Riabilitazione
Con il termine riabilitazione s'intende l'insieme dei mezzi utilizzati per restituire alla comunità quei soggetti che per qualsiasi motivo (disabilità fisica o mentale, droga, prostituzione ecc.) ne siano temporaneamente esclusi. La riabilitazione assume un particolare significato in campo medico in quanto, riferendosi agli esiti di eventi patologici o traumatici che riducono le capacità dell'individuo a funzionare adeguatamente e interagire socialmente, cerca di proteggerne o ripristinarne l'identità personale e sociale. Tuttavia la riabilitazione trascende i confini della medicina, i cui procedimenti terapeutici possono essere considerati in parte anche riabilitativi. Infatti la riabilitazione prende in considerazione non solo gli aspetti motori, cognitivi o comportamentali limitati da una qualsiasi patologia, ma anche quelli psicosociali, economici e lavorativi.
1. Dal movimento alla coscienza
A lungo la riabilitazione è stata considerata come un aspetto residuale della medicina che, esaurito il proprio compito di diagnosticare e di curare l'evento patologico acuto o cronico, tende ad affidarne le conseguenze invalidanti a personale meno qualificato, le cui mansioni possono spaziare dall'assistenza più o meno caritativa, alla ginnastica, al massaggio, all'uso dei mezzi fisici, all'elaborazione di ausili tecnici atti a far funzionare al meglio l'individuo disabile (Formica 1989). Questa impostazione ha fatto sì che l'intervento riabilitativo venisse considerato prevalentemente empirico e rivolto quindi ad aspetti esteriori, appunto empiricamente constatabili e correggibili, quali soprattutto quelli motori. È per questo motivo che gli interessi di quella che oggi può essere definita una specialità medica a sé stante furono rivolti fondamentalmente al trattamento degli esiti di patologie dell'apparato scheletrico e muscolare. Successivamente si è passati dallo studio degli aspetti meccanici, cinesiologici, del movimento a quello delle strutture che della variazione dei rapporti fra leve scheletriche sono responsabili, cioè il sistema nervoso. Ci si è resi conto che il movimento dell'uomo non può essere considerato semplicemente come uno spostamento del corpo o di una sua parte nello spazio, ma come espressione di un affaccendamento esistenziale dell'individuo che con il suo corpo abita lo spazio che lo circonda, lo adatta a sé e a esso si adatta, non per esigenze puramente biologiche, ma per la necessità di agire nel mondo e interagire con i propri simili, trasformando l'atto motorio in comportamento, in 'gesto' significante per l'Io che lo compie e per l'altro cui si rivolge. Solo così si può comprendere come l'attività 'automatica' del feto e del neonato evolvano in attività esplorative e percettive che permettono di costruire un proprio schema corporeo, un'immagine di sé, che successivamente si mette in relazione con il mondo esterno secondo schemi continuamente mutevoli, in cui azione e percezione si fondono in un processo di apprendimento sempre più vasto; in cui le memorie delle esperienze passate si integrano e, in relazione alle circostanze e agli stati d'animo, si trasformano in comportamenti significativi. L'attività motoria e quella percettiva rappresentano il prerequisito indispensabile perché possano instaurarsi quei processi di memorizzazione e di apprendimento che consentono all'essere vivente di soddisfare le sue esigenze biologiche e comportamentali. L'assenza come pure la riduzione di un'attività sensomotoria integrata limitano le possibilità di apprendimento in condizioni normali e ancor più in quelle patologiche. L'empirismo, cui la riabilitazione deve gran parte dei successi ottenuti in passato, non svilisce il significato del suo apporto alla conoscenza dell'uomo. Questi non può essere considerato solo come un insieme di meccanismi interagenti fra loro, ma come un tutto che interagisce con il mondo esterno, lo modifica, venendone a sua volta modificato, in un continuo gioco di adattamenti reciproci, che possono sfuggire a una precisa codificazione di parametri fisici e biochimici, ma che non possono fare riferimento soltanto a elementi motivazionali, emotivi o conoscitivi. Questi e quelli insieme rappresentano l'espressione di una globalità dell'uomo, Io unico e irripetibile. Il dualismo cartesiano che separa la mente dal corpo trova allora modo di superarsi in un'integrata globalità mente-cervello in cui l'Io, la coscienza, non può essere considerato semplicemente come il prodotto di un'attività neuronale (Edelman 1987; Searle 1997), ma rappresenta il vero iniziatore delle complesse sequenze di reazioni elettriche, fisico-chimiche, biochimiche che sono alla base di quelle attività motorie e percettive indispensabili per l'esplorazione, per la costruzione di esperienze. Esse, integrate fra loro, permettono la localizzazione dell'Io nel tempo e nello spazio e costituiscono il correlato materiale della coscienza (Eccles 1994). H. Jackson (1931) sosteneva che i processi psichici si realizzano durante il funzionamento del cervello ma non sono funzioni del cervello, per cui non è possibile avere una visione materialistica della coscienza. Le strutture cerebrali come quelle di ogni altra parte del corpo si tramandano di generazione in generazione quale espressione di un patrimonio genetico, ma ogni organismo ha una propria nascita, una propria vita e una propria morte individuali.
