LINGUE, REGNO DI SICILIA
Ricostruire un quadro dei dialetti del Regno in età fridericiana risulta altamente problematico, non solo per i limiti della documentazione, ma anche perché l'inadeguatezza della rappresentazione reale si fa avvertire qui in maniera particolarmente forte. Abbiamo motivo di credere che le alternative che convenzionalmente separiamo con un'isoglossa convivessero in misura ancora maggiore del solito in uno stesso luogo e in uno stesso parlante: è il caso, ad esempio, dei rapporti tra il sistema vocalico siciliano e quello napoletano, che i dati a disposizione ci rivelano come estremamente dinamici.
Fatta questa doverosa premessa, può essere tuttavia utile tentare una lettura stratigrafica delle isoglosse che Pellegrini (1977) considera più significative per l'area in oggetto:
Conservazione della distinzione tra -O e -U (v. Lingue, Regno d'Italia). Distingue a oriente i dialetti mediani da quelli meridionali. Il fenomeno in passato era più esteso a Mezzogiorno, includendo Gaeta, Cassino, l'intera regione abruzzese-molisana e le Marche meridionali.
Esito PL, CL > [kj]. Distingue a occidente i dialetti meridionali da quelli mediani. Il tratto è già attestato in antico, tanto da apparire come stigma degli apuli che turpiter barbarizant nel verso citato da Dante "Bolzera che chiangesse lo quatraro". Tra i siculi un "Robertus de chazza" (〈 PLATEA) è registrato in un documento del 1153. Ma il fenomeno non è affatto generale nei testi antichi (v. successivo).
Conservazione dei nessi con L in un'area centrale dell'Abruzzo (v. Lingue, Regno d'Italia). Il fenomeno coinvolge compattamente i testi antichi marchigiani, abruzzesi e laziali. Negli stessi testi napoletani, salentini, calabresi e siciliani i nessi appaiono spesso conservati. Che la conservazione non dovesse essere semplicemente grafica sembra provato da occorrenze come piclari 〈 plicari nella Sposizione di San Matteo e pru, 'più', nella Breve informazione di Bartolomeo Caracciolo. Probabilmente la conservazione era ovunque semplicemente grafica nel caso dei nessi con velare.
Limite dell''area Lausberg', ossia di quell'area a cavallo tra Basilicata e Calabria che possiede un vocalismo di tipo 'sardo' (ī, ĭ> /i/; Ē, Ĕ> /ɛ/; Ā, Ă> /ɑ/; ŏ, ō> /ə/; Ŭ, Ū> /u/) e conservazione (almeno parziale) di -S e -T. È difficile precisare l'estensione del vocalismo antico, a causa della desultorietà e del carattere della documentazione. In ognuno la conservazione di -T riguardava anche il calabrese settentrionale (nel rossanese Sergentino Roda fichedi, eradi) e lasciava come traccia il raddoppiamento fonosintattico nel calabrese centrale (nel manoscritto probabilmente cosentino del volgarizzamento dei Dialoghi di Gregorio Magno movissi, ligavallu; ancora oggi in alcune varietà).
Limite del vocalismo 'siciliano' (ī, ĭ, Ē> /i/; Ĕ> /ɛ/; Ā, Ă> /ɑ/; ŏ> /o/; ō, Ŭ, Ū> /u/). Il sistema vocalico siciliano occupa, oltre alla Sicilia, tutta la Calabria a sud del confine meridionale dell'area Lausberg (linea Diamante-Cassano), un ridotto isolato in Cilento meridionale e un'area separata a oriente, formata dal Salento centromeridionale. Vari indizi di carattere testuale e ricostruttivo inducono a credere che l'area di vocalismo siciliano si estendesse un tempo in tutta la Campania meridionale fino al Sele. Anche l'area attuale (Vallo di Diano, Basilicata, Salento settentrionale) in cui vige il vocalismo 'marginale' (ī> /Ī/; ĭ, Ē, Ĕ> /ɛ/; Ā, Ă> /ɑ/; ŏ, ō, Ŭ> /o/; Ū> /u/) era probabilmente 'siciliana', restituendo la continuità con il Salento centro-meridionale.
Limite meridionale della confusione delle vocali finali in [ə] (per un esempio napoletano [῾kanə] 'cane' e 'cani'). L'isoglossa taglia la Calabria da Cetraro a Torre Melissa e la Puglia da Taranto a Ostuni, fungendo da delimitazione tra l'area altomeridionale e l'area meridionale estrema. La confusione di -e e -i è già attestata nei testi antichi napoletani, pugliesi e lucani, ma non è certa in quelli calabresi settentrionali, dove nei casi di -e per -i "si tratta quasi sempre di uscite spiegabili come attrazioni del contesto, oscillazioni dei plurali dei maschili in -a o dei sostantivi della terza classe" (Librandi, 1996, p. 193).
Fusione di -e -i e limite settentrionale della metafonia in Salento. Questi due tratti, leggermente scalati, distinguono il salentino settentrionale da quello centrale. Sebbene non sia possibile precisarne i limiti, la distinzione era già presente in antico: il libro di Sidrac presenta metafonia (misi, tiempo, fueco) e confusione di -e -i in -i, le glosse in caratteri ebraici del codice De Rossi 138, della Biblioteca Palatina di Parma, mostrano assenza di metafonia e distinzione delle finali (forte, salvateki).
