regola
La parola regola, applicata a una lingua, ha due significati fondamentali: quello di «descrizione di un meccanismo della lingua stessa» e quello di «precetto, ammonizione per parlare o scrivere bene». Individuare, raccogliere e illustrare le regole del primo tipo è proprio della grammatica descrittiva, mentre individuare, raccogliere e illustrare le regole del secondo tipo è proprio della grammatica normativa o prescrittiva.
La tradizione italiana (che pure, dal XVI secolo alla prima metà del XX, è stata d’impianto normativo; ➔ grammatica; ➔ storia della linguistica italiana) ha individuato, raccolto e illustrato, nello stesso tempo e negli stessi testi, regole sia del primo sia del secondo tipo.
L’applicazione dichiarata del concetto di regola alla lingua italiana è relativamente tarda: a parte un isolato tentativo quattrocentesco di ➔ Leon Battista Alberti, la normazione di una varietà di lingua d’area italiana (nella fattispecie, il fiorentino di ➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio) segue di circa tre secoli la sua utilizzazione scritta, avviata nel Duecento.
Per Dante le regole sono estranee al volgare e sono, invece, connaturate al latino, lingua artificiale dotata di regolarità grammaticale così da poter essere identificata con la grammatica stessa. Nel De vulgari eloquentia (I, 1) Dante afferma che la lingua volgare è quella che impariamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola (sine omni regula); a essa si oppone la gramatica, cioè il latino, del quale facciamo nostre le regole e la sapienza (regulamur et indoctrinamur) col tempo e con uno studio assiduo; inoltre (II, 4), mentre i grandi poeti latini hanno scritto in una lingua e con una tecnica regolari (sermone et arte regulari), i rimatori volgari hanno proceduto, fino ai suoi tempi, a caso (casu).
L’idea del volgare come lingua senza regole è condivisa e in qualche caso accentuata all’inizio del Quattrocento, con l’affermazione dell’Umanesimo (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’), il trionfo della cultura e della lingua latina e la concomitante degradazione del volgare a idioma di rango ancillare: Lorenzo Valla arrivò a considerare tutte le lingue moderne parlate in Italia (e in Europa) un unico, gigantesco errore, privo di regole e di razionalità (cfr. Cesarini Martinelli 1980: 47 e 62; Tavoni 1984: 266-270). Se, fra Trecento e Quattrocento, nessuno, sul piano teorico, fu disposto a riconoscere l’esistenza di regole grammaticali del volgare, più d’uno, sul piano pratico, ne percepì la presenza.
Gli autori di alcuni dei principali commenti trecenteschi alla Commedia (l’anonimo autore dell’Ottimo commento della “Divina Commedia”, Giovanni Boccaccio, Benvenuto da Imola, Francesco da Buti, Filippo Villani) appaiono consapevoli delle principali strutture grammaticali e sintattiche del volgare di Dante. Di solito, l’individuazione di tali strutture è frutto della semplice trasposizione delle strutture del latino, ma qualche volta esse sono presupposte o addirittura presentate come autonome (cfr. Motolese 2007: 404-406). Si trova, per es., una sintetica descrizione delle parti del discorso che sembra la regola d’apertura di una grammatica del volgare:
Sono le parti di gramatica VIII: nome, sì come Gioanni; verbo, sì come ama, corri, viene; participio, sì come è amante, che ha in sé del verbo e del nome; pronome, sì come è io, tu, quelli; preposizione, sì come è quando io dico a Giovanni, questo a è la preposizione; avverbio, sì come è pienamente, sufficientemente; interiezione, sì come è in sé; congiunzione, sì come quando io dico Piero ed Uberto, questo ed li congiunge, ed è la congiunzione (L’Ottimo commento 1829: 421)
L’applicazione consapevole e sistematica al volgare delle categorie e delle regole grammaticali del latino (i casi, i tempi verbali, le concordanze sintattiche) consentì a Leon Battista Alberti, in una data successiva al 1437 (cfr. Cardini 2008: XLII-XLIX), di realizzare una grammatica della lingua italiana che è la prima in assoluto dedicata a una lingua neolatina. In essa le regole sono definite «ammonitioni, apte a scrivere e favellare senza corruptela» (Alberti 1996: 15-16). La prima regola è di tipo descrittivo: «Ogni parola [...] toscana finisce in vocale: solo alchuni articholi de’ nomi in l et alchune prepositioni finiscono in d, n, r» (ibid.: 4). Una tale descrizione (quasi tutte le parole della ‘lingua toscana’ terminano in vocale), in forza della sostanziale continuità delle strutture fonomorfologiche del fiorentino antico e dell’italiano moderno, è perfettamente applicabile all’italiano contemporaneo, e infatti ricorre puntualmente nella grammaticografia che attualmente lo descrive.
