Regolamentazione e deregolamentazione
1. Precisazioni terminologiche e distinzioni concettuali
Il termine 'regolamentazione', come quello speculare 'deregolamentazione', è fortemente polisenso. Spesso vengono usati promiscuamente con 'regolazione' e 'deregolazione', e soprattutto in anni recenti, con regulation e deregulation. Si rendono perciò necessarie alcune precisazioni terminologiche fondate su delimitazioni concettuali. In primo luogo, 'regolamentare' e 'regolamentazione' (vale a dire, rispettivamente, l'attività e la risultante del porre regole) sono pressoché generalmente riferite alle regole o precetti giuridici, intesi quali proposizioni cogenti volte a condizionare comportamenti umani. In questa accezione latissima la regolamentazione - l'insieme delle regole giuridiche vigenti in un certo ambito spazio-temporale, poste da organismi abilitati a farlo - verrebbe a coincidere con la normazione, che è - come è noto - uno dei tre elementi strutturali comuni a tutti gli ordinamenti giuridici, gli altri due essendo una pluralità di soggetti e l'organizzazione ch'essi si danno.
Nel mondo contemporaneo la funzione di porre regole per gli appartenenti a comunità determinate spetta ancora primariamente, ma non esclusivamente (v. oltre), ai complessi di pubblici poteri costituenti gli Stati o a loro articolazioni (ad esempio regioni, enti locali) ed anche, in misura crescente, ad organismi sovranazionali, su scala continentale (ad esempio l'Unione Europea) o tendenzialmente planetaria (ad esempio la World Trade Organization - WTO). Come sinonimo di normazione il termine regolamentazione è privo di autonomo valore semantico, che va ricercato su un diverso piano logico, muovendo dalla constatazione, di comune esperienza, di un diffuso fenomeno di incremento delle regolamentazioni - delle più diverse fonti e nature - di condotte umane, che caratterizza il mondo contemporaneo. Per rimanere agli ordinamenti statuali, uno dei tratti dominanti degli Stati attuali è che nel loro complesso i pubblici poteri pongono continuamente in essere un numero imponente di regole, che investono sfere sociali ed individuali che in precedenza non erano giuridicamente connotate e disciplinate. L'espansione della regolamentazione coincide in parte, dunque, in un primo, pur ampio, significato, con la tendenza alla giuridificazione, alla penetrazione del diritto in sfere sociali ed individuali, in 'mondi vitali' prima autoregolati o nei quali l'agire era libero, ossia non soggetto alla valutazione giuridica di pubblici poteri, cristallizzata in regole delle più varie specie: di provenienza statale, ma anche sovranazionale o substatale e - quanto alle fonti - tanto legislative, che regolamentari, che contenute in atti amministrativi generali (ad esempio le norme di attuazione di un piano urbanistico). L'espansione quantitativa e l'articolazione tipologico-qualitativa delle regolamentazioni coincide solo in parte, tuttavia, con il fenomeno della giuridificazione, perché riguarda, oltre che ambiti d'attività umane prima non regolamentate, anche campi già oggetto di disciplina giuridica, per i quali vengono dettate regole più aggiornate, per tener conto dell'evoluzione della realtà (ad esempio in campo radiotelevisivo) e, molto spesso, più complicate e pervasive, integrando, sostituendo o modificando le regolamentazioni previgenti.
2. L'espansione delle regolamentazioni come caratteristica degli Stati contemporanei
Il fenomeno dell'incremento delle regolazioni è generalmente ricollegato ad una o più delle caratterzzazioni dominanti degli Stati contemporanei come Stato 'sociale', del 'welfare', 'interventista', 'amministrativo', e - in relazione al mercato - 'regolatore' o 'eterocorrettore' (v. Predieri, 1993) delle disfunzioni del mercato. Gran parte delle locuzioni ora richiamate sono mere sintesi verbali e sono state oggetto di critica puntuale (ad esempio, in Italia, da parte di M.S. Giannini); soprattutto hanno significati assai controversi che variano enormemente nelle diverse situazioni storiche (ad esempio si usa parlare di 'welfare all'italiana', intendendo lo Stato del benessere che ha trovato nel nostro paese un'incarnazione 'spuria' in uno 'Stato assistenziale' disfunzionale). Con tutte le riserve sulla significatività di queste definizioni degli Stati contemporanei è incontestabile il nesso univoco di causalità tra ciascuna e tutte insieme le caratterizzazioni degli odierni Stati - al contempo come 'interventisti', 'sociali', 'assistenziali', 'regolatori', 'amministrativi', ecc. - e l'espandersi delle regolamentazioni, in aree 'inesplorate' o - in un processo di adeguamento ai mutamenti economici, sociali, culturali e di costume - in campi già oggetto di disciplina giuridica. In prospettiva storica, infatti, l'incremento è spiegabile con l'ampliamento delle funzioni di cui sono investiti e s'autoinvestono gli articolati complessi di pubblici poteri che compongono gli Stati, i quali intervengono nella vita economica, assicurano la coesione sociale mediante politiche redistributive, regolative e di tutela, assoggettano a discipline particolari, soprattutto amministrative, i più disparati e quasi impensabili ambiti d'attività umane (ad esempio il volo con i deltaplani). La differenza qualitativa, oltre che quantitativa, rispetto agli Stati 'liberali' del secolo scorso è nettissima, anche prescindendo dagli stereotipi errati (secondo i quali si sarebbe trattato di Stati non interventisti nell'economia).
