Responsabilita da reato degli enti. I problemi sul tappeto a dieci anni dal d.lgs. n. 231/2001
A dieci anni dall’introduzione del d.lgs. 8.6.2001, n. 231, molti sono i problemi ancora aperti su di una normativa ancora di non frequentissima applicazione, ma certamente destinata ad assumere un ruolo sempre più centrale nella prassi penale italiana. I nodi con cui la più recente giurisprudenza ha avuto modo di confrontarsi concernono, tra l’altro: il novero degli enti responsabili, in relazione – in particolare – alle società a partecipazione mista pubblica e privata e alle imprese individuali; la tipologia dei reati per cui l’ente è chiamato a rispondere; i criteri di ascrizione della responsabilità da reato all’ente e, in ispecie, i concetti di «interesse» e «vantaggio» di questo in riferimento ai reati colposi e alle realtà dei gruppi societari; nonché, last but not least, la natura e la struttura della responsabilità prevista dal d.lgs. n. 231/2001.
Il meccanismo di responsabilità da reato degli enti introdotto con il d.lgs. 8.6.2001, n. 231 continua a sperimentare importanti estensioni del proprio campo di applicazione sul fronte dei cd. reati presupposto. L’ultima, e assai significativa, novità in proposito è rappresentata dalla previsione della responsabilità da reato degli enti per una vasta gamma di reati in materia ambientale, analiticamente indicati con le rispettive sanzioni dal nuovo art. 25 undecies d.lgs. n. 231/2001, introdotto dal d.lgs. 7.7.2011, n. 121 in adempimento degli obblighi scaturenti dalle dir. 2008/99/CE del 19.11.2008 e 2009/123/CE del 21.10.20091. La previsione di una responsabilità da reato dell’ente in materia ambientale costituisce una novità assoluta per il nostro ordinamento, posto che la precedente ambigua formulazione di cui all’art. 152, co. 4, d.lgs. 3.4.2006, n. 152 (per cui in materia di rifiuti «qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231») non era stata ritenuta idonea dalla giurisprudenza a fondare una responsabilità dell’ente ex d.lgs. n. 231/2001, difettando in quella norma tanto la tipizzazione degli illeciti quanto la previsione delle rispettive sanzioni2. Non è questa la sede per un’approfondita analisi dei problemi a cui la nuova disciplina potrà dar luogo. Rinviando ad una sede successiva (infra, 2.3) per qualche cenno sul problema dei criteri di imputazione dell’interesse o del vantaggio dell’ente in relazione a fattispecie contravvenzionali compatibili con una realizzazione meramente colposa, basti qui evidenziare come una delle questioni che certamente si porranno nella prassi sarà quella dell’individuazione del profitto destinato ad essere (obbligatoriamente) confiscato, anche nella forma per equivalente, nel caso di condanna dell’ente (art. 19 d.lgs. n. 231/2001). In sede di primissimo commento, si è osservato come – in molti reati in materia di ambiente – il profitto il lecito cui mira l’ente mediante la commissione del reato coincida con il risparmio di costi ottenuto attraverso la violazione della normativa antinquinamento; profitto che, tuttavia, non sembra poter essere considerato conseguito (e come tale confiscabile) sino al momento in cui realizzi i proventi della propria attività in misura superiore a quella che avrebbe conseguito ove avesse affrontato i costi predetti3.
La recente giurisprudenza ha poi avuto modo di affrontare numerosi nodi esegetici, ancora non compiutamente risolti, posti dal d.lgs. n. 231/2001.
2.1 Il novero degli enti responsabili. Società a partecipazione mista (pubblica e privata) e imprese individuali
Un primo problema ancora aperto concerne la precisa individuazione degli enti responsabili ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 231/2001, in relazione ad almeno due situazioni problematiche: le società a partecipazione mista (pubblica e privata) e le imprese individuali.
