NAPOLI, Regno di
I. Periodo Angioino (1266-1381). - Con la conquista di Carlo d'Angiò (1266-1285), il regno di Sicilia non fu mutato nel suo ordinamento amministrativo: restò, come prima, diviso in nove giustizierati o provincie (Terra di Lavoro con contea di Molise, Abruzzo, Principato con Terra Beneventana, Capitanata, Basilicata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Val di Crati con Terra Giordana, Calabria). Ma l'essere stata quella conquista voluta dal papa e compiuta con forze francesi recò al regno novità importanti. Giacché, come Clemente IV volle, il regno si riconobbe feudo della S. Sede con l'obbligo di un annuo tributo e l'offerta di una chinea, le cedette Benevento, abolì tutte le leggi antiecclesiastiche, s'impegnò a non più ingerirsi nelle elezioni degli ecclesiastici e a esimerli da ogni giurisdizione giudiziaria e finanziaria dello stato. Per compensare d'altronde i numerosi cavalieri condotti alla conquista, non bastando le spogliazioni eseguite a danno della nobiltà sveva, si cominciò allora a mutare in feudi molte città regie. Così, in seno al baronaggio e alla nobiltà preesistente, penetrò quel nuovo filone, con gli spettacoli cavallereschi, coi tornei già in voga in Francia e di più coi diritti feudali sui vassalli, esercitati in Francia e ignoti nella monarchia nomanno-sveva. Non solamente, salvo il protonotariato, tutti gli altri grandi uffici del regno (aggiuntovi il maresciallato come in Francia) passarono a Francesi; ma a loro furono concesse le principali contee, come quelle di Avellino (ai Montfort, poi ai Del Balzo), di Arena (ai De Goucy), di Ariano (ai Vaudemont), di Caserta (ai Beaumont), di Chieti (ai Courtenay), di Lecce (ai Brienne), di Loreto (ai De Soisson, poi ai De Moreil), di Monteforte con Nola (ad altro Montfort), di Montescaglioso con Alba (ad altro Beaumont), di Sora con Alvito (ai Cantelmo), di Squillace (ancora ai Montfort); e baronie e signorie di città, di castelli. Sicché ne venne costituita una nuova potente feudalità su cui la giovane monarchia credette di potere assolutamente contare. A tutto questo si aggiunga il trasferimento della capitale da Palermo a Napoli, più vicina a Roma, dove Carlo era senatore, al resto d'Italia, dove Carlo proteggeva la parte guelfa, e alla Francia.
Quindi Napoli, già sede di università degli studî, che da Carlo fu ampliata e arricchita di nuovi privilegi, divenuta sede dei tribunali supremi e dei parlamenti generali, ingrandita, decorata di superbi edifici, massimo il Castello Nuovo, destinato a reggia, cresciuta di popolazione, salì a tanta importanza da non avere più rivali nel resto del regno. Finì di spostarsi, così, verso le provincie e la città di Napoli il centro del regno che già, questo centro, aveva avuto in Sicilia e Palermo. Presso la capitale, il castello più antico (del Salvatore o dell'Uovo), restaurato, fu adibito alla custodia del tesoro regio. Più tardi (sotto il terzo Angioino) a difesa e a offesa della città, sorse quello di Sant'Elmo. Qualche altro nuovo castello sorse altrove, come a Brindisi. Ma assai più erano i vecchi castelli regi, che ora restaurati, ampliati e meglio muniti, come a Bari, a Barletta, a Lucera, furono tutti affidati a personale francese.
Ciò quanto all'interno; quanto poi alla politica estera, Carlo, riattaccandosi alla tradizione normanno-sveva, mirò a fare del suo nuovo stato la base di un grande impero. Legati a sé per parentadi i maggiori principi d'Europa, padrone dell'Albania e sovrano del principato d'Acaia, si proponeva di spodestare lo scismatico Paleologo e porre sul proprio capo la corona imperiale, quando dové raggiungere in Africa il fratello re di Francia (1270). Anche ciò gli fu utile, perché Tunisi fu rimessa allo stato di regno tributario della Sicilia. Poi, nell'alterna vicenda dei suoi rapporti con Roma, da Giovanni XXI si fece legittimare il titolo di re di Gerusalemme, cedutogli da Maria d'Antiochia, e porre solennemente in Roma quell'altra corona (1277); da Martino IV fece colpire di scomunica il Paleologo; riebbe il senatorato di Roma, toltogli da Niccolò III, fu soccorso ad accelerare gli armamenti per muovere una buona volta contro Costantinopoli. E allora, il regno di Sicilia, con la sua forte unità statale, con l'imponente personalità del suo sovrano, con tante armi di terra e forze di mare pronte a salpare, parve il più potente e formidabile fra gli stati cristiani. Ma, proprio allora, insorse la Sicilia (1282) e acclamò suo re Pietro d'Aragona, vindice del diritto di Casa Sveva: primo episodio di quelle lotte di pretendenti, che caratterizzarono quasi tutta l'ulteriore storia del paese e fomentarono le ambizioni egoistiche e l'indocilità del suo baronaggio. A freno del quale, i re passati avevano elevato e fortificato l'autorità dei proprî magistrati e ufficiali. Ma ora che le forze preparate contro l'impero furono volte contro la Sicilia, Carlo, per assicurarsi il servizio dei baroni, accrebbe i loro poteri a scapito dei suoi ufficiali (Capitoli del 10 giugno 1282). E, partito lui per il duello col rivale, suo figlio Carlo, principe di Salerno e suo vicario, nel piano di S. Martino in Calabria fece da un parlamento promulgare un lungo statuto che, oltre a nuovi favori alle chiese e al clero, allargò anche più i privilegi e le immunità del baronaggio (1283). Tornato a Napoli e venuto a battaglia navale coi Siciliani (5 giugno 1284), quel suo vicario fu vinto e imprigionato, mentre il popolo della capitale, insorto anch'esso contro i Francesi, li forzava a fuggirne atterriti e contro il loro dominio rumoreggiava tutta la regione intorno. L'annunzio di tale disastro andò incontro al re, che ritornava dal non fatto duello. E furente, assetato di vendetta, ne apparecchiava con impazienza i mezzi, quando, colpito a morte da una febbre quartana, spirò a Foggia (7 gennaio 1285), portando con sé nella tomba i suoi grandiosi disegni.
Con Carlo II (1285-1309), il regno entrò in una fase singolare: sceso d'un colpo a stato di second'ordine, sconvolto da insurrezioni, impoverito, continuò a chiamarsi "regno di Sicilia", pur senza contenere l'isola. Fu dal testamento del morto re lasciato al principe di Salerno, divenuto Carlo II, ma prigioniero in Aragona; e perciò affidato al vicariato di Carlo Martello, suo primogenito, divenuto ora principe di Salerno. Ma poiché questi, a quattordici anni, fu ritenuto non abbastanza atto al governo, il regno fu sottoposto a un baiulo generale e a un capitano generale e alla protezione della Santa Sede. Con ciò esso passò effettivamente sotto la dominazione papale. Martino IV confermò bensì quel baiulo, ma associato a un cardinale legato con eguali pieni poteri; inviò milizie contro gl'insorti; cercò di alleviare le pubbliche gravezze; ordinò a deputati del regno d'indicargli le riforme occorrenti. Onorio IV mirò a regolare l'esazione della colletta (imposta fondiaria); estese i gradi nella successione feudale e, mentre i baroni rialzavano torri e castelli fatti demolire da Federico II, li sgravò dal dovere di servire di persona o pagare l'"adoa" (tributo surrogato al servizio) per le guerre fuori del regno. Di più sottrasse i subinfeudati ai diretti servizî verso la corte e proibì ai mastrogiurati di agire nelle terre feudali. Al papa allora si volsero i due figli del re Pietro, succedutigli l'uno nell'Aragona e l'altro in Sicilia, e quanti altri, per diversi motivi e in vario modo, s'interessavano alle sorti del re prigioniero. Il quale, quando a Campofranco, sotto condizioni scritte e giurate, ebbe ottenuto una libertà provvisoria, ritornato in Italia, dal papa si fece prosciogliere dai patti giurati e coronare re di Gerusalemme e di Sicilia (1288). In un breve soggiorno a Napoli, radunato il parlamento, provvide a regolare i giudizî criminali e civili e allargò anche più i gradi di successione feudale. Quindi, lasciato il governo a Carlo Martello e a un consiglio di reggenza, ripartì per riparare alla violazione dei patti di Campofranco (1289).
Quella reggenza durò circa cinque anni, durante i quali continuò la guerra coi Siciliani, si avviarono trattative di pace con Costantinopoli, fu ceduta la contea d'Angiò, culla della dinastia, alla corona di Francia, e si cominciò a pensare all'Ungheria. Giacché, scoppiata colà una guerra di successione alla morte del re Ladislao (1290), Carlo II dalla Francia accampò il diritto successorio di Maria, sua moglie, sorella del re morto, fece da lei cedere quel regno a Carlo Martello (1292) e con l'aiuto del papa costituì un partito colà in suo favore. Ma il giovane principe, che da allora s'intitolò re d'Ungheria, perì nel 1295 senza aver posto piede in quel regno. E solo più tardi, riuscita a prevalere quella fazione angioina, il figlio suo Caroberto poté assidersi sul trono degli Arpadi.
Avvenuta intanto l'elezione di Celestino V e seguite in Napoli la sua rinunzia e l'elezione di Bonifacio VIII, il nuovo papa si diede a favorire intensamente la causa angioina contro l'Aragona. E prima indusse Giacomo re di Sicilia, divenuto per la morte del fratello anche re d'Aragona, a promettere la restituzione dell'isola, poi regolò, per il momento, la reggenza, dovendo il re di nuovo allontanarsi; e, per l'avvenire, la successione. E l'una e l'altra, essendosi il suo secondogenito consacrato alla chiesa, furono assegnate al terzogenito Roberto, duca di Calabria, titolo che da allora in poi soppiantò quello di principe di Salerno per l'erede del trono (1297). In ultimo, poiché, contro l'accordo fra il papa, Giacomo e Carlo, i Siciliani proclamarono loro re Federico e tornarono a combattere, il papa, per farla finita, inviò contro di loro Carlo di Valois. Ma non ottenne che la vergognosa pace di Caltabellotta, per cui Federico conservò l'isola e Carlo solo il titolo di re di Sicilia (1302).
Tuttavia, per quella pace, il regno poté riprendere una certa azione nella penisola balcanica, col principe di Taranto, e in Toscana col duca di Calabria; e il re poté attendere ad opere più consone all'indole sua, cioè costruzioni sacre e profane in Napoli e in altre città del regno, codificazione delle consuetudini della capitale, espulsione dei Saraceni da Lucera, introduzione dell'arte della seta. Quest'ultimo tentativo, fatto al termine del regno di Carlo, riuscì vano, per lo stato in cui giacevano l'agricoltura, l'industria e il commercio. E Carlo II, morendo (5 maggio 1309), lasciò all'erede un regno povero, politicamente screditato, dilaniato da continui conflitti sociali, oppresso dall'aumento di numero, di potenza e di audacia della feudalità ecclesiastica e laica.