Gli Stati liberali dettavano norme - oltre che in campo penale - essenzialmente: per regolare i rapporti interprivati (famiglia, proprietà, successioni ereditarie, contratti ed obbligazioni, ecc.), componendo i contesti di regole funzionali al dispiegarsi dei rapporti, civili ed economici, che caratterizzano lo sviluppo della società liberale-borghese; per disciplinare, in tendenziale conformità al principio di legalità, i rapporti tra autorità e libertà, e dunque le forme d'azione e d'organizzazione dei pubblici poteri; per disciplinare l'organizzazione di pubblici servizi, via via che l'organizzazione sociale e l'evoluzione tecnica li richiedevano (ad esempio poste, telegrafi, ferrovie) o che l'ideologia liberale ne postulava la diffusione (ad esempio l'istruzione e la sanità pubblica).
In particolare le istituzioni dell'ingerenza nella vita economica si disponevano su due versanti: a) le discipline di settori, che registrano vicende alterne di affidamento in privativa a privati o di statizzazioni o, dalla fine del secolo XIX, di municipalizzazioni, a seconda della formula volta a volta prevalente; b) le prime normative ed uffici di tutela della sicurezza ed igiene del lavoro. Su ambedue i versanti esse sono la risultante di conflitti economici, ideologici e sociali.
Il mutamento strutturale degli Stati da monoclasse (nel senso che nelle istituzioni erano rappresentati gli interessi della sola borghesia) a pluriclasse, a seguito dell'ampliamento del suffragio elettorale maschile, ha prodotto l'accrescimento delle funzioni richieste al pubblico potere e svolte da amministrazioni e l'espansione delle strutture amministrative, ed ha comportato l'incremento della regolamentazione, soprattutto amministrativa (nel senso che riguarda l'attività di amministrazioni e il controllo di attività private da parte di amministrazioni), ma anche una funzione di mediazione/riequilibrio sociale (la cui attuazione anche è affidata molte volte ad organismi amministrativi). Han preso così corpo le molteplici caratterizzazioni dello Stato contemporaneo richiamate in precedenza.
Ai fini che qui interessano rilevo che queste configurazioni si sommano - per così dire - nel determinare l'incremento della produzione di regole, incanalata fondamentalmente in due direzioni: le norme amministrative e quelle che incidono direttamente sugli equilibri dei rapporti interprivati di rilevanza economica. Le due sfere sono in molti casi intercomunicanti, perché esistono organismi amministrativi - soprattutto agenzie nell'esperienza angloamericana - preposti a vigilare che nei rapporti interprivati non vengano violate le norme poste dai pubblici poteri (per fare due esempi italiani: gli uffici provinciali del lavoro per i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, e la CONSOB, per quanto riguarda la correttezza di comportamento delle società di intermediazione mobiliare nei confronti dei risparmiatori-clienti).In altri casi, ad esempio per quel che riguarda l'applicazione o la violazione della regolamentazione legislativa di contratti di locazione (il cosiddetto 'equo canone'), la soluzione dei conflitti che insorgono tra le parti viene deferita esclusivamente ai giudici civili (mentre nei casi precedenti la tutela o il controllo amministrativo si somma a quello giurisdizionale).
È di immediata evidenza la diversità qualitativa - almeno sul piano logico - tra i tipi di regolazione di rapporti interprivati - di lavoro o di intermediazione finanziaria, per rimanere agli esempi fatti, propri degli Stati contemporanei, e - ad esempio - le normative in tema di società per azioni contenute nei codici di commercio degli Stati liberali. Anche gli Stati contemporanei continuano ad occuparsi della disciplina delle società, naturalmente in modo più sofisticato che in passato (ad esempio regolando le offerte pubbliche d'acquisto), ma in più dettano regole che impongono autoritativamente l'inserimento, in alcuni contratti, di determinate clausole a favore della parte presunta più debole.
Anche le forme tipiche della produzione delle regole nello Stato contemporaneo sovente sono diverse rispetto al passato: in luogo della raccolta in grandi codici (civile, penale, di commercio) si procede, spesso mediante 'novelle', a sostituzioni o integrazioni di parti dei codici vigenti o, ancor più frequentemente, mediante normazioni speciali (tanto che l'attuale è stata definita l''età della decodificazione').
Naturalmente non sempre è agevole tracciare un confine netto tra le due dimensioni: ad esempio, le norme che disciplinano i contratti per adesione (come quelli assicurativi, con le clausole più onerose per l'assicurato tradizionalmente scritte in caratteri microscopici) sono dei perfezionamenti di tipi contrattuali generali o forme di ingerenza pubblica nell'attività contrattuale di imprenditori? (Sulle regolamentazioni dei rapporti interprivati di natura economica si tornerà più specificamente nel cap. 3).
Prima di passare ad analizzare i tratti caratteristici delle regolamentazioni amministrative è indispensabile una puntualizzazione: l'incremento, se non la moltiplicazione, di regolamentazioni amministrative non riguarda solo le attività economiche, ma investe pressoché tutti i campi d'attività umana, molti dei quali non hanno alcuna rilevanza economica o l'hanno solo indirettamente. Dalla circolazione stradale, ai regolamenti universitari per le attività libere degli studenti, ai vecchi circoli aziendali, alle bande musicali cittadine, all'ordinamento delle riserve naturali, al volontariato a favore di tossicodipendenti: tutti questi settori o tipi di attività, così eterogenei, hanno un tratto essenziale in comune: formano oggetto - per qualche aspetto o integralmente - di norme amministrative, le quali comportano quasi sempre l'instaurazione di rapporti amministrativi tra i soggetti che le svolgono ed una autorità od organismo amministrativo. In tutti questi casi il meccanismo logico giuridico che è all'origine della regolamentazione è analogo: un pubblico potere (centrale, regionale o locale), legislativo o amministrativo che sia, che ne abbia l'attribuzione, perviene - autonomamente, ma più spesso su richiesta di interessi organizzati nella società - alla valutazione che lo svolgimento di una data attività può incidere su interessi pubblici, collettivi o sociali, ritenuti meritevoli di tutela attiva. Di conseguenza connota giuridicamente l'attività o un suo segmento, al contempo definendola ed assoggettandone lo svolgimento a regole amministrative. Gli interessi, i tipi di regole che li tutelano e i poteri pubblici che le emanano possono essere del più vario genere.