A) Per quanto concerne le prime, due recenti pronunce della Suprema Corte hanno ritenuto che società per azioni svolgenti un servizio pubblico (in un caso si trattava di una struttura ospedaliera, nell’altro di una società che si occupava di raccolta e smaltimento dei rifiuti) e a capitale misto pubblico e privato siano assoggettate alla disciplina di cui al d.lgs. n. 231/2001, trattandosi di «enti forniti di personalità giuridica» ai sensi dell’art. 1, co. 2, non rientranti in alcuna delle eccezioni di cui al successivo co. 3, che concerne unicamente lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli «altri enti pubblici non economici» e gli enti che svolgono rilievo costituzionale4. Secondo la lettura fornita dalle due sentenze (le quali annullano, conseguentemente, altrettante ordinanze di rigetto da parte del tribunale del riesame delle misure cautelari interdittive richieste dal p.m.), l’art. 1 d.lgs. n. 231/2001 estenderebbe la responsabilità da reato a tutti gli enti, ancorché di natura pubblicistica, che esercitino comunque un’attività economica: evidenziata, nei casi di specie, «dalla veste stessa di società per azioni, che comporta istituzionalmente l’esercizio di un’attività economica al fine di dividerne gli utili (v. art. 2247 c.c.), a prescindere da quella che sarà – poi – la destinazione finale degli utili medesimi, se realizzati»5. Né potrebbe parlarsi, rispetto alle società in questione, di svolgimento di funzioni di rilievo costituzionale, tale nozione non potendo essere estesa a tutte le attività dello Stato-amministrazione che abbiano un qualche fondamento costituzionale (come la tutela della salute o dell’ambiente), allorché tali attività siano svolte da società commerciali operanti con «criteri di economicità, ravvisabili nella tendenziale equiparazione tra i costi e i ricavi, per consentire la totale copertura dei costi» del servizio reso alla collettività6. La dottrina è, sul punto, divisa. Se da parte di taluno si sostiene la correttezza di questa soluzione7, altri autori appaiono, invece, decisamente critici8, rammentando anzitutto come l’intento del legislatore storico – come risultante dalla relazione al d.lgs. n. 231/2001 – fosse quello di escludere gli enti pubblici che erogano pubblici servizi, come aziende ospedaliere, scuole e università, dal campo di applicazione del decreto: e ciò sia perché le sanzioni (pecuniarie e, soprattutto, interdittive) contro l’ente si traducono qui, in definitiva, in disservizi per il cittadino; sia perché l’intento del legislatore delegante era parso quello della «repressione di comportamenti illeciti nello svolgimento di attività di natura squisitamente economica, e cioè assistite da fini di profitto». La nozione di «ente pubblico economico», cui allude – in negativo – il terzo comma dell’art. 1, stabilendone la soggezione alla disciplina della responsabilità da reato degli enti, dovrebbe invece essere riferita esclusivamente all’INA, all’IRI e in generale a quegli enti che, sino ad un passato non remoto, svolgevano attività economiche e produttive essendo, tuttavia, organizzati e regolati in forma schiettamente pubblicistica. Con esclusione, dunque, degli enti a partecipazione pubblica (in genere per una quota di maggioranza) che svolgono pubblici servizi, ancorché risultino organizzati secondo il modello privatistico della società per azioni. A nostro sommesso avviso, tuttavia, la lettera della norma – qualunque sia stata l’intenzione storica del legislatore – suffraga l’interpretazione della Cassazione. Il terzo comma dell’art. 1 è, strutturalmente, una disposizione che stabilisce una serie di eccezioni alla regola generale della responsabilità degli enti per i reati individuati dal d.lgs. n. 231/2001, e come tale è di stretta interpretazione. Tale disposizione esclude dalla disciplina del decreto una serie di enti pubblici, tra cui – appunto – gli enti pubblici non economici: onde il problema è qui se si possa inquadrare, per l’appunto, come «ente pubblico non economico» una società per azioni a partecipazione mista che offre un pubblico servizio alla collettività, come la raccolta dei rifiuti o prestazioni sanitarie, con la conseguenza di sottrarla in tal modo alla disciplina generale dettata dal d.lgs. n. 231/2001. Le difficoltà di una simile qualificazione dovrebbero apparire evidenti: se già non è scontata la qualificazione di tali enti in termini pubblicistici (qualificazione peraltro costantemente attribuita dalla giurisprudenza penale agli amministratori e ai dipendenti di essi, sì da poter loro applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione), quanto meno singolare risulterebbe negare a queste s.p.a. la qualifica di enti «economici», stante per l’appunto la veste giuridica con la quale esse operano. Né lo svolgimento di un servizio pubblico da parte dell’ente osta in alcun modo all’applicabilità del d.lgs. n. 231/2001, che all’art. 15 prevede anzi espressamente che la sanzione interdittiva possa essere in tal caso sostituita dalla nomina di un commissario giudiziale, sì da assicurare la continuità del servizio in favore della collettività. Né, infine, l’estensione della responsabilità amministrativa da reato a questa tipologia di enti appare sotto alcun altro profilo distonica rispetto alla ratio di tale responsabilità, risultando anzi una simile estensione funzionale ad incentivare da parte di questi enti (essenziali per il funzionamento del moderno Stato sociale) l’adozione di modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione, al loro interno, di condotte criminose che danneggiano gravemente la collettività, determinando – se non altro – un grave spreco di risorse pubbliche9.