Limite settentrionale della conservazione di ND e MB. L'isoglossa taglia la Calabria da Amantea a Crotone (separando calabrese centrale e meridionale) e il Salento da Nardò a S. Cataldo (separando salentino centrale e meridionale). Ma in Italia meridionale la conservazione era generale in passato e l'assimilazione, di origine mediana (v. Lingue, Regno d'Italia), si diffonde solo nel tardo Medioevo.
Limite settentrionale della sostituzione del passato prossimo col passato remoto in Calabria (linea Nicastro-Sersale). Il fenomeno, comune anche al siciliano e (in parte) al salentino, è attribuito da Rohlfs al sostrato greco. Ma l'uso del passato prossimo non è estraneo al siciliano antico, dove è impiegato per indicare una condizione attuale ("O Petru, su resursitatu; / levati susu, chì ti ò perdunatu") o l'anteriorità rispetto a un presente ("tantostu que l'ànnu pillyata [...] gittanu ...") (Ambrosini, 1970, pp. 217 e 218).
Limite settentrionale della sostituzione dell'infinito con i modi finiti in Calabria (per esempio vogghiu mu mangiu 'voglio mangiare'). Anche questo fenomeno è attribuito al sostrato greco e ritorna in Salento (vulia cu sacciu 'volevo sapere') e in provincia di Messina (vaju mi ccattu 'vado a comprare'). Nella Carta di Pellegrini l'isoglossa ha un decorso più meridionale della precedente, ma ancora secondo Rohlfs (19742, p. 63) l'area dei due fenomeni coincide "nel modo più esatto". L'impopolarità dell'infinito potrebbe essere stata in antico ancora maggiore, dal momento che è documentata non solo in messinese (le prego mi se dona a sentire 'di farsi sentire') ma anche in calabrese settentrionale (in Sergentino Roda, pregamove caramente mo ti vasamo li pedi 'di baciarti i piedi').
Diffusione della metafonia in Sicilia (bieddu 'bello' ma bedda 'bella', buonu ma bona). Riguarda due aree separate: una centrale che occupa le province di Enna e Caltanissetta con vari sconfinamenti a settentrione, a oriente e a occidente, e una sudorientale intorno a Ragusa. Secondo Piccitto (1951) queste due zone formavano un tempo un'area compatta, poi sgretolata dal cuneo gallo-italico. Ma in generale in Sicilia la metafonia è considerata un fenomeno tardo di origine 'napoletana'; tra i testi antichi non è attestata che nel Contrasto di Cielo d'Alcamo (per mediazione continentale o deliberato ibridismo) e nella Confessione in caratteri greci (la cui localizzazione è controversa).
Limite dell'area prevalentemente grecofona nella Sicilia orientale (linea Naso-Taormina). In questo caso l'isoglossa è già proiettata diacronicamente e dà conto col sostrato greco di una serie di peculiari fenomeni sintattici (v. sopra) e lessicali (v. oltre).
Limite del passaggio CL, PL > [tʃ] in Sicilia sudorientale (ciavi 'chiave', ciovi 'piove'). Probabilmente il fenomeno, che non sempre produce collisione con gli esiti di C + vocale palatale (> [ɕ]), non è da imputare all'influenza delle colonie gallo-italiche, come ritiene Rohlfs, ma è "relativamente recente" (Giacomelli, 1970, p. 139).
La mutazione del paesaggio dialettale appare ancora più vistosa che in Italia centrosettentrionale. L'area mediana (distinzione di -o e -u, conservazione dei nessi con L) si estendeva molto più a sud, includendo le Marche meridionali, l'intero Abruzzo, il Molise e il Lazio meridionale, se non anche Capua, Benevento e la Capitanata. Di contro l'area meridionale estrema (se consideriamo come sua caratteristica il vocalismo siciliano e non l'assenza della centralizzazione delle vocali finali) era più estesa a settentrione e includeva anche la sezione settentrionale del Cilento e del Salento e probabilmente buona parte della Basilicata. Il quadro che si lascia intravedere per l'età fridericiana rispecchia una situazione in cui Napoli non ha ancora acquisito un ruolo centrale nella storia linguistica meridionale: solo a partire dall'età angioina, e lentamente, la città divenuta capitale irradierà il modello 'altomeridionale' a nord e a sud. La 'medianità' dell'area abruzzese va dunque considerata come originaria, così come la 'sicilianità' dell'area cilentana. Da una parte, infatti, la diffusione antica del tipo linguistico mediano non può essere addebitata integralmente al modello culturale benedettino (che del resto perderà progressivamente la sua importanza); d'altra parte il siciliano, che stava appena uscendo dalla sua faticosa gestazione di età normanna, difficilmente poteva importare nel continente tutto intero il suo modello linguistico.