L’opera di Alberti è tradizionalmente indicata come Grammatichetta vaticana, ma nelle tre copie dell’inventario (compilato nel 1495) della Biblioteca di Lorenzo de’ Medici, in cui era conservato l’originale, è indicata due volte col titolo latino di Regule lingue florentine e una volta col titolo italiano di Regole della lingua fiorentina (cfr. Patota 1996: XXXI). In seguito, dal 1516 (anno della pubblicazione della prima grammatica a stampa dell’italiano, le Regole grammaticali della volgar lingua di Giovan Francesco Fortunio) al 1833 (anno di pubblicazione delle Regole elementari della lingua italiana del purista Basilio Puoti; ➔ purismo), la parola regole campeggerà nel frontespizio di molte grammatiche italiane, inizialmente anche più spesso della parola grammatica: nei titoli di 22 testi grammaticali cinquecenteschi (quelli citati in Trabalza 1908: 51-266), la parola regole compare 8 volte, seguita da grammatica (presente in 5 titoli), osservazioni o osservanze (3) e avvertimenti (3).
Fortunio, l’iniziatore di questa tradizione, spiega molto bene nel proemio della sua grammatica come si ricavano le regole, e su che cosa si fanno le osservazioni: le regole si ricavano dalla lettura e dallo studio delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, che sono state scritte con esercizio di poetica e di retorica e con armonia spiegabili solo con la presenza di quella «regola di grammaticali parole» che, per la filosofia del linguaggio d’età medievale e umanistica, era il presupposto e il fondamento stesso dell’arte poetica e della retorica. All’inizio della sua grammatica Fortunio enuncia la «prima regola del nome»: «li nomi li quali in alcuna di queste vocali e overo o finiscono il loro minor numero, in questa vocale i il maggior harran terminato» (Fortunio 2001: 3, 13). Anche questa regola del fiorentino antico (i nomi che terminano in -e o in -o al singolare, come per es. pesce o pollo, terminano in -i al plurale: pesci, polli) è applicabile, in forza della continuità di cui si è detto, all’italiano attuale, e sicuramente si ritrova, ovviamente espressa in una forma più moderna, in qualunque buona grammatica dei giorni nostri. La differenza è che, enunciata rapidamente la regola (sulla quale è inutile dilungarsi, «perché ad ognuno è noto dirsi [...] un sasso, più sassi»: ibid.), Fortunio passa a illustrare minutamente le sue eccezioni, allegando e commentando ora sul piano grammaticale ora su quello filologico (ecco le osservazioni o annotazioni!) ben sessantasei citazioni tratte dalle opere di Dante, Petrarca e (in misura minore) Boccaccio.
Nella più importante grammatica del Cinquecento – il terzo libro delle Prose della volgar lingua di ➔ Pietro Bembo, pubblicate nove anni dopo l’opera di Fortunio – le regole dell’italiano, ricavate dal modello offerto da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia, vengono presentate in modo molto complesso: per poterle studiare, bisogna individuarle all’interno di un dialogo scritto in una prosa involuta e latineggiante, che emula quella del Boccaccio più elegante. Un caso per tutti: l’illustrazione delle regole (e soprattutto delle particolarità) relative alla formazione del plurale dei nomi dell’italiano ha la forma di un complicato monologo affidato a Giuliano de’ Medici, uno dei protagonisti dell’immaginario dialogo di cui l’opera intende essere un resoconto, e occupa ben dieci pagine dell’edizione del 1525 (Bembo 2001: 112-118; cfr. D’Achille 2001).
