Castellani, Renato
Regista cinematografico e sceneggiatore, nato a Varigotti (Savona) il 4 settembre 1913 e morto a Roma il 28 dicembre 1985. Il senso esatto della forma, il gusto elegante e preciso nella descrizione degli ambienti e nella concezione della compagine visiva sono state le prime caratteristiche della sua cifra cinematografica. Ma non meno importante fu il suo ruolo in quel periodo di transizione del cinema italiano che vide sfumare le istanze del Neorealismo nei caratteri della commedia all'italiana. C. è stato figura chiave di questa fase di passaggio, forte di una predilezione compositiva, colta e formalistica, che lo aveva visto, agli inizi degli anni Quaranta, giovane esponente (con Mario Soldati e Ferdinando Maria Poggioli, Luigi Chiarini e Alberto Lattuada) della scuola cinematografica cosiddetta calligrafica. Quanto fosse significativa la doppia vena di C., di levità bozzettistica e di preziosità visiva, venne confermato dai due importanti riconoscimenti ai suoi film più rappresentativi in tal senso: nel 1952 la Palma d'oro al Festival di Cannes per Due soldi di speranza e nel 1954 il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia per Giulietta e Romeo. Il nonno Federico era stato un pioniere della fotografia e il padre Livio, emigrato con la famiglia in Argentina, aveva aperto uno studio fotografico. C. trascorse quindi l'infanzia in America Latina, per poi ritornare in Italia e proseguire gli studi prima a Genova, poi a Milano, dove studiò architettura al Politecnico. Spettatore appassionato di cinema, a Milano C. cominciò a occuparsene attivamente dopo alcune trasmissioni radiofoniche realizzate all'inizio degli anni Trenta e concepite come veri e propri film sonori, con una tecnica da lui definita suonomontaggio. La curiosità suscitata da queste esperienze lo condusse alla nomina di capo della sezione cinematografica della Gioventù universitaria fascista (GUF), e da qui a un interessamento per la salvaguardia del patrimonio cinematografico, un'attività che avrebbe dato vita poi alla Cineteca italiana. Partito nel 1935 per la guerra d'Africa, C. fu coinvolto come ufficiale assistente nelle riprese in esterni di Il grande appello (1936) di Mario Camerini, esempio di film di propaganda colonialista. Trasferitosi a Roma con l'intento di fare del cinema, C. incontrò Soldati, L. Solaroli, C. Pavolini, M. Pannunzio assieme ai quali cominciò un apprendistato di sceneggiatore che lo fece collaborare con registi quali Augusto Genina, Alessandro Blasetti, e ancora Camerini. Con Soldati C. scrisse soggetti e sceneggiature (la prima stesura di Castelli in aria, 1939, di Genina, Il documento, 1939, e Una romantica avventura, 1940, entrambi di Camerini). Accanto a Camerini, per il quale fu anche aiuto regista, C. si allenò al gusto del racconto, tra favola e commedia, e alla descrizione puntuale di ambienti e di classi (la piccola borghesia, l'aristocrazia). Con Blasetti C. collaborò, da sceneggiatore, alla realizzazione di tre film significativi per le sue successive ricostruzioni fantastiche e pittoriche di periodi storici: Un'avventura di Salvator Rosa (1939) che nasceva da un'idea dello stesso C., La corona di ferro (1941) e La cena delle beffe (1942). Nel 1941 C. propose alla Lux un film di cui gli fu affidata la regia, Un colpo di pistola (1942), dove si manifestò la capacità di tenere insieme la tensione narrativa del melodramma storico, appresa con Blasetti, e il senso formale della 'pittura d'ambiente', un gusto ellittico e impressionista, appreso con Camerini. Ma già in questo primo film, tratto da un racconto di A.S. Puškin, C. elaborò una simmetria formale che incornicia la vicenda dei due amici innamorati della stessa donna e di un duello protrattosi nel tempo, in un tessuto visivo e luministico, in una figuratività che inerisce al ritmo e al trattamento temporale del racconto. Il periodo dal 1941 al 1943 segnò per C. un percorso formalista, un'elegante tessitura tra costruzione drammaturgica e disegno d'ambiente. Questa raffinatezza 'calligrafica' fu oggetto di attacchi da parte dei giovani critici che si apprestavano a inaugurare da registi il Neorealismo. Il cinema di C., divenuto ancora più rarefatto, manifestava al contempo una volontà di analisi di psicologie e sentimenti, e delle loro sfumature, che si dispiegò nei film successivi: Zazà (1944) ritratto di una canzonettista impreziosito da uno stile barocco e La donna della montagna (1944) melodramma psicologico rimasto incompiuto. Dopo l'armistizio (8 sett. 