Alla buona fortuna, più che all'ingegno e al valore del terzo angioino - Roberto (1309-1343) - il regno dovette il ritorno a una certa importanza. Minacciato nell'esistenza dalla lega fra Enrico VII e Federico di Sicilia, fu salvato dalla morte improvvisa dell'imperatore. Due spedizioni in Toscana in soccorso della parte guelfa riuscirono alle disfatte di Montecatini (1315) e di Altopascio (1325). E la minaccia riapparve con la discesa di Ludovico il Bavaro; ma fu sventata dall'insipienza di quell'altro imperatore. E i guelfi di tutta la penisola acclamarono "pacificatore d'Italia" l'Angioino, lo invocarono protettore, s'illusero che egli potesse raccogliere l'Italia tutta sotto il suo scettro. Il papa lo creò vicario generale in tutto il dominio della chiesa e, con letterati e poeti, lo esaltò come pio e sapientissimo sovrano. Il Petrarca lo proclamò il più grande dei principi del tempo e volle giudice lui per l'incoronazione in Campidoglio. La sua corte abbagliava con le feste, i giuochi, le giostre, le musiche, i canti d'amore; con l'affluenza di traduttori dal greco, dall'ebraico, dall'arabo; di architetti, scultori, pittori, chiamati per nuovi magnifici edifici, sacri e profani, di cui fu anche più arricchita la capitale. Le piazze di Napoli, di Bari, di Brindisi, di Taranto, rigurgitavano di banchieri, di mercanti toscani, veneziani, genovesi, in gran moto di affari. Ma sotto questo fasto, sotto quelle apparenze di potenza e di ricchezza, quale squallore, quanti mali e quanti più germi di future e maggiori sciagure! Uno stato, unico in Italia, di milioni di sudditi non aveva mezzi per sostenersi, per mantenere il fasto della corte e continuare la guerra con la Sicilia. Si ricorreva quindi ai prestiti coi banchieri stranieri (Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli, ecc.), allettati con uffici amministrativi. E, quando non si riusciva a versarne gl'interessi, li si autorizzava ad esportazioni gratuite, e, peggio ancora, a riscuotere per sé tributi dovuti al fisco (futuri arrendamenti). Rinunzia a giurisdizioni e ad entrate, che crebbe col cresciuto favore, con nuove concessioni di terre e di privilegi agli enti ecclesiastici e la cessione delle rendite delle sedi e benefici vacanti alla Camera Apostolica.
Premorti intanto al re i figli maschi e minacciata la successione della nipote Giovanna dalla non estinta pretensione del ramo primogenito regnante in Ungheria, Roberto credette di averla assicurata con l'unire in matrimonio la settenne nipote col settenne Andrea, secondogenito del re Caroberto (1333). Quindi, con maneggi diplomatici e con la forza delle armi, tornò ai tentativi per recuperare la Sicilia. Ma, fra l'insuccesso di quegli sforzi e, all'interno, l'impotenza dei giustizieri di fronte alle lotte civili e all'infierire del brigantaggio, il vecchio re chiuse dolorosamente la vita (13 gennaio 1343)
Per Giovanna I (1343-1381) e per la giovane coppia, assunse allora il baliato del regno un cardinal legato. Era il regno una società malferma. Alla base, un volgo incolto e disperso che qua giaceva accasciato nella miseria, là si rivoltava brutalmente. Scarsi e male organizzati su di esso i ceti mediani. Più su ancora, il baronaggio, tenuto fino allora in rispetto dalla personalità di Roberto, brontolava pronto alla rivolta. E in cima, la corte, dove gli Ungheresi lasciati ad Andrea contendevano con l'elemento indigeno, la regina e lo sposo non andavano d'accordo e i principi del sangue, invidiando e abborrendo l'intruso straniero, insidiavano in tutti i modi la regale cugina. Questo maligno contrasto di umori esplose nell'assassinio del principe ungherese (18 settembre 1345), e la vendetta che il re Ludovico suo fratello volle trarne aprì la via a una lunga serie di guerre di pretendenti, accompagnate da devastazioni, da saccheggi, da eccidî, da tradimenti e da catastrofi di personaggi e di famiglie. Ludovico d'Ungheria penetrò facilmente nel regno, bene accolto dappertutto. Niccolò Acciaiuoli, devoto a Giovanna, non altrimenti poté salvarla che facendole sposare Ludovico, fratello del principe di Taranto, conducendola fuggitiva in Avignone e facendole vendere quella città al papa. I principi del sangue accorsero in Aversa per riverire l'invasore: ma furono imprigionati, e un di loro, Carlo di Durazzo, mandato a morte. Pronta gli aprì le porte la capitale; ma egli non volle entrarvi che da conquistatore e nei due mesi che vi si trattenne riuscì a far rimpiangere la regina fuggita. Come infatti, lasciati presidî nel regno, egli se ne fu allontanato, Napoli richiamò e accolse Giovanna con gioia. Ma nuovamente ritornò contro di lei l'Ungherese e il regno fu desolato da una lunga guerra. E solo quando ambe le parti, spossate, si volsero al papa e il re d'Ungheria dové volgersi contro Venezia; solo allora si venne alla pace che liberò il regno dalla minaccia ungherese (1351). Allora, Giovanna e il marito furono incoronati, e a memoria, istituirono, primo in Italia, l'ordine cavalleresco del Nodo. Invocati poco dipoi in Sicilia da una fazione in lotta con un'altra, ritentarono quell'acquisto: con successo sulle prime, finché quella fazione li sostenne; poi, abbandonati da essa, passando di rovescio in rovescio, fino a che rinunziarono definitivamente a quel dominio (1372).
Quella rinunzia è il vero e proprio atto di nascita di ciò che ufficialmente, negli atti diplomatici, continuò ancora per un pezzo a intitolarsi regno di Sicilia, ma che il popolo, e dietro il popolo gli storici chiamarono più veracemente regno di Napoli. Ma, pacificato fuori, il regno non seppe darsi la pace dentro. Ché, in alto, anche col secondo marito, avido del potere, venne in lotta la regina, gelosa di quel potere: onde al terzo marito non concesse altro titolo che di duca di Calabria; né altro al quarto che di principe di Taranto. E, scissa dalle fazioni la corte, divennero per queste più audaci, più disobbedienti i baroni (tra i quali, allora, apparvero i primi duchi), più acuta l'anarchia, più folto il brigantaggio. Fino a che si giunse alla crisi dello scisma papale (1378). Urbano VI allora scomunicò la regina e, contro di lei, incoronò re di Gerusalemme e di Sicilia Carlo di Durazzo, ultimo rampollo della numerosa progenie di Carlo II. Contro costui, Giovanna adottò in figlio ed erede Luigi duca d'Angiò, fratello del re di Francia. Quindi guerra nel regno fra le due parti, finché Giovanna, vinta e imprigionata, non fu mandata a morire in Muro Lucano.
II. Periodo durazzesco-aragonese (1381-1504). - Continuarono, con Carlo III (1381-86), le guerre interne, prima fra il nuovo re e il pretendente francese, che, impadronitosi della Provenza, invase il regno, ma con la morte improvvisa lasciò il campo al rivale; poi, tra il re e il papa, che aveva imposto a Carlo, come prezzo dell'incoronazione, condizioni gravissime non volute e non potute appagare. Sottrattosi il papa, con la fuga, alla guerra, Carlo III concepì l'ambizione di congiungere al regno di Napoli il regno d'Ungheria. Chiamato colà da un partito avverso alla successione di Maria, figlia del re Ludovico, vi si recò e fu incoronato; ma vi lasciò la vita, toltagli insidiosamente dalla vedova e dalla figlia di Ludovico (febbraio 1386). Assunse allora la reggenza, per Ladislao decenne, la vedova Margherita, quando già in Provenza un secondo Luigi d'Angiò, figlio del primo, era stato da Clemente VII antipapa investito re di Gerusalemme e di Sicilia. Costretta soprattutto dall'urgenza di far danaro ad ogni costo, Margherita disgustò Venezia, sequestrandole una nave, e ricavandone la perdita di quanto il regno possedeva ancora di là dall'Adriatico; e disgustò la capitale, che le oppose un governo di "Otto del buono stato". E, dichiaratosi intanto per il re angioino un grosso gruppo di baroni, e passati questi in armi a bloccare Napoli e a trattare con gli Otto, la reggente col figlio si rifugiò a Gaeta; i suoi nemici entrarono in Napoli e qui ricevettero il loro re Luigi II (1390).
Così il regno si trovò sotto due re in guerra fra loro, serviti ciascuno da mercenarî, sostenuti ciascuno da baroni, che nel proprio interesse credevano o mostravano di credere legittimo l'uno, usurpatore l'altro. Prevalse dapprima la parte angioina, tanto che il dominio durazzesco si ridusse a quasi sola Gaeta. Ma, quando Ladislao, guerriero nato, ammaestrato e indurito dalla sventura, ebbe a sua disposizione la ricca dote della prima consorte e nel nuovo papa Bonifazio IX un valido ausiliario, e prese egli stesso il comando della sua parte, capovolse le sorti della guerra, obbligando il rivale prima a rifugiarsi a Taranto, poi a tornarsene nella sua Provenza (1400). Fu allora anch'egli, come già suo padre, chiamato a impadronirsi dell'Ungheria contro il re Sigismondo. Ma, passato a Zara e occupatala, comprese la vanità dell'impresa, vendé quella città a Venezia e se ne tornò nel regno per l'acquisto più utile del principato di Taranto (1403). Non essendo riuscito a vincere con le armi la resistenza colà oppostagli dalla principessa Maria d'Enghien, vedova quarantenne di Ramondello Orsini e madre di quattro figli, sposò la principessa e restituì alla corona quell'importante stato (1406). S'introdusse quindi nella grande questione dello scisma, per ingrandire il regno, occupando e più volte rioccupando Roma. Sicché contro di lui Alessandro V richiamò Luigi II e gli rinnovò l'investitura datagli dall'antipapa. Ne derivarono nuova guerra fra le due vecchie fazioni e pur troppo, per il bisogno di danaro, la vendita a vile prezzo di città e di castelli della corona oltreché di titoli. La sorte però arrise a Ladislao, nonostante una disfatta a Roccasecca (1411), tanto da forzare anche questa volta il rivale a tornarsene in Provenza. E il regno, ingrandito su buona parte dello Stato pontificio, mosso a impadronirsi di altri più ricchi paesi, parve per un momento il più potente e più temuto fra gli stati d'Italia Ma fu bagliore di un momento: ché lo stravizio spense a trentanove anni quel re battagliero (6 agosto 1414).
Allora il regno, cresciuto sì di territorio, ma stanco, impoverito, privo di luce di cultura, scemato di demanio regio, precipitò d'un tratto, per raggiungere nei trent'anni che seguirono il punto estremo dell'impotenza, della miseria pubblica e privata, dell'anarchia e dell'immoralità.
La scostumatezza della regina Giovanna II (1414-35), le sue brighe con la nobiltà napoletana e col secondo marito, la sorte dei suoi drudi, la rivalità e il conflitto fra il gran siniscalco Sergianni Caracciolo e il gran contestabile Sforza, furono fatti del tempo senza ripercussione nell'avvenire. Non così l'investitura e l'incoronazione, per cui il regno dové restituire quanto possedeva dello Stato pontificio. Non così la "Prammatica Filingiera" (1418), che estese anche più i gradi di successione feudale, ammettendo la sorella maritata a succedere nel feudo: onde i Caracciolo soppiantarono i Filangieri nella contea di Avellino. Né così l'ampliamento della giurisdizione del feudatario, aggiuntagli la criminale alla civile e per di più la facoltà di farvisi sostituire. Ma le conseguenze più funeste provennero dal modo come la regina, priva di prole, provvide alla successione. Ché, chiamato a toglierle il regno un terzo Luigi d'Angiò, ella in sua difesa adottò per erede Alfonso V re di Aragona, di Sardegna e di Sicilia. Poi insospettita di costui e disdettane l'adozione, gli sostituì il rivale; e, morto questi in Calabria, il fratello Renato (1434). Poco dopo, costituita una reggenza per la lontananza del successore, prigioniero allora in Borgogna, morì, lasciando il regno in guerra tra una fazione e l'altra ridotto agli estremi.
