DALLA VOLTA, Riccardo
Nacque a Mantova il 28 ott. 1862 da Giuseppe e Benvenuta Cantoni. Laureato in scienze economiche, iniziò ventiduenne la sua carriera di insegnante quale professore di diritto commerciale nella Regia Scuola superiore di commercio di Venezia, ma presto passò all'istituto superiore di scienze sociali "Cesare Alfieri" di Firenze, prima come professore di scienza delle finanze e poi come docente di economia politica. Dell'istituto fiorentino il D. fu per molti anni direttore, succedendo nel 1909 ad A. De johannis e conservando il proprio incarico fino al 1927. Dopo la trasformazione della scuola in facoltà universitaria, fu direttore di quella sezione dell'istituto che prese il nome di Regio Istituto di scienze economiche e commerciali, fino al 1936.
Collaboratore, fin dai primi numeri, della Riforma sociale diretta da F. S. Nitti e da L. Roux, scrisse sulla Nuova Antologia, sull'Economista, sul Giornale degli economisti e su numerose altre riviste italiane e straniere, principalmente interessate alle questioni concernenti l'organizzazione del lavoro ed i problemi monetari e creditizi.
Per molti anni notista economico della Nazione, il D. fu assessore alla Pubblica Istruzione e alle Finanze dei comune di Firenze negli anni tra il 1910 ed il 1913 e, in seguito, tra il 1915 ed il 1919. Fece parte successivamente del consiglio di amministrazione dell'I.R.I. (Istituto per la ricostruzione industriale). Innumerevoli sono i motivi presenti nell'opera - sterminata - del D., e la sua collocazione nel pensiero economico italiano è per molti versi originale. Scolaro di F. Ferrara e T. Martello, fu economista, storico dell'economia e sociologo del lavoro particolarmente sensibile all'esperienza di paesi, come l'Inghilterra e la Germania, nei quali, a suo giudizio, la soluzione della questione sociale aveva potuto essere impostata, pure in forme diverse, in termini che escludevano il coinvolgimento del movimento operaio nella gestione dello Stato.
Questa soluzione non aveva implicato infatti in quei paesi la rinuncia, da parte della borghesia, all'autonomia politica e culturale che sembrava invece richiesta dalla strategia perseguita in Italia da Giolitti, concretandosi, in quelle diverse realtà nazionali, in un progressivo adattamento delle strutture civili e degli apparati istituzionali della società liberale alle modificazioni' intervenute con lo sviluppo capitalistico. Di quest'interpretazione delle vicende politico-sociali tra Ottocento e Novecento sono testimonianza tanto gli studi dedicati dal D. al socialismo di Stato tedesco raccolti nel volume Questioni economiche di ieri e di domani (Milano 1915), quanto i precedenti Saggi economici e finatiziari sull'Inghilterra, pubblicati nel 1912 a Palermo.
Il D. fu pertanto animato da una concezione liberale soggetta sia all'impulso riformista e positivista che caratterizzò anche altre posizioni - e segnatamente quella di Nitti - sia, come è stato osservato efficacemente dal Lanaro, ad "un antigiolittismo di destra non assimilabile al liberismo ultramoderato del Corriere della sera, né al conservatorismo agrario di Sonnino, né ai sogni barricadieri di "riscossa" della borghesia cullati da Pareto e dai nazionalisti elitari, né tutto sommato all'altezzoso feudalesimo industrialista di Corradini e di Rocco" (S. Lanaro, p. 162). In tale quadro si colloca anche la successiva adesione del D. al programma fascista di trasformazione corporativa della società e delle istituzioni, che, già negli articoli sulla Nazione del 1927, gli sembrava appunto prefigurare quella soluzione del conflitto sociale, armonica e riformatrice al tempo stesso, che la classe dirigente liberale non era stata in grado di offrire.
Dopo avere interpretato il fascismo come "opera necessaria, riformatrice e ricostruttrice ad un tempo", estrinsecatasi principalmente nella legge sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro e nella Carta dei lavoro, il D. osservava infatti: "Il Fascismo pone dei principi, dei capisaldi, delle norme che valgono a far sorgere un edificio nuovo, equilibrato, organicamente ideato, nel quale trovano posto le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori manuali e intellettuali, le corporazioni che collegano le une e le altre; la magistratura, che quando la necessità lo impone, per la mancata conciliazione, risolve le controversie del lavoro" (L'ordinamento sindacale e corporativo dello Stato, in Scritti vari di economia e finanza, Firenze 1931, p. 43).
I primi lavori del D., tra i quali sono da annoverarsi particolarmente La riduzione delle ore di lavoro ed i suoi effetti economici, pubblicato a Firenze nel 1891, Le forme del salario, edito sempre a Firenze nel 1893, e l'articolo La spesa per l'abitazione quale indice della entrata complessiva, apparso sulla Riforma sociale del 25 apr. 1894, testimoniano di questa convivenza, nel suo pensiero, di principi liberali ed esigenze riformiste.