Ciò non toglie che si colgano qua e là indizi della centralità linguistica della Sicilia in età sveva. Lo studio di alcune tradizioni grafiche ha permesso a Coluccia (1996, p. 405) di parlare di una "corrente che in epoca sveva irradia dalla Sicilia verso il continente". Al modello linguistico siciliano va imputata, secondo Fanciullo (1996), la diffusione continentale di arabismi quali guàllara 'ernia', assaccare 'ansimare', sciarra 'rissa', tria 'tipo di pasta', e di un grecismo come crisòmmola 'albicocca'.
Per certi aspetti i dialetti antichi erano meno differenziati di quelli moderni. Alcuni tratti mediani che ora raggiungono la linea Salerno-Lucera, come CJ > [tʃ] (braccio), NG > [ɲ] (magnare) e il clitico nce, si fermavano più a nord, per cui il napoletano era più solidale con l'irpino, il lucano e l'àpulo-barese. Le differenze tra Sicilia e continente erano meno accentuate. Solo dopo il Vespro si compiranno scelte antitetiche: le innovazioni 'napoletane' (come tenere 'avere', l'angioinismo guaglione) non oltrepasseranno l'istmo di Catanzaro, mentre il siciliano (e con esso il calabrese meridionale) ridurrà alcune sue alternanze in senso antimeridionale (testa per capu, orbu per cicatu, furmaju per casu, ecc.).
Vari sono i cambiamenti strutturali tra dialetti antichi e moderni. In tutta l'area erano ancora vitali l'uso del futuro e del congiuntivo presente, la formazione del perfetto forte (potte, appiru), il condizionale dal piuccheperfetto latino (cantàra, pòttera). Il napoletano possedeva la forma piena dell'articolo lo, li (con la conservazione della geminata al neutro llo e femminile plurale lle). In determinati contesti l'infinito e il gerundio potevano essere coniugati (sapéremo 'sapere noi', andàrevo 'andare voi', essèndono 'essendo essi'). In lucano e salentino si conservavano forme bisillabiche dell'articolo (illo, ella). Anche la regione barese possedeva i possessivi invariabili mia, tua, sua. Sembrano antichi i fenomeni di 'differenziazione vocalica' a oriente, di cui si trovano tracce già nei documenti latini (teila 'tela' a Monopoli nel 1054, seida 〈 *SIDA 'frutto del melograno' a Bari nel 1031). In siciliano non è sicuro che [ll] e fossero già cerebralizzati. La generalizzazione del verbo avere come ausiliare non era compiuta. Diverso era anche il panorama delle parlate alloglotte. Le colonie albanesi (diffuse in tutta l'Italia meridionale) e le colonie slave del Molise si formeranno solo nel XV secolo. Nell'XI sec. c'era stata bensì una colonizzazione slava in Gargano, ma essa era stata probabilmente già riassorbita (lasciando tracce lessicali e toponomastiche). Risalgono all'età angioina le colonie gallo-romanze di Celle e Faeto in Puglia e di Guardia Piemontese in Calabria. In compenso l'elemento gallo-italico e l'elemento greco, che oggi sono ridotti in aree residuali, dovevano essere molto più diffusi. Il greco. L'elemento greco mantiene una presenza molto forte in Italia meridionale, dove, come scrive Ruggero Bacone, "clerus et populus sunt pure Graeci in multis locis [il clero e il popolo sono integralmente greci in molti luoghi]" (Rohlfs, 19742, p. 20). Nella più antica prosificazione del Roman de Troie, compiuta probabilmente in Morea nella seconda parte del XIII sec., si legge: "Et par toute Calabre li païsant ne parlent se grizois non. Encore en Pouille, en maints leuz, font il le service Nostre Seigneur es mostiers a la maniere de Grece et en grizois lengage, por quoi il apert et voirs est sans faille qu'il furent ancienement tous Grizois [E in tutta la Calabria gli abitanti non parlano che greco. Ancora, in molti luoghi di Puglia, in chiesa si dice messa alla maniera di Grecia e in lingua greca, per cui non v'è alcun dubbio che anticamente fossero tutti greci]" (ibid.). Il peso del greco decresce andando da sud a nord, dalla Sicilia e dalla Calabria alla Campania e alla Capitanata. Non era forse ancora del tutto estinto il suo uso popolare in Lucania meridionale e in Cilento. Comunità greche sono documentate anche a Foggia, Troia, Bari. Il contatto tra greco e romanzo si doveva realizzare in una gamma di situazioni che andavano dal bilinguismo completo alla contrapposizione di gruppi compattamente monolingui. La dominazione araba aveva ridotto notevolmente la presenza ellenica in Sicilia, mentre la dominazione normanna ne aveva fortemente indebolito il prestigio. Se in epoca bizantina è il greco che influisce sul romanzo (tanto che, secondo un'ipotesi di Lausberg sviluppata da Fanciullo, il sistema vocalico 'siciliano' si potrebbe spiegare come adeguamento del vocalismo romanzo comune a quello del greco medievale, dotato di tre soli gradi di apertura), a partire dalla conquista normanna è il romanzo a influire sul greco (bloccando, tra l'altro, il fenomeno della semplificazione delle geminate). Tuttavia il greco è ancora parlato in tutta l'isola e in particolare intorno a Messina (dove si manterrà vivo fino al XVI sec.). Secondo Rohlfs nel sec. XII la Sicilia nordorientale fino alla linea Naso-Taormina costituisce un'area di compatto grecismo. In realtà anche questa compattezza va esclusa a favore di una mescolanza etnica e linguistica che "andò lentamente modificandosi a vantaggio del romanzo man mano che si indeboliva il prestigio sociale, poi culturale, infine anche religioso del greco [...]