Vedi Regno Unito dell'anno: 2012 - 2015 - 2016
Il Regno Unito, costituito dalle quattro divisioni amministrative di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, è a tutt’oggi una delle principali potenze mondiali dal punto di vista economico e militare: è la quinta economia al mondo, trainata dal settore dei servizi che contribuisce quasi a quattro quinti del pil nazionale. Può anche contare su forze armate tra le più forti e avanzate dal punto di vista tecnologico. Londra, la capitale, è il secondo centro finanziario al mondo, secondo il Global Financial Centres Index (Gfci), dietro solo a New York. Il Regno Unito esercita la sua influenza nelle principali organizzazioni internazionali di cui fa parte: le Nazioni Unite, presso cui è uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, la Nato, la Banca mondiale, il Fondo monetario, il G8-G20, l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) e non ultima l’Unione Europea (Eu). L’insularità, poi, rappresenta da sempre un fattore geopolitico e geoeconomico caratterizzante. Di conseguenza, il settore dei trasporti è vitale per il paese: l’Eurotunnel, che collega Londra a Parigi, ha avvicinato però solo in parte il Regno Unito al resto dell’Europa.
Quello che un tempo è stato il più vasto impero marittimo della storia continua ad avere un ruolo determinante negli equilibri di potere europei, e non solo. La principale eredità del passato imperiale è il Commonwealth delle nazioni, l’organizzazione intergovernativa che riunisce ben 53 stati, i quali, eccezion fatta per il Mozambico, appartenevano tutti all’Impero britannico o vi erano, più o meno direttamente, legati dal punto di vista amministrativo. Nato con lo scopo di favorire al suo interno la cooperazione politica, economica e culturale, anche se privo di effettivi poteri sovranazionali, il Commonwealth è presieduto da Elisabetta II, regina di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e ufficialmente capo di stato di 15 suoi membri, i cosiddetti reami del Commonwealth, tra cui figurano importanti stati come l’Australia o il Canada. Nel 2015 la regina è divenuta il monarca più longevo della storia britannica.
Proprio con alcune ex colonie, protettorati e mandati britannici, il Foreign & Commonwealth Office, il ministero degli esteri, mantiene da sempre forti legami e ha costruito negli anni le sue maggiori alleanze politiche ed economiche. Tra queste, particolarmente rilevanti sono quelle con India, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Cipro, Malta e Sudafrica.
È tuttavia con un’altra ex colonia britannica, gli Stati Uniti, dichiaratisi indipendenti dal 1776, che il Regno Unito ha costruito negli anni la sua relazione più solida sia dal punto di vista politico e militare, sia da quello economico e commerciale. Londra ha ceduto agli Usa il vertice della gerarchia mondiale occidentale dopo la Seconda guerra mondiale, con un passaggio di consegne di fatto consensuale. La relazione che lega i due paesi è stata definita dallo stesso Winston Churchill nel 1946 una special relationship (relazione speciale), e ha rappresentato la direttrice principe della politica estera di Londra nella seconda metà del Novecento.
Accanto all’alleanza con gli Usa, l’altro grande caposaldo della politica estera del Regno Unito è rappresentato dal tentativo di coniugare l’insularità storico-geografica rispetto al resto del continente europeo con la partecipazione al processo d’integrazione comunitaria, che è andato progressivamente affermandosi nella seconda metà del Novecento. «Restare in Europa senza tuttavia esserne guidati», riprendendo lo slogan elettorale dell’attuale primo ministro David Cameron, è la strategia che orienta la posizione britannica in seno alle istituzioni europee. La crisi economica ha però accresciuto i dubbi sulla volontà britannica di rimanere nel progetto europeo e, negli ultimi anni, è sempre più acceso il dibattito non soltanto circa il ruolo di Londra all’interno delle istituzioni comunitarie, ma addirittura circa la permanenza o meno del Regno Unito nell’Unione.
Entrata a far parte della Comunità economica europea nel 1973 e con una popolazione che si attesta tra le più euroscettiche tra quelle dei paesi membri – ne è una testimonianza lo straordinario risultato ottenuto dal partito anti-Eu denominato Ukip, (Partito dell’indipendenza del Regno Unito) impostosi come prima forza politica del paese alle elezioni europee del maggio 2014 – Londra ha sempre difeso gelosamente la propria sovranità, dimostrandosi particolarmente restia a cederne prerogative. In particolare, durante gli anni della premiership di Margaret Thatcher, ha negoziato con i partner comunitari, unica tra i 28 membri assieme alla Danimarca, ben quattro clausole di esenzione (opting out), grazie alle quali non si è vincolata ad accordi che valgono invece per tutti gli altri membri. Il primo ministro David Cameron è arrivato a promettere un referendum per l’uscita o meno dall’Eu (la c.d. Brexit) da tenersi entro il 2017; le possibilità che i cittadini scelgano di staccarsi da Bruxelles sono reali. Parallelamente, Londra è tornata attiva sul fronte della politica mediterranea, come dimostrato dall’impegno in prima linea nella guerra del 2011 in Libia per estromettere Gheddafi dal potere e dal sostegno di Cameron alle politiche statunitensi in Siria e Iraq, soprattutto alla luce dell’avanzata del gruppo jihadista dell’Is (Stato islamico) nel mondo arabo.
Proprio la partecipazione e il forte impegno all’interno dell’Alleanza atlantica sono, fin dalla fondazione nel 1949, la pietra angolare della politica di sicurezza britannica: prodotto per eccellenza dell’asse angloamericano in funzione di difesa e contenimento dall’Unione Sovietica, dal 1990 in avanti il Regno Unito ne ha sostenuto la progressiva trasformazione in meccanismo di cooperazione e gestione della sicurezza anche al di là dell’area euro-atlantica.
Il Regno Unito ha ancora diverse dispute territoriali che derivano principalmente dal possesso di alcuni territori d’oltremare, eredità del passato coloniale. La prima è con la Spagna, che rivendica la propria sovranità su Gibilterra. Con il governo di Maurizio, invece, esiste un annoso contenzioso sull’arcipelago Chagos, nei Territori britannici dell’Oceano Indiano, specie in riferimento all’isola Diego Garcia, presso cui sorge una delle basi navali della marina statunitense strategicamente più importanti al mondo. Ma la disputa più rilevante, dal momento che nel 1982 è sfociata in una guerra aperta, rimane quella con l’Argentina sul possesso delle isole Falkland-Malvinas: il conflitto, scatenato dalla spedizione militare argentina sull’arcipelago e a cui l’allora governo Thatcher rispose repentinamente, si concluse con una netta vittoria inglese e contribuì alla fine della dittatura militare in Argentina. Le tensioni sono tornate ad acuirsi in seguito al referendum svoltosi nelle isole nel 2013, che ha sancito la definitiva sovranità britannica sui territori contesi (con un 99,8% di sì). Il governo argentino non ha riconosciuto la validità del referendum e ha minacciato ritorsioni economiche nei confronti delle società petrolifere britanniche che operano al largo delle isole.
