retorica
L’arte del parlare e dello scrivere in modo ornato ed efficace. Sviluppatasi nella Grecia antica con i sofisti, con finalità prevalentemente pragmatiche, come tecnica del discorso teso a persuadere, fu quindi applicata all’oratoria giudiziaria. Si venne successivamente ampliando nell’età classica e poi medievale e rinascimentale a tecnica del discorso sia orale sia scritto, con finalità anche estetiche.
L’arte retorica nasce in Sicilia, a Siracusa, con Corace e l’allievo Tisia (5° sec. a.C.), sotto lo stimolo della necessità oratoria, incrementata dalla lotta politica e dalle controversie giudiziarie, in seguito alla fine della tirannia dei Dinomenidi e al ripristino della democrazia. Alle sue origini l’arte della parola appare in stretto legame con le libertà politiche e le controversie intorno alla proprietà terriera. I Siciliani definiscono primo fondamento della r. il problema della «invenzione» (εὕρεσις), del trovare cioè gli argomenti del parlare. Già presso di loro si affaccia la distinzione tra essere vero e sembrare vero. Gorgia di Lentini, che fu loro allievo, e Trasimaco di Calcedonia dettero in Atene i primi più complessi insegnamenti fissando i criteri della prosa d’arte; con essi la r. diviene non solo tecnica del parlare, ma anche dello scrivere. Trasimaco scopre la musicalità interna del periodo e ne fissa le cadenze; Gorgia eleva l’ideale del ben parlare (εὖ λέγειν) a ideale di cultura. Per lui la r. non è tanto razionalità di concetti, quanto arte di allettare con i suoni e i ritmi; la prosa gorgiana è assai affine alla poesia, per la ricchezza delle metafore, per ritmo metrico del periodare, antitesi, assonanze, rime. Nella dottrina di Gorgia concetto fondamentale è inoltre «il conveniente» (καιρός): il discorso deve cioè adattarsi ai fatti in questione, alle circostanze, al pubblico; d’altro canto, poiché nulla è certo (qui la r. di Gorgia si lega alla sua dottrina sofistica), a ogni questione sono applicabili almeno due argomentazioni (due λόγοι), l’una contraria all’altra. Allievo di Gorgia fu Isocrate, il quale distingue nettamente tra prosa e poesia e riflette sui vari generi oratori: frutto del suo insegnamento è la pseudo-aristotelica Retorica ad Alessandro (῾Ρητορική πρὸς ᾿Αλέξανδρον), probabilmente di Anassimene di Lampsaco, risalente al 340 a.C. circa. In essa si compendia l’evoluzione della prassi e della dottrina retorica fino a quel tempo: si distinguono due categorie generali di orazione, la giudiziale e la deliberativa e sette generi (consigliare, sconsigliare, lodare, biasimare, accusare, difendere, esaminare). Questi generi si qualificano poi a seconda delle materie, dei metodi, degli scopi, della composizione, ecc.
Nella Grecia del 4° sec. a.C., la r. è ormai un elemento fondamentale dell’educazione dell’uomo, e la sua influenza si fa sentire al di là dell’eloquenza, come generale ‘arte del bello scrivere’, e in questo senso l’arte retorica sarà poi esperienza fondamentale di tutti i letterati antichi, prosatori e poeti. Tuttavia, giudizi antiretorici si manifestano già in quest’epoca. Platone coinvolge nella condanna dei sofisti la r. (Eutidemo, Gorgia). Nel più tardo Fedro (➔) egli la riabilita in parte, distinguendo fra una r. falsa, indifferente alla verità, insieme di artifici che sfruttano le apparenze per irretire le coscienze, e una r. vera, psicagogica, che aiuta gli animi ad accostarsi alla verità scoperta dalla filosofia. Diverso l’atteggiamento di Aristotele, che, in opere perdute e nella Retorica, dà una trattazione della r. di importanza fondamentale. Il campo della r. è distinto da quello della filosofia da un lato, della poesia dall’altro. La parola ha un potere irrazionale di imitazione dei fatti, dei caratteri e delle passioni umane, ma anche una capacità razionale di costruzione di un ragionamento logico. La r. sfrutta entrambi, collocandosi sul terreno dell’opinione (δόξα), non delle verità dimostrabili, che attengono alla filosofia. Suo ambito è il verosimile, il probabile. La forma è concepita come esterna al contenuto, come ornamento; la sostanza è nel valore pragmatico della parola, come facoltà di trovare le vie adatte alla persuasione, con argomenti e prove. Ad Aristotele risalgono la distinzione classica dei tre generi del discorso (giudiziale, deliberativo, epidittico), l’individuazione delle strategie (etica, passionale, logica), attraverso le quali guadagnare o rafforzare il consenso del pubblico, e la prima definizione delle fasi (quattro, che