È in questo iter che si forma il carattere individuale della coscienza: essa è rigorosamente isolata da ogni altra coscienza, è rigorosamente privata. L'uomo, pur disponendo di un imprinting genetico e ambientale, costruisce il suo proprio mondo di immagini, emozioni, sentimenti. Ciò non toglie che la coscienza sia orientata verso l'esterno e che i suoi contenuti vengano in gran parte determinati dall'esterno; tuttavia, qualunque sia l'elemento o l'evento del quale diventiamo coscienti, questi entrano in una certa disposizione che soltanto nella totalità della coscienza diventa capace di determinare l'azione delle singole strutture del cervello e del corpo: la globalità dell'operare non rappresenta la somma delle singole azioni e delle singole strutture, ma è a esse immanente. A. Damasio (1994) ha ipotizzato che un cervello, isolato dal corpo e mantenuto in vita in una soluzione nutritiva, possa avere esperienze mentali se stimolato attraverso i monconi delle vie afferenti come se fosse effettivamente collegato ai vari organi periferici. Tuttavia la mancanza di stimoli in uscita diretti al corpo provocherebbe la sospensione di quella modulazione dei segnali afferenti derivante dal rinnovarsi e dal modificarsi degli stati indotti dai segnali efferenti che, ripresentati momento per momento al cervello, costituiscono il fondamento del senso di essere vivi. Non possono darsi, per questo motivo, né un'interazione esistenziale di un corpo senza un cervello al quale appartiene, né un'attività di coscienza di un cervello senza il corpo che gli appartiene e attraverso il quale può agire, percepire e comunicare. Un oggetto posto nello spazio viene così riprodotto nella coscienza, la quale provvede ad associare i vari stimoli parcellari in un significato compiuto che consente, per es., di distinguere il cigolio di una porta, il suono di una campana, il crepitio del fuoco davanti a un caminetto o durante un incendio. L'ambiente non è un elemento statico immutabile che esiste fuori di noi ma, come sostiene M. Heidegger (1927), un elemento strutturante dell'essere, al quale non si contrappone ma con il quale si integra. Qualsiasi oggetto, prima non esistente, viene esplorato, afferrato, trasformato in un contenuto della coscienza insieme all'ambiente nel quale è situato e verso il quale l'Io si volge e si situa a sua volta. Esistono cioè un mondo fisico e un mondo degli stati di coscienza che interagiscono fra loro. Le sensazioni provenienti dal nostro apparato sensoriale non sono sufficienti per costruire una percezione. Questa è condizionata dal continuo variare delle sensazioni in rapporto ai movimenti, agli aggiustamenti del corpo che, a loro volta, modificano le sensazioni.