Il Regno Unito è una monarchia costituzionale parlamentare, composta da quattro nazioni costitutive: Inghilterra, Scozia e Galles, che insieme formano la Gran Bretagna, e Irlanda del Nord. Il Regno Unito è retto dalla dinastia dei Windsor e l’attuale sovrana è la regina Elisabetta II. Sebbene il monarca britannico sia formalmente la fonte dei tre principali poteri istituzionali poiché tanto il parlamento quanto il governo e le corti agiscono in suo nome, la sovranità reale non appartiene più alla corona dal 1689, quando il Bill of Rights sancì il principio della sovranità parlamentare. La monarchia britannica detiene poteri e funzioni simili a quelle di un presidente di una repubblica parlamentare: nomina il primo ministro (che per consuetudine è il leader del partito di maggioranza nella Camera dei comuni), è comandante in capo delle forze armate, può rigettare le leggi licenziate dal parlamento (facoltà che tuttavia non è mai più stata impiegata dal 1708) e svolge ruoli cerimoniali.
L’organo legislativo nazionale è il parlamento di Westminster, composto da due camere con diverse prerogative e un differente sistema di composizione. La camera bassa, detta Camera dei comuni (House of Commons), è composta da 646 membri, eletti negli altrettanti collegi elettorali in cui è suddiviso il territorio del Regno Unito tramite un sistema di tipo maggioritario. La Camera dei Lord (House of Lords) non è invece elettiva e al suo interno siedono tanto i Lord spirituali (e quindi i principali vescovi della chiesa d’Inghilterra) quanto i ‘pari del regno’, a loro volta divisi tra coloro che vengono nominati, i cosiddetti ‘pari a vita’, e coloro che ne detengono il seggio per diritto ereditario. Il processo legislativo è concentrato nella Camera dei comuni, dalla cui fiducia dipende la sopravvivenza dell’esecutivo; la Camera dei comuni, inoltre, è in grado di aggirare i veti sospensivi che i Lord hanno il potere di apporre alle sue proposte legislative. Nella forte asimmetria tra le due camere del parlamento risiede una nota caratteristica del sistema istituzionale del Regno Unito: nella storia, la Camera dei Lord ha progressivamente visto ridursi prerogative e facoltà, e per convenzione costituzionale non può opporsi alle leggi promesse dal governo nel suo programma elettorale. Di recente, l’attuale primo ministro, Cameron, ha espresso a più riprese l’intenzione di riformarla in profondità.
Il sistema Westminster, modello elettorale vigente di tipo maggioritario puro (secondo la formula ‘first past the post’), determina un sistema bipartitico che, in nome della stabilità di governo, assegna tutto al vincitore e che è forse il prodotto più tipico della cultura politica anglosassone: il panorama politico è dominato da due soli partiti, che sono in grado di disputarsi il governo della nazione ottenendo una maggioranza assoluta nei collegi elettorali e quindi in parlamento. L’offerta politica britannica presenta anche altre formazioni, ma storicamente la loro presenza, tanto a Westminster quanto sull’intero territorio nazionale, e la loro capacità di influenzare le dinamiche politiche del regno sono relativamente modeste. Un siffatto sistema ha sempre prodotto alternanza di governo tra i due partiti maggiori: tra il Conservative Party (Tories) e il Liberal Party (Whigs), per tutto il Diciannovesimo secolo.
Successivamente all’allargamento del suffragio avvenuto alla fine della Prima guerra mondiale, l’alternanza è avvenuta tra i conservatori e il Labour Party, formazione d’ispirazione socialista e tradizionalmente contigua alla galassia sindacale delle Trade Unions. Sono invece estremamente rari, nella storia politica britannica, i casi di governi di coalizione. In questo senso le elezioni generali del maggio 2010 hanno rappresentato una rilevante eccezione, con il governo nato dall’alleanza tra il Conservative Party di David Cameron e i Liberal Democrats di Nick Clegg, partito istituito alla fine degli anni Ottanta dalla fusione tra il Partito liberale e quello socialdemocratico, a sua volta costola fuoriuscita dai laburisti.
Le nuove elezioni tenutesi nel maggio 2015 hanno invece sancito il ritorno del governo monocolore. A trionfare con un largo margine, fatto quasi inaspettato alla vigilia, sono stati i Conservatori di Cameron, che hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (330) a scapito dei Laburisti guidati da Ed Miliband (232). Le urne hanno registrato il tracollo dei Lib-Dem di Clegg, che hanno ottenuto solamente 8 seggi; come terza forza, invece, si è affermato lo Scottish National Party con ben 56 seggi, ribaltando la sconfitta del settembre precedente del referendum sull’indipendenza della Scozia. L’Ukip di Farage, al contrario, per via del sistema Westminster ha avuto un solo seggio benché il numero dei voti, in termini assoluti, lo posizioni alle spalle solamente dei due partiti principali. All’indomani dell’esito elettorale, i leader del Labour, dei Lib-Dem e dell’Ukip hanno rassegnato le dimissioni a fronte di risultati ben al di sotto delle aspettative della vigilia. Nel caso di Farage, però, sono state respinte dai vertici del partito; Clegg è stato invece sostituito da Tim Farron, già suo vice; i laburisti hanno eletto il socialista e repubblicano Jeremy Corbyn, riposizionando così il partito ancor più a sinistra rispetto alla gestione Miliband.
Gli anni Novanta hanno coinciso con una rilevante riforma del sistema di governo, dal momento che sono state istituite e ratificate tramite referendum popolare, tre amministrazioni nazionali decentrate, a cui corrispondono altrettanti parlamenti: Irlanda del Nord (con parlamento a Belfast), Scozia (Edimburgo) e Galles (Cardiff).