. Insomma, la romanizzazione della Sicilia nordorientale in epoca medievale è un processo indiscutibile, ma non va concepita come un progressivo restringersi dell'area greca, in termini puramente diatopici, bensì come una regressione diastratica che avviene in una situazione di bilinguismo diffuso" (Varvaro, 1981, p. 181). Andranno attribuiti quindi non solo al sostrato, ma anche all'adstrato, i grecismi sintattici (v. sopra) e lessicali particolarmente frequenti in Sicilia nor-dorientale, come armacìa 'muretto di pietre a secco', ropa 'querciola', nasita 'striscia di terreno coltivato lungo il letto di un fiume' (quella che nella Sicilia 'araba' si chiama dàgala e nell'Italia meridionale 'latina' è detta ischia o ischitella). La grecità messinese si prolungava in Calabria, dove ancora nel XX sec. si parlava greco a est di Reggio in alcuni paesi della valle dell'Amendolea (Bova, Roccaforte, Condofuri, Gallicianò, Roghudi). Secondo Rohlfs (19742, p. 9) almeno fino al sec. XVI l'area greca "si estendeva dal Capo Spartivento a sud-est [...] fino a Seminara e ad Oppido a settentrione dell'Aspromonte". Lo stesso ritiene che "ancora in pieno secolo XIII la lingua dominante in gran parte di questa Calabria a sud della linea Nicastro-Catanzaro dovesse essere la greca". Anche in calabrese meridionale sono rimasti numerosi e peculiari grecismi come donacu 'canna', campa 'bruco', tripodi 'treppiede'. Ma anche qui non si può parlare di un'area compatta: l'analisi dei toponimi antichi permette di inferire "l'effettiva esistenza d'un volgare romanzo calabrese accanto al greco ancor prima dell'arrivo dei normanni" (Fanciullo, 1996, p. 66). Probabilmente neanche l'opposizione, messa in luce da Rohlfs, tra una Calabria settentrionale 'latina' e una Calabria meridionale 'greca' va enfatizzata: da una parte, come abbiamo visto, l'idea di un'area greca compatta va sostituita con quella di un diffuso bilinguismo; d'altra parte, fenomeni attribuiti al sostrato greco potrebbero avere avuto in antico un'estensione più settentrionale (v. sopra). In ogni caso i relitti lessicali greci ritornano frequenti nel territorio calabro-lucano (con sconfinamento nel Cilento fino alla linea Ascea-Vallo), tanto che Rohlfs suppone che qui ancora nel XIII sec. esistessero "residui di una popolazione greco-latina, certamente bilingue, in cui l'elemento greco non era di piccolo conto" (19742, p. 66). La presenza greca si fa nuovamente forte in Salento, dove ancora oggi il greco è parlato in un'area a sud di Lecce (Calimera, Corigliano, Martignano, Sternatia, Soleto, Zollino, Castrignano, Martano). Nel Medioevo la Grecìa si estendeva fino allo Ionio includendo Gallipoli e Galatina. Rohlfs (ibid., p. 85) pensa che il bilinguismo greco-latino fosse diffuso in tutto il territorio fino alla linea Taranto-Brindisi, e il greco dominante fino alla linea Lecce-Nardò. Anche qui numerosi sono i relitti lessicali come caleddu 'bello', stavrìcola 'lucertola', cilona 'testuggine'. L'uso del greco come lingua di cultura comincia solo ora il suo declino, che sarà molto lento. Sembra che all'inizio la cancelleria sveva continui l'uso del greco della cancelleria normanna. Ci rimangono tre lettere greche di Federico (rispettivamente del 1217, 1223 e 1224) contenute all'interno di atti greci, ma non è chiaro se siano originali o tradotte dal latino. È certo comunque che dopo la promulgazione delle leggi augustali, il greco viene usato solo per la corrispondenza con i sovrani bizantini d'Oriente. Il perdurante prestigio del greco è testimoniato dalla traduzione delle stesse Constitutiones di Federico II. La Chiesa di rito greco, sebbene non più egemone, mantiene ancora un forte radicamento nei territori un tempo bizantini. Documenti greci si producono ancora in Sicilia (anche nel Palermitano), Calabria (anche settentrionale), Salento, Basilicata (a S. Elia di Carbone, S. Maria di Cersosimo, ma anche ad Acerenza, Melfi e Venosa, dove tuttavia prevale il latino). Secondo i calcoli di Guillou, per il periodo 1071-1196 possediamo quattrocentoquarantasei atti greci provenienti dall'Italia meridionale, trecentocinquantatré dalla Sicilia; nel periodo 1196-1300 gli atti scendono a trecentocinquantatré nel Meridione, a quarantatré in Sicilia. Il regresso del greco come lingua documentaria è stato dunque più rapido in Sicilia, parallelamente forse al declino della lingua parlata. Il fulcro della produzione libraria (letteratura