2. Deprivazione funzionale e recupero di abilità
Ora, se, come detto sopra, il movimento nel suo più vasto significato di psico-senso-motricità è la base del rapporto organismo/ambiente, appare chiaro come una sua alterazione, sia nel momento della sua esecuzione sia in quello della sua ideazione e programmazione, incida sul rapporto in questione alterando i ruoli delle presenze esistenziali. La riabilitazione ha contribuito all'evoluzione delle neuroscienze, dimostrando che ogni diminuzione o abolizione di funzione che si verifichi in qualsiasi parte del corpo si può ripercuotere sui livelli di integrazione funzionale e quindi sugli stati di coscienza e sulla capacità dell'uomo di rendersene conto e di esplicitare comportamenti adeguati. I fenomeni di 'deprivazione funzionale' (Trattato di neurologia... 1985), di 'alienazione' di un segmento corporeo (Sacks 1984), di 'amputazione interna' (Leontev-Zaporozec 1960), possono non derivare da un interessamento diretto delle funzioni corticali superiori ma coinvolgerle, determinando un'alterazione della coscienza di sé, una riduzione delle capacità e delle abilità a elaborare corretti rapporti spaziali e temporali. La riabilitazione ha permesso inoltre di mettere in evidenza le caratteristiche di plasticità di strutture altamente differenziate e considerate perenni, come il sistema nervoso. Tali caratteristiche consentono recuperi funzionali più o meno completi anche dopo lesioni estese. I buoni risultati ottenibili nei pazienti colpiti da ictus, nei paraplegici, nei comatosi, sono chiaramente dimostrativi di questa possibilità, come lo sono d'altronde quelli che si verificano nel trattamento del ritardo mentale e dell'autismo. Un adeguato trattamento rieducativo sembra attivare e accelerare quelle doti di plasticità degli organi, e in particolare del sistema nervoso, che possono consentire l'acquisizione o il recupero di capacità e di abilità non soltanto motorie ma anche intellettive e comportamentali. Indipendentemente da specifiche patologie, l'uomo va incontro, nel corso della sua vita, alla perdita di una gran parte del patrimonio neuronale che possedeva alla nascita; eppure, se adeguatamente stimolati, i neuroni superstiti dimostrano un aumento dei loro alberi dendritici, delle loro proliferazioni sinaptiche, che è alla base delle possibilità di mantenere, anche in tarda età, vivaci interessi e capacità di interazione (Levi-Montalcini 1998). L'estendersi delle esperienze riabilitative, il sempre crescente numero di patologie sulle quali la riabilitazione può intervenire, dalle sindromi genetiche alle neurolesioni dell'età evolutiva, dai disturbi di memoria e di coscienza dell'anziano ai disturbi del linguaggio, hanno pertanto contribuito a chiarire che riabilitazione non è sinonimo di rieducazione motoria: il movimento rappresenta uno strumento del quale ci si può servire, non lo scopo del programma riabilitativo. Lo scopo che la riabilitazione si propone, perciò, non è tanto il recupero delle capacità motorie, quanto di quelle abilità per mezzo delle quali l'uomo si adatta all'ambiente, lo adatta a sé e alla sua esigenza di comunicare, per vivere, rivivere, far vivere ad altri emozioni e sentimenti; per proporre ipotesi e cercarne la soluzione, indipendentemente dall'esistenza di fatti o di soluzioni precedenti, così come pretenderebbe l'induttivismo su cui si fondano generalmente le ricerche scientifiche.
3. Interdisciplinarità
L'empirismo delle tecniche riabilitative, la difficoltà di verificare sperimentalmente molte affermazioni teoriche, la necessità di prendere in considerazione ciò che è spesso contingente e irripetibile, hanno determinato la produzione di scale di valutazione motoria, funzionale, cognitiva, di proposte di tecniche di trattamento, di esercizi terapeutici, non sempre confrontabili fra loro per la diversità dei presupposti teorici su cui si basano. Ciò ha anche alimentato uno sterile antagonismo fra fisiatri, neurologi, ortopedici, geriatri, operatori paramedici ecc., che ha visto ciascuno rivendicare un diritto di priorità sull'impostazione e sulla gestione di un programma riabilitativo. Quest'ultimo, al contrario, può solo scaturire da un'interdisciplinarità in cui le singole competenze si integrino e si fondino su un progetto operativo a lungo termine. Le ricerche in campo riabilitativo convergono infatti da più discipline e permettono di spiegare come un organismo, che va considerato come un sistema complesso, coordini l'interazione dei vari sottosistemi che lo compongono, variandone i reciproci gradi di libertà per produrre comportamenti funzionali, o come una pratica ripetitiva favorisca l'apprendimento o il mantenimento di un'abilità. Un approccio interdisciplinare offre pertanto la possibilità di modulare e di variare gli interventi, adattandoli al livello e alle qualità della lesione e alle loro interferenze sui comportamenti di ogni singolo paziente, e mette in luce nuove vie per interpretare i meccanismi di plasticità, di recupero e di riorganizzazione funzionale che possono verificarsi in ogni età della vita.