Nelle più importanti grammatiche che si rifanno, durante il Cinquecento, al percorso indicato da Fortunio e soprattutto da Bembo (per es., i Fondamenti del parlar thoscano di Rinaldo Corso, I quattro libri delle Osservationi di Lodovico Dolce e i Commentari della lingua italiana di Girolamo Ruscelli, tutti pubblicati a Venezia nel 1549, 1550 e 1581), questo modo di ricavare regole grammaticali dai testi dei grandi scrittori toscani del Trecento (con un’apertura, nel caso di Dolce, a scrittori non toscani e non del Trecento come Jacopo Sannazaro e Ludovico Ariosto: cfr. Fornara 2005: 50-51) trova una maggiore sistematizzazione, ma rimane sostanzialmente lo stesso. Diverso, invece, il modo di ricavare, raccogliere e presentare le regole nelle grammatiche che non seguono l’indirizzo classicista di Fortunio e di Bembo, ma quello cosiddetto italianista, che ha il suo capostipite in ➔ Gian Giorgio Trissino e il suo testo esemplare nella Grammatichetta da lui pubblicata a Vicenza nel 1529: una grammatica del volgare senza autori e senza letteratura, nella quale le regole sono esposte in modo semplice, corredate da elenchi di forme, specchietti di base, e brevi passi di riepilogo (cfr. Castelvecchi 1986: LV; Bonomi 1998: 30-33). Per es., il meccanismo che presiede alla formazione del plurale di un insieme di nomi anche più ampio di quello a cui fa riferimento la ‘prima regola del nome’ della grammatica di Fortunio è qui descritto in poche parole, senza esempi d’autore e senza digressioni su casi particolari come quello relativo al plurale di un termine come mano, su cui invece Fortunio si sofferma: «Il primo ordine è dei nomi masculini che nel singulare finiscono in a, e, o e de i feminini che in e et o vi finiscono, i quali tutti fanno nel plurale in i, come è poeta poeti, amore amori, buono buoni, ragione ragioni, mano mani» (Trissino 1986: 10).
Un terzo filone di repertori cinquecenteschi ricava le regole da due varietà di lingua che tenta di integrare equilibratamente, e cioè il fiorentino letterario di Dante, Petrarca e Boccaccio e quello dell’uso vivo contemporaneo. Il testo che più autorevolmente rappresenta questo filone si deve a Pierfrancesco Giambullari, che presenta le Regole della lingua fiorentina (1552) con chiarezza ed esaustività, segno di un certo impegno didattico genericamente rivolto ai «forestieri» (cioè ai non fiorentini) e ai «giovanetti» (Giambullari 1986: 3, dedica; cfr. Bonomi 1986: XXXV-XXXVII; Bonomi 1998: 40-41; Fornara 2005: 54).
La parola regole torna a campeggiare nel titolo della più importante grammatica italiana del Settecento, le Regole ed osservazioni della lingua Toscana ridotte a metodo per uso del Seminario di Bologna di Salvadore Corticelli (1745): un titolo, nel caso specifico, parlante, perché denuncia la destinazione scolastica dell’opera e una sua caratteristica fondamentale: le regole e le osservazioni (che qui vale «eccezioni») dell’italiano vi sono «ridotte a metodo», cioè illustrate in brevi e ordinati capitoli a loro volta distribuiti in tre libri, dedicati il primo alla morfologia, il secondo all’ortografia e pronuncia e il terzo, novità assoluta, alla «costruzione», cioè alla sintassi dell’italiano.