diverranno poi cinque nella classificazione canonica dei trattatisti latini) dell’elaborazione del discorso: εὕρεσις (inventio), οἰκονομία (dispositio), λέξις (elocutio), ὑποκριτική (actio). La scuola peripatetica, e in primo luogo Teofrasto, elabora la teoria dei tre stili, l’alto, il medio, il tenue, divenuta poi canonica, a cui vengono associati i diversi generi letterari. Con Teofrasto e i suoi successori si enuclea, sulla base della trattazione della λέξις aristotelica, la dottrina della forma ornata, con le sue suddivisioni in tropi, figure e sottodivisioni, che diverrà l’elocutio dei trattatisti latini. Alla metà del 2° sec. a.C. Ermagora di Temno mira a risollevare la r. dalle meschinità in cui era caduta per la decadenza dell’oratoria politica, il prevalere dello scolasticismo e il manierismo dell’asianismo. Sulle orme della scuola stoica, ma anche dei peripatetici, Ermagora si interessa tanto alla forma del dire quanto ai contenuti. A lui si deve la distinzione fra ϑέσεις (le quaestiones infinitae dei latini) e ὑποϑέσεις (quaestiones finitae), cioè fra argomenti di interesse generale, etico-politici e giuridici, ma anche puramente teorici (considerati tradizionalmente propri dei filosofi), e argomenti concernenti direttamente la causa: persone, tempi, luoghi, circostanze, ecc. Ermagora non muove più dalle precedenti distinzioni dei generi dell’eloquenza, ma tenta una classificazione fondata sui modi in cui un quesito si presenta (στάσεις; lat. status), esemplati sulle esperienze del dibattimento giudiziale. Il suo sistema dominerà con successive modificazioni il mondo antico, senza riuscire a scalzare le classificazioni precedenti e anzi fondendosi progressivamente con esse.
I Romani assimilarono rapidamente la r. greca, come dimostrano le prime trattazioni a noi rimaste, la Rhetorica ad Herennium (trad. it. Retorica ad Erennio) e il De inventione, opera giovanile di Cicerone: ambedue sono di ispirazione ermagorea, ma con una notevole accentuazione dei fini pratici, secondo l’indirizzo antifilosofico della scuola retorica di Rodi. La Rhetorica è importante tra l’altro per l’opera di traduzione in latino della terminologia tecnica greca della r.; inoltre le fasi di organizzazione del discorso vengono fissate a cinque con l’aggiunta della memoria fra l’elocutio e la pronuntiatio (o actio). Cicerone considera estranee all’oratore le quaestiones infinitae; tuttavia la sua formazione culturale e l’insegnamento di Catone il Censore (l’oratore deve essere un vir bonus dicendi peritus) lo portano a concepire l’oratore come un uomo che, ben lontano dall’accontentarsi della tecnica retorica, è nutrito di filosofia e possiede larghe capacità di argomentazione, di distinzione, di classificazione. Un ideale, dunque, in cui filosofia e r. si ricompongono, producendo un tipo non dogmatico di eloquenza in contrasto con gli atteggiamenti più rigidamente scolastici che si affermeranno soprattutto in età augustea: asianismo e atticismo. L’insegnamento ciceroniano, affidato soprattutto al De oratore (trad. it. Dell’oratore), al Brutus (trad. it. Bruto) e all’Orator (trad. it. L’oratore), eserciterà un forte influsso sul sistema educativo tra la fine dell’evo antico e il Medioevo. La r. si colloca come disciplina cardine tra filosofia, giurisprudenza, poesia epica, lirica, drammatica. Il dissidio fra verità ed eloquenza, fra integrità morale ed esigenze del pubblico appare composto sia pure con soluzioni provvisorie, destinate a infrangersi sotto i colpi delle vicende storiche. La fine della Repubblica e la costituzione dell’Impero trascinano la r. verso una decadenza progressiva. Trionfa la declamazione, mentre si estingue progressivamente il libero scontro delle opinioni nella vita politica e nei tribunali. Sotto i Flavi, Quintiliano sintetizza le dottrine greco-romane nella Institutio oratoria (trad. it. L’istituzione oratoria), eccellente manuale che fu letto e studiato per secoli, e considerato nel Rinascimento un capolavoro della trattatistica. Verso la fine dell’antichità la r. domina la letteratura: sofisti e retori occupano nella società un altissimo posto e le scuole di r., divenuta un’arte della produzione letteraria in generale, si moltiplicano in tutto l’Impero (Atene, Smirne, Antiochia, Costantinopoli, Milano, Bordeaux, ecc.). Nel curriculum scolastico e nelle enciclopedie delle arti liberali, che si diffonderanno soprattutto nel Medioevo, essa si colloca alla sommità del trivium (grammatica, dialettica, r.).
