loro compiti principali, come la sceneggiatura e il montaggio, creando una dialettica, se non un conflitto tra modo di produzione e forme della regia.
Non mancarono comunque, in questo periodo apparentemente monolitico, piccoli cambiamenti e modesti progressi: fu per es. intorno al 1939 che la fondamentale importanza del r. cinematografico cominciò a delinearsi agli occhi del pubblico americano e anche all'interno delle majors. Ma, a parte alcune considerevoli eccezioni, come Charlie Chaplin, Orson Welles e Preston Sturges, che si ribellarono ai metodi hollywoodiani, è all'Europa che bisogna guardare, a partire dal secondo dopoguerra, per capire le trasformazioni che avvennero nell'ambito della regia e del ruolo del regista.
Nel cinema italiano degli anni Trenta ‒ dopo la battuta d'arresto degli anni Venti, dovuta a una pesantissima crisi dell'industria cinematografica, per cui già nel 1922 quasi tutti gli studi cessarono l'attività ‒ si formò e si stabilizzò quel tessuto reale e concreto dei quadri della regia composto sia dai 'vecchi leoni' del mestiere, come Augusto Genina e Carmine Gallone, sia dai r. 'giovani e nuovi', nati e vissuti con la generazione del cinematografo, come Alessandro Blasetti e Mario Camerini. Durante gli anni del fascismo, i r. 'esercitarono il mestiere', si misurarono spesso con film di comando e con i generi più diversi, dovettero subire imposizioni ideologiche e censure, ma arrivarono indenni e fortificati ai maggiori compiti degli anni Quaranta, permettendo a un'altra generazione ancora, preparata e appassionata, di avvicinarsi alla regia. Tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni Sessanta in Europa vi fu una progressiva ripresa dell'iniziativa creativa e del ruolo di autore del r., prima in Italia con il Neorealismo, poi in Francia con la Nouvelle vague, nata alla fine degli anni Cinquanta, e con l'affermazione in tutto il mondo del cosiddetto nuovo cinema.Nell'Europa sconquassata da dittature e da guerre, la regia aveva assunto per lo più due aspetti, percepibili sia a livello popolare sia dal pubblico più colto. Da un lato, secondo una visione hollywoodiana predominante anche in Europa, il r. era un tecnico, un professionista che presiede a un lavoro d'équipe e di collaborazione; dall'altro, nel caso soprattutto di coloro che dopo poco sarebbero stati definitivamente connotati con il nome di autori, il r. era visto come un 'mago', a capo di qualcosa di complesso e misterioso, o come un 'divo', di cui però non si conosceva e non si capiva né il lavoro concreto né quello creativo. Nessuno più oserebbe escludere il r. dai manifesti, dalle locandine, dai titoli di testa o dalle recensioni, eppure, anche se in Europa il r. è ancora oggi più importante del produttore, quella che predominava allora ‒ nella visione gerarchica e sindacalizzata in cui si era assestato il cinema europeo tra gli anni Trenta e Quaranta, specie in Francia ‒ era la dimensione del mestiere, dell'artigianato.Fu a cominciare dal Neorealismo italiano ‒ operante in una situazione di strutture distrutte, di impianti fuori uso, di risorse inesistenti, in una specie di anarchia coatta e di territorio senza regole ‒ che si poté realizzare quella vocazione autoriale e soggettiva del cineasta, preservata (ancora per pochi anni) da interventi censori e da costrizioni industriali, e idealmente ricongiungibile a quella situazione di libertà, allora ingenua e inconsapevole, in cui era nata la regia e che l'aveva caratterizzata sin dalle origini. Partendo però da un'esperienza acquisita, da un cinema ormai maturo e da una consapevolezza drammatica e impegnata del proprio ruolo e della propria funzione, come sottolineato, in modi diversi, dai grandi r. italiani di questo periodo: Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica (insieme a Cesare Zavattini), Giuseppe De Santis, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini. Si rivendicava una vocazione civile, politica del r., 'portaparola' e portabandiera di un'intera comunità e di una nuova idea del mondo, narratore di "un'umanità che soffre e spera", costruttore di 'uomini nuovi', messaggero di 'verità'. Già nel cinema di Rossellini, con Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) si delineano i capisaldi di una concezione moderna della regia: l'impatto diretto con il presente; l'adesione all'ispirazione del momento e a situazioni di autenticità, senza bisogno della mediazione di una sceneggiatura; il rifiuto dei teatri di posa e di ogni ambientazione artificiale; il rigetto del divismo, della finzione romanzesca e della drammaturgia tradizionale; la dialettica tra finzione e documentario; l'autobiografismo inteso come punto di vista soggettivo, come sguardo portato sulle cose da parte del regista-autore; l'integrazione delle condizioni concrete del tournage nella materia stessa del film; e infine l'atteggiamento morale (il Neorealismo è una "posizione morale" per Rossellini) che diventa volontà di mostrare la realtà nella sua interezza e ambiguità. Tutte caratteristiche che sarebbero ritornate, rafforzate, nel cinema della Nouvelle vague e nel cinema moderno (v. modernità) in generale.
I film neorealisti rappresentavano, al di là della denuncia politica e sociale, una rottura e una novità, l'avvento di una concezione originale, che portava con sé anche e per la prima volta, nella storia del cinema italiano, una conseguente originale consapevolezza della nozione di regia e del ruolo del regista. In Italia il Neorealismo permise quindi l'affermazione della figura del r., nel senso moderno del termine, non soltanto nel cinema ma anche in teatro.