B) Sul secondo versante segnalato, una sentenza della terza sezione penale della Cassazione, smentendo un precedente orientamento in senso contrario10, ha inopinatamente affermato l’applicabilità della disciplina del d.lgs. n. 231/2001 alle imprese individuali non organizzate in forma di società, confermando così l’applicazione di una misura cautelare interdittiva disposta dal tribunale del riesame nei confronti di un’impresa sottoposta a indagine per associazione per delinquere finalizzata all’illecito smaltimento di rifiuti. La Cassazione ha argomentato nel senso dell’assimilabilità delle imprese individuali agli enti forniti di personalità giuridica, espressamente menzionati dall’art. 1 del decreto, sostenendo che il loro assoggettamento alla disciplina in parola si imporrebbe in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, onde evitare un’irragionevole disparità di trattamento tra l’impresa individuale e quella organizzata in forma societaria. La decisione è manifestamente errata, non solo in quanto contraria alla chiara voluntas del legislatore storico – il che potrebbe anche non essere decisivo, ma soprattutto perché frutto di una estensione analogica dell’art. 1 d.lgs. n. 231/2001 certamente non consentita: e ciò sia che si consideri la disciplina della responsabilità degli enti come di natura sostanzialmente penale (il divieto di analogia fondandosi in tal caso addirittura sull’art. 25, co. 2, Cost., oltre che sull’art. 14 preleggi), sia che si tenga ferma la natura amministrativa di tale responsabilità, all’interpretazione analogica delle disposizioni del decreto ostando comunque il principio di legalità espresso dal suo art. 2 in termini sostanzialmente identici a quelli previsti dall’art. 1 c.p. L’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 231/2001, infatti, circoscrive l’ambito di applicazione del decreto agli «enti forniti di personalità giuridica » e alle «società e associazioni anche prive di personalità giuridica», non menzionando in alcun modo le imprese individuali: le quali non sono evidentemente né società né associazioni, né possono – contrariamente all’avviso della Cassazione – essere ricondotte alla categoria degli «enti forniti di personalità giuridica», la personalità giuridica essendo un concetto normativo tratto dal diritto civile e dai contorni ivi ben definiti, che si riferisce notoriamente a soggetti giuridici il cui patrimonio è autonomo rispetto a quello delle persone fisiche che lo costituiscono. Se poi la (chiarissima) delimitazione dell’ambito applicativo della responsabilità degli enti tracciata dal legislatore sia o meno ragionevole, è problema che non può interessare l’interprete, stante per l’appunto il divieto di interpretazione analogica della normativa in parola; e ciò anche a prescindere dalla sussistenza, a ben guardare, di decisivi argomenti a sostegno della ragionevolezza della scelta legislativa, che mira ad assoggettare ad un autonomo sistema di sanzioni soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche, attraverso i quali le persone fisiche operano. Mentre “impresa individuale” e “imprenditore individuale” sono due concetti che si riferiscono a un unico e medesimo centro di imputazione giuridica, rappresentato dalla persona fisica titolare dell’impresa, il cui patrimonio resta unico e indifferenziato11.
2.2 L’estensione oggettiva della responsabilità: reati di corruzione internazionale e false comunicazioni a società di revisione
Almeno due importanti pronunce della Cassazione sono poi intervenute a puntualizzare l’estensione oggettiva della responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001, in relazione ai reati dei quali l’ente è chiamato a rispondere.
A) Una prima sentenza concerne i delitti di corruzione internazionale di cui all’art. 322 bis c.p., in relazione ad un caso di specie concernente una richiesta di misure cautelari interdittive a un ente i cui funzionari, secondo l’accusa, avevano corrisposto, nell’interesse e a vantaggio delle società per cui operavano, compensi corruttivi in favore di pubblici ufficiali nigeriani, per ottenere contratti relativi alla realizzazione di sei impianti di liquefazione del gas naturale in Nigeria12. Tanto il g.i.p. quanto il tri bunale del riesame territoriali avevano rigettato l’istanza del p.m., sulla base del decisivo argomento secondo cui l’art. 25 d.lgs. n. 231/2001 non consentirebbe l’applicazione di sanzioni interdittive (e pertanto nemmeno delle corrispondenti misure cautelari) ai delitti di corruzione internazionale disciplinati dall’art. 322 bis c.p. Più in particolare, il co. 4 del citato art. 25 dispone l’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dai primi tre commi in relazione alle differenti ipotesi di concussione e corruzione “nazionale” «anche quando tali delitti sono stati commessi dalle persone indicate negli articoli 320 e 322 bis»: ossia quando i delitti siano stati commessi da un incaricato di pubblico servizio (art. 320 c.p.) ovvero da uno dei funzionari comunitari e stranieri analiticamente indicati dall’art. 322 bis c.p. Il successivo co. 5 dell’art. 25 d.lgs. n. 231/2001 dispone poi che «nei casi di condanna per uno dei delitti indicati dai co. 2 e 3, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno». Il mancato richiamo del co. 5 – specificamente dedicato alle sanzioni interdittive, previste per alcuni soltanto dei delitti richiamati dall’art. 25 – alle ipotesi di cui all’art. 322 ter c.p., richiamate solo dal co. 4 ai fini dell’applicazione delle sanzioni pecuniarie, veniva dunque inteso dai giudici territoriali come indicativo della volontà del legislatore di escludere in radice l’applicabilità di sanzioni interdittive a carico dell’ente in relazione a fatti di corruzione internazionale. Accogliendo il ricorso della pubblica accusa, la Cassazione ha invece