L’impianto dell’opera è nitido e corredato da numerosi esempi d’autore, che però servono «a documentare la regola, non a fondarla e giustificarla» (Marazzini 1997: 14), com’era accaduto in precedenza. Di questa grammatica, le norme che presiedono alla flessione dei nomi dell’italiano sono tutte illustrate in un unico capitolo di circa 1800 caratteri, in cui i nomi sono distinti in quattro gruppi o declinazioni: la prima «comprende i nomi mascolini terminanti in A. Mutando l’A in I, si forma il plurale», come nel caso di profeta, profeti; la seconda «comprende i nomi femminini terminanti in A. Mutata l’A in E resta formato il plurale», come nel caso di donna, donne; la terza «comprende i nomi mascolini, e femminini terminanti in E; la quale mutata in I, n’esce il plurale», come nei casi di padre e madre, padri e madri; la quarta, infine, «comprende i nomi mascolini, e femminini terminanti in O, e mutato questo in I, n’esce il plurale», come nei casi di capo e mano, capi e mani (Corticelli 1745: 35-36 e passim). Alle relative eccezioni sono dedicati i tre capitoli successivi, che occupano nel loro insieme poco più di 6000 caratteri (ibid.: 36-42): complessivamente, lo spazio impegnato è notevolmente minore di quello che era stato necessario a Bembo per parlare del plurale dei nomi e per presentare un numero ben più ridotto di particolarità. Le regole descritte e, più spesso, prescritte si fondano però su un atteggiamento del tutto tradizionalista sul piano normativo.
Qualcosa di simile avviene in un’altra importantissima grammatica del Settecento, fortemente innovativa sul piano dell’ideologia che fonda le regole ma meno innovativa sul piano dei loro contenuti: la Gramatica ragionata della lingua italiana di Francesco Soave (1771; ➔ Settecento, lingua del; ➔ grammatica). Il suo autore vi tradusse la persuasione, maturata dalla linguistica europea del Seicento e del Settecento, che le molte regole di una lingua obbediscono ad alcuni principi generali che governano l’esistenza e il funzionamento di tutte le lingue, quali ad es. la comune necessità dell’esistenza di nomi, verbi e proposizioni, manifestazione linguistica dei giudizi (cfr. Simone 1990: 320-321, 331-336, 363-367 e 381-382). Non bisogna accontentarsi di esporre le regole e i precetti, ma occorre cercare le ragioni che li determinano, afferma Soave in una lettera che contiene un’acutissima valutazione del modo in cui avevano individuato e fondato le regole della lingua i grammatici che lo avevano preceduto:
Di Grammatiche Italiane ne abbiamo varie altresì, ma altre soverchiamente diffuse, altre troppo compendiose. Alcune di esse mancano nell’ordine, o nella chiarezza; e tutte mancano in questo, che dei loro precetti non sanno rendere per ordinario altra ragione, che l’uso [...] o gli esempi degli Antichi, i quali se debbon seguirsi in buona parte, non si devono seguire però in tutto (cit. in Fornara 2001: 12)
Mentre la grammaticografia precedente, dunque, aveva fondato le regole (i precetti) sull’uso, mutevole per natura, o sugli esempi dei tre grandi trecentisti (o anche su entrambe le cose), Soave intende ricavare le regole dai principi generali della lingua, per poi documentarle e illustrarle sulla base dell’uso degli scrittori canonici. A questo assunto teorico innovativo e impegnativo corrisponde un impianto normativo di stampo tradizionale, «che non contiene novità sostanziali rispetto alle grammatiche precedenti» (ibid.: 36).
Nell’Ottocento, le regole dell’italiano sono veicolate nelle scuole sia, ancora, dalle Regole di Corticelli, sia da molti altri testi, che hanno come punto di riferimento ora il modello letterario antico o anticheggiante (è il caso delle già citate Regole elementari della lingua italiana di Basilio Puoti), ora il modello della colloquialità fiorentina ispirato dalle idee linguistiche di ➔ Alessandro Manzoni (è il caso della Grammatica della lingua italiana di Policarpo Petrocchi, 1887, e della Grammatica italiana di Luigi Morandi e Giulio Cappuccini, 1894; ➔ Ottocento, lingua dell’).