La r. bizantina continua direttamente la r. greca, come si era venuta sistemando in età romana; testimone l’enorme diffusione delle dottrine di Ermogene e di Aftonio. In età più antica si continuano nella scuola di Gaza le ultime propaggini dell’asianismo a cui si riconnette Teofilatto Simocatta nel sec. 7°. Nel complesso passa trionfante alla cultura bizantina l’atticismo, fra i cui teorici va ricordato Niceforo Cumno (secc. 13°-14°). Tra i documenti più notevoli della pratica è il codice retorico dell’Escorial, dove sono raccolti discorsi, lettere, dissertazioni di produzione retorica, in prevalenza del sec. 12°. Alla fortuna che arrise ai retori latini dal 3° al 6° sec., fa contrasto la povertà delle opere, per la maggior parte scolastiche (Aquila Romano, 3° sec.; Mario Vittorino, Chirio Fortunaziano, Sulpicio Vittore, C. Giulio Vittore, Giulio Rufiniano, 4° sec.; Giulio Severiano ed Emporio, 5° sec.). Nei Saturnali di Macrobio, Virgilio stesso appare in veste più di retore che di poeta.
La nuova religione cristiana non disdegnò di servirsi, soprattutto nella predica, dei mezzi della retorica. Le basi della cristianizzazione della r. furono poste da Agostino, venuto a Milano nel 384 come maestro di r., nel De doctrina christiana (trad. it. La dottrina cristiana). Acquisire la tecnica elaborata dai pagani appare decisivo per difendere e diffondere la nuova religione. D’altro canto, lo stile delle Sacre Scritture invitava a rivedere il concetto di aptum, il rapporto tra forma e contenuto. La Bibbia aveva dato l’esempio della parola semplice capace di parlare anche agli illetterati. Il sermo humilis doveva essere allora, in contrapposizione allo stile artificioso dei pagani, la forma con cui comunicare il contenuto sublime della rivelazione. Al contributo di Agostino, con il quale la r. viene sospinta verso i problemi relativi all’interpretazione testuale dei libri sacri, si aggiungeranno in seguito quelli di Boezio e Cassiodoro, il quale ultimo nelle Variae offre un primo formulario cancelleresco retoricamente ornato. Intanto il distacco dall’oralità, il primato della teologia conducono la r. sempre più sotto l’ala della grammatica da un lato, della logica e della dialettica dall’altro, secondo un processo che contrassegnerà tutto il Medioevo con fasi alterne. Nella seconda metà del 5° sec. il centro degli studi retorici si sposta verso la Gallia. La r. vi rifiorisce rigogliosa, e domina, nel contenuto e nella forma, lo stile di cui la prosa rimata è uno dei più importanti espedienti; tra gli autori del 6° sec. emergono Venanzio Fortunato, Sidonio Apollinare e Claudiano Mamerto. Nel 7° sec., nel Sud Spagnoli e Visigoti, nel Nord Irlandesi e Anglosassoni esprimono per la prima volta forti personalità di retori: si ricordano soltanto Isidoro di Siviglia, che assegnò le figure di parola ai grammatici e quelle di pensiero ai retori, e Beda, che approfondì l’esemplificazione da testi cristiani delle figure. In quest’epoca il termine rhetoricus si usa sempre più per designare forme di stile elaborato e figurato, lontane dal linguaggio comune. Notevoli, nel secolo seguente, Alcuino, che scrisse una Disputatio de rhetorica et virtutibus (796) con intenti civili, non religiosi, in relazione all’incarico ricevuto di ricostituire l’insegnamento nel nuovo Impero carolingio, e nel 9° sec. Rabano Mauro, che al contrario nega nel De clericorum institutione (819; trad. it. La formazione dei chierici) che la r. appartenga al dominio della sapienza mondana poiché chi ne osserva i precetti (sia scrivendo, sia pronunciando un sermone), consegue maggiore efficacia nel predicare il verbo di Dio; Anselmo di Besate, detto il Peripatetico, che palesa dal canto suo (De materia artis, oggi perduto, Rhetorimachia) l’aspirazione dell’eloquenza a riconquistare i suoi diritti nel foro, e a ridiventare valido strumento di attività sociale. Questi diversi atteggiamenti fanno emergere uno dei temi dominanti della riflessione retorica attraverso i secoli: quale sia il posto che la r. deve occupare fra le discipline che via via si sono trovate a contatto con essa (logica, dialettica, poetica, grammatica speculativa e, più recentemente, linguistica, stilistica, semiologia, teoria della comunicazione, per limitarsi ai nessi più evidenti), problema che autorizza a leggere la storia della r. anche come storia dei rapporti che essa ha intessuto con le discipline limitrofe, delle gerarchie che ne sono conseguite, dei riassestamenti del suo oggetto di studio.