ritenuto che – conformemente del resto al suo dato letterale – il co. 4 dell’art. 25 d.lgs. n. 231/2001 abbia la mera funzione di estendere a pubblici funzionari non italiani l’ambito soggettivo delle fattispecie di corruzione richiamate dai primi tre commi; con la conseguenza che il richiamo contenuto nel co. 5 deve considerarsi rivolto alle ipotesi base di corruzione indicate nei co. 2 e 3, comprensive anche delle estensioni soggettive contemplate nel co. 4. Tale esegesi è, d’altra parte, l’unica che consente – ad avviso dei supremi Giudici – di evitare l’irragionevolezza nella dosimetria sanzionatoria che discenderebbe dalla mancata previsione della sanzione interdittiva per fattispecie di reato certo non meno gravi di quelle di corruzione nazionale, e rispetto alle quali l’Italia è anzi vincolata da precisi obblighi di criminalizzazione di fonte internazionale (sanciti in particolare dalla Convenzione OCSE, firmata a Parigi il 17.12.1997, sul contrasto alla corruzione di pubblici funzionari stranieri nelle operazioni economiche internazionali). Per quanto intelligentemente argomentata, tale soluzione non riesce tuttavia a porsi al riparo dal sospetto di tradursi – ancora una volta – in una inammissibile applicazione analogica del disposto di cui all’art. 25 d.lgs. n. 231/2001. Il co. 4 estende infatti le sole sanzioni pecuniarie ai fatti previsti dagli artt. 320 e 322 bis c.p., senza menzionare le sanzioni interdittive, che sono invece comminate dal successivo co. 5 con riferimento esclusivo ai delitti di cui ai co. 2 e 3, questa volta senza alcuna menzione agli artt. 320 e 322 bis c.p. né al co. 4 che li richiama. D’altra parte, l’argomento secondo cui l’espressa estensione soggettiva di cui al co. 4 dovrebbe implicitamente valere anche per le sanzioni interdittive disciplinate dal co. 5 è ictu oculi assai fragile, la diversa formulazione delle due norme suggerendo invece pianamente un opposto argomento a contrario (l’estensione vale solo laddove il legislatore l’ha espressamente disposta, e cioè nel co. 4 con riferimento alle sanzioni pecuniarie); senza contare che la ricostruzione dell’art. 322 bis c.p. come norma meramente estensiva dell’ambito soggettivo delle fattispecie di corruzione disciplinate negli articoli precedenti misconosce l’autonomia dei reati di corruzione internazionale, evidenziata tra l’altro dalla presenza proprio nell’ipotesi che qui viene in considerazione (la corruzione di funzionari pubblici esteri) di un dolo specifico assente nelle ordinarie fattispecie “nazionali” (il fine di «procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali»). Infine, e ad abundantiam, ottimi argomenti militano per sostenere che la (supposta) lacuna sanzionatoria corrisponda ad una scelta intenzionale del legislatore italiano, consapevole della difficoltà pratica – riconosciuta, del resto, dalla stessa Cassazione – di assicurare l’applicazione di eventuali sanzioni interdittive (come, ad esempio, la sanzione della sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni, di cui all’art. 9, co. 2, lett. b, ovvero quella dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi, di cui all’art. 9, co. 2, lett. d) senza il coinvolgimento dello Stato di appartenenza del funzionario straniero corrotto, su cui il giudice penale italiano non ha alcuna giurisdizione, né la possibilità di imporre condotte particolari o di realizzare controlli13.
B) Una seconda questione problematica recentemente risolta addirittura dalla Sezioni Unite concerne il delitto di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione contemplato dall’art. 2624 c.c., che rientra(va) tra i reati presupposti della responsabilità dell’ente ai sensi dell’art. 25 ter d.lgs. n. 231/2001. Ora, in un primo tempo (per effetto della l. 28.12.2005, n. 262) il delitto di cui all’art. 2624 c.c. si era visto sottrarre una parte del suo ambito applicativo dall’art. 174 bis d.lgs. 24.2.1998, n. 58, non espressamente menzionato tra i reati presupposto dal d.lgs. n. 231/2001; quindi, per effetto del d.lgs. 23.3.2010, n. 39, tanto l’art. 2624 c.c. quanto l’art. 174 bis d.lgs. n. 58/1998 erano stati abrogati, le relative condotte costituendo ora il delitto di cui all’art. 27 dello stesso d.lgs. n. 39/2010, che parimenti non compare tra i delitti cd. presupposto della responsabilità amministrativa degli enti da reato. Da tale complessa vicenda normativa il g.i.p. presso il Tribunale di Milano aveva dedotto la sopravvenuta inapplicabilità della responsabilità dell’ente, per effetto del sopravvenuto difetto di previsione espressa di tale responsabilità in relazione alla figura di reato nella quale, oggi, devono essere sussunti i fatti contestati agli imputati (art. 3 d.lgs. n. 231/2001)14. Pronunciandosi sul ricorso per saltum della pubblica accusa, la quinta sezione della Cassazione aveva rimesso il quesito alle Sezioni Unite, prospettando la possibilità di una interpretazione alternativa: un’interpretazione, in particolare, tesa a valorizzare il rapporto di continuità normativa tra le fattispecie in successione, e la natura di rinvio “mobile” (e non già “fisso”) del richiamo all’art. 2634 c.c. di cui all’art. 25 ter d.lgs. n. 231/200115. Le Sezioni Unite hanno tuttavia confermato l’esattezza della conclusione che esclude la responsabilità dell’ente in difetto di una espressa estensione di tale responsabilità alla fattispecie delittuosa nella quale sono oggi sussumibili i fatti contestati all’imputato, evidenziando altresì – ma, a ben vedere, ad abundantiam – come tale mancata espressa estensione non possa considerarsi come frutto di una mera svista del legislatore, dal momento che già la fattispecie di cui all’art. 174 bis d.lgs. n. 58/1998 era sempre rimasta al di fuori dal novero di reati ascrittivi della responsabilità dell’ente, a differenza di altri reati previsti dal t.u.f.16.