4. Esercizio terapeutico
L'esercizio terapeutico deve favorire nel paziente l'esplicitazione di comportamenti adatti al contesto funzionale e mantenere la stabilità di tali comportamenti, superando il concetto di una generica rieducazione (associato, nella cultura comune, a quelli di ginnastica o di massaggio), che non può costituire la base di un 'controllo del recupero' (Formica-Rinaldi 1989) e di un 'apprendimento in condizioni patologiche' (Perfetti 1981) attraverso strategie cognitive. Indipendentemente quindi dai principi e dalle formulazioni classiche dell'esercizio terapeutico ampiamente descritti dalla letteratura, che si basano su valutazioni dell'escursione articolare, del tono muscolare, della forza, delle capacità di autonomia e di espressione e su proposte di tecniche rieducative tendenti a migliorare le funzioni esaminate, sembra necessario, prima di elaborare un programma dettagliato di trattamento, porsi una serie di domande che prescindono dalle eziopatogenesi del disturbo, dalla sua manifestazione fenomenica e dall'approccio metodologico, e cioè: "Perché per la riparazione di un sistema alterato in una delle sue componenti bisogna utilizzare lo strumento denominato esercizio? Quali sono le sue componenti generali? Cosa viene trasmesso attraverso di esso? Cosa si vuole ottenere da esso? Quali caratteristiche deve avere un contesto terapeutico in cui esercitare? Cos'è più utile esercitare? Perché un esercizio dev'essere ripetuto?". Si tratta di quesiti provvisori, di variabili che devono essere introdotte nel sistema osservatore/osservato per ricavarne domande più proprie e più specifiche relative all'atto riabilitativo in questione. L'esercizio si propone di 'abituare' un soggetto attraverso una ripetizione di atti, in modo da fargli acquisire una disposizione ad agire in un determinato modo, un'abitudine appunto. Si può fornire così un'esperienza postlesionale utile sia per il controllo delle componenti patologiche, sia per l'organizzazione di un comportamento funzionale stabile. Un'abitudine presuppone un cambiamento da un precedente equilibrio, oltre il quale persiste in modo stabile. Niente sarebbe suscettibile di abitudine se non fosse anche suscettibile di cambiamento. Ciò che genera abitudine non è il cambiamento in sé, ma la sua ripetizione nel tempo. Per mezzo dell'esercizio può essere indotto un cambiamento delle abitudini sfruttando le capacità autorganizzative del soggetto. Ogni organismo infatti tende a ripetere ciò che funziona e che lo conduce a un risultato soddisfacente. Per ripetere è indispensabile che il soggetto realizzi un riconoscimento connesso con i processi di memoria che debbono essere attivati per adeguare la ripetizione alle esperienze precedenti. Queste attivazione e riattivazione sono legate alla recente esperienza lesionale che viene vissuta in modo diverso da ogni soggetto e può essere modificata nel contesto operativo. Il paziente va considerato nella sua connotazione sistemica nella quale l'operatore e l'esercizio intervengono come variabili indipendenti allo scopo di perturbare uno stato di equilibrio indesiderato. Elementi necessari per la progettazione di un esercizio terapeutico che induca cambiamento in un sistema leso sono quindi lo studio di come è organizzato il sistema in esame e delle sue modalità interattive con altri sistemi, compreso il contesto terapeutico. Nel corso dell'evoluzione della scienza riabilitativa sono state via via proposte tecniche rieducative a impostazione prettamente motoria e segmentale, o neuromotoria o conoscitiva, spesso considerate antitetiche; il loro 'scontro' non sembra tuttavia avere ragione di essere se si tiene conto dei recenti sviluppi della neurofisiologia e delle neuroscienze, che tendono a evidenziare le modalità di interazione fra i sistemi, superando la scomposizione analitica del movimento e delle singole strutture coinvolte nella sua genesi. Le contraddizioni e le distanze che si possono evidenziare fra fisiologia, cinesiologia, ortopedia, neurologia, psicologia ecc., se correttamente interpretate, indicano come ciascuna di esse offra, dell'oggetto della nostra osservazione, indispensabili frammenti di spiegazione, che sono però aspetti parziali della realtà, non la realtà. Poiché l'obiettivo più importante per il riabilitatore è quello di facilitare l'acquisizione di esperienze, l'attuazione pratica di atti consapevoli, il miglioramento del rapporto fra soggetto e oggetto, con l'esercizio terapeutico è necessario non evocare serie di atti mirati al raggiungimento di un equilibrio stabile e poco modificabile (atti stereotipati), non concentrarsi sull'esclusiva analisi del risultato raggiunto, ma invece: evocare 'strutture coordinative' tese a ricostituire stabilità, in modo consapevole; indurre modificazioni direttamente dall'esperienza (apprendimento); facilitare l'acquisizione