Sottoposta alla grammatica nei secoli centrali del Medioevo, la r. si mescola con le artes poeticae, con le artes dictandi e con le artes sermocinandi, nelle quali sulla prosa rimata viene prevalendo la tecnica dell’assonanza del concetto dominante rappresentato da una parola che si dilegua per riapparire a tratti, favorendo quel gioco di concetti e quel meccanismo logico di cui era intessuta la predica. Lo stile della ripetizione divenne quindi nel 12° sec. la forma artistica della scolastica, ed ebbe la sua consacrazione in Bernardo di Chiaravalle, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Fiorivano intanto le ‘arti poetiche’ con il proposito di raccogliere le norme retoriche per la letteratura di immaginazione. Così Marbodo di Rennes nel De ornamentis verborum (1100 ca.) illustra le figure di parola a uso dei versificatori, mentre Matteo di Vendôme, Goffredo di Vinesauf, Everardo di Béthun, Everardo di Germania, Giovanni di Garlandia e l’Anonimo di Saint-Omer, nelle loro poetiche trattano sottilmente anche delle figure, dei tropi, dei colori retorici, ecc. Poiché l’insegnamento scolastico si imperniava sull’analisi testuale (tale era il sistema di Bernardo di Chartres, così come dei maestri nelle scuole più celebri, Orléans e Parigi), si comprende l’autorità che, anche per la r., godettero grammatici come Pietro Elia e Alessandro di Villedieu, autore del diffusissimo Doctrinale, e la ragione per cui, mentre un erudito come Corrado di Mure scriveva la Summa de arte prosandi (1275), Vincenzo di Beauvais e Brunetto Latini dedicavano alla r. un’intera sezione delle loro enciclopedie. Ma di Latini va ricordata La rettorica (1262), traduzione del De inventione, con un continuato commento tale da costituire un secondo trattato, la cui originalità consiste nell’applicazione dei precetti ciceroniani alle epistole, e nel concetto nuovo che la r. non è più solo la scienza del dire ma anche del ‘dettare’, cioè dello scrivere lettere. Certo, nel seno del notariato, erano sorte molte opere teoretiche, dapprima semplici raccolte di formule con modelli per lettere e diplomi, per processi, ecc.; epistolari e formulari insomma, dai quali, dopo l’11° sec., la r. era stata sostituita, come fondamento della cultura giuridica professionale. Soprattutto l’epistola era venuta assumendo tutti i caratteri di una prosa artistica, e si riteneva dovesse apparire solenne come un’orazione; di qui la fioritura delle artes dictaminum. Stili prevalenti restavano pur sempre il solenne ‘della Curia romana’ con il suo cursus, il ‘tulliano’ con le sue figure, e sopra tutti l’‘isidoriano’ con la sua trionfante prosa rimata. Ma nuovi gusti e nuovi esempi vengono ora a modificarli. Se Boncompagno da Signa sta a sé per la maniera bizzarra e indipendente, fra Guidotto da Bologna andava liberamente contro le dottrine medievali e si univa a Latini nell’ideale di una prosa sobria e misurata che temperasse le esagerazioni musicali della forma isidoriana. Il vero iniziatore del nuovo metodo e l’instauratore della prosa d’arte retoricheggiante fu tuttavia Guido Fava con la Gemma purpurea e con i Parlamenta et epistole, nei quali egli sottopose la lingua parlata alle norme del solenne scrivere latino. Di qui lo svolgersi di un tipo di prosa artistica volgare modellata sul latino classico, retoricamente ornatissima, che trovò in Guittone d’Arezzo il suo primo dotto artefice.