Il 18 settembre del 2014 si è tenuto l’atteso referendum per l’indipendenza della Scozia, con il quale i cittadini scozzesi hanno rigettato l’ipotesi di una secessione dal Regno Unito, anche considerando i costi che questa avrebbe avuto per la stessa Scozia, oltre che per il governo di Londra. Tuttavia, il risultato oltre le aspettative del fronte degli indipendentisti guidati dal primo ministro scozzese Alex Salmond (il 44,7% era per il sì), ha fatto sì che il governo centrale promettesse nuove forme di devolution per la Scozia. Viceversa, in Inghilterra si è acceso un dibattito sull’opportunità di mantenere deputati scozzesi alla Camera dei comuni a fronte dell’assenza di quelli inglesi al parlamento scozzese. Un altro referendum, stavolta sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, si terrà tra il 2016 e il 2017, come promesso da Cameron nella sua ultima campagna elettorale.
Il Regno Unito è il terzo stato europeo per popolazione dietro Germania e Francia. Anche il livello di densità demografica è tra i più alti in Europa, con 266 abitanti per chilometro quadrato, una quota inferiore solo a quella di Belgio e Paesi Bassi. Altro tratto saliente della demografia britannica è l’alto tasso di concentrazione urbana, principalmente dovuto all’area londinese, che accoglie oltre 8 milioni di persone. A questo proposito, è da sottolineare anche il divario interno in termini socioeconomici tra nord e sud del paese.
In linea con la tendenza riscontrata in tutti i paesi industrializzati, la percentuale di persone in età da pensione sta aumentando e si stima che entro il 2021 possa passare dall’attuale 16% al 22%, con evidenti ripercussioni economiche e sociali. Nell’ultimo decennio la popolazione è aumentata di oltre un milione e mezzo di persone: si tratta dell’effetto dell’immigrazione. Il regno, del resto, costituisce una destinazione storica per l’immigrazione da tutto il mondo e attualmente ospita più di 6 milioni di persone nate all’estero. Il numero di immigrati diretti nel Regno Unito è inoltre cresciuto in seguito agli allargamenti dell’Unione Europea negli anni Duemila, in particolare ai paesi dell’Est, e all’instabilità nell’area del Grande Medio Oriente, soprattutto nell’ultimo triennio.
Il tradizionale modello multiculturale britannico, sfidato anche dagli effetti della crisi economica, è finito sotto accusa negli ultimi anni in relazione alla crescente minaccia del terrorismo internazionale. A rendere più incombente il rischio sono stati gli attentati organizzati a Londra nel luglio 2005 da un gruppo fondamentalista vicino ad al-Qaida. Il fatto che i quattro attentatori suicidi fossero residenti nel Regno Unito ha provocato un aspro dibattito contro il modello di integrazione adottato da Londra. Il medesimo dibattito si è ripetuto nel febbraio 2015 quando l’opinione pubblica nazionale è venuta a conoscenza che un rinomato membro dell’Is, protagonista di vari video propagandistici truculenti, il cosiddetto ‘Jihadi John’, altri non era che un foreign fighter con cittadinanza britannica e di estrazione borghese.
Secondo la classifica del Qs World University Ranking, tra le prime sette università del mondo ben quattro sono nel Regno Unito: per il 2014-15 Cambridge e un’altra università britannica, l’Imperial College, sono al secondo posto dopo il Mit di Boston e prima di Harvard, mentre subito dopo, al quinto e sesto posto, figurano le britanniche Oxford e lo University College of London. L’elevata qualità dell’offerta formativa, assieme al vantaggio di studiare in un paese anglofono, attrae studenti da tutto il mondo, in misura maggiore rispetto a quanto avviene nel resto d’Europa. Malgrado l’altissima competitività del sistema universitario britannico, l’innalzamento del tetto massimo delle rette potrebbe però sfavorire nei prossimi anni il tradizionale arrivo di migliaia di studenti stranieri. La ratio della riforma è stato il tentativo di risanare il bilancio delle università, gravate da un numero crescente di studenti e da un conseguente aumento dei costi di gestione.
Il Regno Unito è una democrazia compiuta che garantisce piena libertà civile e politica, piena libertà di informazione e che si connota per livelli bassi di corruzione. Malgrado ciò, il grado di partecipazione politica è calato e attualmente il regno è agli ultimi posti in Europa occidentale, se si tengono in considerazione indicatori come la percentuale di votanti, l’appartenenza ai partiti politici e l’ambizione a intraprendere una carriera politica. Inoltre, la percentuale di votanti registrata alle ultime elezioni colloca il Regno Unito agli ultimi posti per affluenza elettorale nelle competizioni politiche nazionali, davanti solo, tra i paesi europei economicamente sviluppati, a Francia, Polonia, Grecia e Portogallo. La legge sul terrorismo attualmente in vigore nel Regno Unito è controversa, dal momento che permette di detenere un sospettato fino a 42 giorni senza l’esecuzione di un processo formale; l’aumento di tale periodo, approvato nel 2008, ha poi scatenato un aspro dibattito politico sul labile confine tra le esigenze dettate dalla sicurezza nazionale e le libertà civili che una democrazia come quella britannica dovrebbe sempre garantire. Si tratta di misure drastiche, prese a seguito degli attentati che nell’estate del 2005 hanno colpito la capitale londinese, e frutto di un livello di guardia salito significativamente, nel tentativo di prevenire altri attacchi da parte dei gruppi fondamentalisti. Nel 2011 il panorama dell’informazione britannica è stato turbato dallo scandalo relativo a News of the World: il celebre tabloid di proprietà di News Corporation, la società di Rupert Murdoch, è stato chiuso in luglio dopo che la potente direttrice, Rebekah Mary Brooks, e alcuni giornalisti erano stati accusati di intercettare illegalmente membri della famiglia reale, altre personalità del paese e protagonisti di episodi di cronaca e di aver corrotto agenti di polizia per avere informazioni.
Il Regno Unito ha una delle più importanti economie al mondo, con un pil pro capite equivalente a più di 40.000 dollari. Domina il terziario, che costituisce il 79,6% del pil e occupa quasi l’80% della forza lavoro: non a caso si tratta anche del settore che, nel corso degli ultimi anni, ha trainato il paese fuori dalla crisi economico finanziaria. La recessione ha colpito duramente il settore finanziario pubblico: all’inizio della crisi, a causa anche di un pesante calo delle entrate, il rapporto deficit/pil era scivolato nel 2009 all’11,4% (il secondo peggior risultato in Europa dopo l’Irlanda). Dopo una timida ripresa, il 2011 aveva segnato un nuovo rallentamento: il tasso di crescita del pil si era attestato sullo 0,7%. Nel 2012 si è registrata una contrazione dello 0,4%, mentre nel 2013 il tasso di crescita è stato pari all’1,4% circa e nel biennio 2014-2015 è risultato intorno al 2,5%.