Da un lato, infatti, le proposte di riduzione della giornata lavorativa, quando non comportino riduzioni della produzione e della produttività del lavoro, non implicano altro che uno sviluppo capitalistico più rapido, favorendo direttamente i perfezionamenti tecnici, l'uso più intenso delle macchine e lo stesso arricchimento della professionalità dei lavoratori. Nulla viene quindi ad essere modificato sostanzialmente nel sistema economico con l'introduzione di forme di controllo nell'erogazione della forza-lavoro. E analogo discorso vale anche per le forme retributive da adottare e per i contenuti rivendicativi da considerare con il passaggio alla contrattazione collettiva (studiata in particolare nel saggio I problemi dell'organizzazione del lavoro pubblicato a Firenze nel 1903). Infatti: "È interesse comune e dell'operaio e dell'imprenditore di applicare quel metodo di retribuzione che, nel ramo di produzione di cui trattasi, può dare l'effetto utile maggiore e, per conseguenza, le più alte mercedi e i profitti più elevati" (Le forme del salario, p. 196).
Corrispondentemente, i fattori che, come la spesa per l'abitazione legata ai processi di urbanizzazione, premono sul livello dei salari reali, andrebbero convenientemente attenuati negli effetti negativi esercitati tanto sulla spesa dei lavoratori - e quindi anche sulle opportunità di mercato per le aziende - quanto, più in generale, sull'equilibrio sociale.
Le riforme sono quindi per il C. strumenti insostituibili per consentire alla economia di funzionare armonicamente ossia nel rispetto delle esigenze della produzione e tenendo conto delle legittime aspirazioni delle classi lavoratrici.
D'altro lato, il richiamo a un programma "di riforme coordinate, efficaci, appropriate" con le quali "disarmare i violenti, i rivoluzionari, o almeno togliere loro la possibilità di raccogliere aderenti numerosi tra le classi popolari" (La violenza, il socialismo e le riforme sociali del 1914, ripubblicato in Questioni economiche, p. 751) è nel D. il risultato di una visione del sistema capitalistico, e delle forze che in esso operano, che tende a negare al socialismo, ed in particolare al sindacalismo rivoluzionario, ogni forma di autonoma rappresentanza di istanze riformatrici, anche radicali, che non possano essere realizzate da un coerente socialismo borghese.
Dal punto di vista metodologico, il D., pur mostrandosi interessato agli sviluppi teorici che avevano dato luogo, per esempio, nell'opera di Pareto e Pantaleoni, alla fondazione marginalistica della scienza economica, assunse un atteggiamento complessivamente critico nei confronti di questo indirizzo. E infatti nel carteggio intercorso tra i due maggiori esponenti italiani dei nuovo indirizzo, il D. è ricordato come un critico della teoria marginalistica.
Lo studio delle interdipendenze fra i vari processi non può infatti sostituire, per il D., "la ricerca della natura e delle cause dei fenomeni, senza che ne venga mutilata la funzione scientifica". Quella stessa funzione, cioè, che era stata indicata alle scienze sociali, e quindi anche all'economia, dal positivismo, e che il D. vedeva maggiormente realizzata nei metodi della scuola storica tedesca e, in generale, in un'impostazione storicista, che non nelle tecniche di analisi deduttiva del marginalismo.Si presenta così nell'opera del D. quella combinazione di liberismo, riformismo e nazionalismo produttivistico che, associata alla matrice positivistica che aveva caratterizzato la prima generazione delle scienze sociali, doveva trovare un singolare punto di equilibrio nel fascismo.
Il D. assecondò, per esempio, la fascistizzazione del "Cesare Alfieri", pensando all'istituto fiorentino come ad una fucina della nuova classe dirigente del regime, e riservando in questo modo alle scienze sociali il ruolo formativo ed educativo nelle sue opere più volte auspicato.
Colpito dalle persecuzioni razziali, e deportato, il D. morì nel campo di concentramento di Auschwitz (Oswiecim, Polonia) nel 1944.
Oltre a quelli citati vanno ricordati i seguenti scritti del D.: Il nuovo oro africano, Firenze 1896; I contributi speciali per i lavori di miglioria. Studio di finanza, ibid. 1896; La riforma dei tributi locali, ibid. 1899; Dell'arbitrato negli scioperi, Palermo 1903; La teoria moderna del valore economico, Mantova 1916; La crisi dei cambi, Firenze 1925; La fase odierna del fenomeno emigratorio, ibid. 1925; Il problema demografico e le correnti emigratorie europee, ibid. 1926; Scritti vari di economia e finanza, ibid. 1931.
Fonti e Bibl.: Studi in on. di R. D., a cura di J. Mazzei, Firenze 1936; V. Pareto, Lett. a M. Pantaleoni 1890-1923, a cura di G. De Rosa, Roma 1960, I, passim; G. Spadolini, Il "Cesare Alfieri" nella storia d'Italia. Nascita e primi passidella scuola fiorentina di scienze sociali, Firenze 1975, p. V e passim; S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1860-1925, Padova 1979, pp. 157-62.