classica, scoli, opere religiose) sembra spostarsi dall'area calabrese-siciliana all'area salentina. Nella produzione letteraria si distingue il circolo poetico otrantino legato a Federico II e caratterizzato da un forte ghibellinismo. L'uso di caratteri greci per la trascrizione di testi romanzi in Sicilia, Calabria, Lucania e Salento appare un fenomeno più recente. La Formula di Confessione del codice Γ α VI della Biblioteca Civica di Grottaferrata, attribuita da Pagliaro al sec. XIII, sembra da spostare al Trecento; non è chiara la datazione delle glosse volgari del codice Z α IV della stessa Biblioteca. In ogni caso queste manifestazioni, che avranno una vitalità secolare, denunciano una situazione in cui il greco è ancora lingua di cultura ma non è più parlato, segno di tenace resistenza e di inarrestabile decadimento. L'arabo. In Sicilia non è ancora spento l'uso dell'arabo. È noto che prima della conquista normanna l'isola era prevalentemente arabofona e l'area sudorientale era stata completamente arabizzata. Trent'anni di guerra sanguinosa determinano una prima contrazione dell'elemento musulmano. Il clima di relativa tolleranza che caratterizza il primo periodo normanno si rompe alla fine del XII sec., quando comincia una catena ininterrotta di persecuzioni e rivolte. La ribellione aperta scoppia nel 1208, nel 1223 avvengono le prime deportazioni a Lucera (v.), solo nel 1246 i musulmani sono sconfitti definitivamente. Chi si converte rimane in Sicilia; gli altri sono costretti a raggiungere i loro correligionari a Lucera, dove la comunità araba sopravviverà solo fino al 1303. Non bisogna credere, tuttavia, che il rapporto tra religione musulmana e lingua araba fosse automatico. Degli arabi deportati a Lucera si dice che intelligunt italicum idioma. Molti musulmani dovevano essere senz'altro di lingua romanza. Parallelamente, non è vero che alla conversione segua necessariamente il cambio di lingua. A Malta la cristianizzazione si compie nel XIII sec., ma ancora oggi si è mantenuto l'uso di un dialetto arabo. La lingua araba e la religione cristiana sono convissute a Pantelleria fino al XVI secolo. L'uso ufficiale dell'arabo, proprio della cancelleria normanna, subisce un declino ancora più rapido di quello del greco. Federico si rivolge in latino ai suoi sudditi arabi. La presenza dell'arabo accanto al latino in un documento redatto nel 1242 per ordine di Oberto Fallamonica, capo dell'amministrazione finanziaria imperiale di tutta la Sicilia, è legata all'origine etnica di quest'ultimo. Della lingua orientale si fa uso ormai solo per la corrispondenza di politica estera. Una cronaca araba ci ha conservato due epistole di Federico scritte in arabo nel 1229 a un importante dignitario della corte del Cairo. In arabo erano scritti le ambascerie e i patti con l'emiro di Tunisi e il sultano d'Egitto (non pervenuti). Con la deportazione dei musulmani diminuisce il numero di atti giuridici in arabo. L'ultimo documento in arabo scritto da arabi risale al 1242, l'ultima sottoscrizione in arabo in un atto pubblico al 1276; ma l'uso di questa lingua è mantenuto dagli ebrei siciliani. Il prestigio della lingua araba rimane legato alla diffusione della cultura e del costume orientale alla corte di Federico II. L'arabo non scompare senza lasciare al romanzo siciliano numerosi prestiti. Alcuni arabismi (come arancio) attraverso la Sicilia si sono irradiati all'Italia e al resto dell'Europa. Altri rimangono di diffusione locale (cùscusu 'vivanda a base di semola', gèbbia 'vasca per la raccolta dell'acqua', sarcu 'pallido'). Gli arabismi dovevano essere molto più numerosi in passato, come risulta dalle fonti scritte. L'influsso linguistico e culturale arabo si mantenne vivo almeno fino al Trecento. Anche in questo caso può avere avuto un ruolo decisivo il Vespro, che imponendo un'accentuazione del carattere 'latino' della Sicilia "sembra avere definitivamente emarginato la presenza culturale e linguistica semitica nell'isola" (Varvaro, 1981, p. 174). L'ebraico. Comunità ebraiche sono presenti in tutto il Meridione, ma particolarmente forti nella parte orientale (Otranto, Oria, Taranto, Venosa, Bari). Esse risalgono al periodo antico e hanno il romanzo come lingua madre. In ebraico si compongono opere filosofiche, storiografiche, poetiche. Glosse romanze in alfabeto ebraico sono attestate in Salento sin dal X secolo. In Sicilia al bilinguismo ebraico-romanzo corrisponde un trilinguismo ebraico-arabo-romanzo. È probabile che sotto gli arabi la maggior parte degli ebrei abbandonassero il romanzo per la lingua dei dominatori. È verosimile che in epoca normanna "essi parlassero in parte l'arabo, in parte il siciliano e che molti fossero bilingui" (ibid., p. 168). Nella nostra epoca si prepara la situazione trecentesca in cui l'ebraico è la lingua del culto, l'arabo (ma scritto in caratteri ebraici