Come per le altre economie europee colpite dalla crisi, anche il Regno Unito ha seguito la linea dell’austerità: all’indomani del proprio insediamento, nel giugno 2010, il governo Cameron-Clegg aveva varato un piano economico di emergenza che prevedeva riforme nei settori di sanità, istruzione e del welfare nel suo complesso. L’obiettivo principale era ridurre il peso dello stato centrale, attraverso il taglio radicale delle spesa pubblica. Secondo le proiezioni ufficiali, il piano dovrebbe portare il deficit all’1,1% del pil entro il 2016 per poi tornare in attivo nel biennio seguente. Le misure di austerity, benché talvolta avversate dall’opinione pubblica, nel complesso paiono aver rimesso in sesto l’economia britannica, rilanciandola sul piano globale grazie a uno dei tassi di crescita più alti in Europa. Una scelta premiata dall’elettorato nel 2015, che ha scelto di mantenere al governo il partito conservatore, le cui politiche sono state identificate come la ricetta necessaria per risollevare l’economia britannica.
Dopo il forte crollo della sterlina che si è registrato tra il luglio 2007 e la primavera del 2009, provocato dal taglio dei tassi d’interesse, la valuta britannica ha progressivamente riguadagnato terreno rispetto all’euro. La crisi ha prodotto effetti anche sul mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione, dopo essere cresciuto fino a più dell’8% nel 2012, è oggi in discesa (7,5%) e la proiezione è quella di di un’ulteriore riduzione nei prossimi tre anni.
Una questione che sta particolarmente a cuore al primo ministro Cameron e al ministro delle finanze, George Osborne, è ridurre il debito pubblico nazionale. Un obiettivo che, però, non è stato ancora raggiunto dopo cinque anni al governo. Tra il 2010 e il 2015 la percentuale del debito lordo sul pil è costantemente aumentata, passando dal 76,4% al 91,1%. La proiezione nel breve periodo è quella di un assestamento intorno al 91%. Tuttavia, grazie ai tagli apportati alla spesa pubblica e a una prolungata crescita economica, prevista dall’Imf stabilmente oltre il 2% per i prossimi cinque anni, il debito pare destinato a diminuire sul medio termine attestandosi al di sotto del 90% a partire dal 2018.
Per facilitare il conseguimento di questo obiettivo, il Regno Unito cercherà inoltre di avvicinare il livello delle esportazioni a quello dell’import, risanando la bilancia commerciale che negli ultimi quindici anni, da una situazione quasi in equilibrio, si è andata via via deteriorando. La maggior parte delle importazioni proviene dalla Germania, che assieme agli Stati Uniti, primo cliente del paese, è storicamente uno dei principali partner commerciali del Regno Unito. Negli ultimi undici anni, le importazioni dalla Cina sono aumentate di più di sette volte e dal 2008 la Repubblica popolare cinese figura tra i primi quattro paesi che esportano nel Regno Unito; in questa classifica, ad oggi la Cina si posiziona sopra addirittura agli Stati Uniti. È d’altronde significativo che Londra, nonostante la contrarietà di Washington, sia stata tra le prime a sottoscrivere la proposta di Pechino di istituire l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) con lo scopo di creare una rete di infrastrutture che colleghi l’Asia-Pacifico all’Europa attraverso la nuova Via della Seta.
Il dato principale per quanto concerne l’approvvigionamento energetico è il passaggio da esportatore netto a importatore, avvenuto attorno alla metà del primo decennio del Ventunesimo secolo. Ciò è accaduto nonostante il paese goda delle maggiori riserve petrolifere nello scenario europeo, al pari della Norvegia, e possa contare su un colosso petrolifero delle dimensioni della British Petroleum. La Bp è la terza compagnia del settore a livello mondiale: è operativa in circa ottanta paesi. La sua divisione statunitense costituisce il maggior produttore di idrocarburi degli Stati Uniti: l’incidente della primavera del 2010 avvenuto su una delle sue piattaforme petrolifere nel Golfo del Messico, la Deepwater Horizon, ha provocato il disastro ambientale più grave nella storia del paese nordamericano e ha creato forti tensioni tra Londra e Washington, comunque presto superate.
Nel 2004 il livello di consumo di gas ha superato per la prima volta le quantità prodotte e lo stesso è avvenuto circa un anno più tardi per il petrolio. In entrambi i casi la causa è stata il rapido calo della produzione, mentre il consumo si è mantenuto sostanzialmente stabile, attorno a 1,8 milioni di barili di petrolio giornalieri e 90 miliardi di metri cubi di gas ogni anno.
Più di due terzi del petrolio importato proviene dalla Norvegia, alla quale il Regno Unito è collegato tramite l’unico oleodotto internazionale sul suo territorio. Per quanto riguarda il gas, invece, il Regno Unito è collegato al Belgio da un gasdotto che, partendo da Bacton, giunge a Zeebrugge e garantisce la connessione con il mercato europeo nel suo complesso. Londra, inoltre, importa tramite gasdotti anche dagli stabilimenti offshore norvegesi situati nel Mare del Nord e dall’Irlanda, oltre che dal Qatar. Per ovviare al progressivo esaurimento di gas e petrolio, il Regno Unito sta esplorando nuove vie: da un lato ha avviato nuove esplorazioni al largo delle isole Falkland, il cui bacino sembrerebbe essere ricco di idrocarburi; dall’altro lato ha aumentato la produzione tanto dell’energia nucleare quanto di quella derivante da fonti rinnovabili, che attualmente, nel loro complesso, superano di poco il 16% del mix energetico nazionale. Attualmente il Regno Unito trae da gas naturale e petrolio due terzi del proprio fabbisogno energetico; il restante è suddiviso tra carbone (16,8%), nucleare (9,3%), e rinnovabili (circa 7%). Il limitato sviluppo dell’energia rinnovabile, unito alla dimensione dell’economia, fanno del Regno Unito solo il dodicesimo paese al mondo per le performance ambientali.