Oltre che sulla base di testi ben costruiti come quelli appena ricordati (e altri, quali l’Introduzione alla grammatica italiana per uso della classe seconda delle scuole elementari di Giovanni Gherardini, del 1825, la Grammatica della lingua italiana di Francesco Ambrosoli, del 1828, e la Grammatica nuovissima della lingua italiana di Leopoldo Rodinò, del 1856-1857: cfr. Marazzini 1997: 24; Fornara 2005: 95-96), nelle scuole (in particolare dopo l’Unità d’Italia) le regole vennero anche impartite sulla base di «testi abborracciati, scritti da autori che non avevano nessuna preparazione linguistica, che scopiazzavano da testi precedenti o viceversa davano dignità di ‘regola’ a personali idiosincrasie» (Serianni 2006: 25). In questo modo nacquero quelle che potremmo definire le regole fantasma, come per es. la pseudonorma che, da tempo immemorabile, vieta l’uso della sequenza avversativa ma però, proscrizione che non trova fondamento né nella struttura né nella storia dell’italiano: non nella struttura, perché la nostra lingua ammette il cumulo di ma con connettivi omologhi a però (si pensi alle sequenze ma nondimeno, ma tuttavia); non nella storia, perché esempi di ma però sono documentati nell’intera tradizione dell’italiano scritto, a partire da Dante:
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue
(Inf. XXII, 142-144; cfr. anche GDLI, sub voce «ma»).
Il lento processo di alfabetizzazione e scolarizzazione e l’altrettanto lenta ma progressiva diffusione dell’italiano come lingua nazionale nella prima metà del Novecento non attenuarono, anzi accentuarono, il bisogno di regole nel pubblico degli utenti (➔ Novecento, lingua del).
Nel 1932 ebbe grande successo una Guida alla grammatica italiana scritta dall’Accademico d’Italia Alfredo Panzini, articolata in una prima parte che riduce «a brevità, e facilità anche di espressione, le règole principali del discorso» (Panzini 1932: 3) e una seconda che è, sostanzialmente, un prontuario di dubbi linguistici. Arturo Marpicati, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, in una lettera a Panzini che fa da introduzione al libretto, definì l’opera un «galateo della lingua letteraria»; l’autore, ringraziando, controcantava: «La grammàtica sta a guàrdia della lingua nazionale; ma la guàrdia più vera è il sentimento di dignità che ogni italiano deve avere anche nella parola» (ibid.: 5). Opere come quella di Panzini non furono il portato delle smanie puristiche manifestate da gerarchi e da grammatici (o da grammatici gerarchi) negli anni del fascismo (➔ fascismo, lingua del).
In tempi a noi molto più vicini, e politicamente non sospetti, analogo «successo tra i profani di un profano» (Renzi 1988: 10) ebbe l’autore di un repertorio simile a quello di Panzini, in cui vengono presentate come regole pedanterie logicizzanti del tipo di quella che segue:
Un’improvvisa parsimonia del già citato dittatore [l’uso] sottrae all’interrogativo che cosa l’aggettivo che, cosicché la frase «Che cosa hai fatto?» si accorcia in «Cosa hai fatto?» lasciando l’ufficio d’inquisitore alla parola cosa, che di per sé non interroga un bel niente. Se questo modello avrà dei seguaci (li avrà, li avrà), non domanderemo più «Che libro stai leggendo?» bensì «Libro stai leggendo?». A simili domande, la risposta è una sola: boh! (Marchi 1984: 63)
Fortunatamente, nel secondo Novecento ci sono stati altri modi di concepire e somministrare regole relative all’uso della lingua. Alcune delle Norme per la redazione di un testo radiofonico, scritte nel 1953 da un grandissimo profano (nel senso di non linguista di professione) come ➔ Carlo Emilio Gadda, potrebbero essere seguite con vantaggio da chiunque, anche oggi, si accinga a realizzare qualunque tipo di testo scritto non letterario (➔ radio e lingua). Esemplare, in proposito, la prima delle regole generali assolute per la stesura di ogni testo radiofonico: «Costruire il testo con periodi brevi: non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi dattiloscritti; attenersi, preferibilmente, alla lunghezza normale media di due righi, nobilitando il dettato con i lucidi e auspicati gioielli dei periodi di un rigo, mezzo rigo» (Gadda 1973: 28).