Quando, alla fine degli anni Cinquanta, grazie alla spinta innovativa e critica della Nouvelle vague, nacque una più forte nozione di regia, in senso autoriale, fu proprio il più importante r. del Neorealismo, Rossellini, a trovarsi tra i padri fondatori e sostenitori sia di questo nuovo cinema sia della riflessione sulla nozione di cinema d'autore (anche se Rossellini preferì sempre, personalmente, definirsi un cineasta e un professionista, piuttosto che un autore), che aveva spazzato via l'idea della regia come carriera, come mestiere che si apprende facendo la gavetta. Una mentalità e una consuetudine che la Nouvelle vague e gli anni Sessanta interruppero e affossarono.I giovani r. della Nouvelle vague, che avevano cominciato a occuparsi di cinema scrivendo sulle riviste specializzate e in particolare sui "Cahiers du cinéma", si imposero e trionfarono, con i loro film personali e a piccolo budget, sul cosiddetto cinema della 'qualità francese' o cinéma de papa, rappresentato in particolare da Claude Autant-Lara, René Clément, Jean Delannoy e Henri-George Clouzot, un cinema tradizionale improntato all'accademia, all'artificialità, al conformismo produttivo e alla ricostruzione stilizzante, basato sull'adattamento di romanzi famosi e su un sistema di coproduzioni che alimentava il mercato francese di film sempre più cari e sempre più ibridi. Inoltre, ancor più che in Italia, le modalità per accedere alla regia erano ferree. Senza lunghi anni di assistentato e di gavetta era impossibile per un giovane accedere alla regia. Fare un film era una faccenda per pochi eletti e con regole molto rigide: protezionismo di tipo corporativo, autorizzazioni preventive, permesso per comprare la pellicola, troupe sindacale, attori professionisti, sistema produttivo costrittivo ed elefantiaco, obbligo del teatro di posa, gabbie narrative e di genere.I cortometraggi e i primi film di Claude Chabrol, François Truffaut, Godard, Eric Rohmer e Jacques Rivette, di Agnès Varda, Alain Resnais e Louis Malle fecero saltare dall'esterno questo sistema chiuso e ferreo, permettendo di realizzare opere all'insegna di un'audace e libera pratica creativa e di mettere al primo posto la figura del r. come autore, come personalità forte e autonoma che si esprime attraverso il cinema. Era il diretto compimento della caméra-stylo (il r. deve poter utilizzare la macchina da presa con la stessa facilità, leggerezza e 'individualità' di una penna stilografica), utopia vagheggiata da Alexandre Astruc nel 1948 e che portò anche, come conseguenza teorica e critica, l'invenzione della politique des auteurs, concetto polemico che metteva al centro della propria riflessione il ruolo del r. e la difesa del cinema d'autore. Secondo un noto assioma ripreso da Truffaut, che parafrasava un brano di Jean Giraudoux riferito al teatro, 'Non ci sono film belli e film brutti, ma solo buoni o cattivi registi'.
Nei decenni che vanno dagli anni Settanta agli anni Novanta il grande cambiamento ha riguardato soprattutto una trasformazione strutturale del cinema. A causa della crescente incidenza della televisione, che ha preso il posto di medium popolare, si parla sempre più insistentemente di 'morte del cinema'. La figura del r. assume altri connotati, si moltiplica e si disperde nell'universo eclettico dell'audiovisivo. Contemporaneamente però il r. di cinema apparterrà sempre di più a un'élite e la sua autorialità sarà tanto più riconosciuta quanto più avrà acquisito potere grazie al successo di pubblico, esercitando il proprio controllo anche a livello manageriale e sul modo di produzione.
Con gli anni Sessanta e il cinema d'autore si sono esauriti i possibili statuti che la figura del r. aveva espresso all'interno dei concreti sviluppi del cinema nel primo secolo della sua storia. Con le televisioni e l'enorme massa di tipologie della fiction e dei programmi dei palinsesti, sono sorte figure nuove con competenze e talenti anche molto distanti da quelli del classico narratore di immagini in movimento. Variegate le tipologie: il r. di fiction televisiva, il r. pubblicitario, il r. di avvenimenti sportivi in diretta, il r. di varietà, di reportages, di news, di videoclip eccetera. Una parcellizzazione, quindi, della figura del r., che offre un 'servizio', diversificato secondo competenze settoriali e in un ruolo impiegatizio, anonimo e gregario.
Il regista-autore cinematografico invece, si muove sempre più su un piano di internazionalizzazione delle sue opere (nel senso anche che deve avere la capacità di reperire il budget per i suoi film attraverso la partecipazione di molti Paesi), di indipendenza produttiva e di confronto personale con il mercato. La ricerca però di circuiti alternativi e di coproduzioni internazionali o l'accentuazione di una condizione esistenziale di 'soggettività nomade' (che ha unito i destini, per es., di r. diversi come Andrej Tarkovskij, Roman Polanski, Krzysztof Kieślowski, Bernardo Bertolucci, Emir Kusturica o David Cronenberg) non è certo sufficiente a garantire all'autore la propria libertà espressiva. Così, per poter essere tale deve ‒ come hanno fatto su vasta scala Francis Ford Coppola, George Lucas o Steven Spielberg, trasformandosi in veri e propri manager della propria creatività, e in piccolo molti r. europei (come in Italia Nanni Moretti) ‒ fondare una propria società e produrre autonomamente i propri film, cercando di volta in volta il terreno più propizio dove trovare i finanziamenti e il modo migliore di comunicare con la più grande massa di spettatori, pena l'impossibilità di continuare a fare cinema.
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