Iniziamo dagli interessi o, in termini più neutri e più onnicomprensivi, dalle domande sociali che inducono a introdurre o modificare una regolamentazione. Nelle società contemporanee all'origine dell'esigenza di disciplinare con norme amministrative le più disparate attività vi possono essere, volta a volta: situazioni indotte dal progresso tecnologico (ad esempio, nel tempo: dalla radio al monopolio televisivo nazionale, alla globalizzazione delle emissioni); tendenze culturali (ad esempio la necessità di tutelare le città d'arte dal consumo di massa), motivazioni economiche (ad esempio la tutela del risparmio) o sociali (nelle più varie accezioni del termine: dalla tutela del tempo libero alla sicurezza sociale, al diritto alla salute ed all'istruzione, sino alle mode come l'escursionismo estremo); fino alla protezione del pianeta (v. Galbraith, 1958). In tutti questi casi il pubblico potere pone le regole perché riconosce e definisce giuridicamente l'inerenza di un interesse 'generale' allo svolgimento controllato o, in taluni casi, alla inibizione di talune specie d'attività. Le regole sono poste in funzione della tutela di quello che il decisore pubblico - in interazione con gruppi di interesse o autonomamente, nell'esercizio della funzione pubblica assegnatagli dalle leggi - ha ritenuto un interesse pubblico. Ne deriva che se molte volte le regolamentazioni sono insieme la formalizzazione ed uno degli strumenti di policies settoriali, altre volte sono soltanto la formalizzazione di scelte propriamente amministrative, più o meno discrezionali pur nell'ambito d'indirizzi normativi dati.
La struttura od organismo pubblico che pone le regole può essere tanto un legislatore (superstatale, nazionale, di Stato membro di Stato federale, regionale), quanto un'amministrazione, a sua volta nell'esercizio di un potere regolamentare (ad esempio regolamento edilizio), ma anche semplicemente d'una potestà provvedimentale puntuale (ad esempio un piano regolatore generale) o un giudice, poiché - com'è noto - la giurisprudenza integra il tessuto delle regole interpretando quelle vigenti.
Anche le regole possono avere, conseguentemente, la natura più varia: costituzionali, legislative, giurisprudenziali, regolamentari o contenute in altri atti amministrativi o adottate nell'ambito di ordinamenti particolari (come quello sportivo o creditizio); sempre più di frequente si tratta di norme a base o a contenuto tecnico, in relazione alla crescente tecnicità degli oggetti disciplinati (ad esempio le immissioni in atmosfera di sostanze gassose inquinanti). È da rilevare che sovente le normazioni amministrative sono per così dire multidirezionali, in quanto non si limitano a disciplinare comportamenti di privati, ma definiscono l'organizzazione ed i procedimenti di decisione (cioè formalizzano i comportamenti) delle strutture amministrative e talvolta dettano obblighi di natura organizzativa anche a privati (ad esempio quello di costituire, tra i produttori, un consorzio per la raccolta ed il riciclaggio degli imballaggi di plastica). Da quanto s'è venuto dicendo risulta: a) che lo spettro delle regolamentazioni, specie di quelle amministrative, è amplissimo e il loro tessuto sempre più fitto, tanto che esse costituiscono per molti settori una giungla inestricabile di precetti e provocano - come si dirà - reazioni di rigetto; b) che solo in parte le regolamentazioni hanno ad oggetto attività economiche, ma investono, almeno potenzialmente, l'intero novero delle attività umane; c) che proprio in ragione della moltiplicazione delle regolamentazioni gli Stati contemporanei sono essenzialmente Stati regolamentatori d'attività, soprattutto mediante normazioni amministrative, e sono perciò detti Stati amministrativi; d) che, d'altronde, le regolamentazioni incidenti sugli equilibri economici dei rapporti contrattuali interprivati trovano la loro fonte in leggi adottate a tutela di categorie ritenute più deboli (lavoratori, inquilini, consumatori, clienti, risparmiatori). Almeno dall'angolazione dell'espansione delle regolamentazioni lo Stato amministrativo e conformatore-riequilibratore di rapporti interprivati appare come uno degli strumenti dello Stato sociale, assistenziale, del benessere, mediatore, redistributore, ecc. Uno degli strumenti portanti - si badi - perché le diverse policies ordinate a realizzare queste varie, ma complementari, configurazioni quasi sempre 'passano' attraverso la posizione di regole, la creazione di organismi amministrativi per assicurarne l'applicazione, la previsione di meccanismi sanzionatori in caso di inosservanza e di sanzioni positive per favorirne l'osservanza. È così per le politiche tributarie, delle infrastrutture, di ausilio finanziario ad attività imprenditoriali, di promozione della ricerca applicata, ecc.
3. Regolamentazione e regulation
Se da una parte la diffusione di regolamentazioni, le più eterogenee, riguarda potenzialmente tutte le attività, individuali o collettive, che possano presentare un'inerenza ad interessi pubblici, dall'altra è ben vero che la species più rilevante di questo amplissimo genus è costituita dalle regolamentazioni di attività economico-sociali (principalmente imprenditoriali, ma non solo), le quali rappresentano dunque uno degli assi portanti del rapporto tra Stato e mercato.
È in questo ambito che già dal secolo scorso, sono state sperimentate, negli Stati Uniti, forme di regulation di attività imprenditoriali.Il termine, al pari di quello, speculare, 'deregulation', ha avuto - com'è noto - grande fortuna nelle scienze economiche, politologiche e giuridiche, e da lì è passato nel linguaggio direttamente politico - soprattutto negli anni settanta e per contrapposizione - quando i governi conservatori americano e inglese decisero di adottare forti politiche deregolamentatrici.