La capitale, non riconoscendo la reggenza composta dalla defunta, le sostituì una balìa, che riconobbe legittimo successore Renato. Venuta quindi a Napoli, come reggente, Isabella, sua moglie, e raggiunta poi dal consorte, quel breve dominio rimase caro nella memoria dei sudditi per la bontà dei sovrani. Ma, contrastati dall'Aragonese e dai suoi fautori, dovettero alla fine cedere alla fortuna del pretendente, che trionfalmente entrò nella capitale (1443-58). Da allora, il regno di Napoli, non più allontanatosene il vincitore, divenne centro di un vasto dominio, comprendente più regni, dei quali promosse la vita di relazione nei commerci e nella cultura, fece largo commercio, fattore importante nella storia contemporanea d'Italia. E, dentro di sé, ne ricevé mutamenti notevoli: il filone spagnolo dentro la nobiltà preesistente, elevato a uffici e arricchito di feudi; un "Sacro Consiglio", preposto a tutte le altre magistrature; il "focatico", sostituito alla colletta; il "Tavoliere di Puglia" cespite tra i principali della corona, ecc. Ma, soprattutto, la corte di Napoli tornò alla magnificenza dell'età di Roberto, per l'Accademia che vi fu istituita, per il culto e il favore che vi ebbero gli studî, per l'accoglienza ai dotti: onde fu ripreso e allargato il moto intellettuale, interrotto dalle turbolenze seguite al regno di Roberto. Sennonché, mira principale del re essendo assicurare il regno conquistato a Ferdinando, suo figlio naturale, toccando a suo fratello Giovanni gli stati ereditarî, fu largo di concessioni ai baroni, convocati subito a tal fine nel primo parlamento generale, non solo confermando loro il mero e misto impero, ma estendendo anche ad essi le "Lettere arbitrali" con cui Roberto aveva autorizzato i suoi ufficiali a commutare le pene stabilite per legge e ad esagerare le torture.
Tornato ai suoi confini col successore di Alfonso - Ferrante I (1458-1494) - il regno non scadde dall'importanza raggiunta nella vita italiana: partecipò in modo efficace ai maggiori eventi della penisola per quasi tutta la seconda metà del secolo XV, tanto che Lorenzo il Magnifico ne chiamò "giudice d'Italia" il sovrano. E i buoni Napoletani riconobbero i benefici d'avere un re solo loro, tutto loro, che cominciò con l'allontanare la maggior parte di quella gente straniera tanto favorita dal padre, superba, prepotente e motivo di rancori contro il suo protettore. La capitale ne fu anche più ingrandita, abbellita, cinta di nuove mura e torri, rimessevi in onore e largamente privilegiate le arti della seta e della lana, introdotta la stampa. Si respirò nelle provincie, esploratevi miniere, impiantate cartiere e, soprattutto, data ad ognuno la libertà (senza la quale diceva una prammatica del 1466: "si diserta la coltura dei campi, cresce la povertà, non si possono soddisfare i pesi pubblici e s'impedisce la restaurazione del regno") di vendere i prodotti della terra senza impedimenti di feudatarî, di usare dei pascoli e delle acque. E si abolirono la privativa degli alberghi e delle osterie baronali, le difese, le chiusure; e si disciplinò l'esazione dei tributi. Tutto un moto da cui fu favorito lo sviluppo della vita comunale coi suoi statuti e preparato il sorgere di quel ceto di proprietarî e censuarî che doveva soppiantare i feudatarî. Quello altresì fu il tempo in cui nacque e si diffuse nel patriziato e nelle provincie una cultura e letteratura, latina e italiana, propriamente meridionale. I suoi maggiori esponenti, il Sannazzaro e il Pontano, vanno anche ricordati in quanto, con altri, rispecchiano la vita che allora si agitava nel paese; mentre altri, come Diomede Carafa, Tristano Caracciolo, Antonio Galateo, ne esponevano le tendenze e i bisogni, precorrendo da lontano quell'aristocrazia d'intellettuali che, spiccandosi dalla turba di nobili egoisti o ignavi e di popolo ignorante e incosciente, s'interessarono delle sorti della patria, ne studiarono le condizioni, ne esposero i mali, additarono rimedî. L'azione loro in rapporto a quella dei governi futuri sarà il filo conduttore nella storia ulteriore del regno. Purtroppo non cessò, invece, anzi compì proprio allora la sua deleteria opera il vecchio tarlo che corrodeva lo stato, arrestandone il progresso e cagionandone la rovina. Invano il re, fino da principio, dichiarò ai baroni di voler governare "con l'amor di lor signori". Invano, a ricordo della sua clemenza verso l'insidia tesagli dal duca di Sessa, istituì l'ordine dell'Ermellino col motto Malo mori quam foedari. Invano esonerò i baroni dal pagamento dell'"adoa" (ristabilita poi da Ferdinando il Cattolico e più tardi commutata nei "Donativi"). I baroni fin da principio cospirarono per sbalzarlo dal trono. Invitarono prima il re d'Aragona suo zio a conquistare il regno. Non esauditi, fecero lo stesso invito a Giovanni d'Angiò, figlio di Renato, che venne, gittò il regno in una lunga e rovinosa guerra, ma alla fine fu costretto a partire grazie agli aiuti dati al re dal duca di Milano, dal papa, e dallo Scanderbeg. E fu seguito da non pochi baroni, che in Francia mostrarono il loro valore combattendo per quella corona e il loro antipatriottismo sollecitandola alla conquista del regno. Intanto, i loro consorti, rimasti nei feudi, mentre il re attendeva ad ingrandirsi in Toscana e a liberare il paese dall'invasione turca, tramavano per mezzo di loro agenti con quante potenze avevano interesse di abbattere o abbassare il più vasto e più antico stato della penisola. Sollecitarono perfino Federico, secondogenito del re, a detronizzare il padre. Il quale alla fine, non potendone più, passò a quegl'inganni e imprigionamenti e supplizî, che gli fruttarono la fama di crudele tiranno.
Morto Ferdinando I, nel corso di soli dieci anni (1494-1504) il regno, sotto non meno di cinque re, fu bersagliato da guerre continue. Alfonso II, già odiato per avere da duca di Calabria mostrato di volere una buona volta schiacciare la potenza politica del baronaggio, come seppe che Carlo VIII si avanzava contro di lui, cedette la corona al figlio Ferrandino e si rifugiò in Sicilia. Vana la difesa tentata contro l'invasore, in breve tutto il regno fu di Carlo, salvo Ischia e Gaeta. Del suo soggiorno in Napoli il re francese non lasciò traccia durevole se non l'organizzazione del popolo in una "Piazza", contrapposta ai cinque "Seggi" (o Sedili) nobili nell'amministrazione della città. Ma quel soggiorno fu breve, perché la lega formataglisi contro obbligò lui a partire e ripose sul trono Ferrandino, lasciando in pegno a Venezia parecchie città dell'Adriatico. Poco poi sopravvissuto alla restaurazione quel giovane re beneamato dal popolo, gli successe lo zio Federico (1496) che, assalito quattro anni dopo da Francesi e da Spagnoli, collegati contro di lui, impotente a resistere, si ritirò in Francia, lasciando che i due alleati si guerreggiassero fra loro per il dominio dell'intero regno.
III. Il vicereame (1504-1734). - La vittoria finale toccò a Consalvo di Cordova, generalissimo degli Spagnoli, che rimase a governare il regno quale vicario di Ferdinando il Cattolico. Quindi, per 230 anni, il regno fu retto da ministri stranieri in nome di sovrani lontani, senza più vita politica sua propria, accomunate le sue sorti a quelle dello stato dominante. Sicché gli eventi più importanti che vi si svolsero non furono che episodî della storia d'Europa e, più propriamente, delle guerre combattute dallo stato dominante. Il quale, fino a che fu impersonato dalla Spagna di Ferdinando il Cattolico, ebbe governo mite e di moderate esigenze fiscali: per cui continuò il moto di cultura promosso dagli Aragonesi. Ma, dopo che il suo successore ebbe ottenuto la corona imperiale, e cominciò la politica egemonica degli Asburgo di Spagna, lo sfruttamento del regno raggiunse proporzioni enormi.
Esso arrivò a versare annualmente circa 18 milioni di ducati. Ma, poiché gran parte di quell'entrata era stata o fu ceduta a creditori dello stato arrendatori, fiscalari, consegnatari, l'erario si ridusse a riscuotere poco più di mezzo milione. Per i bisogni quindi sempre più urgenti della Corona, si ricorreva ai donativi. Il viceré convocava il parlamento ordinariamente ogni due anni, straordinariamente negl'intervalli, e vi leggeva una lettera del re, che chiedeva danaro. E il parlamento stabiliva la somma da dare e il modo come smungerla dal paese: di solito, a rovescio della capacità dei contribuenti. A tale sistema finanziario si aggiunse la politica economica del tempo e più propriamente della Spagna (con le privative, i divieti di esportazione, i dazî gravissimi, le dogane interne, i diritti di passo, i calmieri, l'alterazione delle monete, l'arbitrio dei cambî, la mancanza di strade, l'incuria dell'agricoltura, lo scadimento delle industrie, l'annientamento del commercio) che basterebbe a fare intendere a quanta miseria e a quanta degradazione scendesse il regno sotto la dominazione spagnola. Esiziale soprattutto riuscì l'incessante infeudazione di terre regie con la rivendita di terre già riscattatesi. Sicché al termine del lungo periodo vicereale, di circa 2 mila tra città, terre e castelli, solo le seguenti oltre la capitale, rimanevano regie o demaniali: Afragola, Agerola, Amalfi, Amantea, Aquila, Ariano, Aversa, Bari, Barletta, Bisceglie, Bitonto, Brindisi, Campobasso, Capri, Catanzaro, Cava, Chieti, Cisternino, Civitella, Cosenza, Cotrone, Foggia, Gaeta, Gallipoli, Gragnano, Guardia regia, Lagonegro, Lecce, Lettere, Lucera, Maiuri, Manfredonia, Maratea, Massalubrense, Modugno, Monopoli, Nardò, Nola, Otranto, Positano, Pozzuoli, Ravello, Reggio, Salerno, Santangelo, Scala, Scigliano, Somma, Sorrento, Stilo, Taranto, Taverna, Torre del Greco, Tramonti, Trani, Tropea, Viesti. Il re quindi fu ridotto a possedere solo il tre per cento del territorio. Il resto eran feudi (calcolati a 1616 con varî titoli) i più in potere di enti ecclesiastici e di opere pie, con l'annua rendita di circa 6 milioni (un terzo circa di tutta la ricchezza immobiliare del regno); gli altri, i laici, si calcola che rendessero circa 4 milioni, e non pochi appartenevano a famiglie straniere (38 comuni solamente ai Farnese e ai Medici).
Tuttavia, che cosa fosse il regno per la Spagna ci è detto da un testimone che non teme smentita. Il re Filippo IV, in un momento assai critico per la monarchia, scrisse così al suo ambasciatore a Roma: "Troppo grande colpo sarebbe alla nostra monarchia la perdita di Napoli, che fu sempre quella viva miniera che ci provvide così di eserciti per far le guerre come di tesori per mantenerle. Privi di questo regno, siamo più che sicuri di non poter gli altri né difendere né sostenere. Le armi nostre non riportavano giammai vittoria che il ferro napoletano non mietesse le palme. La stima che fanno della nostra corona tutti i potentati d'Europa e la riverenza che ci portano i principi italiani dal solo regno di Napoli riconosciamo".