Quanto alle regole che descrivono com’è fatto e come funziona l’italiano attuale, sul finire del XX secolo i linguisti di professione, nei loro diversi orientamenti, le hanno finalmente illustrate in grammatiche (Serianni 1988; Renzi, Salvi & Cardinaletti 1988-1995) che hanno fatto della nostra una delle lingue meglio descritte del mondo. Ma l’idea (magistralmente presentata in Prandi 2006: 3-8) che nell’italiano, così come nelle altre lingue storico-naturali, possano convivere, in un tempo determinato, regole non negoziabili (per es., quelle relative ai suoni o alla forma di quasi tutti i nomi, o quelle relative alla scelta dell’ausiliare nei tempi composti di quasi tutti i verbi: non possiamo dire i cano invece che i cani, bianchità invece di bianchezza, ho andato invece di sono andato) e alternative liberamente selezionabili (per es., quella che nel periodo ipotetico dell’irrealtà del passato oppone il tipo con congiuntivo e condizionale – se me lo avessi detto, sarei venuto prima – al tipo con imperfetto indicativo – se me lo dicevi, venivo prima; cfr. D’Achille 1990: 295-311) è acquisizione relativamente recente della nostra linguistica, ed è ben lontana dall’essere stata interiorizzata dagli insegnanti e dagli utenti della lingua.
Per la stragrande maggioranza dei parlanti (soprattutto per quelli di buona cultura) le regole sono e devono continuare ad essere prescrizioni (e proscrizioni) univoche, risposte a senso unico alle tante domande e ai tanti dubbi suscitati da una lingua stratificata e tardivamente standardizzata come la nostra: la tale forma è giusta o sbagliata? Si può dire così? Bisogna scrivere in questo modo o in quest’altro?
La fortuna che, alla fine del XX secolo e all’inizio del XXI, continuano ad avere i prontuari di dubbi linguistici del tipo di quelli di Panzini e di Marchi, anche quando sono opera di linguisti lontani da una mentalità censoria (come Della Valle & Patota 1996, 2000, 2007; Fornasiero & Tamiozzo Goldmann 1999; Lombardi Vallauri 1999), dimostra che le regole intese come precetti per parlare e scrivere bene, benché in contrasto con la storia, il movimento, la varietà e variabilità dell’italiano, continuano a rappresentare, per gli italiani, un’irrinunciabile sicurezza.
Alberti, Leon Battista (1996), “Grammatichetta” e altri scritti sul volgare, a cura di G. Patota, Roma, Salerno.
Alighieri, Dante (1968), De vulgari eloquentia, a cura di P.V. Mengaldo, Padova, Antenore.
Bembo, Pietro (2001), Prose della volgar lingua. L’editio princeps del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano latino 3210, edizione critica a cura di C. Vela, Bologna, CLUEB.
Corticelli, Salvadore (1745), Regole ed osservazioni della lingua toscana, Bologna, L. dalla Volpe.
Fortunio, Giovan Francesco (2001), Regole grammaticali della volgar lingua, a cura di B. Richardson, Roma - Padova, Antenore.
GDLI (1961-2002) = Battaglia, Salvatore, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 21 voll.
Giambullari, Pierfrancesco (1986), Regole della lingua fiorentina, edizione critica a cura di I. Bonomi, Firenze, Accademia della Crusca.
L’Ottimo commento (1829) = L’Ottimo commento della Divina Commedia. Testo inedito d’un contemporaneo di Dante, a cura di A. Torri, Pisa, Capurro, 3 voll., vol. 3º (rist. anast. Bologna, Forni, 1995).