e con numerose infiltrazioni romanze) è la lingua usata nei documenti ufficiali e nelle relazioni con l'altra sponda del Mediterraneo, il romanzo è la lingua della comunicazione quotidiana (che dà luogo anche ad alcuni usi scritti, ancora in caratteri ebraici). È possibile che alcuni arabismi siano entrati nel siciliano proprio attraverso la mediazione delle comunità ebraiche. Galloromanzo e galloitalico. Forse non si era ancora estinto l'uso di varietà francesi introdotto dalla conquista normanna e rafforzato da nuove immigrazioni ancora nella seconda metà del XII secolo. La dominazione normanna lascia, in ogni caso, ai dialetti del Regno numerosi gallicismi, che a volte si diffondono anche nel Nord (razza). Alcuni normannismi sono comuni (almeno anticamente) a vaste zone dell'Italia meridionale (per esempio bucceri 'macellaio', curviseri 'calzolaio', lueri 'affitto', ruga 'strada', croccu 'gancio', alliccari 'adescare'), altri sono peculiari della Sicilia (bagliu 'cortile', giugnettu 'luglio'). Di origine normanna è anche la grafia ch per l'affricata palatale che avrà una vasta diffusione nei testi meridionali antichi. Le letterature transalpine non sembrano godere nel Regno dello stesso favore con cui erano accolte in Italia centrosettentrionale. Tanto l'onomastica quanto l'iconografia dimostrano la conoscenza della letteratura francese in Italia meridionale, ma mancano qui produzioni autonome. I poeti provenzali non riscuotono eccessivo successo presso Federico (v. Trovatori provenzali). La poesia provenzale, tuttavia, non solo informa la lirica siciliana ma lascia anche tracce nella produzione latina di Pier della Vigna. Diversi sono i francesismi nel trattato De arte venandi cum avibus di Federico. Un'eredità dell'età normanna è anche la presenza di colonie gallo-italiche in Sicilia e sul Golfo di Policastro. Il processo di colonizzazione settentrionale nasce per sanare il deficit demografico determinato dalla guerra di conquista e per riequilibrare i rapporti tra gruppi etnici e religiosi. L'evento scatenante è probabilmente il doppio matrimonio (1087 ca.) del gran conte Ruggero con Adelaide, figlia di Manfredi marchese di Monferrato, e di Flandina, figlia di Ruggero, con Enrico, fratello di Adelaide. Enrico nel 1130 domina un vasto territorio che va da Paternò, alle falde sudoccidentali dell'Etna, a Butera, quasi sulla costa meridionale. "La collocazione geografica di questo vasto territorio non pare certo casuale: esso taglia trasversalmente la Sicilia, isolandone il settore sud-orientale, in modo da dividere i musulmani del modicano da quelli della Sicilia occidentale e da assicurare una catena di caposaldi 'latini' dalla zona 'greca' fino al canale di Sicilia" (ibid., p. 186). È proprio al centro di questo territorio che si trovano le colonie di Piazza e di Aidone. Ma l'insediamento settentrionale non riguarda solo i territori degli Aleramici né va fatto risalire solo alla loro iniziativa. Nicosia e Sperlinga, S. Fratello e Novara nascono piuttosto in funzione antigreca. Influssi minori di origine settentrionale sono presenti ancora una volta nella zona greca (S. Piero Patti, Montalbano, Bronte, ecc.) e nella zona aleramica (Caltagirone, S. Michele di Ganzaria, ecc.). Ma esistevano colonie settentrionali anche dove non vi sono moderne tracce linguistiche: Ugo Falcando considera lombarde Vicari e Capizzi; S. Lucia del Mela ai tempi di Ruggero II aveva abitanti lombardi legati al servizio di marineria. Il fenomeno migratorio continua in epoca fridericiana. Nel 1237 viene ripopolata da 'lombardi' Corleone, spopolata di musulmani. Nella Sicilia sveva, come in quella normanna, persone di origine settentrionale sono presenti, più o meno numerose, ovunque. La situazione attuale è il risultato di una "dinamica di reciproca acculturazione che in alcuni casi ha determinato l'assimilazione degli indigeni agli immigrati ed in altri l'inverso" (ibid., p. 191). Se, da un lato, nella maggior parte dei casi la componente settentrionale è stata assorbita in quella isolana, dall'altro l'elemento gallo-italico ha costituito un ingrediente non secondario nella formazione del siciliano, lasciando diverse tracce sia nel lessico (beccu 'caprone', càmula 'tignola', rùvulu 'quercia') che nella grammatica (to patri 'tuo padre', i to soru 'le tue sorelle'). Il fenomeno di colonizzazione gallo-italica sul Golfo di Policastro pare collegato storicamente con quello siciliano. Ne fu probabilmente promotore, infatti, il figlio di Enrico di Paternò, Simone conte di Butera e Policastro (m. 1157). Non dev'essere un caso che anche qui l'elemento settentrionale si inserisca in un clima decisamente 'greco'. Le concordanze linguistiche tra i centri lucani e quelli siciliani dimostrano anche che l'area di provenienza dei coloni coincide (Monferrato, Savonese, Genova). L'immigrazione dev'essere continuata anche durante