in forma definita di ciò che si realizza in contrapposizione a ciò che può essere in potenza; interpretare il potenziale funzionale, tenendo conto del mutare della realtà e delle trasformazioni della sottocomponente ambientale; stabilire la funzione dei parametri di un sistema che determina lo stato e l'evoluzione nel tempo del sistema stesso attraverso la conoscenza e la pratica delle cose acquisite per prove oppure per imitazione; agevolare la ripetizione di ciò che il sistema nervoso ritiene che funzioni; indurre la capacità di mantenersi o tornare prontamente in assetto normale in seguito a una perturbazione; procurare processi trasformativi proponendo informazioni di discrepanza che discordino con gli stati di equilibrio.
5. Progetto riabilitativo
Osservando lo sviluppo psicomotorio e somatico di un soggetto normale, notiamo che esso si articola e si realizza attraverso la trasformazione delle diverse strutture dell'organismo, da quelle muscoloscheletriche a quelle neurologiche e psichiche, e ciò avviene proprio in conseguenza dell'evoluzione in atto (e anche dell'involuzione che si verifica nella senilità). Evoluzione che non significa solo 'sommazione' di varie componenti (come involuzione non significa solo 'sottrazione'), ma vera e propria trasformazione del soggetto. L'instaurarsi di una patologia può alterare (a diversi livelli e nel tempo) questo processo di trasformazione: rallentandolo, arrestandolo, accelerandolo o, comunque, compromettendolo; l'intervento del riabilitatore mira a interferire positivamente con questi meccanismi fuorvianti. La riabilitazione, dunque, è un processo di trasformazione/evoluzione che si realizza nel tempo, qualificandosi come esperienza di apprendimento, con caratteristiche psicologiche e valenze comportamentali (che procede, cioè, attraverso le modificazione del comportamento). L'articolazione di tale procedura può essere programmata definendo, in prima istanza, gli obiettivi riabilitativi e i contenuti da proporre per sollecitare e orientare le acquisizioni delle abilità, di cui il paziente dovrà servirsi per i passi successivi. Tali obiettivi, pur variando secondo i casi e i momenti (obiettivi a breve, medio e lungo termine), presenteranno, nelle linee generali, denominatori comuni: la rielaborazione degli schemi motori alterati e l'acquisizione di quelli in ritardo, il recupero (oppure la conquista) delle capacità di coordinazione e controllo dei parametri del movimento, della postura e della parola; il potenziamento della fiducia in sé stessi e della volontà di un'adeguata integrazione sociale. Una volta acquisiti gli orientamenti necessari per la strutturazione di obiettivi e contenuti, diventa più semplice anche l'individuazione della metodologia (e cioè della procedura terapeutica) più idonea al momento e al soggetto e, di conseguenza, la scelta dei materiali e dei sussidi da adoperare. È sicuramente più opportuno, pertanto, rapportarsi a modelli flessibili, a impostazioni eclettiche di cui il riabilitatore sia, in definitiva, artefice e responsabile. È utile, per es., considerare come il paziente vive le proprie condizioni, quanto le sente sue, come si percepisce, in che modo e in quale misura si rapporta ai familiari e all'ambiente circostante. È importante tentare di capire quale sia la conoscenza che egli ha della patologia da cui è affetto, quale concetto abbia della riabilitazione e delle possibilità reali di recupero, quale la sua capacità di interpretare dati e quella di partecipare (effettuare applicazioni pratiche, attentive ecc.). In seguito a quella che per semplicità chiameremo 'analisi della situazione di partenza', sarà il riabilitatore stesso a porsi delle domande inerenti al campo operativo, relativamente agli obiettivi ("Cosa voglio - o posso - ottenere dal paziente?"); ai metodi ("Come devo - o posso - farlo lavorare?"); ai materiali ("Con quali strumenti?"); ai contenuti ("Su quali tematiche: attenzione, memoria, spazialità, gestualità, motricità?"); alle fasi di lavoro ("Come posso iniziare la terapia e come continuarla?"); alle verifiche ("Quando e in che modo posso valutare i risultati conseguiti in ogni fase?"); ai tempi ("Come posso distribuire le sedute di terapia nella settimana, nel mese ecc.?"). La scelta metodologica, pur inserendosi nel contesto della programmazione riabilitativa quale momento qualificante e insostituibile, resta pur sempre un momento. Il più delle volte, invece, la stessa scelta della metodologia da adottare viene confusa con l'intera programmazione e cioè con l'insieme indistinto di obiettivi, contenuti, test, risultati ecc.; di conseguenza, in molti casi la seduta di terapia si basa su una serie di stimolazioni (o assegnazioni di compiti) effettuate dal riabilitatore in modo impositivo, dove il tempo disponibile è consumato in una stereotipata ripetizione di gesti pseudoterapeutici.