Soave, Francesco (2001), Gramatica ragionata della lingua italiana, a cura di S. Fornara, Pescara, Libreria dell’Università.
Trissino, Gian Giorgio (1986), Grammatichetta, in Id., Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma, Salerno Editrice, pp. 129-171.
Bonomi, Ilaria (1986), Introduzione, in Giambullari 1986, pp. IX-LXXI.
Bonomi, Ilaria (1998), La grammaticografia italiana attraverso i secoli, Milano, Cuem.
Cardini, Roberto (2008), Ortografia e consolazione in un corpus allestito da L.B. Alberti. Il codice Moreni 2 della Biblioteca Moreniana di Firenze, Firenze, Olschki.
Castelvecchi, Alberto (1986), Introduzione, in Trissino 1986, pp. XIII-LXVI.
Cesarini Martinelli, Lucia (1980), Note sulla polemica Poggio-Valla e sulla fortuna delle Elegantiae, «Interpres» 3, pp. 29-79.
D’Achille, Paolo (1990), Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Roma, Bonacci.
D’Achille, Paolo (2001), La morfologia nominale nel III libro delle “Prose” e in altre grammatiche rinascimentali, in Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Atti del Convegno (Gargnano del Garda, 4-7 ottobre 2000), a cura di S. Morgana, M. Piotti & M. Prada, Milano, Cisalpino, pp. 321-333.
Della Valle, Valeria & Patota, Giuseppe (1996), Il salvalingua, Milano, Sperling & Kupfer.
Della Valle, Valeria & Patota, Giuseppe (2000), Il salvaitaliano, Milano, Sperling & Kupfer.
Della Valle, Valeria & Patota, Giuseppe (2007), Il nuovo salvalingua, Milano, Sperling & Kupfer.
Fornara, Simone (2001), Introduzione, in Soave 2001, pp. 9-72.
Fornara, Simone (2005), Breve storia della grammatica italiana, Roma, Carocci.
Fornasiero, Serena & Tamiozzo Goldmann, Silvana (1999), Scrivere l’italiano. Galateo della comunicazione scritta, Bologna, il Mulino (2a ed. 2005).
Gadda, Carlo Emilio (1973), Norme per la redazione di un testo radiofonico, Torino, ERI.
Lombardi Vallauri, Edoardo (1999), Parlare l’italiano, Bologna, il Mulino.
Marazzini, Claudio (1997), Grammatica e scuola dal XVI al XIX secolo, in Norma e lingua in Italia. Alcune riflessioni fra passato e presente, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, pp. 7-27.
Marchi, Cesare (1984), Impariamo l’italiano, Milano, Rizzoli.
Motolese, Matteo (2007), Appunti su lingua poetica e prima esegesi della “Commedia”, in Studi linguistici per Luca Serianni, a cura di V. Della Valle & P. Trifone, Roma, Salerno Editrice, pp. 401-419.
Panzini, Alfredo (1932), Guida alla grammatica italiana, Firenze, Bemporad.
Patota, Giuseppe (1996), Introduzione, in Alberti 1996, pp. XI-LXXXVII.
Prandi, Michele (2006), Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, Torino, UTET Università.
Renzi, Lorenzo (1988), Presentazione, in Renzi, Salvi & Cardinaletti 1988, vol. 1º, pp. 9-25.
Renzi, Lorenzo, Salvi, Giampaolo & Cardinaletti, Anna (a cura di) (1988-1995), Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, il Mulino, 3 voll. (2a ed. 2001).
Serianni, Luca (1988), Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria. Suoni, forme, costrutti, con la collaborazione di A. Castelvecchi, Torino, UTET.
Serianni, Luca (2006), Prima lezione di grammatica, Roma - Bari, Laterza.
Simone, Raffaele (1990), Seicento e Settecento, in Storia della linguistica, a cura di G.C. Lepschy, Bologna, il Mulino, vol. 2º, pp. 313-395.
Tavoni, Mirko (1984), Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Padova, Antenore.
Trabalza, Ciro (1908), Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli (rist. anast. Bologna, Forni, 1963).