Nel 2012 il governo ha annunciato l’intenzione di procedere all’esplorazione del sottosuolo per lo sfruttamento del gas da argilla, allo scopo di accrescere il peso del gas e diminuire quello del carbone nel mix energetico nazionale. L’annuncio ha però suscitato le proteste delle associazioni ambientaliste, perché il processo di estrazione del gas dall’argilla – la fratturazione idraulica, o fracking – rischia di contaminare le acque sotterranee e l’aria e potrebbe provocare fenomeni di micro-sismicità. Con l’Infrastructure Act, approvato dalla Camera dei Comuni nel febbraio 2015, il governo ha regolamentato le attività di fracking venendo incontro alle proteste ambientaliste e fissando ad 1 chilometro di profondità il limite massimo per le trivellazioni.
L’apparato militare del Regno Unito è uno dei più avanzati e dei meglio equipaggiati al mondo, anche se, rispetto al 2011 in cui era il terzo paese al mondo che investiva di più nel settore, la spesa per la difesa è in calo. Tuttavia, il Regno Unito è uno dei pochi paesi in seno alla Nato a mantenere la spesa militare stabilmente sopra il 2%, ossia il limite minimo identificato dal Consiglio atlantico per sostenere la difesa euro-atlantica. Londra possiede l’aviazione e la marina più importanti tra i paesi dell’Unione Europea, al secondo posto tra i paesi dell’Alleanza atlantica. La sua celebre Royal Navy è una delle pochissime marine con una flotta dotata di capacità ‘d’alto mare’, in grado quindi di operare in autonomia per lunghi periodi lontano dalla madrepatria e capace di una proiezione di potenza di portata globale.
La necessità di ridurre la spesa pubblica ha proiettato la difesa britannica in ambito europeo ad orientarsi verso una maggiore cooperazione con i principali interlocutori continentali. In questa direzione va interpretato il programma di difesa sottoscritto da Cameron e dall’ex presidente francese Nicolas Sarkozy nel 2010 attraverso i trattati di Lancaster House, che prevedono una cooperazione cinquantennale in materia di difesa tra Londra e Parigi, la condivisione di una portaerei e di altre strutture militari, nonché la creazione di una forza d’intervento congiunto. Non sono certo finiti sotto revisione i finanziamenti destinanti al mantenimento del programma nucleare britannico, capitolo di spesa finora intoccabile perché architrave di quell’autonomia difensiva che il Regno Unito ha tradizionalmente ritenuto uno dei suoi capisaldi. In ambito Nato, Londra contribuisce secondo il principio costs-lie-where-they-fall alla Nato Response Force e alla neonata Spearhead Force.
Sebbene la fine della Guerra fredda abbia coinciso con un drastico taglio sul personale militare in attività, le forze armate britanniche sono state dispiegate in numero e proporzione elevati rispetto alle altre principali potenze mondiali, partecipando a diverse missioni militari, svolgendo un ruolo molto attivo, spesso al seguito degli Stati Uniti. L’impegno nelle missioni internazionali ha spaziato dalla Prima guerra in Iraq, nella quale furono impiegati circa 50.000 soldati britannici, è passato per la presenza nei Balcani durante gli anni Novanta, è arrivato alla guerra in Afghanistan, dove le truppe inglesi sono state il secondo contingente più numeroso, per arrivare all’intervento militare in Iraq del 2003, che ha registrato un picco di 46.000 soldati britannici in corrispondenza delle maggiori operazioni militari effettuate tra marzo e aprile 2003. Inoltre, con l’operazione in Libia nel 2011, il Regno Unito è tornato a intervenire direttamente nel teatro mediterraneo, dimostrando un rinnovato interesse per l’area. Dal 2014 Londra prende parte alla coalizione anti-Is effettuando raid aerei in Iraq e partecipando alle attività di ricognizione in Siria.
Truppe britanniche sono poi di stanza in vari paesi del mondo, dove sono presenti basi militari e possedimenti. Nei venticinque anni seguenti alla conclusione della Guerra fredda, il contingente più numeroso è rimasto in Germania. Le nuove logiche post-bipolari hanno imposto una revisione della presenza militare oltremare. Nel 2015, il ministero della difesa ha reso noto che entro il 2020 saranno rimpatriati tutti i soldati britannici sul suolo tedesco, che attualmente sono circa 15mila. Circa 3000 sono invece di stanza nelle due basi britanniche sull’isola di Cipro e ancora a Gibilterra, nelle Isole Falkland, nell’isola di Ascension e in quella Diego Garcia. Un discorso a parte merita invece il dispiegamento di truppe britanniche in Irlanda del Nord nella cornice della ‘Operation Banner’, la missione più lunga in cui le forze britanniche siano state coinvolte, durata dal 1969 al 2007. L’anno della sua istituzione coincide con il violento risveglio della questione nordirlandese, caratterizzata dalla contrapposizione tra la comunità protestante, sostenitrice dell’unione alla Gran Bretagna, e quella cattolico-repubblicana, fautrice invece di una riunificazione con la Repubblica d’Irlanda. Lo scontro ha alimentato per trent’anni quella che viene considerata la più lunga guerra civile dell’Europa contemporanea, costata più di 3000 morti. Oggi, dopo più di quindici anni di rappacificazione, iniziata con l’Accordo del venerdì santo del 1998, sono circa 1500 i soldati britannici di stanza nelle caserme dell’Irlanda del Nord con compiti ordinari. Particolarmente fiorente è infine l’industria militare britannica, che esporta principalmente negli Stati Uniti, ma anche in India e Arabia Saudita. A livello di importazioni, invece, il Regno Unito si affida per quasi due terzi del proprio equipaggiamento militare agli Stati Uniti e per un 22% a Paesi Bassi e Germania.