Non è agevole stabilire quale rapporto sussista tra la regolamentazione come è stata definita nei paragrafi precedenti e la regulation, non solo per gli 'abusi linguistici' del termine in sede extrascientifica, ma anche per la stessa dilatazione e indefinizione del concetto nella letteratura politologica, giuridica ed economica dei vari paesi. Innanzitutto è da precisare che la regulation - intesa in prima approssimazione come controllo duraturo sullo svolgimento di attività economicamente e/o socialmente rilevanti, affidato normativamente ad uno specifico organismo amministrativo tecnicamente competente - è solo uno degli strumenti del cosiddetto Stato regolatore del mercato, il quale - a sua volta - è concettualmente distinto dallo Stato (se non tendenzialmente simmetrico ad esso) in cui il mercato è amministrato da pubblici poteri, in forme sovente alternative alle regulations.
Le regulations traggono origine storicamente - in primo luogo negli Stati Uniti - dalla necessità di correggere le vistose disfunzioni economico-sociali prodotte dal mercato del tutto incontrollato, le failures del mercato (termine grossolanamente tradotto con 'fallimenti del mercato'), le cui manifestazioni sono, da molti decenni, ampiamente analizzate e dibattute: i monopoli naturali e le altre forme di concentrazione monopolistica e oligopolistica; la creazione di rendite di posizione eccessive; le esternalità della produzione e del consumo (vale a dire l'addossamento di costi all'esterno: ad esempio l'inquinamento); le asimmetrie informative, cioè l'incompletezza delle informazioni rese disponibili agli attori operanti sul mercato.Già a cavallo tra Ottocento e Novecento si ebbero negli Stati Uniti interventi correttivi puntuali mediante regulations (soprattutto normazioni settoriali antitrust o riguardanti public utilities), al fine di disciplinare il mercato capitalistico, 'frenetico e selvaggio'. In seguito, con accelerazioni negli anni trenta e negli anni sessanta di questo secolo, le regulations si sono moltiplicate negli Stati Uniti e i modelli giuridici nordamericani si sono diffusi prima in Inghilterra ed infine nell'Europa continentale.Per rimanere alla 'culla' nordamericana si è avuta, in forme via via perfezionate, una vasta istituzionalizzazione, soprattutto a livello federale, dell'affidamento, mediante leggi, ad agenzie regolatrici del compito di osservare le attività degli operatori in molti settori e - mediante comandi e controlli, ma anche negoziazioni informali - di assicurare il più corretto sviluppo del mercato, tutelando al contempo i valori della concorrenza, dell'accesso ai beni o servizi, della formazione di prezzi remunerativi ma non eccessivi, della tutela dei clienti-consumatori.
I settori interessati sono stati moltissimi. Per fare solo qualche esempio: il trasporto merci, l'attività creditizia e finanziaria, la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro, la sicurezza degli autoveicoli, l'associazionismo sindacale, ecc. Le agenzie hanno poteri di adottare regolamentazioni, ma anche funzioni quasi giudiziali, di valutazione di comportamenti e di erogazione di sanzioni, oltre che di adozione di comandi puntuali per singole situazioni, oggetti o imprese. Espressione di queste molteplici forme d'intervento possono essere (v. Majone e La Spina, 1991) la fissazione di standard di prestazioni, la valutazione qualitativa di prodotti o processi (sovente collegata al contenimento di rischi), la disciplina degli obblighi informativi, la proibizione di pratiche anticoncorrenziali, la fissazione di tariffe di servizi, l'aggiudicazione di beni pubblici o utilitates in mano al pubblico potere (ad esempio l'accesso ai servizi forniti da satelliti), e infine - ma di grande rilevanza - il controllo dell'ingresso e della permanenza di nuovi operatori in mercati settoriali particolarmente 'delicati' (ad esempio quello del grano). In ragione del fatto che i diversi settori sono affidati alla cura di agenzie amministrative di tipo tecnico, questa specie di regulation viene denominata administrative regulation. Si può solo accennare al fatto che l'attività di ciascuna regulatory agency si atteggia diversamente, in quanto è chiamata a render funzioni differenziate, a seconda che il settore a essa affidato sia un mercato strutturalmente concorrenziale (ad esempio quello borsistico) o un monopolio naturale, che si crea quando le condizioni della produzione sono dominate da economie di scala, cosicché il criterio dell'efficienza conduce alla concentrazione in una sola impresa (v. Valiani, 1984).
Quali siano, nella produzione industriale di beni e servizi, i servizi a monopolio naturale, è molto discusso dagli economisti, anche perché il progresso tecnologico muta rapidamente le situazioni dei vari settori (si pensi, in Italia, all'energia elettrica, alle telecomunicazioni via cavo, alle ferrovie: in genere i settori per i quali è stata creata una rete nazionale unica da imprese pubbliche).
Con gli anni, alle forme di economic regulation si sono affiancati, moltiplicandosi, anche organismi preposti alle social regulations, che si pongono obiettivi di tipo qualitativo, come l'ottimizzazione di beni e servizi prodotti, la tutela della salute, delle risorse naturali, dell'ambiente. Se alle prime è comune l'obiettivo di assicurare la massima efficienza, correttezza e sviluppo del mercato, correggendone le distorsioni, le seconde sono volte a prevenire o contenere gli effetti negativi, sul contesto sociale e fisico, di esternalità di attività economiche.
È stato rilevato che la social regulation è una strumentazione alternativa a quella seguita in Europa per assicurare utilitates o beni pubblici ai cittadini: lo Stato sociale europeo assicura la produzione di beni e servizi fornendoli ai cittadini; la social regulation tende ad assicurarne l'offerta sul mercato e l'accessibilità. È questa una delle differenze strutturali tra lo Stato regolatore e lo Stato sociale, interventista o dirigista, sulla quale si tornerà nel cap. 4.
L'administrative regulation, intesa quale forma organizzativa sia della economic che della social regulation, rappresenta, nell'esperienza statunitense, l'asse portante dello Stato regolatore, ma ovviamente anche in quel paese ne costituisce solo una parte.
