Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il recupero della musica antica e le esecuzioni storicamente "avvedute" dei repertori che giungono fino a Bach si sono sviluppati soprattutto a partire dagli anni Trenta e sono oggi considerabili come parte integrante della nostra contemporaneità musicale. Il sistema della musica antica non solo ha accresciuto enormemente le conoscenze del repertorio, ma ha stimolato nuove modalità esecutive e d’ascolto. La musica preclassica è attualmente una tra le “altre musiche” più vitali.
Per una convenzione sostanzialmente accettabile, il confine tra la “musica antica” e l’altra (ovvero il mainstream classico-romantico che domina il sistema produttivo della musica colta) si colloca intorno al 1750, l’anno della morte di Bach.
Benché la morte di un compositore, pur grande, non possa determinare di per sé alcuna articolazione storica, il medio Settecento appare come un limes la cui entità risulta ben chiara allo stesso mondo musicale coevo, cosciente di certa “modernità” antibarocca dei nuovi stili galante e sentimentale, che vanno aprendo la strada all’imminente comparsa, con Haydn e Mozart, del linguaggio che poi sarebbe stato definito come “classicismo viennese”. Su questo crinale si colloca la principale soluzione di continuità nella storia della musica d’arte europea. La tradizione esecutiva di Mozart, insomma, ci è giunta senza sostanziali soluzioni di continuità, benché, ovviamente, tramite un complesso percorso di ricezione. La tradizione bachiana, invece – con quella vivaldiana e per non dire di quelle corelliana, monteverdiana o palestriniana – dovette passare attraverso un recupero. Capitale fu quello, ben noto, che ebbe come patron il berlinese Carl Friedrich Zelter, auspice della “prima in tempi moderni” della Passione secondo Matteo, diretta dal suo allievo ventenne Felix Mendelssohn nel 1829. E molti altri recuperi di Bach, e per estensione della musica preclassica, si sarebbero avuti: fondamentale, anche per il rapporto con il sistema discografico di cui si dirà, è la Bach-Renaissance fiorita intorno al bicentenario della morte, nel 1950, compagna di strada della Vivaldi-Renaissance.
Dopo la svolta di medio Settecento, nascerà in Inghilterra, a fine secolo, una Academy of Ancient Music; nei primi decenni del Novecento, l’età delle più varie reazioni al postromanticismo (neoantiche, razionaliste, dadaiste o dodecafoniche), si incontrano figure decisive del recupero quali Wanda Landowska, Arnold Dolmetsch e Albert Schweitzer, il “medico della foresta”, organista e bachiano di ferro; nell’ultimo dopoguerra, il vastissimo movimento di rinascita bachiana e vivaldiana coincide di fatto con l’età d’oro della ricerca linguistica delle avanguardie. Per molti aspetti, si potrebbe ipotizzare che queste "fasi acute" del recupero dell’antico abbiano qualche cosa a che vedere con una coscienza della modernità, se non addirittura con una larvata reazione al mainstream classico-romantico. Ovvero, una delle possibili "reazioni" al consolidato, autoreferenziale e reiterativo, consolatorio consumo del repertorio che si potrebbe definire “generalista”. Quel repertorio, in altre parole, che nelle stagioni istituzionali, pubbliche e private, a partire dai primi decenni del Novecento fino a oggi, ha accolto sotto il medesimo ombrello la produzione haydniana e quella mahleriana, o un arco che muove da Mozart a Brahms, tendendo a escludere tutto quanto è avvenuto prima, da un lato, e, dall’altro, tutta la produzione musicale "di rottura" da Schönberg in poi, sentita come un inaccettabile rifiuto di canoni estetici considerati universalmente validi e indiscutibili.
Se questa ipotesi di "reattiva modernità dell’antico", sulla quale torneremo, rischia di risultare azzardata, di certo non lo è quella di attribuire alle necessità e ai modi operativi del mercato – in primis discografico – un ruolo centrale nella definitiva acquisizione della early music al novero delle nostre “contemporaneità”.
Lo sviluppo progressivo dell’interesse nei confronti della “Historically Informed Performance” della musica medievale, rinascimentale e barocca è legato in misura assai maggiore alle definizioni e alle volontà del mercato piuttosto che all’incremento quantitativo e qualitativo, pure straordinario, della ricerca filologica e storica.
L’industria discografica decide di occuparsi di questi repertori a partire dagli anni Trenta. Nascono, allora, le Éditions de l’Oiseau Lyre, presto trasformate in Ancient Music Division di una potentissima major, la Decca. Analogamente, ma nel dopoguerra e mettendo a profitto il bicentenario bachiano, l’altra etichetta discografica padrona del mercato colto, la Deutsche Grammophon Gesellschaft, si dota di una collana specializzata, denominata Archiv e dotata per lungo tempo di un look assai austero con un progetto letteralmente “scientifico”: quello di antologizzare sistematicamente la storia musicale. Telefunken, che rifonde quell’esperienza nella Teldec, risponde con la rigorosa collana Das alte Werk. Le definizioni che tradizionalmente hanno avuto magna pars nella diffusione di questi repertori appaiono perfettamente funzionali al mercato, prima fra tutte l’etichetta “con strumenti originali”, collocata spesso come attrattiva fascetta indicante un valore aggiunto e il segno di una specifica “autenticità” che oggi, piuttosto, farebbe venire alla mente la ben visibile dicitura “veri musicisti veneziani” collocata al piede di tanti manifesti nelle calli lagunari affollate di turisti.