Perduta però ogni importanza come potenza politica, il regno non mancò di manifestare una certa vita sua propria. Dato in Napoli dal re Ferdinando al conte di Ripacorsa, secondo viceré, l'ordine di non proteggere la nobiltà a danno del popolo (1507), e dai successivi viceré spesso esageratosi nell'esecuzione quell'ordine, ne derivò da un lato un partito quasi ereditario nella nobiltà di persistente opposizione ai viceré, che presso la corte centrale ora trovò ed ora non trovò ascolto, secondo le circostanze; da un altro lato, un inasprimento del vecchio dissidio tra nobiltà e popolo. Solo due volte, in quel lungo periodo, quel dissidio tacque, quando, con mirabile accordo, ultimo segno di vitalità politica, nobili e popolani sventarono il proposito governativo d'introdurre nel regno l'Inquisizione spagnola (1510 e 1547). Fra l'una e l'altra di quelle due gloriose reazioni, avvenne una nuova invasione francese e l'assedio di Napoli, liberatane dalla peste (1527-28). E le molte defezioni derivatene in seno al baronaggio provocarono quelle vaste condanne del viceré principe d'Orange che fiaccarono per sempre l'importanza politica dei baroni, lasciando a Don Pietro di Toledo il compito di distruggerla in tutto. Il Toledo tenne il governo più lungo e ne lasciò le più durevoli tracce (1532-53).
Napoli, che al principio del secolo non contava che poco più di 40 mila abitanti, per l'affluenza dei baroni, di famiglie spagnole, di gente legata per vario interesse alla Spagna e assai più di quanti la miseria, la fame, il brigantaggio, le incursioni barbaresche e le prepotenze di regi ufficiali e di agenti baronali allontanavano dalla terra natia, in pochi decennî aveva aumentato la popolazione a circa 200 mila anime. A ciò provvide il viceré con un magnifico risanamento e ampliamento, che, se non raddoppiò, come si disse, il caseggiato, lo accrebbe di almeno un terzo, rendendo "grande, forte, sana e bella la città". Al termine del secolo, poi, il Campanella vi contava 300 mila abitanti, avvertendo che soli 50.000 lavoravano, marcendo gli altri nella lascivia e nell'usura, "talché manca il servizio pubblico, e non si può il campo, la milizia e le arti fare se non male e con stento". Ma i successori del Toledo, per varî motivi, con ripetute prammatiche proibirono di fabbricare fuori le mura, mentre cresceva anche più l'eterogeneo agglomeramento, tanto da raggiungere il mezzo milione alla metà del seicento: e la sanità e la bellezza disparvero, deplorandosi già allora sconcezze che non si verificavano altrove; cioè il "ristretto e folto modo di abitare", l'elevazione delle case a un "quinto e sesto solaro" il cato dei fitti e il sudiciume. Seguirono invece l'esempio del Toledo, quanto alla nomina dell'Eletto del popolo, non più lasciata al bossolo e alla sorte, ma sottoposta alla scelta del viceré; sicché strumento suo fu quindi innanzi il custode dei diritti del popolo. Ma anche al Toledo si dovettero l'espulsione degli Ebrei e, per sospetto di novità religiose e politiche, la chiusura delle accademie e l'arresto del riavviato moto intellettuale.
I baroni intanto, non più semisovrani, rimanevano col clero, come si è visto, padroni di quasi tutto il territorio del regno. Altra runzione politica, se non si davano alla carriera militare (riservata di solito ai cadetti), non conservarono che di votare i donativi nei parlamenti. E ciò solo fino al 1642, dopo il quale anno, di parlamenti non se ne convocarono più, e quella votazione fu deferita agli amministratori della capitale, che, esente dai tributi, dispose della finanza del regno. I più, abbandonata la cura dei loro beni ad agenti e ad avvocati, si affollarono nella capitale, lasciando quelli arricchire ed essi indebitandosi e rovinandosi nel soverchiarsi fra loro col costruire palazzi, mantenere servitori, scherani e cortigiane e giocare, mentre la speculazione governativa, con la vendita di titoli, e la vanità e l'interesse privato creavano accanto al baronaggio e alla nobiltà antica un baronaggio e una nobiltà novella. Giacché quanti di quelli agenti e avvocati e, con loro, quanti banchieri, appaltatori, esponatori accumularono vistose fortune, comprarono feudi ed anche titoli baronali su semplici poderi. Sicché a mezzo il seicento, il regno ebbe la felicità di contare 119 principi, 156 duchi, 173 marchesi e più centinaia di conti. Quei baroni poi che rimanevano in provincia, con le loro immunità e giurisdizioni, erano dal governo lasciati spadroneggiare: rifiutavano di pagare la bonatenenza (tassa fondiaria), dovuta al comune per i loro beni non feudali; rifiutavano di rispettare consuetudini e capitoli scritti. Venivano quindi a liti giudiziarie interminabili, che impoverivano baroni e comuni e arricchivano avvocati e affaristi, dando origine a una borghesia provinciale avida di dominare il comune e non meno del vecchio barone odiata dai ceti inferiori.
E pur tuttavia si ebbe a quel tempo un rinnovamento della cultura, che, con cammino non più interrotto, doveva divenire forza motrice del progresso del paese. Iniziato da pochi privati (Francesco d'Andrea, Tommaso Cornelio, Giuseppe Valletta, che divulgarono le opere di Cartesio, del Cuiacio, di naturalisti italiani e stranieri e misero la cultura paesana a contatto con la straniera e indirizzarono gli studî, tolti al vecchiume e all'isolamento passati, alle cose politiche e pratiche) attirò a sé gli elementi migliori del patriziato. In ciò venne in loro soccorso uno degli ultimi e migliori tra i viceré spagnoli, il marchese del Carpio, al cui breve governo si diede lode di aver creato una "civiltà nuova" con lo sterminio del brigantaggio e il dirozzamento e l'ingentilimento e l'attrazione agli studî delle classi più alte (1683-1688). Insieme con quel rinnovamento della cultura, riapparve l'aspirazione all'indipendenza: aspirazione già manifestata dai migliori subito che l'indipendenza andò perduta, e poi scoperta sotto la pietra sepolcrale della potenza spagnola. Ma ora che quella potenza parve scossa dalla perdita del Portogallo e dalla ribellione della Catalogna, si tramò con la casa di Savoia e con la casa di Francia per avere di là un re proprio, indipendente.
Lo scoppio dei tumulti nel 1647 interruppe quelle trame. Ma quei tumulti, originati dai dissidî sociali e da motivi economici e trascesi in anarchia plebea ammantata all'inizio da fedeltà al re di Spagna, sboccarono in una repubblica nemica alla Spagna, sotto il comando di un principe francese. Sennonché il moto propagato nelle provincie, mutato in lotta armata di vassalli contro baroni, forzò costoro a fare causa comune col viceré e la repubblica fu abbattuta (1648). Poi, scontenti del viceré, tornarono a congiurare: offrirono la corona a Don Giovanni d'Austria; furono scoperti e puniti (1651); ma non si arresero. Al termine di quel secolo, dichiarando causa di tutte le calamità del regno la sua soggezione a una potenza straniera tramarono con l'imperatore Leopoldo per averne in re proprio il secondogenito Carlo. E nel 1701, a tumulto, lo gridarono loro re. Non trovarono seguito; e battuti, quelli che non si salvarono fuggendo scontarono sul patibolo il folle tentativo.
Ma quando, sei anni dopo, un distaccamento dell'esercito austriaco operante in Italia con sorprendente facilità tolse il regno di Napoli a Filippo V, quel Carlo d'Austria da Barcellona contendeva a costui il dominio dell'intera monarchia spagnola. E, quattro anni dopo, succeduto al fratello, si trasferiva come imperatore a Vienna. Sicché il regno, da provincia di Spagna, si trovò mutato in provincia dell'Austria. Pure, fu allora che da Napoli, si palesarono più francamente e più apertamente i mali del regno, e s'invocarono rimedî in ordine alla politica, alla milizia, all'economia, alla finanza, all'istruzione, alla legislazione, e alla giustizia: su per giù quanto si chiedeva o si attuava negli stati più progrediti. E il nuovo governo se, per necessità, per lo stato in cui trovò l'erario, dové spiegare un fiscalismo anche più grave del passato; e se, a soddisfazione dei vecchi elementi, scemò i poteri del viceré e allargò vieppiù i gradi di successione feudale e diminuì il "relevio" (tassa di successione nel feudo) e conferì il "grandato" alla città (la rappresentanza della capitale), soddisfece pure o tentò di soddisfare a una parte di quanto chiedeva lo spirito nuovo, la classe intellettuale più illuminata. Vietò infatti al clero di fare nuovi acquisti ed escluse i forestieri dai "benefici" del regno. Pensò a un catasto; avviò con un banco il riscatto delle rendite dello stato; affidò a una giunta il riordinamento delle amministrazioni comunali; creò una squadra navale e iniziò una riforma dell'università degli studî.
IV. Il regno sotto i Borboni (1734-1792). - Verso un certo progresso, pertanto, il regno si era avviato, quando l'intreccio dei rapporti internazionali e la volontà di Elisabetta Farnese gli restituì l'agognata indipendenza, mandandovi a regnare il figlio diciassettenne Carlo (1734-59). Finché tuttavia, ella stette sul trono di Spagna, dimezzò quell'indipendenza, tenendo accanto al figlio ministri suoi, il conte di S. Stefano, prima, come maggiordomo maggiore (1734-38) e il marchese di Montealegre duca di Salas, poi, come primo ministro (1738-46), che, esecutori degli ordini suoi, furono i veri dominatori del regno. Col primo, si ebbe l'abolizione del Collaterale, sostituito con un ministero, al quale per la giustizia fu chiamato il Tanucci; e la Camera di S. Chiara, stralciata come magistratura suprema dal vecchio Consiglio aragonese; ma si ebbe anche il sacrificio del Giannone ai rancori di Roma e all'interesse di casa Savoia. Col secondo, si partecipò alla guerra contro la successione di Maria Teresa, per cui una squadra inglese, minacciando di bombardare Napoli, impose alla corte e ottenne la dichiarazione di neutralità e il richiamo delle forze combattenti (agosto 1742). Ma per contrordine della regina di Spagna, si riprese la guerra e la vittoria di Velletri lavò l'onta di due anni prima (agosto 1744). Rimossa poi dal potere Elisabetta, per la morte di Filippo V, il regno si chiuse in una rigida neutralità sotto il governo prima del Fogliani e, solo nell'ultimo quadriennio, del Tanucci, divenuta mira suprema del re, nella previsione del suo passaggio al trono di Spagna, lasciare, malgrado le decisioni delle grandi potenze, le Due Sicilie a un suo figlio cadetto. Bastò però la presenza del sovrano, per imprimere al regno un moto molteplice di vita nuova.
Secondandone il genio fastoso e le passioni dominanti, si costruirono nuove regge e case di piacere, si aprirono vie per le cacce reali, si eseguirono altre opere monumentali, ehe, oltre a impiegare in gran numero ingegni e braccia, valsero a introdurre sistemi nuovi di coltivazione e d'irrigazione e macchine nuove. Si attese a meglio assicurare la difesa del regno con la formazione di un esercito stanziale, con fabbriche di armi, con nuove fortificazioni, con un embrione di marina, per cui fu costituito un collegio nautico e un corpo di piloti. Impostasi allora, per questo e altro, la necessità di rimpinguare l'erario, e resa più onesta e più oculata l'amministrazione, si riuscì a raddoppiare l'entrata ordinaria di 2.000.000 di ducati raggiunta dagli Austriaci. Ma nei primi dodici anni, otto donativi fruttarono all'erario 5.300.000 ducati.