L’Umanesimo tentò di risalire alle origini della r. classica per ritrovare lo stile, l’eleganza dei grandi autori in tutti i generi letterari, epistolografia compresa. La r. finì per essere il substrato indispensabile di ogni forma di attività intellettuale: donde il risorgere dei trattati sistematici come il De compositione di G. Barzizza, e la complessa e organica Rhetorica di Giorgio da Trebisonda, mentre le Elegantiae di Valla sono come una r. pratica dell’Umanesimo. L’educazione retorica, come risulta dal Cortegiano di B. Castiglione, appare indispensabile alla formazione dell’uomo di corte. Poetica e r. appaiono inestricabilmente intrecciate sia in Italia, sia in Europa. A tal proposito vanno ricordati in partic. nei Paesi Bassi le rederijkerskamers e i grands rhétoriqueurs alla corte di Borgogna, dove l’arte della r. divenne come il contrassegno della poesia.
Mentre lo sviluppo delle letterature volgari stimolava l’applicazione delle teorie retoriche alle nuove lingue, si venne preparando durante il 16° sec. il declino della r. antica attraverso la frammentazione e poi il restringimento della disciplina. Vives, nel De causis corruptarum artium (1531), e nel De ratione dicendi (1533; trad. it. De ratione dicendi: la retorica), criticava il confusionismo degli antichi trattatisti e sentenziava che oggetto della r. non poteva essere che l’elocutio, estesa alla prosa, storica e narrativa, e alla poesia. Particolarmente rilevante fu il contributo di Ramo nelle Dialecticae institutiones (1543) e nelle Scholae in tres primas liberales artes (1569), che assegnava alla dialettica l’inventio e la dispositio e riservava alla r. l’elocutio e la pronuntiatio (peraltro vistosamente trascurata in quanto ancora insufficientemente elaborata), mentre alla memoria veniva attribuita una funzione ordinatrice. La teoria delle passioni, da sempre connessa alle riflessioni sull’elaborazione del discorso, veniva esclusa dal campo della r. e affidata ai filosofi morali. Ridotta all’elocutio, scissa dai contenuti, sganciata ormai da qualsiasi contesto concreto, la r. era destinata a isterilirsi, trasformandosi in una disciplina dell’ornatus, del puro abbellimento formale, immiserendosi in un catalogo di artifici a disposizione del letterato. S. Speroni nel Dialogo della retorica (1542), volto a esaltare l’arte moderna sull’antica, limitò la r. all’ornato linguistico. Patrizi nei suoi dieci dialoghi Della retorica (1562) negò ogni consistenza scientifica alla r. antica. Nel 16° sec. i trattati sull’elocutio presero il sopravvento. Nel Demetrio (1562), P. Vettori svolge la teoria del periodo e delle sue forme, della prosa numerosa e dell’ornato. F. Panigarola (Il predicatore, post., 1609) sostiene che l’elocutio è un’arte del ragionare, ma diversa dalla r., perché insegna a ragionare eloquentemente; essa è una disciplina a sé avente altrettante forme quante sono le disposizioni della mente. E F. Robortello poteva proclamare, pubblicando il Sublime dello pseudo-Longino, che il pregio dell’oratore non sta semplicemente nel persuadere ma nel colpire, «a guisa di fulmine», con il sublime, lo straordinario, il meraviglioso; una condanna della precettistica retorica in nome del furore poetico.