Il termine special relationship fu coniato da Winston Churchill nel 1946 in riferimento all’unicità delle relazioni politiche, militari e culturali esistenti tra Regno Unito e Stati Uniti. Il celebre statista britannico riteneva che questa relazione dovesse costituire il cuore di quel blocco di stati occidentali che si andavano opponendo all’Unione Sovietica. Definire un rapporto tra due stati nei termini di una ‘relazione speciale’ sottintende l’idea che il livello di attività cooperativa bilaterale abbia una tale durata, stabilità, intensità e complessità da meritare una categoria differente dalla semplice alleanza, amicizia o partnership. In effetti il caso angloamericano colpisce sotto tutte queste caratteristiche. In primo luogo, per la sua durata e stabilità: nato già nel Diciannovesimo secolo, l’asse tra Londra e Washington si è rafforzato durante le due guerre mondiali per poi consacrarsi come un’intesa speciale negli anni della Guerra fredda, principalmente in virtù della comune diffidenza verso l’Unione Sovietica. La relazione non si è ridimensionata con la fine dell’Impero sovietico, ma ha registrato un’intensificazione nel momento in cui il rapporto tra gli Usa e alcuni partner europei ha attraversato momenti di tensione in coincidenza della guerra in Iraq del 2003. In secondo luogo, la special relationship colpisce per la sua intensità, che può essere definita multilivello. Il legame non si manifesta soltanto a livello delle rispettive leadership politiche, che negli anni si sono dimostrate generalmente in sintonia nelle scelte di politica estera anche in caso di differente appartenenza politica (l’intesa tra il laburista Tony Blair e il repubblicano George W. Bush nella guerra al terrorismo è in questo senso emblematica). Si è palesata anche nei rispettivi apparati burocratici, in particolare quelli diplomatici, e di difesa. Infine, l’intesa tra Londra e Washington si estende a molti ambiti di cooperazione e non riguarda soltanto il piano diplomatico, più squisitamente politico, ma coinvolge anche la sfera militare, economica e culturale. La relazione si traduce in un costante allineamento rispetto alle grandi questioni della politica internazionale: si pensi, nell’ultimo decennio, alla lotta contro il terrorismo, al dossier sul nucleare iraniano, o all’imposizione della no-fly zone e all’intervento della Nato nella Libia di Muammar Gheddafi. Ma si articola anche come una forte collaborazione tra le rispettive forze armate e apparati di intelligence, a cui si aggiungono ingenti forniture di materiale bellico, supporto logistico e condivisione di basi militari. Infine il legame si estrinseca in un notevolissimo interscambio commerciale e finanziario. Il legame culturale, basato in primis sull’affinità linguistica anglofona, è anche riscontrabile nel proliferare di associazioni, istituti ed enti di tipo scientifico e culturale.
Il 18 settembre del 2014 gli elettori scozzesi sono stati chiamati alle urne per esprimersi su una decisione storica riguardante il loro futuro: ottenere l’indipendenza dal Regno Unito dopo più di 300 anni, o restarne parte integrante. Il dibattito circa l’indipendenza si è fatto molto più acceso con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale. Se, infatti, fino a poche settimane prima del referendum il sì sembrava in netto svantaggio, a inizio settembre alcuni sondaggi l’hanno visto passare per la prima volta in testa. Gli argomenti portati avanti dai sostenitori dell’indipendenza e dal primo ministro scozzese Alex Salmond, ruotavano attorno ai temi economici e della pubblica sanità, mentre molti erano i fattori ancora da chiarire, come la moneta che un’eventuale Scozia indipendente avrebbe potuto adottare e la sua permanenza o meno all’interno dell’Unione Europea. Alla fine, i ‘no’ hanno prevalso di poco (55,3%), ma il governo di Londra ha comunque promesso che concederà ulteriori prerogative in senso autonomistico alla Scozia, tra cui l’entrata in vigore di una serie di norme che assegneranno alle autorità di Edimburgo la facoltà di influire sulla determinazione delle aliquote d’imposta applicabili ai propri cittadini. Del resto, nonostante il risultato, lo stesso Cameron ha dovuto riconoscere la portata politica del referendum, anche in vista di quello promosso, a sua volta, dal governo di Londra circa la permanenza all’interno dell’Eu, previsto per il 2017.
Il nome di Westminster non si riferisce solo al celebre palazzo che ospita il parlamento londinese, ma nella storia si è affermato come un vero e proprio modello di regime democratico, con alcune caratteristiche specifiche ricalcate proprio dal sistema britannico e in adozione in diversi paesi, spesso ex colonie inglesi, come l’Australia, l’India, il Canada, la Malaysia, la Nuova Zelanda o Singapore. I tratti caratteristici del modello Westminster, elencati efficacemente dal politologo Arend Lijphart, sono: un sistema elettorale maggioritario e non proporzionale, l’accentramento del potere esecutivo in governi monopartitici a maggioranza ‘stentata’, un sistema bipartitico, il predominio dell’esecutivo, un parlamento unicamerale, il pluralismo dei gruppi di interesse, un sistema di governo unitario e centralizzato, la flessibilità costituzionale, l’assenza di revisione giurisdizionale, una banca centrale controllata dall’esecutivo. Tra questi elementi esiste una stretta correlazione. La competizione elettorale di tipo maggioritario, infatti, determina il formarsi di un sistema in cui vi sono due partiti principali che dominano il panorama politico, entrambi in grado di competere per la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, e quindi disposti a governare da soli, generando la possibilità di un’alternanza di governo. Un sistema bipartitico non esclude chiaramente la presenza di altre formazioni partitiche, ma rende di fatto marginale l’influenza e il peso che questi riescono ad avere in parlamento e nelle dinamiche politiche nazionali. La solida e coesa maggioranza di cui gode il governo in parlamento gli permette di essere stabile e di veder approvate le proprie proposte legislative. Dal punto di vista istituzionale il parlamento è bicamerale, ma caratterizzato da un bicameralismo talmente asimmetrico che si può parlare di quasi-unicameralismo: le due camere hanno differenti prerogative e composizione e il processo legislativo è concentrato solo in una delle due. Il modello istituzionale di tipo competitivo riflette una società che generalmente presenta un sistema di interessi pluralistico, dove fra i gruppi socialmente rilevanti prevale la competizione piuttosto che la concertazione o il compromesso. Il governo britannico resta tendenzialmente centralizzato e unitario, anche se ha smorzato i suoi tratti caratteristici con la creazione delle amministrazioni nazionali decentrate di Irlanda del Nord, Scozia e Galles. Altri elementi del modello sono una Costituzione flessibile e non scritta, la mancanza di un controllo di costituzionalità sulle leggi proposte dal parlamento e una banca centrale controllata dall’esecutivo.
La geografia economica interna al Regno Unito è segnata nell’immaginario collettivo da marcate differenze tra il nord e il sud e in modo ancora più netto tra Londra e il sud-est e il resto del paese, non solo in termini economici ma anche politico-culturali. Il dibattito sul divario, soltanto percepito secondo alcuni e reale secondo molti altri, tra la cosmopolita Londra e il resto della Gran Bretagna si è riacceso sui principali media inglesi negli ultimi anni e si è concentrato sulle differenze in termini di reddito, trasporti e real estate. Secondo uno studio prodotto nel 2007 dall’Università di Sheffield, la linea di demarcazione correrebbe all’interno delle contee di Gloucestershire, Warwickshire, Leicestershire e Lincolnshire, spaccandole. Buona parte di queste contee, che fanno parte delle Midlands, e quelle più meridionali costituirebbero la zona sud.