Prammatiche e rescritti proibirono al clero nuove costruzioni e i testamenti ad pias causas; e ai baroni, gli atti di transazione di grazia d'impero. Ordinarono ai magistrati di abbreviare le cause e d'impedire le frodi dei subalterni. Mirarono ad alleviare i comuni indebitati e a ravvivare l'agricoltura e il commercio, richiamando con larghe promesse gli ebrei. Si restituì alle università la loro sede originaria; si promossero gli scavi di antichità, per cui fu creata l'Accademia Ercolanese. Ma capisaldi delle riforme del primo regno borbonico furono il supremo magistrato di commercio, il concordato con Roma, il catasto, il codice, la giunta per le ricompense delle rendite statali, i trattati di commercio: tutte cose inspirate da idee eccellenti, ma che nell'attuazione furono la più parte rese sterili dall'incapacità dei ministri, dalla resistenza dello spirito retrivo, dalla pietà beghina della corte. Nondimeno, in grazia dell'indipendenza raggiunta, le menti più elette confidavano in un prossimo avvenire. Di questo ottimismo, massimo campione fu il Genovesi, che per sedici anni, insegnò dall'università, a centinaia di ascoltatori, primo in Europa, economia politica, parlando in lingua italiana, solo tra i colleghi e non senza loro scandalo. E quei discepoli, usciti dall'università, diffondevano nelle provincie le dottrine del maestro circa la missione delle scienze, del patriziato, dello stato; circa i diritti delle classi inferiori; la necessità di trasformare la proprietà terriera, di abolire i privilegi, i monopolî, i pregiudizî. La partenza di Carlo e di Amalia liberò la corte di Napoli dal bigottismo che vi aveva imperato. La reggenza per Ferdinando IV minorenne comprese il valore di quelle dottrine e più volte, pei suoi atti, consultò il Genovesi. Tra i primi segni del nuovo indirizzo fu il consenso alla ristampa dell'Istoria del Giannone nella raccolta del Gravier: la quale, non più vietata, ma cinta dell'aureola del martirio, messa alla portata di tutti, poté come si disse, fare "di noi quasi una nuova nazione". Quest'aria nuova respirò il piccolo re Ferdinando, imperfettamente allevato, incolto, pigro, amante dei piaceri, ma di buon senso e perspicace. E appena maggiorenne, istituita la giunta degli abusi (per l'osservanza del divieto di acquisti al clero), espulse i gesuiti, destinandone le rendite alla fondazione di scuole (1767). Appunto in quest'occasione, il Genovesi, richiesto di maestri e di consigli, presentò tutto un disegno organico di pubblica istruzione, dalle scuole elementari gratuite all'università e alle accademie, proponendo già allora, tra l'altro, l'istituzione di cattedre ambulanti per i contadini. Quel disegno non fu attuato che in piccola parte; ma, nel 1769, il re poté dire d'avere impiegato le proprietà dei gesuiti alla fondazione di scuole e collegi per educare la gioventù povera; di aver creato conservatorî e reclusorî; di aver diviso vasti terreni a piccoli censi in soccorso dei contadini, e aver emanato le leggi di ammortizzazione, che rendevano perpetua al colono la locazione decennale.
Tutto ciò si accordava con lo spirito del Genovesi: spirito che gli sopravvisse, anche più fattivo, in quei suoi discepoli che furono messi a parte del governo, come magistrati, amministratori, diplomatici: Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani, Domenico Caracciolo, Domenico De Gennaro (duca di Cantalupo), Melchiorre Delfico, Giuseppe Palmieri, Giuseppe Zurlo, Gius. Maria Galanti. Se ne avvertirono le tracce in tutta la molteplice azione governativa e anche in iniziative private di patrizî e di prelati: nel campo intellettuale e nel campo economico, in ordine alla giustizia e allo stato del clero. Quella fu l'"età di Fernando", "immagine di Dio" e dei suoi ministri, "immagine del re" e "immagine del popolo", cantata dalla Pimentel. E come lei, altri poeti e scrittori di politica, di diritto, di filosofia esaltavano quel "governo paterno", illuminandolo coi loro consigli. Così il Galanti, che, richiesto nel 1792 di fornire un progetto di catasto, ne proponeva uno sul tipo del piemontese, assoggettante a tributo ogni stabile, di chiunque fosse. Ma, più che questo, portavoce dell'intera sua classe, consigliava il governo a dare libertà (guarentigia ad ognuno contro l'arbitrio) mediante una costituzione politica e una legislazione generale a rendere eguale per tutti e uniforme per procedura la giustizia; a sostituire alla vecchia sommaria, un'amministrazione provinciale; a elevare la cultura al livello dei paesi più progrediti.
Così, da quando l'Europa, con moto generale d'idee e d'azione era insorta contro il dispotismo universale di Luigi XIV a quando l'Europa stava per fare argine al turbine rivoluzionario della stessa Francia, che schiantò e spazzò ogni avanzo dei vecchi tempi, in Napoli, dalla filosofia civile di Paolo Mattia Doria, dall'azione politica di Tiberio Carafa, e dalla dottrina giuridica culminante nel Giannone, fu avviato e crebbe fino al largo seguito del Genovesi un moto d'idee, un desiderio di progresso, una richiesta di riforme urgenti, a cui lento corrispose il governo austriaco (col tossico di dominio straniero), men lento il governo del primo Borbone, assai più consenziente il governo successivo, ma non ancora consenziente in tutto. Nel 1775 l'almanacco di corte pubblicò per la prima volta un elenco di nati e di morti nel corso degli ultimi nove anni, estratto dagli stati parrocchiali, da cui si vide la popolazione del regno da 3.935.000 anime, nel 1765, cresciuta in nove anni a 4.349.000.
Di fronte a questa cifra, la classe colta sopra menzionata era un'esigua minoranza; ma non nel numero stava la sua forza. Stava nell'essere una classe rappresentativa e dirigente, che aveva tolto ogni importanza al baronaggio e alla nobiltà di sedile come tale e che del trono finora consenziente e collaboratore costituiva il sostegno più valido.
V. La Repubblica napoletana (1799). - Ma appunto perché, sino all'ultimo decennio del secolo, quel consenso non fu intero (ed è contraria al vero l'affermazione che le riforme borboniche avessero oltrepassato le esigenze dei pensatori napoletani); appunto perché, di fronte alle concezioni e aspirazioni loro l'azione del governo era ritardataria; appunto per questo, quando il governo mutò rotta con la successione dell'Acton al Caracciolo, con l'orientamento verso l'Austria e la conciliazione con Roma, e da collaboratore si tramutò in aperto avversario di quei pensatori (illuministi, borghesi, patrizî, prelati); essi accettarono, anzi impegnarono la lotta e furono il primo nucleo e rimasero il più puro fra gli elementi rivoluzionarî confluiti poi da altre svariate e meno pure sorgenti. Ad accostarli, ma non a fonderli, valse la massoneria; e a indirizzarne l'azione, mutandoli in patrioti e in giacobini, valse il doppio contegno della corte, prima insolente col rappresentante della Francia, poi codardo con la squadra francese (16 dicembre 1792), e quindi la conseguenza dell'affratellamento con gli ufficiali francesi, della fondazione di una Società patriottica e poi di due clubs e poi la congiura per uccidere i sovrani (marzo 1794). Scoperta la congiura, cominciarono le carcerazioni, i processi, gli esilî e i supplizî, che parvero cessare con l'armistizio di Brescia e la pace di Parigi (1796).
Ma, contro i patti firmati, l'alleanza con l'Austria e l'Inghilterra e le vergogne dell'impresa contro la Repubblica romana e della fuga della corte in Sicilia (1798), provocarono l'invasione francese. Con essa, ritornarono gli esuli, rifugiatisi nelle nuove repubbliche e affratellati con gli altri Italiani. Il paese piombò nell'anarchia. Le "piazze" della capitale contesero il potere al vicario lasciato dal re. Questi firmò col generale Championnet un non meno vergognoso armistizio (12 gennaio 1799) e, gridato traditore, di notte s'imbarcò anch'egli per Palermo. La plebe insorse in nome del re, cercò a morte i giacobini e il Mack, generalissimo dell'impresa romana, che si salvò rifugiandosi al campo francese. Gl'insorti, aperte le carceri e disarmati i soldati, occuparono i castelli, saccheggiarono, incendiarono, uccisero. Similmente, nelle provincie, bande armate, in nome del re, minacciarono gli averi e la vita dei possidenti. In quei frangenti, gli avanzi della Società patriottica si costituirono in Comitato centrale, invitarono il generale francese ad occupare Napoli, e, come questi volle, riuscirono con uno stratagemma a impadronirsi di Castel S. Elmo. Lassù si dichiarò caduta la monarchia e si proclamò la "Repubblica napoletana una e indivisibile" (22 gennaio 1799).
Ma, dal giorno prima al giorno dopo, i lazzaroni, mitragliati da quel castello e colpiti di fronte dagl'invasori, resistettero con feroce valore al ponte della Maddalena, alla porta Capuana, a Capodimonte, per le vie della città. Quando, alla fine, quel furore fu domato, fu costituito un governo provvisorio coi più illustri patrioti, distribuiti in sei comitati, sostituito poi da un direttorio su modello francese (14 aprile 1799). Ma a questo mancò il tempo e il senso pratico per darsi il sostegno di un esercito proprio, per rinsaldare le provincie alla capitale, cointeressandole alla sua esistenza, per domare le insurrezioni. Un'opera seria di legislazione e di amministrazione esso non poté compiere in quella sua breve vita febbrile. Sicché, avverse le provincie e in arme in nome del re, la repubblica fu ridotta alla capitale, vacillante anch'essa sul fermento reazionario (nell'aprile si scoprì la congiura dei Baccher), minacciata dalla squadra anglo-siciliana e privata del suo unico sostegno, quando, il 7 maggio, il Macdonald, succeduto allo Championnet, ne menò via l'esercito per la guerra con gli Austro-Russi. Abbandonato a sé stesso, che poteva fare il governo repubblicano? Gli esempî di quello stesso secolo gli additavano la soluzione con l'ultimo viceré spagnolo, fuggito davanti agli Austriaci, con l'ultimo viceré austriaco, fuggito davanti agli Spagnoli, con Ferdinando IV, fuggito davanti ai Francesi. Nell'ardore della sua fede, esso invece decise di resistere fino all'estremo, e quella resistenza naturalizzò la cadente repubblica e iniziò la rivoluzione italiana.