6. Rapporto terapista-paziente
L'intervento riabilitativo, invece, quale che sia la fase interessata, deve basarsi su un processo di elaborazione organica e pratica di comportamenti finalizzati e significativi, sviluppati da un soggetto (il paziente) con una sua storia e una sua individualità (vissuto), ma promossi e controllati da un altro soggetto (il riabilitatore) con una sua storia e una sua individualità. Troppo frequentemente, in riabilitazione, ci si riferisce più ai metodi di trattamento e alle patologie che ai pazienti come persone. La conseguenza più comune di questo equivoco è che il paziente finisce con il vivere negativamente la propria esperienza: sentendosi scarsamente motivato, partecipa poco e male; invece di essere il primo attore di questa azione finisce con il subirla, tende al rifiuto passivo o aggressivo della riabilitazione, del riabilitatore, dell'ambiente (Milani Comparetti-Gidoni 1971). Fondamentale, a questo proposito, è il rapporto paziente-riabilitatore, il modo in cui viene impostato, il significato che riveste per entrambi (Morosini 1986). Crediamo che tale rapporto si basi essenzialmente sul concetto di aiuto intenzionale e programmato (e perciò controllabile) che l'esperto fornisce a chi ha bisogno, mediante metodi che pongono quest'ultimo in una situazione quanto più attiva possibile, affinché comprenda, agisca, riacquisti capacità perdute o adotti strategie comportamentali utili: acquisisca insomma atteggiamenti adeguati alle finalità terapeutiche. La riabilitazione, allora, ci appare nella sua veste di processo controllato dal riabilitatore, ma controllabile anche dal paziente; legato, quindi, non solo alla scelta delle condotte terapeutiche da adottare, ma anche alle esperienze e alle spinte motivazionali di entrambi i soggetti. Rendere il processo riabilitativo controllabile anche dal paziente significa porre quest'ultimo nelle condizioni di poter valutare da solo il proprio operato, ricavando autogratificazione per lo svolgimento adeguato dei compiti assegnati e ulteriore spinta motivazionale (ma anche autocritica o consapevolezza per ciò che non è possibile). Il concetto di autovalutazione assume notevole rilevanza pratica, in quanto consente al paziente, al di là della seduta di terapia, di modulare i propri comportamenti adattativi anche in assenza di chi all'esterno possa operare tutta una serie di controlli. L'esercizio terapeutico deve pertanto essere considerato un processo dinamico caratterizzato dall'attiva interazione fra i partecipanti: il paziente e il contesto informativo. In esso vengono evidenziate la natura e la qualità dei processi di comunicazione che hanno luogo nella relazione paziente-terapista-esercizio. La scomposizione dell'atto nelle sue sequenze, nei suoi moduli e schemi permette di aggiungere sempre nuovi tasselli alla sua definizione. Si può, per es., prevedere che le ricerche sui neurotrasmettitori, sugli intimi meccanismi fisico-chimici che sottendono ogni umana attività riusciranno ad aggiungere nuovi elementi al modo di interpretare l'esercizio terapeutico e di proporne l'attuazione.
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