Il dibattito sull’esistenza di due nazioni diverse non è particolarmente nuovo, tanto che può essere fatto risalire al 1855, quando la scrittrice Cleghorn Gaskell pubblicò North and South, un romanzo sulla contrapposizione tra il mondo rurale e la trasformazione portata dalla rivoluzione industriale, ambientato nell’immaginaria città del nord di Milton (in realtà ispirata alla già industrializzata Manchester). Il romanzo denunciava il lato oscuro della nuova vita portata dalla rivoluzione industriale: povertà e oppressione, soprattutto ai danni delle donne e dei lavoratori. A tutt’oggi, a parte una differenza in termini di pil pro capite – dato per il quale il sud primeggia – così come in termini di reddito (si calcola un valore mediano di circa 4 mila sterline l’anno in più percepite al sud rispetto al nord), le principali differenze sono di tipo socio-politico. Il sud si caratterizza per essere un territorio rurale – con l’eccezione della grande area urbana di Londra – piuttosto borghese e in cui il Partito conservatore mantiene ancora un buon bacino elettorale. Il nord è stato invece il luogo dell’industria e delle lotte sindacali e operaie, tanto che molti dei deputati comunisti eletti negli anni al parlamento inglese provenivano dal nord.
Oggi il divario nord-sud riguarda anche e soprattutto il prezzo delle case che, secondo alcune stime, costerebbero in media 100 mila sterline in più al sud. In particolare, secondo i dati raccolti da Hometrack nel 2013, la differenza di prezzo nelle case tra nord e sud sarebbe pari a 110 mila sterline per le proprietà meno costose, a 133 mila per le medie e 171 mila per le case più prestigiose. Tale divario potrebbe essere attuato dal miglioramento dei collegamenti ferroviari, in fase di completamento. In concreto dovrebbe venir completato il progetto di alta velocità HS2 (High Speed 2) che, in linea con quanto accade nel resto del continente europeo, dovrebbe collegare Londra con le Midlands, con il North West England, il West Yorkshire e con la Scozia.
1801: Il parlamento di Londra vota l’Atto di unione, che sopprime il parlamento di Dublino e fissa le quote di rappresentanza irlandese a Westminster. È la nascita del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda.
1920: Con il Government of Ireland Act, i britannici istituiscono due parlamenti separati: quello di Belfast, per sei delle nove contee dell’Ulster, e quello di Dublino per il resto del territorio irlandese. Viene così di fatto sancita la partizione dell’Irlanda e la separazione delle sei contee nordorientali, a maggioranza protestante e unionista, dal resto dell’isola.
1921: Dopo due anni di scontri tra il governo britannico in Irlanda e l’Irish Republican Army (Ira) guidato politicamente dal Sinn Féin, il principale partito repubblicano-nazionalista irlandese, si conclude la guerra d’indipendenza irlandese, con una tregua suggellata dalla firma del trattato di pace anglo-irlandese. Con questo accordo la Gran Bretagna concede all’Irlanda lo status di ‘dominion’, equivalente a una larga autonomia nell’autogoverno e alla formazione dello stato libero d’Irlanda entro il Commonwealth britannico. L’Irlanda del Nord resta invece parte del Regno Unito.
1922-23: Guerra civile nelle 26 contee irlandesi tra sostenitori e oppositori del trattato di pace anglo-irlandese, conclusasi con la vittoria dei primi.
1949: Il lunedì di Pasqua, l’Irlanda abbandona lo status di ‘dominion’ e diviene una repubblica del tutto indipendente da Londra. Le sei contee dell’Ulster rimangono invece nel Regno Unito.
1921-69: In Irlanda del Nord continua a valere il Government of Ireland Act, secondo cui le questioni interne sono gestite dal Parlamento di Belfast, in cui prevalgono sempre maggioranze protestanti. Westminster ha ancora il controllo della politica estera e la gestione dei tributi. La popolazione cattolica è di fatto discriminata nella rappresentanza politica e nell’accesso ai servizi sociali e all’impiego pubblico. I distretti elettorali sono modellati in modo tale (secondo il cosiddetto metodo ‘gerrymandering’) che il controllo dei consigli cittadini sia assicurato ai protestanti.
1969: Fervono movimenti per i diritti civili in Irlanda del Nord (come il Nicra, Northern Ireland Civil Right Association, o il People’s Democracy), che denunciano le disparità tra le due comunità nordirlandesi. La tensione sale alle stelle in corrispondenza della rivolta cattolica a Derry, scoppiata in opposizione a una marcia unionista che attraversa il Bogside, storico quartiere cattolico della città. I disordini e le violenze tra le due comunità si estendono anche a Belfast, dove i britannici decidono di costruire un muro – ancora oggi esistente – per separare il quartiere cattolico da quello protestante, nell’ovest della città. È l’inizio dei cosiddetti troubles (disordini), che da questo momento in avanti segnano continue violenze tra le due fazioni.
1972-74: Al termine di una manifestazione per i diritti civili a Derry, i reparti paracadutisti dell’esercito britannico sparano sulla folla e uccidono 13 dimostranti disarmati: la domenica del 30 gennaio 1972 passa alla storia come ‘Bloody Sunday’. Il governo britannico, visto l’inasprirsi del conflitto, decide di sospendere il governo e il Parlamento dell’Irlanda del Nord e di riprendere direttamente il controllo sulla regione. Intanto sempre più truppe britanniche sono dispiegate nelle sei contee per ristabilire l’ordine e combattere il terrorismo, secondo quanto stabilito dalla missione Operation Banner. Il governo inglese promulga leggi speciali che limitano le libertà politiche e individuali in Irlanda del Nord, come l’Emergency Provisions Act o il Prevention of Terrorism Act, entrambe ripetutamente sospese e reintrodotte negli anni.
1974-93: Prosegue la guerra a fasi alterne: l’Ira organizza una resistenza molto dura, condotta tanto militarmente, con attentati dinamitardi in tutto il Regno Unito, quanto con azioni politiche e simboliche dal forte impatto. In particolare, i prigionieri politici irlandesi organizzano forme di protesta, che culminano con lo sciopero della fame a oltranza. Nel 1981, lo sciopero porta alla morte Bobby Sands e altri nove prigionieri.