VI. Prima restaurazione borbonica e decennio francese (1799-1815). - Mentre la controrivoluzione imperversava nelle provincie con Boccheciampe e De Cesare in Puglia, con Pronio in Abruzzo, Fra Diavolo e Mammone in Terra di Lavoro, la marea irruppe formidabile su Napoli. Le si resistette con eroismo commovente; ma la resistenza della città cessò la sera del 13 giugno. Altri sei giorni resistettero i castelli; poi, svanita la speranza di aiuto francese, si arresero anch'essi con onorevole capitolazione. Sopraggiunto Nelson con ordini dei sovrani, disconobbe la capitolazione e fece arrestare i patrioti, già imbarcati per Tolone. Contro ciò il cardinale Ruffo protestò col Nelson, se ne appellò ai sovrani. Ma la regina volle un "ripurgo di più migliaia di persone"; e il "ripurgo", cominciato con Francesco Caracciolo (29 giugno 1799) e terminato con la Sanfelice (11 settembre 1800), contò 93 supplizî nella capitale e 300 nelle provincie, 222 condanne al carcere temporaneo, 335 all'esilio. Sulla dinastia ne cadde un'ombra che non si dileguò mai più. Gittatasi ora in braccio alle potenze conservatrici e retrograde, difesa dalla plebe e appoggiatasi alla plebe, la dinastia divenne plebea. Ma neppure si dileguò mai più il ricordo di quelle condanne, che fu scuola di fede e di perseveranza, stimolo a indagare le cause della sconfitta e ricercare i nuovi mezzi per la riscossa. Le centinaia di detenuti e di esuli, le migliaia di profughi, venuti a contatto con altri popoli, a quella scuola educarono la nuova generazione e le aprirono l'avvenire, mentre la dinastia restaurata disperatamente si attaccava al più recente e peggiore passato, segnando la sua inevitabile rovina.
Frattanto, sempre a vendetta aboliti i "Seggi" nella capitale, fin dal 14 giugno 1799 Maria Carolina espresse al cardinale Ruffo il desiderio di "ricacciare i Francesi e Giacobini dallo stato romano". La spedizione, ordinata il 31 luglio e riuscita a impadronirsi di Roma (30 settembre 1799), animò la corte ad estendere la conquista in Toscana. Ma il primo console aveva vinto a Marengo, i Francesi erano vittoriosi in Germania e con gli armistizî gli Austriaci sospendevano la guerra. In conseguenza, il regno, costretto prima a sgombrare dallo stato romano, venne obbligato dalla pace di Firenze (1801) a rinunziare a ogni dominio in Toscana, a risarcire con forte somma i danni recati a Francesi, a richiamare e rimettere nei loro beni gli esuli, a liberare i detenuti politici e a mantenere a sue spese un corpo d'occupazione francese nell'Abruzzo e nel Leccese. Con ciò, il regno cadeva in uno stato di quasi vassallaggio, mentre se ne peggioravano le condizioni economiche con nuove misure fiscali. E sorte ancora peggiore procurava alla dinastia l'insensata doppiezza di Maria Carolina, che, mentre con larghe offerte e con l'assicurazione della neutralità otteneva da Napoleone il richiamo di quel corpo d'occupazione, si rialleava subdolamente coi suoi nemici (1805), e da una nuova invasione punitiva francese era costretta, dopo il marito, a rifugiarsi nuovamente in Sicilia (febbraio 1806).
Il regno allora, dopo un decreto imperiale che lo annetteva alla Francia (1° marzo), fu da un altro decreto dichiarato indipendente sotto Giuseppe, fratello di Napoleone, e da restare sempre diviso dal regno d'Italia (30 marzo). Così nel decreto: ma nel pensiero dell'Imperatore e nella realtà, esso doveva restare legato e soggetto alla Francia: alla Francia non più rivoluzionaria, ma monarchica e arditamente riformatrice. Sicché, col ripristino di antiche forme, poté soddisfare i migliori fra i vecchi elementi attaccati alle forme e, con le nuove realtà, conciliarsi gli uomini condannati dal Borbone. Furono infatti allora chiamati al governo e cooperarono concordi al pubblico bene molti dei repubblicani del'99 (come Delfico, Cuoco, Galdi, Fortunato) e molti tra i già ministri del Borbone (come Gallo, San Teodoro, Zurlo, Cianciulli). E, nonostante il doppio male del dispotismo all'interno, imposto dai troppi nemici del nuovo stato, e della soggezione alla durezza di Napoleone, che in ogni napoletano vedeva una Maria Carolina, iniziarono un vasto moto di riforme, che doveva porre fine al Medioevo napoletano. Il 10 maggio 1808, Napoleone, destinata a quel suo fratello la corona di Spagna, chiuse così la sua laconica comunicazione: "Riceverete questa lettera il 19, partirete il 20, sarete qui (a Baiona) il 1° giugno". E Giuseppe parti e da Baiona emanò uno Statuto del regno di Napoli, che dava al regno un parlamento legislativo, sancito da Napoleone, ma non lasciato attuare. L'8 luglio, Giuseppe rinunziò alla corona di Napoli; il 15 Napoleone la donò al cognato Gioacchino Murat, e il 6 settembre il nuovo re fece il suo ingresso nella capitale.
Felici e magnifici ne furono gl'inizî, con la riconquista di Capri, col perdono ai rei politici, con l'abolizione degli stati d'assedio e delle commissioni militari, con la distruzione del brigantaggio. La successiva sua azione guerriera appartiene alla storia di Napoleone più che a quella di Napoli. Ma fu storia di Napoli la nuova forza creatavi di terra e di mare e, più ancora, l'impulso di cose e d'idee nuove, il vasto, stupendo moto, l'ingente mole di riforme civili in tutti i campi e rivoluzione più che riforme, col conseguimento di quella rigenerazione civile ed economica che da oltre un secolo era stata il sospiro dei migliori napoletani. Ma ora erano anche nate altre idee, aspirazioni politiche ignote o mal note alle generazioni passate. La propaganda rivoluzionaria francese, il '99, gli esilî (esuli napoletani nella Svizzera o nella Germania si erano affiliati alla Carboneria), lo statuto di Baiona, pubblicato in Napoli (3 luglio 1808), l'entrata della Carboneria nel regno (1810) e poi la costituzione siciliana del '12 avevano chiarito nelle classi più colte il concetto della libertà politica come governo rappresentativo e reso anche popolari i nomi di libertà e di costituzione, comunque intesi.
Sennonché consentire a quelle nuove aspirazioni, accordare una costituzione era una utopia finché il regno restava sotto il giogo dell'impero. Quel giogo, fin dal principio, si mostrò pesante sull'orgoglio personale del re, che, già fratello d'armi e cognato dell'imperatore, tentò di sottrarsene, ricusando il tributo annuo, mutando insegne e titoli ai reggimenti, impetrando lo sgombro dei soldati francesi. Ma quando l'arte del Bentinck fece penetrare nel regno molte copie della sua costituzione, e attirò a sé i carbonari, provocando congiure e tumulti in nome del Borbone re costituzionale e conseguenti processi e condanne, e il regno parve il paese della tirannide di fronte alla Sicilia, asilo della libertà, il bivio del Murat divenne tragico, tra quello che si diceva il suo "debito natale" e il suo dovere di re. Quella situazione dà ragione della sua incoerente condotta, condannabile per giudici superficiali, ma da ponderare con serena equità.
A Parigi, nel 1811, Murat confidò all'ambasciatore austriaco il sospetto che il cognato tramasse a suo danno con Maria Carolina una restaurazione borbonica. Ritornato a Napoli, decretò che nessuno straniero potesse avere stipendio dal regno senza prenderne la cittadinanza (14 giugno). Napoleone, dandogli del matto, lo obbligò a escludere con nuovo decreto, da quella ordinanza, i Francesi (15 settembre 1811). Gioacchino, sempre invasato da quel sospetto, quando ebbe ricevuto il comando della ritirata dalla Russia, chiese per lettera d'esserne esonerato; non avuta risposta, cedette quel comando a Beauharnais e ritornò a Napoli. E Napoli lo accolse entusiasticamente (4 febbraio 1813); e società e privati dalle provincie lo invitarono a staccare, una buona volta, i destini suoi da quelli del prepotente cognato. Dunque la sua condotta si accordava con le aspirazioni del suo regno: ai suoi doveri di beneficato e di soldato, egli aveva preferito il suo nuovo dovere di re. Ma c'è di più. Esponenti illustri di quelle aspirazioni, come generali, tra cui il Colletta, ministri, tra cui lo Zurlo e il duca di Campochiaro, prelati, come l'arcivescovo di Taranto, gli rappresentarono la solenne opportunità di quell'ora, in cui, sotto l'uniformità d'istituti di forze, di sentimenti portatavi dal governo francese, erano cadute le barriere, le antipatie, le diversità fra regione e regione della penisola, e non c'erano più soldatesche straniere, concentrate com'erano sull'Elba le forze d'Europa, e l'Italia tutta poteva raccogliersi sotto lo scettro d'un re come Gioacchino, agevolata da un'alleanza con l'Inghilterra.
Spuntò così dal Mezzogiorno il pensiero e proposito di unità che, immaturo allora, doveva a non lungo andare decidere delle sorti d'Italia. Accolto il suggerimento, Gioacchino entrò in trattative col Bentinck, che furono annunziate dal Morning Chronicle. Ma, stretto da ogni lato, dalle istanze della moglie, da lettere del cognato, da preghiere e consigli dei ministri francesi, tornò al sentimento del suo "debito natale" e volò sull'Elba a coprirsi di nuova gloria guerriera. Sennonché, reduce dalla Germania, dimezzando il suo grande programma, a Guastalla propose al Beauharnais di dividersi fra loro due tutta l'Italia. La proposta fu respinta, perché allo spirito pratico e positivo del viceré parve che la "caduta del tronco" avrebbe tratto "seco necessariamente quella dei rami". Ma quel non volere più essere ramo creava l'altro grande principio, dell'indipendenza nazionale, che, col principio unitario, doveva fare l'Italia. E dal regno, come suo ultimo bagliore, partì prima, con la campagna del 1814, il tentativo di conquistare l'indipendenza. Scomparendo dovunque allora i tratti della nuova civiltà sotto l'invasione del vecchiume attaccato alle dinastie restaurate, unico asilo della nuova civiltà rimase allora il regno. Qui si rifugiarono gli ufficiali dello sbandato esercito italico, qui quanti il terrore o la muffa delle restaurazioni allontanò dalle altre parti d'Italia. Così Napoli allora, come trentacinque anni dopo Torino divenne focolare d'italianità. E di qui, l'anno dopo, mosse l'altro tentativo dell'unificazione nazionale. Ma i tempi non erano maturi: ostacolato da troppi nemici, il tentativo falli e Gioacchino dovette abbandonare il regno (20 maggio 1815).