2.3 L’interesse o vantaggio dell’ente: il problema dell’interesse di gruppo e il nodo dei reati colposi
Anche sul fronte dell’esegesi del criterio di ascrizione soggettiva del reato all’ente – l’essere stato il reato commesso da un soggetto apicale o subordinato nell’interesse o a vantaggio dell’ente – si registrano alcune significative novità sul fronte giurisprudenziale, in particolare in relazione alla vexata quaestio dell’interesse del gruppo cui l’ente appartiene, nonché alla particolare declinazione di questi criteri rispetto ai reati colposi.
A) Sul primo fronte si segnala la (peraltro cursoria) affermazione di una recentissima sentenza della Cassazione, secondo cui la società capogruppo può essere chiamata a rispondere per il reato commesso nell’ambito dell’attività di altra società del gruppo, purché però nella sua consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della holding perseguendo anche l’interesse di quest’ultima17: circostanza, quest’ultima, che non era dato riscontrare nel caso concreto sottoposto all’esame del Supremo Collegio.
B) Sul secondo fronte si registrano, sullo sfondo di quello che appare come un generale disinteresse della prassi per le potenzialità della responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001 rispetto ai reati colposi, le prime pronunce di merito che prendono finalmente posizione sul nodo dell’interesse o del vantaggio dell’ente, ex art. 5 d.lgs. n. 231/2001, in relazione a questa tipologia di reati, e segnatamente rispetto ai delitti di omicidio e lesioni colposi commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, dei quali l’ente dovrebbe rispondere ai sensi dell’art. 25 sexies sin dal 2007. All’indomani della novella legislativa, si era in effetti da molte parti segnalata la difficoltà di ammettere che un reato colposo – strutturalmente caratterizzato dalla non volizione dell’evento, che ne è essenziale elemento costitutivo – possa essere commesso “nell’interesse” dell’ente, tale locuzione parendo alludere a una consapevole finalizzazione del fatto di reato, da parte della persona fisica-soggetto attivo, al perseguimento di una qualsivoglia utilità per l’ente. I primi provvedimenti cui si faceva cenno muovono tutti dalla comune adesione al canone ermeneutico – esplicitato dal codice civile in materia di interpretazione del contratto all’art. 1367 («Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno») – rappresentato dal cd. principio di conservazione, per cui l’interprete è sempre tenuto a ricercare il significato utile di una disposizione, evitando comunque di fornirne una interpretatio abrogans quale sarebbe quella di ritenere tout court inapplicabile ai reati colposi la disposizione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231/2001, con conseguente impossibilità di ascrivere all’ente il reato colposo commesso da soggetti non importa se apicali o subordinati. Una prima via d’uscita, cui accenna in premessa una pronuncia del Tribunale di Novara18, consiste nella valorizzazione, in questa tipologia di reati, del criterio alternativo del “vantaggio” dell’ente. Secondo una lettura largamente diffusa, in effetti, questo secondo criterio avrebbe natura oggettiva e sarebbe accertabile ex post, in relazione all’utilità effettivamente conseguita dall’ente in seguito alla commissione del reato da parte del soggetto intraneo; senza necessità, dunque, di accertare alcun coefficiente finalistico nella commissione del reato medesimo. In questa chiave, piuttosto, potrebbero essere valorizzati fattori come il risparmio di costi gestionali e organizzativi oggettivamente derivati all’ente dalla mancata adozione delle cautele che, ove esistenti, avrebbero evitato la produzione dell’evento lesivo. Il problema è, però, che se tale “vantaggio” dovesse essere inteso come conseguenza della realizzazione del reato in tutte le sue componenti – compreso l’evento lesivo –, le difficoltà rientrerebbero per così dire dalla finestra, la verificazione di un evento letale o comunque di un infortunio o di una malattia a carico del lavoratore, con tutte le conseguenze civilistiche e penalistiche connesse, rappresentando invariabilmente un costo per l’ente, spesso assai pesante, e destinato comunque a essere bilanciato con i risparmi ottenuti mediante la mancata adozione delle cautele. Del tutto ragionevolmente, la (scarsa) giurisprudenza di merito sinora pronunciatasi sul tema ha finito per volgere l’attenzione al criterio dell’interesse, riferito però non già all’evento del reato – per definizione, come si rammentava, causato involontariamente dall’agente, indipendentemente dalla sua eventuale rappresentazione in termini di colpa cosciente –, bensì alla condotta costitutiva del reato medesimo. Laddove, dunque, si voglia intendere il concetto di “interesse” come soggettivamente connotato (ossia come finalistico orientamento della condotta a procurare un’utilità all’ente), la responsabilità amministrativa dell’ente sussisterebbe quando il soggetto intraneo (apicale o subordinato che sia) abbia compiuto la condotta inosservante delle cautele doverose dalle quali è poi scaturito (involontariamente) l’evento, allo scopo di procurare all’ente una qualche utilità: risparmio nei costi legati all’adozione delle cautele, risparmio nei tempi di produzione, ecc.19. Mentre, laddove l’interesse venga inteso – secondo una prospettiva pure sostenuta in dottrina – come criterio oggettivo che allude piuttosto alla idoneità della condotta criminosa (valutata ex ante) a recare utilità all’ente, la responsabilità di quest’ultimo sussisterebbe laddove – per l’appunto – la mancata adozione delle cautele doverose apparisse ex ante idonea ad assicurare all’ente un risparmio di costi, di tempi di produzione, ecc., a prescindere dalle conseguenze lesive a danno dei lavoratori o di terzi poi effettivamente verificatesi.