la seconda parte del XII sec. e la prima del XIII. Essa deve aver investito non solo i centri che conservano tracce gallo-italiche (Trecchina e Rivello in Basilicata, Casaletto Spartano e Tortorella in Campania) ma anche le aree circostanti, come dimostra la diffusione di tipi toponomastici (Lombardo, Braida), lessicali (la fele 'il fiele', vagliu 'rospo') e sintattici (to frati 'tuo fratello'). Il plurilinguismo del Regno. Il Regno appare dunque caratterizzato da un dominante plurilinguismo che si riassume simbolicamente nella figura del re, il quale "multis linguis et variis loqui sciebat" (Salimbene de Adam, in Brunetti, 2001, p. 679). Molto diffuso doveva essere il bilinguismo, inteso come fenomeno individuale. Dovevano essere molte le persone che avevano una competenza attiva o passiva di due o più lingue. Sono questi parlanti bilingui i canali principali dei prestiti dall'arabo, dal greco e dal francese nel romanzo. Non diverso in principio doveva essere il rapporto tra le varietà italo-romanze, solo che qui la maggiore vicinanza strutturale favoriva decisamente la compenetrazione dei sistemi linguistici. Un aspetto particolare del bilinguismo di età sveva è quello letterario (Federico e Pier della Vigna scrivono sia in latino che in volgare), che, infrequente nelle letterature romanze, anticipa condizioni future (Dante, Petrarca, Boccaccio saranno tutti variamente bilingui). In tutto il Regno vigeva, poi, una situazione di diglossia, in cui la varietà deputata agli usi alti di volta in volta poteva essere il latino, il greco, l'arabo e l'ebraico. Tra varietà alta e varietà bassa non c'era necessariamente un rapporto genetico. Si dava il caso, come in Italia centrosettentrionale, di parlanti romanzi che avevano l'ebraico come lingua alta. Ma si dava anche il caso, come abbiamo visto, di parlanti romanzi che avevano l'arabo come lingua alta e, viceversa, di parlanti arabi che avevano il latino come lingua alta. Se queste due possibilità sono destinate a scomparire (salvo casi eccezionali come quello degli ebrei siciliani o dei cristiani maltesi), tende invece a crescere la possibilità di diglossia greco-romanza, dal momento che il greco declina più rapidamente come lingua popolare che come lingua dotta. Tuttavia l'età fridericiana si caratterizza per una riduzione della diversità linguistica, parallela alla riduzione dell'eterogeneità religiosa e culturale e della mobilità geografica e sociale. Dell'arabo già si è detto abbastanza. Due eventi politici contemporanei possono avere accelerato l'abbandono del francese e del greco. La caduta di Costantinopoli nel 1204 costituisce un duro colpo per i processi identitari delle comunità grecofone. Un effetto analogo ha per i normanni il declino del Regno plantageneto sotto Giovanni Senzaterra e l'annessione della Normandia alla Corona di Francia. "Dopo i primi anni del secolo XIII i normanni in Sicilia contano come siciliani e per il loro individuale status sociale, non come normanni" (Varvaro, 1981, p. 204). Latino e volgare. Nel nostro periodo si verifica così un deciso potenziamento del latino, di tutte le lingue la "più rispondente al concetto imperiale di Federico" (Collura, 1951, p. 30). Se la cancelleria normanna era stata trilingue, il latino si impone come lingua ufficiale, e il greco e l'arabo, come abbiamo visto, sono utilizzati solo per la corrispondenza di politica estera. L'uso del latino si accresce a scapito del greco e dell'arabo anche negli atti notarili. La Chiesa latina si espande progressivamente ai danni di quella greca, sia attraverso l'organizzazione diocesana che con il monachesimo benedettino. In latino si traducono numerose opere filosofiche e scientifiche dall'arabo e dal greco. Il latino è la lingua dello Studium fondato a Napoli nel 1224. In latino si esprime la migliore cultura filosofica (Michele Scoto), scientifica (Teodoro di Antiochia, Giordano Ruffo, lo stesso Federico), storiografica (Riccardo di San Germano), retorica e poetica (Pier della Vigna, Riccardo da Venosa). Una rara testimonianza dell'uso del volgare come lingua strumentale nella traduzione dall'arabo al latino ci è data dall'opera di Mosè da Salerno (m. 1279), autore di un commento in ebraico alla Guida dei Perplessi di Mosè Maimonide e probabilmente traduttore in tandem con Nicola da Giovinazzo alla corte di Manfredi. Il suo Commento, infatti, è farcito di termini latino-volgari (come spasi 'sparsi', suno ke suno 'io sono Colui che sono', scaggiandore 'bianchezza'); più tardi ne verrà estratto un vero e proprio glossario filosofico ebraico-volgare. Ma l'uso scritto del volgare è un fatto eccezionale. È significativo che qui la cultura universitaria non abbia un sia pur minimo portato volgare: se Guido Faba inserisce tra le sue epistole volgari quella di uno studente squattrinato a suo padre, Terrisio di Atina scrive una corrispondenza scherzosa