VII. Nuova restaurazione borbonica, reazione, moto del 1820 e primo governo costituzionale (1815-1821). - Il 17 giugno, entrò in Napoli il vecchio Ferdinando. Dopo aver fatto dalla Sicilia larghe promesse di perdono, di costituzione e di libertà, egli si era segretamente impegnato con l'Austria a impedire ogni novità inconciliabile con le vecchie istituzioni e con la politica dell'Austria nelle sue provincie italiane. E se, tuttavia, non mostrò la foga demolitrice del nuovo e restauratrice del vecchio che si vide negli altri stati italiani, assunto che ebbe il nome di Ferdinando I in base all'unificazione, decretata dal Congresso di Vienna, dei due regni isolano e continentale, si dié a regnare da re assoluto. Buone cose invero operò allora quel governo, e il re ne ebbe lode. Ma nel troppo roseo quadro che il Colletta tracciò di quell'azione governativa atta a generare fiducia, pace e felicità, manca il rilievo di quegli errori e colpe che, all'incontro, seminarono diffidenza, malessere e disgusto. Tra essi - a parte la persecuzione delle società segrete, e oltre l'ostentata predilezione per i militari che avevano seguito la corte nell'esilio - la confisca di beni e pensioni con cui il governo passato aveva compensato servigi o risarcito danni; la restituzione a pastura di gran parte del Tavoliere e soprattutto il concordato con Roma, che fece riaprire conventi, ripermise al clero l'acquisto di beni e col ristabilimento parziale del foro ecclesiastico ristabilì anche la censura vescovile. La società, come l'aveva foggiata il decennio anteriore, con l'eversione della feudalità e la nuova condizione della proprietà fondiaria e la conversione dei beni ecclesiastici in beni privati, non era più quella di una volta, per quanto il paese rimanesse, ora come in passato, povero per natura e per incuria, privo di strade e di opere pubbliche necessarie. La mantenuta riforma dell'amministrazione provinciale e comunale dava il primato al ceto dei nuovi possidenti, di cui principalmente si componevano il decurionato del comune, e i consigli del distretto e della provincia. E appunto a loro, per i loro averi, appariva minaccioso quel rinnovato fervore clericale, che poteva forzarli alla restituzione dei beni ecclesiastici acquistati. Per altre ragioni non si sentivano sicuri i carbonari e i massoni, che riempivano l'esercito e i pubblici uffici e dovettero ora giurare di non appartenere a setta o, appartenendovi, di uscirne; né quanti militarmente avevano servito il governo passato o sostenutane e coadiuvatane l'opera vigorosamente riformatrice e incivilitrice. Le offese recate alla liberta del pensiero davano alla classe intellettuale un più alto motivo di disgusto. E i sospetti, i timori, il malessere, serpeggianti in tanta parte della società, si riassumevano nel desiderio di una più diretta partecipazione al governo, nel rancore che fossero venute meno le solenni promesse di una costituzione, nell'attribuire ogni male al mantenimento dell'assolutismo, tanto più odioso e intollerabile, in quanto notoriamente esercitato, non dal vecchio, bonario e infingardo sovrano, ma dai suoi ministri e propriamente da Luigi de' Medici. E si espressero in progetti, scoperti e sventati, d'incendiare la reggia, impadronirsi del Campo di Marte e piantarvi l'albero della Libertà; nell'affissione, nella capitale e fuori, di "Avvisi patriottici" insultanti il re e sua moglie, incitanti tutti i partiti liberali a unirsi e a insorgere, annunzianti chiesta al re "da tutti gli angoli del regno" una costituzione che assicurasse a lui il trono e ai popoli la felicità ed esortante tutti a difendere il proprio diritto, non ottenendola, a non pagare imposte, non dovute a chi quel diritto misconosceva, a versare anche il sangue per difenderlo. E sangue se ne sparse, come a Lecce nel 1818 in un conflitto fra carbonari e calderai. E i carbonari, intensificando ed estendendo la loro propaganda, attesero ad associarsi "tutti i possidenti onesti": propaganda, che in quanto mirante a più libero regime, non poteva trovar refrattarî anche altri elementi estranei alla setta. La setta intanto riorganizzò militarmente le vendite. Il capo di essa, il generale Guglielmo Pepe, comandante della terza divisione di stanza nelle provincie di Avellino e di Foggia, concepì un colpo audace nella primavera dell'anno seguente. Venuto allora a Napoli l'imperatore d'Austria, poiché in suo onore si doveva eseguire ad Avellino una grande rivista militare, egli si accordò col colonnello avellinese De Concili, capo di Stato maggiore, per arrestare in quell'occasione il re con l'imperatore e il Metternich e far proclamare su quel campo la Costituzione. L'occasione mancò, perché il Colletta impedì che la rivista avesse luogo, e quel disegno svanì. Ma in quasi tutte le altre provincie le magistrature della setta disposero all'insurrezione i dicasteri distrettuali, e questi le vendite dipendenti. E nel maggio del 1820 le grandi manovre tenute a Sessa valsero a concretare gli ultimi accordi per una insurrezione generale.
Quando, in conseguenza, nella notte fra il 1° e il 2 luglio 1820, s'iniziò quel moto, quell'episodio non fu, come si è preteso, un colpo di testa, una conseguenza, anzi una parodia del "pronunciamento" spagnolo, un prodotto esotico improvvisamente e follemente importato; ma l'effettiva, iniziale esecuzione di un'azione da lungo tempo largamente preparata.
In quella notte, poco più o poco meno di duecento cavalleggeri del reggimento Borbone di stanza a Nola furono da due sottotenenti condotti fuori del quartiere e congiuntisi con un gruppo di carbonari, capitanati da un prete, maestro di quella vendita, si avviarono per Avellino. Ma nella marcia a bandiera tricolore spiegata e al grido di "viva Dio, viva il re, viva la Costituzione" e tra gli applausi della popolazione, accolti dalle autorità locali, crebbero di numero, tanto che tre generali, spediti contro di loro, non osarono attaccarli. Messosene a capo il generale Pepe, li introdusse trionfalmente nella capitale e chiese al re la costituzione che suo nipote aveva data alla Spagna. Il principe ereditario e i ministri Medici e Tommasi indussero Ferdinando a cedere, e il re concesse quella costituzione (7 luglio) e, composto un nuovo ministero, solennemente la giurò (13 luglio). Purtroppo, il giorno dopo Palermo insorgeva contro Napoli, e la guerra che ne derivò fra le due parti della monarchia finì per riuscire funesta a entrambe.
Con l'elezione dei deputati e l'apertura dell'unico parlamento voluto dallo statuto spagnolo, il regno, dando agli altri stati della penisola il primo esempio di una monarchia costituzionale, entrò in una nuova vita politica, che a torto fu dileggiata come vana palestra di retori esaltati, di parolai e di settarî e non meno a torto definita termine e chiusura di un'età superata, senza influenza sull'avvenire, e sforzo senile di uomini stanchi, esauriti e prossimi a sparire dalla storia.
Certo quei ministri e quei deputati peccarono di troppa fiducia nella giustizia della propria causa e nella "innocenza" di quanto era avvenuto, quando lo notificarono alle varie potenze con l'illusione di averle aderenti. Sin dal primo momento Metternich capì che quanto era avvenuto a Napoli metteva in grave pericolo l'assetto d'Europa, e avrebbe subito inviato un esercito contro Napoli, se le altre potenze non gli avessero opposto il principio dell'azione comune voluta dalla Santa Alleanza. La proposta dello zar che fosse restituita a Ferdinando la piena autorità toltagli da un'insurrezione armata e quindi egli di sua volontà concedesse una costituzione moderata naufragò nello scoglio del "non intervento" inglese. La Francia si offrì mediatrice purché alla costituzione spagnola se ne sostituisse altra men democratica, e il governo di Napoli, per quella stessa fiducia e per una malintesa dignità, ricusò quella mediazione. "Non mai una nazione per il suo nobile contegno acquistò diritti maggiori alla stima dei contemporanei e all'ammirazione dei posteri". Così il deputato Giuseppe Poerio conchiuse un suo discorso (l'8 dicembre) quando già da più giorni il parlamento attendeva a modificare e correggere lo statuto senza quel feticismo per esso, che gli è stato imputato. Ma quando, sedotto Alessandro I da Metternich, i congregati di Troppau chiamarono Ferdinando a Lubiana, il parlamento ebbe la debolezza di lasciarlo partire. Ed errore più grave fu l'annullare la conciliazione ottenuta da Florestano Pepe in Sicilia e ordinare al Colletta quella spedizione punitiva, che scemò la forza militare del regno e rese impossibile la cooperazione dei Siciliani contro gli Austriaci già avanzati a schiacciarlo. Il vuoto così fatto nell'esercito costituzionale fu colmato con elementi nuovi alla guerra e indisciplinati, e quell'esercito non impedì al nemico di giungere alle porte di Napoli (21 marzo 1821). Eppure, in quel giorno il parlamento si adunò, presenti 46 deputati, perché parecchi si trovavano al campo, altri in missione per le provincie. Contro quella prepotenza straniera protestò Poerio e a sostegno della protesta Dragonetti, a nome anche di altri colleghi, aggiunse: "Se la presente generazione è immeritevole del bene della Costituzione, le generazioni future, che saranno della nostra più virtuose, reclamano da noi quest'atto di protesta delle nostre franchigie e dell'indipendenza nazionale" Chiuso poi il parlamento, vi si appose un cartello con lo scritto "Scusate le chiacchiere", e lo scherno era degno di un lacché dell'assolutismo; ma non doveva aver eco nella storia. Giacché, accanto ai parolai e ai settarî, spiccarono pure figure luminose di uomini che, estranei alla setta e anche apertamente avversi alla setta, eredi e continuatori di quella schiera d'intellettuali da tempo dedicatasi al bene della patria, spiegarono in quell'assemblea tesori di dottrina, discutendo pubblicamente e liberamente di bisogni generali e particolari prima appena potuti esporre timidamente in suppliche, di solito inani, alla sommità del trono. E, tutt'altro che prossimi a sparire dalla storia, giovani, come Dragonetti e altri, tornarono poi alla lotta; vecchi, come Poerio, legarono ai proprî figli e ai loro compagni l'insegnamento della propria esperienza avviandoli a nuovi concetti e a nuove aspirazioni
VIII. Nuova reazione, congiure e insurrezioni (1821-1847). - Entrati nel regno gli Austriaci, un governo provvisorio presieduto dal vecchio reazionario marchese di Circello annullò ogni atto degli ultimi nove mesi e affidò la polizia al principe di Canosa assolutista feroce e i processi politici a una corte marziale. Ne seguirono tante e tali condanne che il re, tornato a Napoli (15 maggio 1821) fu dalla stessa Austria consigliato ad allontanare il Canosa e dall'Austria e dalla Russia esortato a più mite governo. Fu allora ricomposto il ministero sotto la presidenza del principe Ruffo; ma vi rimase il Circello e a sostegno dell'assolutismo, a carico della stremata finanza, rimasero gli Austriaci pur dopo la morte di Ferdinando I (4 gennaio 1825). E, quando poi se ne ottenne la partenza (1827), furono sostituiti dagli Svizzeri.
Nel breve regno di Francesco I (1825-30) si tentò qualche riforma; si conchiuse una convenzione con la Turchia per la navigazione nel Mar Nero (ottobre 1827); ma continuarono la doppia intolleranza religiosa e politica e i processi e le condanne e si aggravò la vecchia piaga del brigantaggio e della camorra. E quando contro Tripoli s'inviò una divisione navale per affermare l'onore nazionale, quella spedizione fallì vergognosamente (agosto 1828). Frattanto i liberali sfuggiti alle condanne e gli esuli si preparavano alla riscossa, organizzandosi in sette con varî titoli. Quella dei "Filadelfi" tra le più ardite insorse nel Cilento, proclamando la costituzione di Francia (giugno 1828); fu ferocemente e rapidamente abbattuta dal generale Del Carretto e provocò nuovi processi, carcerazioni, supplizî e fughe fino alla morte del re (8 novembre 1830).
Con Ferdinando II (1830-59) parve spirare un'aria nuova. In politica estera, il regno, che coi Borboni si era sempre appoggiato a una grande potenza straniera (Spagna, prima; poi Austria; poi Inghilterra, poi nuovamente Austria) si mostrò gelosamente custode della propria indipendenza. Così all'interno parve abbandonata la politica borbonica e ripresa quella dei Napoleonidi nel riordinamento dell'esercito, della marina, della finanza; nell'impulso al commercio, nella cura del benessere dei sudditi. Ma ciò che maggiormente suscitò entusiasmo e speranze fu l'amnistia ai condannati politici, il permesso rimpatrio agli esuli e perfino l'elevazione al governo di funzionarî del decennio. Tornarono così parecchi di quei liberali che nell'esilio avevano slargato e affinato la loro cultura storica, filosofica, letteraria e profondamente modificato la concezione politica: non più riformisti, repubblicani, carbonari o costituzionalisti-municipali; ma miranti oltre i confini del regno e aspiranti già allora all'unificazione politica dell'Italia intera indipendente. E reduci in patria vi crearono un nuovo moto intellettuale, fondando riviste importanti come il Progresso e il Museo. E fu tra loro chi pensò che il giovane re potesse dare attuazione alla nuovissima aspirazione, ponendosi a capo dell'ambito movimento nazionale.
Ma non tardò la disillusione. Quel re buono, fornito di eccellenti qualità private, animato da propositi a suo modo retti e savî, non tardò a palesare come il suo disprezzo per la cultura così l'attaccamento all'assolutismo, geloso della sua autorità personale fino a esautorare gli stessi suoi ministri, avverso a ogni libertà e novità politica e soprattutto repugnante appunto a qualsiasi espansione del regno suo, che doveva mantenersi chiuso ed era sicuro "tra l'acqua salata e l'acqua benedetta", come egli diceva: cioè fra il mare e lo Stato pontificio.
Non tardò quindi il contrasto e il conflitto fra lui e le varie correnti del liberalismo, mazziniana, giobertina, murattiana, con risveglio di sette e agitazione e tentativi d'insurrezione, da un lato; e nuovamente commissioni militari, dall'altro, e processi e condanne. Una rivolta tentata a Cosenza, che in Calabria provocò fucilazioni e condanne all'ergastolo e nella capitale nuovi arresti, ebbe la sventura di attirare i Bandiera a quell'impresa che fruttò a loro il supplizio e al Borbone l'infamia (luglio 1844). Un anno dopo, Napoli accolse il fior fiore dell'intelligenza di tutta l'Italia: 1400 scienziati partecipanti al VII congresso scientifico. Ma Del Carretto, quando vide impensierito il re alla notizia del moto di Rimini, si affrettò a farli partire per evitare una nuova vergogna. Si giunse così all'elezione di Pio IX, mentre Ferdinando II si accordava con l'Austria per un mutuo soccorso in caso di sommossa (luglio 1846). E, poiché anche nel regno gli atti del nuovo pontefice produssero dimostrazioni e agitazioni da un lato, e repressioni e condanne dall'altro, si ritornò alle congiure e alle stampe alla macchia. Tra queste culminò la Protesta del Settembrini (luglio 1847) con conseguenza di tanta commozione che il re per sedarla fece dar conto della sua amministrazione finanziaria, debiti tolti, tasse scemate, e promise l'abolizione o riduzione di dazî. E avrebbe potuto anche vantare esercito forte e buona marina e codici eccellenti e belle istituzioni come la Consulta di stato e i Consigli provinciali e il Decurionato. Ma il tarlo che rodeva tutto lo stato e ne disfaceva l'organismo stava nell'onnipotenza della polizia e negli eccessi ch'essa, coadiuvata dal clero e dalla milizia e non frenata dalla magistratura, commetteva senza più alcun riguardo alla libertà e alla sicurezza delle persone. E questa libertà e sicurezza prima d'ogni altra cosa si cercava nella formazione di nuovi comitati, negli accordi coi liberali di altre regioni e con gli esuli e in nuove congiure; se ne vedeva unico mezzo il regime costituzionale, s'invocava in dimostrazioni e in petizioni. Frattanto, poiché un indirizzo, redatto dal Cavour e firmato da altri illustri piemontesi e pubblicato nel Risorgimento di Torino (21 dicembre 1847), invitava Ferdinando II ad accedere alla lega doganale conchiusa tra Piemonte, Toscana e Roma, con nuove dimostrazioni si reclamava quell'accessione.
IX. Nuovo governo costituzionale, nuova reazione e fine del regno (1848-1860). - Alla fine un'altra insurrezione di Palermo (12 gennaio 1848) con la sua rapida espansione nell'isola e nel continente e con nuove dimostrazioni e petizioni indussero il re, contro le esportazioni austriache, a smettere la politica di resistenza a oltranza, ad allontanare il Del Carretto, a comporre un nuovo ministero e ad annunziare la concessione di una costituzione (nel Giornale ufficiale del 29 gennaio 1848). L'incarico di redigerla entro dieci giomi fu dato al ministro Bozzelli, che la stese sul modello della francese del 1830. Con nuovi decreti quindi (del 1° febbraio), furono richiamati altri esuli, fra i quali Guglielmo Pepe dopo ventisette anni di esilio; pubblicato lo statuto del Bozzelli (11 febbraio) e solennemente giurato dal re (24 febbraio); pubblicata la legge elettorale, fissate le elezioni per l'aprile, l'accessione alla lega doganale e composta la guardia nazionale. Ma l'onda di entusiasmo per tali novità fu turbata da dissensi e contese risonanti nella fungaia di giornali che nacquero in quei mesi e trascese in qualche provincia a conflitti sanguinosi. I partiti più avanzati, non paghi di quanto si era ottenuto, dentro pretendevano nuove riforme ultrademocratiche; fuori, scoppiata che fu la guerra con l'Austria, reclamavano un immediato intervento con dimostrazioni che provocarono proteste diplomatiche da parte dell'Austria, mentre l'esercito brontolava per quanto avveniva e nelle campagne i contadini, avversi ai proprietarî e intolleranti del nuovo freno della guardia nazionale, si agitavano e rivoltavano. La guerra contro l'Austria era vivamente ambita anche dai liberali moderati, alieni dalle chiassate plateali e dalle escandescenze dei radicali. E il re, dimesso che si fu il Bozzelli, consentì che partissero schiere di volontarî, generosamente soccorse da comitati di donne; e, rifiutato dal Pepe l'incarico di formare un nuovo ministero, affidò quel compito a Carlo Troya, caldo fautore della guerra d'indipendenza. Col nuovo ministero, oltre alcune riforme interne come l'allargamento della legge elettorale e il diritto alla camera elettiva di "svolgere" lo statuto, fu deciso l'invio per la guerra di un corpo d'esercito regolare al comando del Pepe; si fecero le elezioni con ballottaggio, si fissò l'apertura del parlamento al 15 maggio. Ma e la partenza delle truppe, eseguita a scaglioni, e le operazioni elettorali avvennero fra dimostrazioni in contrasto per l'allocuzione papale del 29 aprile, che ridié tanta baldanza ai reazionarî quanta irritazione ai radicali. Nuova agitazione quindi e risorgimento di sette eccitanti a lotta contro i funzionarî e le istituzioni, a reclamare l'abolizione della Camera dei pari e in qualche provincia rivolte e conflitti sanguinosi. E la marea dalla base montò al vertice, quando una novantina di deputati in un'adunanza preliminare (13 maggio) volle che nel giuramento formulato dal ministero fosse inserito il diritto allo "svolgimento" dello statuto e il re non volle e si venne alle barricate e il re le fece abbattere in una maniera (15 maggio) che solo dallo zar venne applaudita.
Dimessosi in conseguenza il ministero Troya, il nuovo ministero Cariati si palesò subito reazionario. Sciolse la camera, ordinò nuove elezioni, fissando al 1° luglio l'apertura del parlamento, e richiamò le truppe partite (22 maggio); né ad altro attese che a risottomettere la Sicilia e a domare lo strascico delle agitazioni interne. Giacché, se i liberali moderati, in attesa di un'opposizione legale al ministero, provvidero austeramente a slargare i loro circoli e comitati per fonderli in ultimo in quella che significativamente s'intitolò "Società dell'unità italiana", i radicali e rivoluzionarî, tendenti o alla costituzione del 20 o alla repubblica, continuarono qua e là ad agitarsi e a insorgere e a lottare con le truppe regolari e con "colonne mobili" di nuova creazione. E poiché, nonostante le pressioni e le illegalità e la corruzione usate dal governo, le elezioni riuscirono in maggioranza di opposizione, il parlamento, adunato nel luglio, fu prorogato al novembre e poi al febbraio 1849. Quindi si rinforzarono di elementi più sicuramente retrivi il ministero, la polizia e i Consigli provinciali e comunali. Si rifiutò l'adesione alla lega italiana e si ruppero le relazioni diplomatiche col Piemonte. E la nuova Camera, quando a maggioranza ebbe votato un'indirizzo contro il ministero, fu sciolta (13 marzo 1849), e alle autorità locali s'impose di fare implorare dalle popolazioni l'abolizione della costituzione. Da allora, con la sottomissione della Sicilia (maggio 1849), la reazione non ebbe più freno: sostituì le bandiere bianche gigliate alle tricolori, richiamò i gesuiti, ricostituì le corti speciali per la condanna dei liberali, radicali o moderati che fossero; e parve trionfare. Ma fu trionfo apparente e temporaneo. L'idea nazionale, che da allora si andò sempre più diffondendo e consolidando, colpì a morte una dinastia rivelatasi inadattabile a un libero regime, antinazionale e anacronistica; e colpì a morte anche un regno che per la sua immaturità politica, per l'egoismo di gran parte delle classi medie, per l'indifferenza e l'avversione delle plebi e dei contadini, sempre tumultuanti per i demanî e pronti al saccheggio, si rivelava non solo inetto a porsi per la nuova via, ma anche ostacolo su quella che era la via della storia. Negli undici anni che successero a quella pseudomonarchia rappresentativa si tentarono miglioramenti economici, bonifiche, impulso ad alcune industrie, linee telegrafiche, ferrovia; si conchiuse la vecchia vertenza per la chinea (1855); ma furono anni intellettualmente e moralmente squallidi, politicamente agonici. Il tragico tentativo di Sapri (1857) valse a sfatare l'aspirazione repubblicana, mentre svanivano il neoguelfismo e l'ubbia murattista. Ciò che di veramente vivo e vitale il regno ancora possedeva era fuori del regno: erano gli esuli, gli emigrati, raccolti la più parte dal Piemonte e latori di quanto di meglio l'Italia meridionale aveva prodotto: il loro pensiero scientifico e l'anima loro non più napoletana, ma italiana, polarizzata verso l'unica dinastia che aveva decisamente combattuto e doveva combattere per l'indipendenza nazionale e aveva mantenuto la costituzione giurata.
Inserita che fu dal Piemonte nella politica internazionale "una questione napoletana" (1856), l'Inghilterra e la Francia la ruppero col Borbone, l'Austria invano lo esortò a più moderato governo. Fido non gli rimase che lo zar, il quale, lontano, difficilmente lo avrebbe soccorso al bisogno.
Eppure Ferdinando II, nella tenacia della sua incomprensione, morendo quando al nord si guerreggiava pro e contro l'indipendenza, consigliò l'erede di nulla mutare all'interno e non allearsi fuori né con l'una né con l'altra delle potenze belligeranti. Lui morto quindi (23 maggio 1859), per un pezzo sotto Francesco II il regno alla superficie parve non mutare aspetto; ma ben presto le vittorie di Garibaldi in Sicilia, l'espansione piemontese, la propaganda liberale-unitaria, lo scompiglio nell'esercito, nella marina, in tutti i rami dell'amministrazione lo forzarono a invocare l'aiuto della Russia, della Prussia, dell'Inghilterra. L'aiuto non giunse e Francesco II dovette ingoiare l'amaro calice del consiglio francese: si concesse una generale amnistia per i reati politici (25 giugno 1860), si compose un ministero liberale, si rimise in vigore lo statuto del '48 (1° luglio) e si sollecitò l'alleanza col Piemonte. Fu galvanizzazione di un corpo morto. Non prestata fede alla costituzione data per la terza volta, rifiutata dal Piemonte l'alleanza, Francesco II lasciò Napoli per non più ritornarvi (6 settembre) e il giorno dopo trionfalmente vi entrò Garibaldi.
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