1943) C. si sottrasse al trasferimento forzato a Venezia di molti esponenti del cinema italiano da parte della Repubblica sociale italiana e si nascose nella Casa generalizia dei gesuiti, con altri rifugiati tra cui Silvio d'Amico: da questa esperienza sarebbe nato nel 1944 il soggetto non realizzato di Il pensionante, prima suggestione neorealista del suo cinema. Ma C. avrebbe ripreso a fare cinema solo nel 1946 con Mio figlio professore, dai toni crepuscolari e gozzaniani, in cui un bidello persegue per il figlio un futuro di insegnante a costo di umiliazioni e compromessi. Con questo film C. immerse lo spaccato storico di una 'Italietta' piccolo borghese tra le due guerre, con venature di critica sociale, in una dimensione in cui il patetico si riscatta sempre nella nitidezza della parabola. Negli anni del dopoguerra C. si cimentò anche come regista teatrale. Tra il 1948 e il 1951 C. costruì il suo originale contributo al Neorealismo con una sorta di trilogia della 'povera gente'. Il primo dei tre film, Sotto il sole di Roma (1948), scritto con Sergio Amidei, è la storia della fine di un'adolescenza, il quadro di una gioventù senza pensieri e dalle tasche vuote nelle strade della Roma occupata e poi liberata. Il secondo film, È primavera (1950), scritto con Suso Cecchi d'Amico e Cesare Zavattini, permise a C. di percorrere l'Italia, già allora divisa tra mentalità 'nordista' e 'sudista', attraverso i casi da novella boccaccesca di un giovane soldatino che, vittima della sua stessa spavalderia, si scopre bigamo, suo malgrado. Ma è con il terzo film, Due soldi di speranza (1952), che C. raccolse un successo notevole nell'imbastire, tra la favola agreste e la commedia dell'arte, tutta calata negli umori dell'entroterra vesuviano dove fu girato, il ritratto di una forsennata vitalità femminile nel personaggio di Carmela (Maria Fiore). Il film suggellò una svolta non solo nel cinema di C., ma nel panorama del cinema italiano rovesciando dal suo interno il Neorealismo ridotto a cliché, stemperandolo e sdrammatizzandolo, facendone deviare lo sguardo verso quegli elementi di 'commedia umana' che, anche grazie all'esattezza antropologica dei tipi e dei dialetti, fu poi il sostrato della commedia all'italiana. Nel successivo Giulietta e Romeo, nell'attingere a W. Shakespeare, C. sembrò fondere le due strade fino allora intraprese, da un lato una perizia raffinata nella messinscena dai forti richiami pittorici (la pittura del Quattrocento, Paolo Uccello, Pisanello ecc.), dall'altro il ricreare un'atmosfera di attualità e di adesione al reale attraverso la scelta di attori non professionisti. Osservazione minuta del reale che fu al centro del film successivo, ispiratogli dalle esperienze del fratello medico a Pavia, I sogni nel cassetto (1957). Dopo aver progettato un film su Paolina Borghese, Venere imperiale (realizzato poi da Jean Delannoy nel 1962), C. ridusse per lo schermo Via delle Mantellate, un libro di vita vissuta di I. Mari, con Nella città l'inferno (1959), un film a misura delle due eccezionali attrici protagoniste, Giulietta Masina e Anna Magnani, l'ingenua Lina e la scaltra Egle, in un percorso di crudo apprendistato alle durezze della vita tutto chiuso nell'ossessività geometrica della prigione. Ancora una fonte letteraria, il romanzo di G. Berto, per Il brigante (1961), singolare film, coacervo di tutte le predilezioni di C., recupero inattuale della lezione neorealista filtrata da una sensibilità epica. Unì l'afflato picaresco all'osservazione di ambiente nel successivo Mare matto (1963), collana di storie marinare che intende abbandonarsi al piacere della digressione narrativa. Nel 1964 C. partecipò poi svogliatamente a due film a episodi, Tre notti d'amore e Controsesso, con un risultato spurio e modesto, e nel 1968 girò Questi fantasmi, dalla commedia di Eduardo De Filippo, costruito sulle interpretazioni di Sophia Loren e Vittorio Gassman. Finché Una breve stagione (1969) costituì un malinconico addio al cinema, uno sgomentato sguardo su quella gioventù di cui aveva raccontato slanci e fantasticherie e di cui adesso osservava le disillusioni. Tentò infine di ritrovare nella regia televisiva il gusto per la composizione narrativa e per l'indagine storica con gli sceneggiati Vita di Leonardo (1971), Il furto della Gioconda (1977) e Giuseppe Verdi (1982).
S. Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze 1977, pp. 107 e segg.; S. Trasatti, Renato Castellani, Firenze 1984; La bella forma, a cura di A. Martini, Venezia 1992, pp. 105-13.