Resta ancora sullo sfondo, e non compiutamente esplorata dalla giurisprudenza, la grande questione della natura della responsabilità dell’ente: responsabilità «amministrativa» da reato, secondo la definizione legislativa, ovvero autenticamente penale, o ancora tertium genus? La questione, nonostante un’opinione diffusa anche in dottrina, non è meramente nominalistica. La posta in gioco è, infatti, rappresentata dallo statuto costituzionale (e convenzionale, al metro della CEDU nonché, in futuro, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) di tale responsabilità, trattandosi di comprendere se, ed eventualmente in che misura, alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 231/2001 debbano applicarsi le garanzie proprie della materia penale, riconosciute segnatamente dagli artt. 25, co. 2 e 3, 27, co. 1-3, 111, co. 3 ss., 112 Cost., nonché dagli artt. 6, § 2, e 7 CEDU oltre che dagli artt. 2 e 4 del settimo protocollo addizionale alla CEDU (diritto di ricorso in materia penale e ne bis in idem); ovvero se a tale forma di responsabilità si applichino soltanto le generali garanzie, sostanziali e procedurali, che vigono nell’ordinamento interno e internazionale per ogni forma di diritto in senso lato sanzionatorio. Così – tanto per limitarsi a un paio di esempi – sarà necessario in futuro interrogarsi se, al di là della qualificazione formale utilizzata dal legislatore, la disciplina sostanziale e processuale di cui al d.lgs. n. 231/2001 debba rispettare il principio della presunzione di innocenza (con conseguente problematica legittimità costituzionale dell’inversione dell’onere della prova stabilita dall’art. 6, co. 1, d.lgs. n. 231/2001), della personalità della responsabilità penale intesa come divieto di responsabilità per fatto altrui (con conseguente necessità di interrogarsi a fondo sulla legittimità delle disposizioni di cui agli artt. 28 ss. in materia di vicende modificative dell’ente), dell’obbligatorietà dell’azione penale (a fronte della prassi diffusa presso le procure italiane di non contestare all’ente i reati di omicidio e lesioni colpose commessi con violazione delle norme sulla salute e sicurezza del lavoro: prassi agevolata da una disposizione essa pure di dubbia legittimità, al metro dell’art. 112 Cost., come l’art. 58 d.lgs. n. 231/2001, che non prevede alcun controllo da parte del giudice sulla decisione di archiviare il procedimento assunta dal p.m.), ecc. Sul fronte giurisprudenziale, si segnala a questo proposito una pronuncia della Cassazione, che ritiene manifestamente infondata una questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla difesa in relazione (parrebbe) all’intero impianto del d.lgs. n. 231/2001, motivata sulla base dell’asserito contrasto tra tale disciplina e il principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, co. 1, Cost. Il Supremo Collegio sottolinea, in proposito, come il sistema legislativo renda evidente che l’ente – quanto meno nell’ipotesi di reato commesso da un soggetto “apicale”, come era nel caso di specie – risponde non già per un fatto altrui, bensì per un fatto proprio, «in forza del rapporto di immedesimazione organica che [lo] lega» all’ente: «la persona fisica che opera nell’ambito delle sue competenze societarie, nell’interesse dell’ente, agisce come organo e non come soggetto da questo distinto; né la degenerazione di tale attività funzionale in illecito penale è di ostacolo all’immedesimazione»; di talché «il fatto-reato è fatto della società, di cui essa deve rispondere». Né potrebbe ravvisarsi, sempre secondo la Cassazione, una violazione del principio di colpevolezza, pure desumibile dall’art. 27, co. 1, Cost., dal momento che il d.lgs. n. 231/2001 prevede la necessità di una cd. “colpa di organizzazione” dell’ente, consistente nel «non avere predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la realizzazione di reati del tipo di quello realizzato»; onde «il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo»20. La motivazione della Corte oscilla – invero – tra due poli concettualmente ben distinti, riconducibili rispettivamente alla teoria dell’immedesimazione (o indentificazione) organica, caratteristica del modello anglosassone della responsabilità penale delle persone giuridiche; e quello, originalmente sviluppato dal legislatore italiano, e ora seguito dallo stesso legislatore inglese in più recenti interventi normativi21, della colpa d’organizzazione dell’ente. I due modelli rispondono in realtà ad una logica ben distinta. Il primo postula, per l’appunto, un rapporto di immedesimazione tra ente e persona fisica che agisce – per utilizzare una terminologia corrente in ambito civilistico – in nome e per conto dell’ente, impegnando direttamente l’ente per il tramite della propria condotta; sicché la responsabilità dell’ente viene qui a configurarsi come responsabilità diretta per il fatto di reato, che si considera come commesso dall’ente attraverso il proprio legale rappresentante. Ovviamente, tale modello è in grado di operare – e di fatto opera negli ordinamenti anglosassoni – soltanto a condizione che il fatto-reato sia commesso da un soggetto apicale, che abbia la legale rappresentanza dell’ente e