1998: Il 10 aprile, dopo una lunga serie di eventi drammatici e sotto il forte impulso degli Stati Uniti (grazie all’attività diplomatica svolta in primis dal senatore George Mitchell), viene firmato, e ratificato tramite referendum popolare il 22 maggio successivo, il Belfast Agreement, più noto come accordo del Venerdì Santo. Tale accordo ha reintrodotto il parlamento nordirlandese e ha stabilito che il governo locale avrebbe rispettato nella sua composizione la rappresentatività di tutti i maggiori partiti e di tutte le comunità. Con esso, inoltre, da un lato la Repubblica d’Irlanda ha rinunciato ufficialmente a ogni rivendicazione sulle sei contee dell’Ulster, dall’altro il Regno Unito si è impegnato a emanare la legislazione necessaria per creare un’Irlanda unita, qualora ciò sia la volontà della maggioranza della popolazione dell’Irlanda del Nord.
Approfondimento
La composizione della spesa pubblica secondo i dati del ministero del Tesoro britannico per il periodo 2014-15 vedeva la difesa al terzo posto (10,5%), seguita da sanità (33%) ed educazione (16%). Le spese per lo sviluppo internazionale erano il 2,1 % del totale, mentre solo lo 0,56% quelle per il ministero degli Esteri. Anche i dati sulle proiezioni di spesa 2015-2020 del governo Cameron disegnano un trend abbastanza chiaro sulla direzione che prenderà la politica estera inglese, qui intesa in senso ampio, dei prossimi cinque anni. Sarà soprattutto una politica incentrata sulla difesa, sul controterrorismo e sulla sicurezza interna, sarà probabilmente sempre meno una politica estera con una proiezione internazionale intesa nel senso del dispiego del suo corpo diplomatico nel mondo. La proiezione internazionale del paese resterà invece protetta dagli investimenti in termini di aiuti allo sviluppo che riservano al suo dipartimento una capacità di spesa in aumento da 8,5 a 11 miliardi di euro nei prossimi cinque anni. Il governo investirà, invece, 34 milioni di sterline nel 2016-17 e 85 milioni di sterline all’anno dal 2017-18 su uno dei suoi asset più importanti di influenza globale di tipo soft, la Bbc World Service. Questi soldi serviranno ad incrementare la presenza della Bbc in aree come Russia, Corea del Nord, Medio Oriente e Africa, e saranno volti a raggiungere, secondo quanto dichiarato, circa mezzo miliardo di persone nel mondo.
Nel documento di spending review pubblicato alla fine di novembre 2015 le decisioni di investimento del governo in materia di sicurezza nazionale occupano una posizione di primo piano. Viene, in particolare, sottolineato che il paese continuerà ad essere protetto da un apparato militare all’avanguardia, un sicurezza interna e una difesa cibernetica solide. In effetti, nel documento le intenzioni del governo sono quelle di aumentare la capacità di spesa degli apparati di difesa e di sicurezza nel periodo compreso tra il 2015-16 e il 2020-21, contribuendo con il 2% del pil alla difesa e lo 0,7% del reddito nazionale lordo agli aiuti allo sviluppo. Inoltre, per finanziare le spese di difesa e sicurezza viene annunciata un’ulteriore disponibilità di 3,5 miliardi di sterline (decisamente più alto degli 1,5 miliardi annunciati a luglio 2015) da reperire tramite un fondo, il Joint Security Fund, sui prossimi 5 anni. Questo fondo è una novità assoluta e, sembra, dovrà essere suddiviso tra il ministero della Difesa e le tre agenzie di intelligence (Mi5, Mi6 e Gchq). A questo proposito, nelle intenzioni del governo le agenzie di intelligence avranno a disposizione un aumento del budget di spesa pari al 18% in termini reali, mentre il ministero degli Interni avrà a disposizione 500 milioni di sterline per nuovi investimenti in attività legate al controterrorismo.
Resta invece decisamente invariata e compressa l’attività del ministero degli Esteri (il Foreign and Commonwealth Office, Fco), che già con la revisione della spesa complessiva avvenuta nel 2010, aveva sofferto di uno dei tagli più ingenti alla sua capacità di spesa, rispetto ad altri dipartimenti governativi. A cinque anni di distanza, il governo sta nuovamente chiedendo ulteriori sforzi di riduzione della spesa al suo ministero degli Esteri, il cui limite di spesa resta invariato e pari a 1 miliardo di sterline nel periodo 2015-2020. Secondo quanto riportato dal Financial Times, dal 2010 è stato tagliato più di un quarto del budget a disposizione dell’Fco. Questi tagli hanno causato la chiusura di tre ambasciate e tredici consolati, oltre ad un rimpiazzamento di parte del personale diplomatico britannico con staff locale. In particolare, nel marzo 2011 il personale dell’Fco era pari a 5045 cosiddetti civil servants e a 8500 persone assunte direttamente nei paesi dove l’Fco opera. Nel 2014 questo trend si è consolidato, con una diminuzione degli impiegati britannici (che scendono a 4609 in totale) e un aumento di personale locale (che sale a 9200 unità). I detrattori di questo modo di agire già suggeriscono che le conseguenze sulle nuove generazioni di civil servants saranno irrimediabili, soprattutto in termini di conoscenze perse, sia strategico-operative che linguistiche. Secondo l’ex ambasciatore in Afghanistan, Arabia Saudita e Iraq, Sir William Patey, l’abilità di accumulare conoscenze profonde sul campo e avere il tempo necessario da dedicare all’analisi di situazioni complesse sta gradualmente diminuendo. Naturalmente la linea politica perseguita da Cameron dal 2010 in poi ha provocato un certo malcontento non solo tra i diplomatici, ma anche nella comunità accademica e nei think tanks di politica estera inglesi, che collegava questi tagli ad una mancanza di visione e pensiero strategico, oltreché a tendenze decisamente più isolazioniste del Regno Unito, già alle prese con la questione dell’uscita dell’Unione Europea, nota come Brexit. Charles Grant, il direttore del Center for European Reform di Londra ha, ad esempio, ricordato recentemente che il Regno Unito avrebbe più amici se fosse preparata ad assumere più spesso un ruolo di guida nelle aree dove ha più esperienza, come, appunto, la politica estera, la difesa, l’energia, il clima, il commercio ed il mercato unico. Alla luce degli ultimi attacchi terroristici di Parigi nel novembre 2015, la visione governativa si conferma certamente improntata ad un maggiore pragmatismo in politica estera e sarà forse meno rivolta meno ad occuparsi di discutere la posizione globale del Regno Unito, ma più concretamente indirizzata a rispondere alle prossime sfide che il terrorismo porrà agli apparati di sicurezza e di difesa.
di Anna Longhini