La teoria dell’espressione doveva riscuotere di nuovo consenso durante l’epoca barocca. La «teoria dell’ingegno» invitava a osservare con acutezza attraverso la parola gli aspetti più reconditi della realtà da cui poter ricavare associazioni sorprendenti, ingegnose. Il «concettismo» fu teorizzato soprattutto da Gracián (Agudeza y arte de ingenio, 1648; trad. it. L’acutezza e l’arte dell’ingegno) e da E. Tesauro (Cannocchiale aristotelico, 1655). Ma un ulteriore colpo a una disciplina le cui basi erano state pericolosamente minate venne dal clima instauratosi in Europa con il diffondersi delle nuove idee e metodologie scientifiche. Un’opposizione inedita fra lettere e scienze, fra r. e logica, si fa strada, contribuendo a rafforzare il restringimento della r. già teorizzato da Ramo. Contro l’abuso dell’ornato reagì tra gli altri C.-Ch. Du Marsais (Traité des tropes, 1730). Per qualche tempo lo sviluppo del pensiero illuminista applicato alla psicologia rilegherà la teoria delle passioni alla retorica. A quest’ultima è affidato il compito di aiutare l’uomo a esprimersi nelle forme in cui si esplicano le sue facoltà più elevate, cioè nel discorso scritto, filosofico o scientifico. Le figure retoriche divengono per molti teorici un sintomo delle differenti passioni del soggetto. Home, negli Elements of criticism (1762), tenta per l’appunto un’interpretazione delle figure partendo dall’elemento passionale, e Blair rinnova con il suo insegnamento di Edimburgo la dottrina retorica in una serie di Lectures on rhetoric and belles lettres (1783; trad. it. Lezioni di retorica e belle lettere), tradotte in tutta Europa, diffondendo principi ispirati al senso della misura, e ragguagliando il linguaggio figurato ai fattori dell’immaginazione e della passione.
P. Fontanier (Les figures du discours, 1827) scrive uno degli ultimi fortunati trattati in cui si manifesta sin dal titolo la riduzione della r. all’ornatus; una disamina attenta e fine delle figure, di cui si riconosce la presenza anche nel parlare comune. Nozione fondamentale, e per molti versi antica, è quella di ‘scarto’, di allontanamento dalla forma d’espressione semplice, propria. Ma sciolta ormai da ogni contesto situazionale, da ogni ricerca sulla forma dei contenuti, anch’essa poggiava su basi incerte. Sviluppando antiche opposizioni, quali natura e artificio, verosimile e assurdo, chiarezza e oscurità, ragione e passione, il Romanticismo, coerentemente con la sua concezione della poesia come diretta effusione dell’anima, svalutò la teoria dell’ornato. La battaglia contro la r., identificata con l’elocutio, considerata come un farraginoso ammasso di precetti privi di legami con la realtà, il sentimento, la poesia, ebbe tanto successo che da allora r. e l’aggettivo retorico si sono caricati di un valore negativo che mantengono ancora oggi. Certo le mutate condizioni storiche e sociali, la crescita culturale accompagnata da un’estensione e un approfondimento dei generi letterari di ogni specie, la contestazione e il superamento di molte convenzioni e di molti steccati a opera delle avanguardie, la diffusione della stampa, la nascita di nuove discipline di grande rilevanza, lo sviluppo del metodo scientifico avevano reso nel corso del 19° sec. la r., così come si era venuta configurando, del tutto inadeguata a rispondere alle esigenze della comunicazione, artistica e non. Nelle scuole, dove essa continuò ad avere culto e dignità di trattazioni, la r. dava in genere ormai il suo nome a un’elementare propedeutica letteraria. La critica negativa proseguì, e in taluni casi si esacerbò perfino, nel corso del 20° sec., soprattutto nell’ambito del neoidealismo italiano con Croce (ma non tra i seguaci tedeschi di Croce, come K. Vossler e L. Spitzer, di diverso avviso su questo punto).