Altri strumenti di regolazione del mercato (intesa, in senso lato, come condizionamento finalizzato dei suoi equilibri e del suo sviluppo) sono costituiti dalle normative che disciplinano settori senza affidarli alla tutela di agencies: dalla politica tributaria (ad esempio per disincentivare produzioni con materiali inquinanti) agli ausili finanziari pubblici (ad esempio per la riconversione di industrie degli armamenti), dalle autorizzazioni alla produzione (ad esempio nel settore chimico) ai contratti di aggiudicazione di servizi o forniture pubblici.
È appena il caso di ricordare che il diffondersi delle regulations è stato un processo contrastato da alcune forze del mercato, ma anche propiziato e suggerito da altre, più pronte a intuire che una nuova regulation di un settore comporta spesso una mutazione e una riconfigurazione del mercato ed offre opportunità alle imprese innovative.
I rapidi richiami che precedono all'esperienza storica delle regulations consentono ora un confronto tra i complessi istituzionali e precettivi in cui esse si sostanziano e la 'galassia' delle regolamentazioni, la cui moltiplicazione - come s'è visto - è una delle caratterizzazioni d'apice degli Stati contemporanei. Le regulations costituiscono una delle configurazioni più importanti e, nonostante la tendenza alla deregulation, più vitali dell'intervento attivo dello 'Stato' (sempre intendendosi la parte per l'intero complesso dei pubblici poteri, sovra e subnazionali) nel mercato.
Le regulations in senso stretto, ossia l'affidamento a organismi tecnici di poteri di dettare precetti agli operatori di un certo settore, al fine di correggere il mercato o di conseguire public goods, sono solo uno dei tipi di regolazione del mercato. Al fine di evitare confusioni linguistiche, si potrebbe convenire di tradurre il termine regulation, intesa nella sua accezione più ampia, con la formula regolazione, fondata su insiemi di precetti, di attività aventi rilievo economico.
4. Lo Stato regolatore e lo Stato dirigista e imprenditore
I richiami all'esperienza statunitense (importata, con adattamenti, in Gran Bretagna) sono utili come base per il confronto con le esperienze europee, continentali ma, in parte, anche inglesi, essendo l'esperienza della Gran Bretagna caratterizzata dalla compresenza anche di istituti dello Stato sociale tipici delle stagioni dei governi socialdemocratici nell'Europa del centro-nord. Per comprendere la funzione e la stessa conformazione delle regolamentazioni e delle varie species delle regolazioni è infatti indispensabile collocarle nei rispettivi contesti istituzionali ed economico-sociali. Utilizzando, per esigenze di schematizzazione, locuzioni già richiamate nelle pagine precedenti al regulatory State degli Stati Uniti si contrappongono, nell'esperienza europea, Stati dirigisti e, al contempo, imprenditori.
Le politiche redistributive e di coesione, in funzione di benessere e riequilibrio (sociale, economico, territoriale), hanno utilizzato e sviluppato due configurazioni strutturali d'apice degli Stati europei continentali: la tendenza al controllo e talvolta alla direzione amministrativa delle attività individuali attraverso potestà autoritative, e l'esercizio - a mezzo di enti o strutture in pubblico comando - di attività economiche, produttive e di gestione.
Nelle analisi comparate si sottolinea solitamente che in luogo delle regulations e delle agencies gli Stati europei continentali (e, in certa misura, la Gran Bretagna a partire dagli anni quaranta) hanno inteso condizionare il mercato mediante un esteso settore pubblico, organizzato in varie forme (enti pubblici, aziende autonome, organi indipendenti di ministeri, società a capitale pubblico statale o locale, municipalizzate, monopoli di Stato), il quale ha operato sia in concorrenza con le imprese private, che in settori ex lege collettivizzati o riservati ab origine alla sfera pubblica. Si suole anche sottolineare l'intreccio tra Stato imprenditore e Stato sociale, in particolare nell'esperienza italiana (con le teorizzazioni sull'economia mista, sul ruolo promozionale dello sviluppo economico, svolto dalle imprese pubbliche, sulla necessità di controllare determinati settori economici per fini di utilità sociale). Si sottolinea anche che negli anni più recenti è emersa la tendenza a sostituire, sotto l'urgenza di tagliare la spesa pubblica, regulations qualitative (volte a stimolare la concorrenza privata e l'ottimizzazione dell'offerta nella prestazione dei servizi) alle politiche sociali tradizionali (con un esempio d'attualità: la promozione di fondi pensione privati, sotto la vigilanza di un'autorità indipendente, come alternativa parziale alle pensioni pubbliche, la cui riforma è resa inevitabile dall'insostenibilità finanziaria del loro costo, soprattutto in prospettiva).
Queste analisi, convincenti sul versante della comparazione/contrapposizione tra Stato regolatore e Stato imprenditore, non danno conto - tuttavia - dell'altro carattere essenziale, quello dirigista, degli Stati continentali, del quale le numerosissime regolamentazioni costituiscono le nervature. Occorre dunque riprendere il discorso dalla moltiplicazione (spesso richiesta da segmenti di società) delle funzioni prestate dalle amministrazioni nelle società industriali occidentali. Per organizzare queste funzioni gli Stati europei continentali hanno utilizzato i materiali giuridici che avevano a disposizione, quelli del diritto amministrativo, formatosi nei secoli precedenti con una forte connotazione autoritativa: a fronte della potestà pubblica di provvedere c'è la soggezione del cittadino, che ha solo l'interesse legittimo o il diritto alla correttezza dell'esercizio della funzione amministrativa. Le attività dei privati che divengono oggetto di regolamentazione sono subordinate ad autorizzazioni (ad esempio la licenza di commercio), concessioni (ad esempio delle autolinee), permessi (per la sosta degli ambulanti), nulla osta (ad esempio paesistici), ammissioni all'esercizio di professioni, accertamenti preventivi di regolarità, sicurezza, ecc. Lo strumentario dell'ingerenza s'è affinato con gli anni: utilizzando meccanismi introdotti con le 'leggi di guerra' durante i due conflitti mondiali, per il controllo della produzione bellica e per il razionamento alimentare, si sono diffusi i controlli sullo svolgimento di attività e sulla produzione e sulla circolazione di beni.