Negli anni Sessanta e Settanta mette le radici il vero e proprio sistema della musica antica. Si struttura, e poi si consoliderà alquanto, anche una partizione interna ben chiara tra la early music propriamente detta e la cosiddetta “musica barocca”: il 1600 (affermazione della pratica del basso continuo e nascita dell’opera) è grosso modo l’altro confine che organizzerà la conoscenza e il consumo di queste musiche.
Fino ai tardi Settanta la questione dell’“autenticità” è assolutamente primaria. Nella sua (datata) Introduzione alla sociologia della musica, Theodor W. Adorno identifica l’appassionato di musica preclassica nel modello dell’“ascoltatore risentito”, modello che trova come sottospecie il “fanatico del jazz”. Tutto sommato, questa definizione, per altri motivi inaccettabile, rende abbastanza bene i tratti principali dell’aficionado dell’antico di allora: disprezzo reciproco tra lui e il cultore di Chopin, separazione pressoché assoluta di stili, luoghi, divi, strumenti e quant’altro.
Il mondo dell’antico però matura, prende coscienza di sé e aggiusta il tiro: gli anni Ottanta sono l’epoca di doverosi e laceranti ripensamenti sulle consuetudini della musica, interpretata secondo rigorosa competenza della “prassi esecutiva”. Gradualmente, quello dell’“autenticità” appare sempre più come un feticcio.
È in questa fase, a partire dai tardi anni Ottanta, che anche gli interpreti italiani prendono a farsi valere sul mercato internazionale: un risultato sarà quello di non ritenere più “autentico” il madrigale cinquecentesco pronunciato da cantori britannici con la “r” arrotata e l’inserzione aleatoria di doppie consonanti, bensì di “scoprire” la bellezza di una “pronuncia” musicale modellata su quella del testo poetico. Soprattutto a partire dai primi anni Novanta, l’adesione fideistica alla “lettera” del testo musicale, pure osservata, lascia spazio alla nuova centralità dell’interprete, che guadagna una rilevante libertà con notevole vantaggio dell’espressività e della comunicazione con il pubblico. Mentre, poniamo, Le quattro stagioni vivaldiane vengono eseguite nei Settanta con qualche compiaciuta e inesorabile asprezza (la cosiddetta esecuzione “come al tempo di Vivaldi”, spesso anche poco intonata), oggi le troviamo interpretate con amplissimo respiro e varietà coloristica, se non, talora, con licenze prima impensabili. L’obiettivo è insomma divenuto quello di eseguire, tout court e possibilmente nel miglior modo possibile, Le quattro stagioni, non tanto di eseguirle “come al tempo di Vivaldi”, visto che non sappiamo affatto come le si eseguisse allora e che, se lo sapessimo, probabilmente ne saremmo piuttosto disgustati.
Uscendo dal suo hortus conclusus, il mondo della musica antica allarga la propria influenza. Ha rilievo anche la progressiva espansione delle letture coscienti della storia verso il mainstream classico-romantico: uno dei maggiori direttori di oggi, John Eliot Gardiner, fonda nel 1990 l’Orchestre révolutionnaire et romantique, destinata a eseguire Beethoven o Berlioz per spingersi fino agli albori del Novecento. Analogamente, Christopher Hogwood nasce clavicembalista e finisce interprete delle Sinfonie beethoveniane, Nikolaus Harnoncourt è prima tra i pionieri dell’antico e poi, da lungo tempo, un direttore apprezzatissimo in vasti repertori alla guida delle grandi orchestre di Amsterdam e di Vienna. L’osmosi tra le attenzioni degli “antichi” per qualità del suono, fraseggio e assetto retorico e gli interpreti del mainstream classico-romantico conduce a esiti interessanti come quelli del pianista ungherese András Schiff, le cui letture della viennesità d’inizio Ottocento appaiono assai innovative nel momento in cui mettono a profitto un’immagine sonora assai lontana da quella convenzionalmente legata al pianoforte Steinway gran coda.
La compunzione un po’ stizzita dei sacerdoti dell’antico e del barocco anni Settanta dà spazio oggi al contesto forse più vitale nell’ambito del sistema della musica colta. Nella gravissima crisi vissuta a partire dai tardi Novanta dalla discografia di settore, brillano per tenuta, pur tra le difficoltà generali, le etichette specializzate nei repertori medievale, rinascimentale e barocco. In Italia, ma in misura assai maggiore altrove, come in Francia, godono buona e ottima salute complessi specializzati, scuole e soprattutto festival destinati a target alti di grande interesse. Rispetto a quello del mainstream concertistico e operistico, il pubblico della musica antica è assai più giovane ed è più colto.
In Italia, Paese che soffre una storica latitanza della musica (intesa da noi come ars pertinente allo spettacolo) dal novero della cultura, l’interesse oggi molto alto per la musica antica contribuisce in parte al riassetto degli equilibri. Per qualche aspetto, questo sistema produttivo – di cui il pubblico è naturalmente parte integrante – ha sostituito con vantaggio quello che dai tardi anni Cinquanta ai primi Ottanta ha retto le sorti della musica contemporanea di origine accademica.