Tuttavia il Novecento è stato anche l’epoca della rinascita degli studi retorici su basi radicalmente nuove. Già i manuali di eloquenza giudiziaria, come quello di H.F. Ortloff, Die gerichtliche Redekunst (1887), e le rielaborazioni aristoteliche, come gli Elements of rhetoric (1828) di Whately, accennavano a una ripresa di interessi, intensificatasi nel secolo successivo per diverse vie. Un impulso decisivo è venuto dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. In ambito filosofico, il positivismo logico sviluppatosi negli anni Trenta del Novecento rivolse il suo interesse a un’analisi del funzionamento logico e simbolico del linguaggio su basi scientifiche. In ambito pedagogico, nel paese in cui più sviluppati erano i mezzi di comunicazione di massa e gli studi sulla formazione del consenso, si ricercavano nuovi metodi rivolti all’insegnamento della comunicazione pubblica. Contro la frammentazione e la distruzione della r. operata dal Romanticismo, ci si rivolse ad Aristotele. Nei decenni successivi l’attenzione venne spostandosi verso il discorso orale, verso il pubblico da persuadere, verso la costruzione del discorso, l’organizzazione dei suoi contenuti in vista di un determinato scopo. La r., rivista e ammodernata nei suoi presupposti, apparve come un valido strumento di interpretazione di testi scritti e orali, soprattutto se si fosse abbandonata una visione incentrata sul produttore del discorso e si fosse abbracciata la relazione produttore-fruitore-condizioni di produzione e di fruizione. D’altro canto, l’esistenzialismo e la scuola fenomenologica, mettendo in discussione la distinzione stessa fra vero e probabile e sottolineando la relatività e storicità di ogni acquisizione umana, ponevano le basi per un recupero della r. come analisi del discorso argomentativo attraverso cui si forma la conoscenza. Una delle tappe fondamentali della rivalutazione novecentesca della r. come teoria dell’argomentazione è segnata dal lavoro di Perelman e di L. Olbrechts-Tyteca (Traité de l’argumentation, 1958; trad. it. Trattato dell’argomentazione). Ma vanno ricordati anche i contributi di Gadamer, Habermas, Blumenberg relativi all’ermeneutica. In sede storiografica, in svariati ambiti storico-letterari si è mostrata la presenza operante di categorie retoriche nella costruzione di testi letterari non solo del passato: per la letteratura latina medievale e italiana delle origini, un’analisi esemplare in tal senso fu l’opera Tradizione e poesia (1934) di A. Schiaffini; più in generale vanno ricordati i lavori di E.R. Curtius, di H. Lausberg (autore di un Handbuch der literarischen Rhetorik, 1960), di A. Pagliaro, di J. Dubois (figura di spicco del Gruppo μ, cui si deve una Rhétorique générale, 1970; trad. it. Retorica generale: le figure della comunicazione, che è soprattutto una rielaborazione dell’elocutio applicata all’analisi letteraria), di H.F. Plett. Nell’ambito della filosofia estetica, va segnalata l’opera di Della Volpe (➔). La diffusione dello strutturalismo ha restituito vigore a forme di analisi dei testi che ne sottolineano il carattere di costruzione complessa, che, indipendentemente dalle consapevoli intenzioni dell’autore, ricorre largamente a tropi, figure di parola e di pensiero, e a strutture formali di cui si sono messe in evidenza le inevitabili ricadute sul piano dei contenuti. Meritano di essere citati almeno i lavori di R. Jakobson e di Barthes (autore, fra l’altro, del saggio L’ancienne rhétorique, 1970; trad. it. La retorica antica). Negli Stati Uniti la New Rhetoric (C.J. Hovland, Richards), in cui si fondono correnti provenienti da diverse discipline (linguistica, sociologia, psicologia, filosofia, teoria della comunicazione), ha influito particolarmente sulla teoria dei mezzi di comunicazione di massa. Anche le recenti teorie cognitiviste puntano a un recupero della r., soprattutto delle figure, come analisi dei meccanismi dell’uso traslato nel linguaggio quotidiano (D. Sperber, G. Lakoff). Vanno inoltre menzionati i tentativi di estensione della r. al di là delle lingue naturali, come nell’opera di K. Burke in cui si tratta in chiave retorica della comunicazione non verbale e delle sensazioni. Infine, va sottolineato come si sia esteso in vari ambiti (psicanalisi, critica d’arte, teoria delle comunicazioni di massa, pubblicità) l’impiego di strumenti retorici, quali le figure, ma non solo, per analizzare gesti, immagini, oggetti non linguistici.