la cui condotta e volontà possano essere imputate direttamente all’ente. Il secondo modello postula, invece, una responsabilità in capo all’ente per omesso impedimento del reato commesso dalla persona fisica (non importa se apicale o subordinata), sulla base di un rimprovero di colpevolezza che si fonda sulla mancata adozione di misure preventive e organizzative idonee ad impedire la commissione di reati del tipo di quelli verificatisi. La disciplina configurata dal legislatore italiano appare, anche nel caso di reato commesso da un soggetto apicale, riconducibile al secondo piuttosto che al primo modello, la responsabilità dell’ente essendo pur sempre subordinata ad una “colpa di organizzazione” dell’ente, senza la quale l’ente non risponderebbe del reato ancorché commesso da un soggetto apicale, normalmente in grado di impegnare l’ente dal punto di vista civilistico. Il che non esclude, peraltro, che l’ente continui a rispondere per fatto proprio: consistente, però, non già nell’aver commesso il reato attraverso il proprio organo, bensì per l’appunto nell’omesso impedimento del reato da parte della persona fisica22, secondo, in fondo, il medesimo modello che vige per l’imputazione dell’omesso impedimento di un reato altrui da parte di una persona fisica titolare di un obbligo giuridico impeditivo ex art. 40, co. 2, c.p. (si pensi alla madre che non impedisce che il proprio compagno abusi sessualmente del figlio). E si tratterà pur sempre – in ciò ha ragione la Cassazione – di fatto colpevole, la colpevolezza radicandosi proprio nella mancata adozione da parte dell’ente di quelle cautele che, in base a una valutazione ex ante, sarebbero state idonee ad impedire la commissione del reato da parte di persone fisiche agenti nel proprio interesse o a proprio vantaggio. Troppo sbrigativamente è però liquidata dalla Cassazione l’ulteriore obiezione, evidentemente sollevata dai ricorrenti, secondo cui la vigente disciplina di cui all’art. 6 d.lgs. n. 231/2001 violerebbe il principio della presunzione di innocenza di cui all’art. 27, co. 2, Cost. L’inversione dell’onere probatorio prevista dalla norma – secondo cui nel caso di reato commesso da soggetti apicali l’ente risponde «se non prova» le circostanze analiticamente indicate dalla norma, idonee ad escludere la sua colpevolezza in relazione all’omesso impedimento – pone infatti a carico dell’ente l’onere di dimostrare l’assenza di un requisito costitutivo della sua responsabilità, in contrasto con il principio generale, costituzionalizzato dal citato art. 27, co. 2, Cost., secondo cui spetta invece alla pubblica accusa, nel processo penale, fornire la prova oltre – e al di là di ogni ragionevole dubbio – di tutti i requisiti, oggettivi e soggettivi, dai quali dipende la responsabilità dell’imputato, tra i quali anche quelli su cui si radica la sua colpevolezza (ossia la sua “rimproverabilità” dal punto di vista normativo). Onde delle due l’una: o si tiene ferma la natura non penale della responsabilità dell’ente – in consonanza con la prudente qualificazione del legislatore storico, nonostante l’evidente natura punitiva delle sanzioni previste nei confronti dell’ente, che certamente non tarderanno ad essere qualificate come vere e proprie pene in senso sostanziale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo –, ed allora il principio costituzionale della presunzione di innocenza neppure verrà in considerazione, trattandosi di principio operante soltanto nella materia penale; oppure sarà giocoforza riconoscere l’illegittimità costituzionale della citata disposizione.
1 Per un primo commento alla novella, cfr. Pistorelli-Scarcella, Sulle novità di rilievo penalistico introdotte dal decreto legislativo di recepimento delle direttive CE in materia di ambiente (d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121) (relazione a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione), in www.penalecontemporaneo.it; Ruga Riva, Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell’ambiente, ibidem, cui si rinvia anche per un’analisi dei possibili criteri che hanno guidato il legislatore delegato nella selezione dei reati di cui l’ente dovrà rispondere in materia ambientale.
2 Così Cass. pen., sez. III, 7.10.2008, n. 41329.
3 Cfr. più ampiamente, sul punto, ancora Pistorelli-Scarcella, Sulle novità di rilievo penalistico, cit., 33.
4 Cass. pen., sez. II, 9.7.2010, n. 28699, in Cass. pen., 2011, 1888 s. con nota di Di Giovine, Sanità ed ambito applicativo della disciplina sulla responsabilità degli enti: alcune riflessioni sui confini tra pubblico e privato; Cass. pen., sez. II, 26.10.2010, n. 234, ibidem, 1907 ss. con nota di Cugini, Le società miste al confine della responsabilità amministrativa da reato degli enti. Sul tema cfr. anche Assumma, La responsabilità amministrativa degli enti: problemi e prospettive, in Rivista 231, 2011, n. 3, 7 ss.
5 Cass. pen., sez. II, 9.7.2010, cit.
6 Cass. pen., sez. II, 26.10.2010, cit.
7 Fidelbo, Enti pubblici e responsabilità da reato, in Cass. pen., 2010, 4083 ss., ove si argomenta tra l’altro a fortiori dalla qualificazione delle stesse ASL, da parte della giurisprudenza amministrativa, come «enti pubblici economici».