in cui si esprimono in latino non solo i professori dello Studio ma anche le meretrici ("carnalium voluptatum cathedratice", in Bruni, 1991, p. 225). Più tardi Guido delle Colonne addirittura tradurrà in latino il Roman de Troie, invertendo la direzione normale del volgarizzamento. Il rapporto tra latino e volgare si configura dunque nel Regno come integralmente diglottico, non diversamente da quanto accadeva (e continuerà ad accadere) tra il greco e l'arabo e i loro corrispettivi volgari. Sorge dunque spontaneo il dubbio che la vicinanza con queste situazioni non possa aver sfavorito l'emersione del volgare romanzo, dubbio che appare corroborato dal fatto che l'uso scritto del volgare è più precoce e frequente proprio in caso di discrasia tra lingua alta e bassa (testi volgari in alfabeto ebraico e greco). Certo questa spiegazione non vale per i territori meno esposti agli influssi alloglotti, ma "il fenomeno della tardività e rarità del pieno uso scritto volgare, documentario e letterario, in centri già così importanti e vitali nei secoli tra il X e il XIII, come Napoli, Amalfi e la ibrida Salerno, va forse legato al fenomeno della persistente funzionalità locale di tradizioni 'semivolgari', cioè al ritardato processo di netta risoluzione del bilinguismo e di 'liberazione' del volgare" (Sabatini, 1962, p. 16). Dovunque agirà la mancanza di un ambiente favorevole alla nascita di una cultura autonoma dalla pervasiva presenza del potere reale. Si pensi alla debolezza della vita comunale, allo scarso peso del ceto mercantile locale, ai provvedimenti di Federico contro i giullari. Così le testimonianze volgari si riducono alla Scuola poetica siciliana. Certo è possibile che il naufragio della tradizione ci nasconda l'esistenza di altre produzioni volgari. Boncompagno da Signa nella Rethorica novissima (1235) parla dello Schiavo di Bari, "ingeniosus in idiomate materno transumptor" (ma il serventese a lui attribuito è della fine del Duecento e di area veneta). Sicuramente era presente una produzione poetica orale (la poesia popolare napoletana raccolta dai folkloristi sembra recare tracce degli avvenimenti di età sveva). Koinè nell'Italia meridionale. Negli Annales Stadenses sotto l'anno 1173, nel parlare delle straordinarie capacità linguistiche di Cristiano di Magonza, cancelliere di Federico Barbarossa, si distingue una lingua "apulica" e una "longobardica". Segno della coscienza della differenza linguistica tra Italia settentrionale e meridionale o dell'esistenza di due varietà sopraregionali? Secondo Sanga (1995, p. 94) "l'aspetto linguistico complessivo [della lirica siciliana] indirizza verso il volgare italico, un tempo lingua nazionale e imperiale, lingua notarile e cancelleresca, quindi culturalmente omogenea ad una letteratura di funzionari e di notai". Rimandando per il problema della lingua della Scuola siciliana alla voce corrispondente, ci limitiamo a osservare che la lingua notarile e cancelleresca è il latino e non ci è rimasto neanche un documento volgare di età sveva. La posizione di Sanga trova però riscontro in quella sostenuta sin dagli anni Venti da Gerhard Rohlfs, che per spiegare la peculiarità linguistica della Calabria meridionale e della Sicilia rispetto alle altre aree meridionali ricorreva all'ipotesi che queste regioni fossero state romanizzate ex novo mediante una presunta lingua letteraria italiana medioevale. Sennonché lo stesso Rohlfs è andato via via attenuando la sua posizione (1966-1969, I, § 100: "la lingua italiana che venne usata nei territori dell'Italia meridionale da poco conquistata, non proveniva tanto da una determinata regione italiana, quanto piuttosto corrispondeva ad una specie di ϰοινή italiana amministrativa e letteraria"; Id., 19742, p. 97: "il dialetto siciliano porta l'impronta evidente di una ϰοινή. È un linguaggio di colorito meridionale che si mantiene privo delle peculiarità individuali dei dialetti locali, ma che d'altra parte mostra chiari gl'influssi di un volgare italiano, in cui si notano caratteristici elementi che provengono dai dialetti gallo-italici dell'Italia settentrionale. A questi poi s'aggiunge una rilevante percentuale di elementi francesi e di relitti lessicali arabi e greci"). Tramontata l'ipotesi di una totale neoromanizzazione, si tende oggi a vedere nella nascita del siciliano (e del calabrese meridionale) un processo di integrazione linguistica che si attua in assenza di una norma sovralocale, determinando la coagulazione intorno al romanzo locale di vari elementi allogeni: lombardo, 'longobardo' (cioè italiano meridionale), francese, arabo, greco. Si tratta dunque di un fenomeno di coinizzazione orizzontale, non diverso da quello avvenuto nel Sud della penisola iberica, che spiega la relativa modernità e unitarietà del dialetto moderno. Fonti e Bibl.: P. 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