Il dirigismo amministrativo (in Italia a partire dagli anni trenta) ha sfruttato gli istituti tradizionali e quelli 'bellici' per configurare nuovi poteri d'ingerenza sulla proprietà e sull'impresa: le pianificazioni di settore, la sottoposizione di intere attività a direzione amministrativa (sino a funzionalizzare le scelte imprenditoriali agli indirizzi di Ministeri o di Enti), la conformazione di diritti o facoltà privati. Si sono così avuti, per fare qualche esempio: la pianificazione urbanistica, poi seguita da moltissime altre; il contingentamento degli sportelli bancari e la sottoposizione dell'intera attività bancaria ad indirizzi 'individualizzati' della Banca d'Italia; la determinazione autoritativa di prezzi di moltissime merci; la conformazione della proprietà agraria, obbligata a realizzare trasformazioni colturali, e della proprietà edilizia (si può costruire se, dove, quanto e come prevede il piano regolatore). Molte di queste regolamentazioni di settore, incentrate su provvedimenti amministrativi autoritativi, riguardavano e riguardano attività economiche, condizionando pesantemente l'assetto d'interi settori: si pensi alla circolazione di merci particolari (ad esempio, medicinali), agli esercizi commerciali, ai trasporti, al mercato del lavoro, al commercio internazionale (soltanto di recente liberalizzato), all'edilizia residenziale. In molti altri casi le attività disciplinate non hanno precipua rilevanza economica. In tutti i casi di attività regolamentata il cittadino o l'ente interessato sono costretti a entrare in rapporto amministrativo con l''ufficio competente', attivando un procedimento amministrativo ed attendendone la decisione, che può assumere, come s'è visto, le forme più varie.
Poiché moltissimi sono gli interessi pubblici tutelati mediante le regolamentazioni, ognuno affidato a un'amministrazione (spesso di livello diverso: statale, regionale, locale, di ente autonomo), accade spesso che un'attività complessa - ad esempio l'insediamento di un'industria chimica - comporti il rilascio di una serie di provvedimenti autorizzatori: di conformità urbanistica, di sicurezza degli impianti, di efficacia dei dispositivi anti-rumore, di idoneità dei filtri dei fumi immessi in atmosfera, ecc. Si hanno, quindi, dei fasci di procedimenti, a cascata o intrecciati, che nel loro complesso rendono l'impresa simile ad un Gulliver irretito dai mille, resistentissimi, fili dei Lillipuziani. Altrettanto accade per quel che riguarda la prestazione di servizi personali, la cui erogazione è subordinata al superamento di 'percorsi di guerra' burocratici pieni di insidie.Va osservato che se finora, per utilità di schematizzazione, si è contrapposta la situazione di base dei paesi 'a diritto amministrativo' a quella dei paesi di common law, nella seconda metà di questo secolo s'è avuto un progressivo avvicinamento tra le due situazioni di partenza: da un lato - nei paesi anglosassoni - per la moltiplicazione di regolamentazioni e di organismi preposti, anche non configurabili come regulations; dall'altro - nell'Europa continentale - per l'emergere di tendenze ad attenuare il carattere autoritativo degli ordinamenti amministrativi e per l'adozione di regulations di derivazione americana (ad esempio: Autorità antitrust).Alla seconda tendenza si accennerà nel cap. 5; viceversa l''amministrativizzazione' anche degli ordinamenti statunitense e inglese ha comportato un tendenziale riallineamento di situazioni, soprattutto per quel che riguarda l'analogia di effetti di saturazione nei confronti dell'eccesso di regolamentazioni che si verificano sia nella società civile che nella 'società economica'.
5. Deregolamentazioni, deregulations e neoregolazioni
In quest'ultimo quarto di secolo una serie di fattori eterogenei ma convergenti concorre ad indurre gli Stati a ritrarsi dalla ingerenza nella società civile e dall'interventismo nel mercato. Sono fattori, al contempo, culturali e politici (sintetizzabili nell'espressione 'ondate liberiste'), economici e sociali (sintetizzabili nella formula, pur abusata, di crisi degli Stati sociali).
In estrema sintesi si può ricordare che, in momenti diversi, nei paesi più industrializzati le politiche espansive, volte a sostenere la domanda sociale, e redistributive, sviluppate dagli anni trenta agli anni sessanta sono state percepite da un crescente numero di cittadini-contribuenti come insopportabilmente onerose (in termini di prelievi fiscali per finanziare il deficit pubblico e di costi degli apparati burocratici che le gestiscono).
È così iniziato il declino, negli Stati Uniti, dell'egemonia del riformismo democratico e in Europa di quello che Dahrendorf ha chiamato il 'secolo socialdemocratico'.
Tra gli anni sessanta e settanta in molti paesi s'è avuto l'avvento al governo di partiti neoconservatori a forte coloritura populista ed antiburocratica (Stati Uniti e Gran Bretagna) o di coalizioni moderate (Repubblica Federale Tedesca e Francia) che hanno aggredito, più o meno decisamente, le impalcature dello Stato imprenditore e sociale-assistenziale, ridimensionato l'influenza dei sindacati, avviato misure deregolamentatrici, più o meno accentuate.
Delle spinte e tendenze al ritrarsi dei pubblici poteri costituiscono effetti rilevanti sia la deregolamentazione che la deregolazione. Al fine di evitare errori di prospettiva è da sottolineare che le deregolamentazioni e deregolazioni non investono le strutture portanti (gli equilibri costituzionali), né la funzione principale di osmosi/riequilibrio tra le forze sociali e le 'funzioni presidio' (tesoro, esteri, difesa, ordine pubblico, finanze) degli Stati contemporanei, ma solo una delle espressioni del potere pubblico, quella precettiva.
È, infine, da rilevare che i fenomeni di deregolamentazione sono appena agli inizi e l'opera di destrutturazione delle enormi concrezioni di normazioni di tutti i tipi si presenta quasi disperata, perché alla riduzione delle regole fa riscontro una loro simmetrica, continua proliferazione. Si tratta comunque di fenomeni di grande rilievo, che traggono origine da più aggregati di fattori. In primo luogo vi è la crescente insofferenza dei cittadini, sulle due sponde dell'Atlantico, verso l'infinita congerie di regole che, con mille reticoli, ingabbiano il 'respiro vitale' della società civile e delle imprese. Di qui le spinte alla 'sburocratizzazione' (o meglio, alla 'deamministrativizzazione') e finanche alla degiuridificazione.
Nelle richieste di deregolamentazione sono compresenti più motivazioni: alla protesta verso burocratismi ingiustificabili si somma quella verso l'inefficienza degli apparati pubblici nella produzione sia di decisioni amministrative, sia di servizi pubblici. Gli scienziati dell'amministrazione negano - giustamente - che tra iper-regolamentazione, burocratismo e inefficienza vi sia un continuum unilineare, ma questa è la percezione generalizzata nelle società postindustriali, in particolare nelle regioni più ricche e vitali (ad esempio, in Europa, la Baviera, la Lombardia, la Catalogna). Alle spinte della società si sommano quelle dei decisori politici, sia in accoglimento degli inputs sociali, sia per l'esigenza di contenere la spesa pubblica, riducendo il costo delle pubbliche amministrazioni. Di quest'ultima policy le deregolamentazioni sono solo un filone, accanto - ad esempio - alla riforma del pubblico impiego, al monitoraggio sulle spese, all'introduzione di meccanismi di analisi costi-benefici. Sotto questo profilo la deregolamentazione è doppiamente strumentale: direttamente alla riduzione di attività superflue, prima prestate da amministrazioni, al fine di diminuire o, più realisticamente, redistribuire il personale; indirettamente al recupero di efficienza: meno regole ma migliori; controllare meno per controllare meglio (anche perché non si riesce a controllare tutto).
Le tecniche giuridiche per attuare la deregolamentazione sono diverse. Si va da quelle volte a render più agevolmente mutabili le regole, come la delegificazione (che, in sé, comporta solo la dislocazione del potere precettivo dal parlamento alle amministrazioni); alla revisione e 'disboscamento' delle regolamentazioni di settore (ad esempio mediante testi unici); alle parziali liberalizzazioni di attività economiche; alla concentrazione dei molteplici procedimenti amministrativi nelle mani di uno 'sportello unico'; al riconoscimento a forme di autoregolamentazioni di un ruolo sostitutivo o integrativo di norme pubbliche (ad esempio il codice etico delle fondazioni di volontariato), secondo una concezione di sussidiarietà della normazione pubblica, alla quale si deve ricorrere solo quando occorra integrare l'autonomia dei gruppi sociali. Le iniziative di deregolamentazione corrono in parallelo ad altri processi di trasformazione dell'amministrazione, come la riduzione dell'area delle decisioni autoritative, mediante provvedimenti unilaterali, e la progressiva e simmetrica estensione dei moduli consensuali o convenzionali, mediante i quali le decisioni pubbliche vengono negoziate e concordate con i cittadini, secondo procedure formalizzate, che si concludono con atti bilaterali o plurilaterali - accordi, convenzioni, contratti - sostitutivi dei provvedimenti. L'amministrare per contratti o per accordi o patti politici s'è diffuso con varie configurazioni: contratti ordinari ad oggetti particolari nell'esperienza angloamericana; contracts administratifs in Francia; contratti di diritto pubblico sostitutivi di provvedimento in Germania e contratti ed accordi sostitutivi in Italia. Il secondo aggregato di fattori riguarda più specificamente le regolazioni (in senso ampio) d'attività di rilevanza economica.
Alle teorie sulle disfunzioni del mercato hanno fatto da contrappasso, negli anni recenti, gli studi sulle disfunzioni delle regulations. Naturalmente diversi sono nel contesto angloamericano e in quello europeo continentale (ma anche inglese, per le imprese pubbliche) i punti focali delle critiche, che nel primo caso riguardano soprattutto le regulations e nel secondo lo Stato imprenditore e dirigista. Soprattutto le economic regulations sono accusate: di disincentivare l'efficienza, uniformando i comportamenti ammessi (ad esempio in tema di tariffe) e riducendo la concorrenzialità tra operatori; di adottare prescrizioni conformative eccessivamente vincolanti e costose, di scoraggiare l'ingresso sul mercato di nuovi operatori, anche perché le imprese preesistenti possono influenzare i regulators.
L'ondata neoliberista ha investito parzialmente anche le social regulations, data l'insostenibilità dei costi imposti alle imprese (specie in materia d'ambiente e sicurezza), ma negli anni settanta-ottanta le politiche deregolatrici adottate negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna hanno riguardato soprattutto le economic regulations. Con effetti assai controversi: alcuni sottolineano la vivacizzazione dei mercati, altri i contraccolpi negativi in termini di attenuazioni di controlli doverosi (ad esempio quelli sulla sicurezza nel trasporto aereo).
In Europa - parallelamente - s'è posta mano alle deregolazioni, intese come riduzione e rimodulazione delle regole, al fine di liberalizzare (anche sotto la spinta dei principî comunitari di concorrenza e libertà di stabilimento) le attività private. La deregolazione di attività economiche come strumento di liberalizzazione del mercato ha una duplice configurazione: da un lato può essere un insieme di misure volte a rendere più libero lo svolgimento di attività già aperte a tutti (ad esempio l'idraulico), e allora è concettualmente riconducibile al più ampio filone delle deregolamentazioni; dall'altro può essere costituita da misure o decisioni volte all'apertura di settori 'chiusi' (ad esempio l'eliminazione dei monopoli legali delle compagnie aeree 'di bandiera').
Il terzo aggregato di fattori, che ha determinato la rinuncia dello Stato al ruolo di imprenditore e prestatore di servizi pubblici, è il sovraccarico finanziario e organizzativo che si è determinato nella seconda metà del Novecento. L'obbligata revisione radicale degli Stati assistenziali (più che degli Stati sociali) impone di alleggerire i pubblici poteri di costi, funzioni, strutture attraverso la dismissione di imprese e servizi. Le dismissioni di attività imprenditoriali o di prestazioni di servizi avvengono mediante decisioni politiche di natura organizzatoria, in quanto comportano in tutti i casi una loro diversa struttura giuridica. Naturalmente le forme delle riorganizzazioni mutano a seconda della struttura iniziale. Le sequenze giuridiche sono - dunque - variabili e a volte complesse: vi sono in primo luogo privatizzazioni dirette, mediante la cessione della maggioranza o della totalità delle azioni o quote di società pubbliche - statali (ad esempio bancarie), regionali o locali (ad esempio municipalizzate) - e privatizzazioni 'a doppio stadio', che hanno visto prima la trasformazione di enti pubblici economici (in Italia l'IRI, l'ENI, l'ENEL e le Ferrovie) in società per azioni a capitale pubblico e solo successivamente la cessione dei pacchetti azionari. Le privatizzazioni - quale che sia la loro forma giuridica - comportano in tutti i casi il problema della procedura con cui individuare e scegliere gli acquirenti dei diritti, azioni o assets pubblici.In alcuni casi presentano poi ulteriori problemi.
L'individuazione e la scelta degli acquirenti avviene attraverso una procedura intessuta, al contempo, di valutazioni lato sensu politiche e tecnico-finanziarie: da un lato sono le autorità politiche che, almeno nei casi più rilevanti, scegliendo come vendere prefigurano anche, almeno inizialmente, l'assetto futuro della società privatizzata (ad esempio puntando su un nucleo stabile di azionisti o sull'azionariato diffuso); dall'altro viene compiuta una valutazione, in genere affidata ad advisors specializzati, sui progetti di sviluppo aziendale e sulla qualità economico-finanziaria delle offerte.Secondo ordine di problematiche: vi sono dei casi nei quali, per motivi strategici o economici, i governi intendono mantenere una qualche forma di influenza o condizionamento sulle società privatizzate (ad esempio se si tratta di imprese militari, di telecomunicazioni, produttrici di energia, creditizie). A questo fine vengono utilizzati svariati meccanismi giuridici, che comunque configurano società di diritto speciale (ossia con una disciplina diversa da quella comune): si va dalla golden share (mantenimento di partecipazioni azionarie, anche simboliche, cui è attribuito un potere condizionante sulle opzioni strategiche), alla riserva della nomina di alcuni amministratori, alla subordinazione dell'ingresso di nuovi azionisti, con partecipazioni eccedenti una certa soglia, ad un'approvazione governativa. I regimi delle società di diritto speciale, oltre a renderle meno appetibili agli investitori privati, rischiano di entrare in collisione con le regole comunitarie sulla concorrenza e sulla circolazione dei capitali, ma - nondimeno - sono presenti in molti paesi (Gran Bretagna, Francia, Italia).
Un terzo e più complesso ordine di problemi si pone nel caso di privatizzazioni di società operanti nel campo dei servizi pubblici e/o in un regime di monopolio di diritto o di fatto. A questo riguardo - mentre si rinvia alla voce Monopolio e politiche antimonopolistiche - ci limiteremo a ricordare che la privatizzazione s'intreccia con altri due problemi: quello di assicurare che al monopolio pubblico non se ne sostituisca uno privato (si tratta, quindi, di organizzare la creazione del mercato, prima inesistente) e quello di garantire la qualità dei servizi pubblici prestati dai privati subentrati nella gestione. A ciò si provvede mediante neoregolazioni, vale a dire sostituendo alle preesistenti normative organizzatorie delle imprese pubbliche (ad esempio, in Italia, in tema di partecipazioni statali o di municipalizzate) nuove discipline, sia organizzatorie dei soggetti (ad esempio prevedendo che i servizi locali siano affidati a società miste, a partecipazione maggioritaria privata), che di architettura di settore, con l'istituzione di autorità indipendenti (independent regulatory agencies) preposte all'adozione delle regole di comportamento per le imprese dell'intero settore (ad esempio la produzione di gas), al controllo dei comportamenti, all'adjudication (decisioni quasi giurisdizionali) dei conflitti tra imprese o con gli utenti.
Va osservato che alle tendenze alla privatizzazione fanno riscontro le tendenze, speculari, ad affidare ab origine attività di interesse pubblico in settori di nuova disciplina (ad esempio il riciclaggio degli imballaggi), non a uffici, ministeriali o locali, o ad agenzie statali o aziende municipali, ma a organismi associativi tra privati - costituiti obbligatoriamente o volontariamente (ma incentivati da misure fiscali a carico dei 'renitenti'). Leggi amministrative di settore prevedono, così, la creazione di enti privati di interesse pubblico, i quali hanno natura privatistica e struttura associativa, ma, in ossequio al principio di sussidiarietà, svolgono compiti che i pubblici poteri non ritengono più di doversi assumere direttamente, come rileva l'enciclica Centesimus annus. (V. anche Amministrazione pubblica; Diritto ed economia; Liberismo; Politica economica e finanziaria; Privatizzazioni).
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