8 Così Di Giovine, Sanità ed ambito applicativo, cit., 1891 e Cugini, Le società miste, cit., 1910.
9 Propugna del resto un tale risultato, ma in ottica de iure condendo, anche Di Giovine, Sanità ed ambito applicativo, cit., 1904. Per un’analisi della questione dal punto di vista di un cultore di scienza delle finanze, cfr. Manacorda, Le nuove frontiere del decreto 231: l’attività economica pubblica, in Rivista 231, 2011, n. 3, 33 ss.
10 Cass., sez. VI, 3.3.2004, n. 18941, in Cass. pen., 2004, 4047 ss.
11 Nel medesimo senso, più ampiamente, cfr. Amarelli, L’indebita inclusione delle imprese individuali nel novero dei soggetti attivi del d.lgs. 231/2001, in Diritto penale contemporaneo, 5.7.2011 (www.penalecontemporaneo.it, responsabilità degli enti); Amato, Anche le imprese rispondono dell’illecito amministrativo?, in Rivista 231, 2011, n. 3, 199 ss.; Bartolomucci, D.lgs. 231/2001 ed imprenditori individuali: interpretazione dell’art. 1 e presunte esigenze penal-preventive nell’imprevisto revirement della Cassazione, in Rivista 231, 2011, n. 3, 161 ss.
12 Cass. pen., sez. VI, 30.9.2010, n. 42701.
13 In senso critico rispetto alla decisione della Corte, cfr. anche, più distesamente, Chiaraviglio, La responsabilità dell’ente per corruzione internazionale e l’applicabilità (anche in sede cautelare) delle sanzioni interdittive, in Diritto penale contemporaneo, 2.2.2011 (www.penalecontemporaneo.it, responsabilità degli enti); Scoletta-Chiaraviglio, Corruzione internazionale e sanzioni interdittive per la persona giuridica: interpretazione sistematico-integratrice o sentenza additiva (in malam partem)?, in Società, 2011, 696 ss.; Montesano, L’applicazione di sanzioni interdittive e cautelari al reato di corruzione internazionale, in Rivista 231, 2011, n. 2, 177 ss. In senso adesivo rispetto alla decisione della Corte, cfr., invece Cerqua-Pricolo, Corruzione internazionale, responsabilità degli enti e sanzioni interdittive. Note a margine di una recente sentenza della Corte di cassazione, in Rivista 231, 2011, n. 3, 29 ss.
14 Trib. Milano, 3.11.2010, in Diritto penale contemporaneo, 3.11.2010 (www.penalecontemporaneo.it, responsabilità degli enti).
15 Cass. pen., sez. V, 21.2.2011, ord. n. 9027, in Diritto penale contemporaneo, 23.3.2010 (www.penalecontemporaneo.it, responsabilità degli enti).
16 Cass., S.U., 23.6.2011, n. 34476.
17 Cass. pen., sez. V, 17.11.2010, n. 24583 (61-62 dell’originale della motivazione, reperibile in www.penalecontemporaneo.it, responsabilità degli enti).
18 Trib. Novara, 1.10.2010, in Diritto penale contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it, responsabilità degli enti), con nota di Pelazza, Responsabilità amministrativa dell’ente per omicidio colposo con violazione della normativa antinfortunistica.
19 Così, in particolare, argomenta la pronuncia citata alla nota precedente. Assai più succinta la motivazione di Trib. Pinerolo, 23.9.2010, in Diritto penale contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it, responsabilità degli enti), che fa leva soltanto sull’argomento secondo cui nel caso di specie il fatto non poteva dirsi commesso nell’esclusivo interesse proprio o di terzi, secondo la formula dell’art. 5, co. 2, c.p. che, come noto, esclude in questa ipotesi la responsabilità dell’ente. Argomento, questo, che tuttavia non risolve il problema logicamente precedente di chiarire se il reato possa ritenersi commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente ai sensi del primo comma dell’art. 5.
20 Cass. 28.2.2010, n. 27735, in Cass. pen., 2011, 1876 ss.
21 Il riferimento è in particolare al Corporate Maslaughter and Corporate Homicide Act 2007 (su cui cfr. de Gioia Carabellese-Savini, La “231” nel Regno Unito: riflessioni comparatistiche in merito al c.d. omicidio societario, in Rivista 231, 2011, n. 3, 111 ss.) e al Bribery Act 2010 (su cui cfr. Faggiano-Arena, Il self reporting del Bribery Act del sistema britannico e la collaborazione dell’ente nel processo penale ex d.lgs. 231/2011, in Rivista 231, 2011, n. 3, 101 ss. e Guiaineri, La nuova legge inglese anticorruzione, in Diritto penale contemporaneo, 15.4.2011 (www.penalecontemporaneo.it, osservatorio sovranazionale/diritto penale comparato).
22 In questo senso sembra potersi leggere anche un passo dell’articolata motivazione di Cass. pen., sez. VI, 5.10.2010, n. 2251, ove – nel motivare la conclusione dell’inammissibilità della costituzione di parte civile contro l’ente ex d.lgs. n. 231/2001 – il Supremo Collegio afferma testualmente che «il reato che viene realizzato dai vertici dell’ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità dell’ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio che l’ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato. … Ne deriva che [l’illecito imputato all’ente] non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone».