Ricerca
di Massimiano Bucchi
L'espressione 'politica della ricerca' (research policy) viene generalmente a comprendere l'insieme delle misure messe in atto da governi e altre istituzioni nel deliberato tentativo di influenzare la direzione e il ritmo di sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, organizzarla e facilitarne lo sfruttamento in vista di obiettivi politici generali (v. Salomon, 1977, pp. 45-46; v. Eltzinga e Jamison, 1995, pp. 572-573; v. Shils, 1968, p. IX).Così definito, il tema della politica della ricerca risulta distinto da quello più vasto - ancorché indubbiamente collegato - del rapporto tra scienza e potere politico. Se infatti tale rapporto può essere osservato sin dagli albori e lungo tutto l'arco della storia dell'impresa scientifica, la politica della ricerca si configura nella maggioranza dei paesi occidentali come area di public policy specifica sulla base di una serie di fattori maturati tra le due guerre mondiali. Per i sovrani del passato, la scienza rappresentava un fenomeno talvolta anche di grande interesse, che poteva essere "apprezzato, utilizzato o ricompensato, ma non generato o guidato" (v. Shils, 1968, p. V). Ciò che è nuovo nel concetto di science policy che emerge tra le due guerre è la percezione della scienza come un'entità differenziata al proprio interno ma provvista di unità e coerenza, strettamente connessa con i processi educativi e formativi, nei confronti della quale il potere politico si considera responsabile, e che ritiene di poter orientare a livello sistemico, attraverso una pianificazione sistematica e coordinata (ibid.).
Una simile percezione della scienza da parte della società e del potere politico, naturalmente, poggiava su processi storici di più ampia portata, nel corso dei quali la scienza aveva assunto le caratteristiche di un'impresa sociale autonoma e si erano definite le caratteristiche delle istituzioni e dei soggetti coinvolti, a cominciare dagli scienziati. A partire da quel complesso di mutamenti noto come "rivoluzione scientifica" (v Hall, 1983), infatti, la scienza aveva attraversato un articolato processo di professionalizzazione e istituzionalizzazione, presentandosi come un'attività dotata di metodi e prassi distintive - quali l'uso della sperimentazione - e di specifici spazi di confronto e di discussione al cui interno gli scienziati potevano riconoscersi come uguali (le accademie scientifiche che si formarono a partire dal XVII secolo, le riviste dedicate alla pubblicazione dei risultati). Il ruolo ormai professionalmente e socialmente codificato del ricercatore fu simboleggiato anche dall'affermazione di un termine generale, 'scienziato', che fu impiegato per la prima volta nel 1833 da William Whewell per riferirsi ai partecipanti del convegno della British Association for the Advancement of Science.
Nel corso del XIX secolo, l'organizzazione dell'università nello Stato prussiano iniziò a rappresentare il modello di riferimento per la gran parte dell'Occidente, con la sua specializzazione disciplinare, la combinazione di insegnamento e ricerca all'interno della medesima istituzione e la cristallizzazione di una figura, quella dell"accademico', che si caratterizza per la libertà e l'autonomia di cui dispone nel definire gli obiettivi e le modalità della propria ricerca (v. Ben-David e Zloczower, 1962; v. Ben-David, 1971).In questo periodo, soprattutto negli Stati Uniti, la propulsione dell'attività di ricerca e in particolare delle sue applicazioni restava concentrata soprattutto nell'ambito di istituzioni private quali i laboratori di ricerca industriali e fondazioni come la Carnegie, la Ford e la Rockefeller; nel complesso, la ricerca industriale americana nel 1940 impiegava 37.000 tra scienziati e ingegneri.
A partire dal secondo dopoguerra, numerosi fattori contribuiscono a rafforzare la convinzione che il potere politico dipenda in misura crescente dal contributo regolare della scienza e della tecnologia e che le conseguenze economiche, sociali ed ecologiche delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche abbiano un'influenza determinante sui destini delle nazioni e del mondo.
Il primo fattore è indubbiamente il ruolo cruciale svolto da alcuni scienziati e teams di ricerca nel corso del primo e in particolare del secondo conflitto bellico. Lo sviluppo e l'applicazione della tecnologia radar da parte delle forze armate britanniche e il progetto Manhattan con cui gli Stati Uniti giunsero alla costruzione del primo ordigno esplosivo a fissione nucleare, rappresentano solo due degli esempi più significativi della stretta integrazione che in quegli anni fu sviluppata tra istituzioni politiche, apparati militari e ricercatori, soprattutto in settori quali la fisica. In Gran Bretagna due fisici, Henry Tizard e Frederick A. Lindemann, furono rispettivamente responsabile consigliere del ministro dell'Aeronautica e consigliere di fiducia del Primo ministro Winston Churchill durante la guerra (v. Snow, 1960).
Il secondo fattore è rappresentato dal nuovo equilibrio politico e dalla configurazione dei rapporti internazionali che si andò a delineare dopo la guerra. L'Unione Sovietica, principale interlocutore della potenza americana, aveva infatti già sviluppato nei decenni precedenti un notevole interesse e impegno governativo nell'incentivazione e nell'orientamento della ricerca scientifica; al punto che intellettuali occidentali quali John Bernal vi individuarono un modello da seguire, sostenendo l'importanza di una gestione politica della ricerca come fattore cruciale di rinnovamento della società (v. Bernal, 1939).
Al termine della seconda guerra mondiale, la consapevolezza della possibilità e dell'importanza di un intervento attivo dello Stato nell'ambito della ricerca era ormai diffusa nella maggioranza dei paesi industrializzati. Questa idea si concretizzò nella creazione di consigli scientifici deputati a indirizzare le scelte del governo sia a livello generale che di ciascun specifico settore di ricerca e nell'accresciuta disponibilità di risorse da destinare a questi obiettivi. "Nacque una nuova generazione di esperti, in grado di coniugare i valori e le norme dello Stato e dell'accademia [e di crearsi] un nuovo tipo di ruolo sociale come 'politici della scienza e della tecnologia" (v. Eltzinga e Jamison, 1995, p. 582).
Questo periodo vide quindi una stretta interazione tra ricerca scientifica, potere politico e organizzazioni militari e una forte influenza delle priorità politiche sull'agenda scientifica. L'eredità della guerra si traduceva concretamente nella tendenza - visibile soprattutto negli Stati Uniti - a incanalare gran parte del budget destinato alla ricerca attraverso agenzie specifiche e sovente caratterizzate in senso militare quali l'Office for naval research. Nel corso del periodo bellico, inoltre, era stato creato negli Stati Uniti un nuovo tipo di istituzioni scientifiche - laboratori quali Oak Ridge e Los Alamos - che lavoravano alle dipendenze dirette o indirette del governo federale.
Ancora negli anni cinquanta, la quota di finanziamenti destinata alla ricerca di base - ovvero senza immediata applicazione o finalità pratiche - restava decisamente modesta a paragone di quella legata a obiettivi militari. Al tempo stesso, però, gli scienziati si trovarono ad acquisire un rilievo e un prestigio mai avuto prima, che seppero in larga misura utilizzare per difendere la propria autonomia, al punto che alcuni hanno parlato di 'egemonia scientista' per caratterizzare questa prima stagione delle politiche della ricerca (v. Gilpin e Wright, 1964). Negli USA gli scienziati - e in particolare gli scienziati delle istituzioni universitarie - conobbero un significativo elevamento del proprio status, sino ad allora decisamente inferiore ad altre categorie occupazionali (si pensi che nel 1928 lo stipendio medio annuo di un professore ordinario a Yale era di circa 7.000 dollari, approssimativamente la metà di quello percepito da un dentista o da un avvocato). "All'improvviso i fisici vennero esibiti come ospiti d'onore alle feste di Washington, furono invitati a riunioni di studiosi di scienze sociali, parteciparono a congressi di ordini religiosi e discussero di teologia, venne loro chiesto di sottoscrivere piani di governo mondiale e dare lezioni semplificate sul nucleo atomico a comitati del Congresso" (v. Klaw, 1968, p. 237).
Il riconoscimento dell'importanza del sostegno pubblico alla ricerca di base e della tutela dell'autonomia delle comunità scientifiche costituiva il tema privilegiato di quello che è considerato uno dei primi documenti programmatici di politica della ricerca: il rapporto preparato da Vannevar Bush per il presidente americano Roosevelt e significativamente intitolato Science: the endless frontier (1945). Secondo questo rapporto, la ricerca scientifica aveva ampiamente dimostrato di poter offrire benefici economici e pratici alla società nel suo complesso. "La ricerca di base porta a nuova conoscenza" scrisse nel suo rapporto Bush, "crea il substrato da cui devono essere tratte le applicazioni pratiche della conoscenza. Nuovi prodotti e nuovi processi non vengono fuori da sé. Si basano su nuovi principî e nuove concezioni, che a loro volta sono faticosamente sviluppati dalla ricerca svolta nei regni più puri della scienza" (v. Layton, 1977, p. 206). Era l'immagine della scienza come "gallina dalle uova d'oro", come ebbero scherzosamente a definirla alcuni commentatori.
Sulla base di questa immagine, si invitava quindi a sostenere generosamente la ricerca in una prospettiva di lungo periodo, rispettando nel contempo l'autonomia degli scienziati e la loro capacità di individuare internamente - attraverso il peer review, ovvero la valutazione del lavoro e dei progetti di un ricercatore da parte di altri ricercatori che è divenuta una delle procedure caratterizzanti il lavoro scientifico - i filoni di ricerca più promettenti e meritevoli di investimento in termini finanziari di risorse umane. Questo ideale fu istituzionalmente incarnato dalla National Science Foundation (NSF), costituita nel 1950 su proposta dello stesso Bush.
Un documento più marcatamente operativo, Science and public policy, meglio noto come Steelman report (1947) auspicò un raddoppio della spesa per la ricerca nei successivi dieci anni.In Italia, invece, la situazione del secondo dopoguerra non coincise con uno stimolo allo sviluppo della ricerca. La perdita di numerosi ricercatori di spicco emigrati all'estero in seguito ai provvedimenti razziali del fascismo (v. Israel e Nastasi, 1998), l'azzeramento di quella politica della ricerca che il regime aveva perseguito, seppur con obiettivi prevalentemente nazionalistici, i limiti di bilancio degli anni postbellici furono alcuni dei fattori che limitarono il rilancio delle attività scientifiche nel nostro paese.
Unica eccezione la ricerca nucleare, in cui vi fu un rinnovato impegno sia privato che pubblico (con l'istituzione nel 1951 dell'INFN, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare a Frascati e nel 1952 del CNRN, il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) e una partecipazione attiva ai principali progetti internazionali (Edoardo Amaldi fu segretario del neonato CERN, Centro Europeo per la Ricerca Nucleare). Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), istituito nel 1923, fu riordinato e reso organo consultivo del presidente del Consiglio, ma i suoi finanziamenti alla fine degli anni quaranta non raggiungevano lo 0,1% del Prodotto Interno Lordo (v. Maiocchi, 1998).
Se il 1945 e la 'dottrina Bush' (v. Ancarani, 1996) sono generalmente considerati la pietra angolare di un'organica politica della ricerca, un'altra data spartiacque è abitualmente identificata nel 1957. In quell'anno l'Unione Sovietica lancia in orbita il primo satellite artificiale della storia, destando grande impressione nei paesi occidentali e in particolare negli Stati Uniti, dove questo evento fu considerato un indice dell'avanzamento - e quindi della pericolosità - della potenza rivale in campo scientifico e tecnologico. Il cosiddetto 'effetto Sputnik' produsse in primo luogo un'ulteriore espansione della spesa per la ricerca negli USA, che sino alla prima metà degli anni sessanta aumentò di anno in anno di circa il 15%. Il sostegno governativo alla ricerca, in particolare, sostanzialmente nullo fino al 1940, aveva raggiunto nel 1966 i due miliardi di dollari.
Nel contempo si diffuse tra politici e scienziati la convinzione che la competizione con l'URSS dovesse essere sostenuta attraverso un impegno più incisivo nel campo dell'istruzione superiore e universitaria, e in particolare nella formazione e nel reclutamento di ricercatori e tecnici di alto livello. Alcuni sostennero anche la necessità di una maggiore diffusione della cultura scientifica attraverso attività in grado di coinvolgere e interessare la popolazione alla scienza e al suo sviluppo. È infatti in questi anni che nascono negli Stati Uniti i primi science centers come l'Exploratorium di San Francisco (1969), in cui i visitatori possono avvicinarsi alla scienza attraverso installazioni interattive (v. Beetlestone e altri, 1998).
L'immagine della ricerca scientifica, che soprattutto negli Stati Uniti era stata tradizionalmente associata con il settore privato e con la dimensione applicativa, coincideva sempre più con un'idea di ricerca universitaria, in cui il prestigio del ricercatore era legato al suo essere svincolato da immediate preoccupazioni pratiche. Al punto che nel 1964 il fisico Edward Teller - protagonista di tutti i maggiori progetti scientifico-militari di questo periodo, dal Manhattan project al programma di costruzione della prima bomba all'idrogeno - ebbe a segnalare con preoccupazione a una commissione congressuale il risultato di interviste da lui condotte con ventiquattro brillanti studenti del MIT: ventidue di loro avevano espresso l'intenzione di continuare la carriera accademica per dedicarsi alla ricerca di base e all'insegnamento, mostrando scarso apprezzamento per possibilità di impiego in ambito industriale (v. Klaw, 1968). A quel punto, in effetti, la ricerca accademica aveva assunto un ruolo dominante anche negli Stati Uniti: nel 1966, due terzi di tutti gli articoli scientifici pubblicati erano firmati da scienziati attivi in istituzioni universitarie, così come accademici erano i quattro quinti dei membri della National Academy of the Sciences; nel 1967, su diciotto membri del President's science advisory committee, quattordici avevano svolto tutta la propria carriera nell'ambito dell'università.
Negli stessi anni si definisce ulteriormente, a livello internazionale, anche il ruolo dominante degli Stati Uniti nell'ambito della ricerca e delle relative politiche (v. Rossi, 1988). Basti pensare che il budget degli USA per ricerca e sviluppo (un binomio sovente sintetizzato con la sigla R&S - R&D nei paesi anglosassoni) è superiore a quello di tutti gli altri paesi dell'OCSE (l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, OECD per gli anglosassoni) messi assieme. Alla fine degli anni sessanta, la somma della spesa per la ricerca degli altri quattro principali paesi membri dell'OCSE (Germania, Francia, Regno Unito e Giappone) arrivava a 11,3 miliardi di dollari, contro i 23,6 degli USA. Mentre fino alla seconda guerra era prassi comune per i ricercatori americani completare la propria formazione in università europee quali Cambridge o Göttingen, il flusso migratorio si è in larga misura invertito e sono sempre più numerosi gli scienziati europei che vanno a studiare o a lavorare negli Stati Uniti. Dal 1901 al 1940, gli scienziati americani avevano ottenuto solo dieci premi Nobel sui centotré assegnati; tra il 1956 e il 1965 ne vinsero diciotto su trentatré e otto su undici in fisica.
È proprio tra gli anni cinquanta e sessanta, tuttavia, che la collaborazione internazionale a fini di ricerca si intensifica e travalica i confini dei comuni obiettivi di difesa. L'impossibilità da parte dei singoli Stati di sostenere gli enormi costi delle attrezzature necessarie per la ricerca nel campo della fisica delle particelle e il timore di essere fagocitati dal colosso americano furono alla base, nel 1953, della costituzione del primo grande centro internazionale di ricerca, il Centro Europeo per la Ricerca Nucleare (CERN) con sede a Ginevra.Ed è proprio nell'ambito dell'OCSE che si sviluppa un confronto e un coordinamento delle politiche di ricerca dei vari paesi. Il primo rapporto dell'OCSE su questo tema, Science and the policies of governments (1963), rappresenta una prima codifica delle strategie di politica della ricerca, offrendo agli Stati membri raccomandazioni per la costituzione di comitati consultivi in grado di guidare i governi nell'adozione di provvedimenti e nella distribuzione dei finanziamenti, fissando categorie interne (ricerca di base, ricerca applicata, sviluppo tecnologico) e metodi statistici per determinarne la ripartizione. L'importanza di questo documento risiede principalmente nel fatto che "trasformava un'ambizione politica in una strategica dottrina di policy: l'idea che la scienza, assieme all'istruzione superiore, debba essere vista come un fattore produttivo al pari del lavoro e del capitale ai fini della crescita economica" (v. Eltzinga e Jamison, 1995, p. 584).
La politica della ricerca iniziò in questo periodo anche a divenire oggetto di analisi sistematica da parte dell'accademia, con la costituzione di dipartimenti e centri di studi specializzati quali la Science policy research unit della Sussex University e la fondazione di riviste interamente dedicate all'argomento ("Minerva", "Research policy", "Impact"). In particolare, la necessità da parte della comunità scientifica di disporre di criteri consensuali e intelligibili anche ai propri interlocutori politici e amministrativi per l'allocazione delle risorse, portò in quegli anni a definire e a diffondere a livello internazionale una serie di strumenti di misurazione della produttività e della qualità dell'attività di scienziati, gruppi di ricerca e istituzioni, raccolti complessivamente sotto l'etichetta di Scientometria (Scientometrics).
La quantità delle pubblicazioni, la loro presenza sulle riviste considerate più prestigiose, la frequenza di citazioni da parte dei colleghi - rilevata attraverso strumenti quali lo science citation index, che raccoglie e indicizza tutte le citazioni di pubblicazioni nell'ambito delle scienze naturali - sono da allora divenuti alcuni dei criteri principali utilizzati per valutare un ricercatore e quindi decidere se continuare o meno a sostenerne i progetti.Utilizzando questi strumenti, uno studioso, Derek De Solla Price (v., 1963) tracciò in un breve libro un quadro dei caratteri salienti dell'evoluzione dell'attività di ricerca. Uno dei dati forniti da Price, divenuto ormai proverbiale, riguardava il fatto che circa l'87% degli scienziati di tutti i tempi risultava in attività, passando dai circa 50.000 di fine Ottocento a oltre un milione. Analogamente, il numero delle riviste scientifiche era passato da circa 100 nel 1830 a diverse decine di migliaia; la quota di Prodotto Interno Lordo destinata alla ricerca scientifica negli USA era passata dallo 0,2% del 1929 al 3% dei primi anni sessanta. Si trattava, infine, di un'attività sempre meno individuale e sempre più collettiva: tra gli anni venti e gli anni cinquanta, la percentuale di articoli firmati da un singolo scienziato sulle riviste specialistiche americane si era dimezzata, mentre era salita visibilmente quella di articoli firmati da quattro ricercatori o più (v. Zuckerman, 1977; v. Klaw, 1968).
Insomma: la 'piccola scienza' artigianale ('little science') era divenuta ormai un'impresa sociale ed economica di dimensioni gigantesche ('big science' l'aveva definita il fisico Alvin Weinberg per analogia con il 'big business', le grandi concentrazioni dell'industria capitalistica), che era cresciuta in misura esponenziale raddoppiando le proprie dimensioni approssimativamente ogni quindici anni. Per dare un'idea della rapidità di questa crescita, Price la metteva a confronto con altri fenomeni quali l'aumento della popolazione terrestre, il cui tempo di raddoppiamento si aggirava attorno ai cinquant'anni. "A ogni raddoppio della popolazione sono corrisposti almeno tre raddoppi della popolazione degli scienziati [...] l'esplosione della scienza fa apparire piccola quella della popolazione e con essa qualsiasi altra esplosione di crescita umana non scientifica" (v. Price, 1963, p. 12). Da questi dati, Price traeva due ordini di considerazioni. Il primo ridimensionava notevolmente il ruolo, spesso enfatizzato, della seconda guerra mondiale nello sviluppo dell'attività scientifica. Il tasso di crescita, infatti, era rimasto sostanzialmente identico negli anni precedenti e in quelli immediatamente successivi alla guerra.
Se il conflitto mondiale aveva avuto un effetto, era stato anzi proprio quello di un leggero attenuamento della curva di crescita, dovuto alle limitazioni nella comunicazione imposte agli scienziati dalle esigenze di riservatezza legate al contesto militare.Il secondo ordine di considerazioni era in realtà una previsione. A meno di una drastica riorganizzazione dei suoi fondamenti, il processo di crescita esponenziale della scienza sarebbe inevitabilmente andato incontro a un limite massimo. Questo livello di saturazione, secondo Price, sarebbe stato raggiunto più rapidamente nei paesi - come gli USA o gli Stati europei - in cui da più tempo andava avanti la crescita, lasciando invece ancora margini in paesi di più recente sviluppo scientifico come il Giappone.
L'ultima parte del decennio vide, in ogni caso, una messa in discussione del ruolo centrale che alla ricerca scientifica si era assegnato nell'ambito dello sviluppo a partire dalla 'dottrina Bush'. Un ampio studio, denominato Project hindsight, coinvolse per ben otto anni un gruppo di tecnici e ingegneri che analizzarono venti apparati vitali per la sicurezza della nazione per conto del Department of Defence. Per ognuno di questi apparati fu identificata una serie di 'eventi' che avevano reso possibile la loro realizzazione e il loro sviluppo; questi eventi venivano di volta in volta classificati come 'tecnologici' o 'scientifici' e in tale categoria ulteriormente distinti tra 'ricerca applicata' e 'ricerca di base'. Alla fine risultò che il 91% degli eventi rilevanti era di tipo tecnologico, solo il 9% scientifico e solo lo 0,3% caratterizzabile come ricerca di base. La comunità scientifica percepì la minaccia e rispose con un altro studio commissionato dalla National science foundation e denominato Traces. Lo studio, condotto con metodi del tutto simili al precedente, prese in esame dieci innovazioni tecnologiche particolarmente significative, ottenendo risultati completamente diversi: il 34% degli eventi considerati in relazione a queste innovazioni risultò appartenere alla ricerca di base e un altro 38% alla ricerca applicata.
Le previsioni di Price ottennero in ogni caso una rapida conferma: a partire dal 1967 il sostegno del governo americano a R&S smise di crescere per la prima volta dopo molti anni, segnando l'inizio di una fase di declino. L'affievolirsi della 'luna di miele' tra politica e ricerca fu brillantemente rappresentata da un film diretto da Stanley Kubrick nel 1963, Dr. Strangelove or: how I learned to stop worring and love the bomb, in cui il personaggio del titolo è una figura di consulente scientifico maniacale - tra l'altro modellata, secondo alcuni, proprio su Edward Teller - che neppure il potere politico riesce più a contenere.
Anche in Italia questo periodo segnò uno sviluppo piuttosto deciso dell'interesse e dell'impegno economico per la ricerca. In un decennio, dal 1958 al 1968, la quota di ricchezza nazionale destinata alla ricerca passò dallo 0,3% allo 0,7%, rimanendo peraltro largamente inferiore a quella degli altri paesi europei (dallo 0,9% del Belgio al 2% del Regno Unito, per non parlare degli Stati Uniti che in quegli anni erano arrivati a destinare alle attività di ricerca il 3% del reddito nazionale). Inoltre, la diffusione di una preoccupazione - rivelatasi poi non del tutto fondata - per l'arretratezza del nostro paese in alcuni settori tecnici e in particolare per una carenza del personale tecnico-scientifico, portò nel corso del decennio a processi di riforma dell'università e dello stesso CNR e all'istituzione, a partire dal 1968, di fondi destinati alla ricerca applicata nel campo dell'industria (i fondi IMI). Anche grazie a questi fondi, la quota del PIL destinata alla ricerca era salita nel 1971 all'1%; questo tuttavia non risparmiò all'Italia severe critiche da parte dell'OCSE, che in un rapporto specificamente dedicato al nostro paese mise in evidenza l'arretratezza del sistema ricerca rispetto agli altri paesi sviluppati, gli sprechi di risorse e la scarsa attenzione della classe politica ai problemi della ricerca (v. OECD, 1963). Il CNEN (Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare), che nel 1960 era stato istituito per sostituire il CNRN, entrò presto in una grave crisi (v. Pogliano, 1995; v. Maiocchi, 1998).
Questa 'pausa di riflessione' fu ulteriormente segnata dall'emergere di elementi di critica sia all'interno, sia all'esterno della comunità scientifica. Il ruolo della scienza e in particolare i suoi rapporti con il potere politico e con la società nel suo complesso furono messi in discussione da una parte della stessa comunità scientifica e da movimenti sociali quali il femminismo e l'ambientalismo. Lo sviluppo della ricerca iniziò a essere individuato come una fonte, anziché una soluzione, di problemi sociali nel frattempo cresciuti di importanza agli occhi dell'opinione pubblica: la pace e il disarmo nucleare, il deterioramento dell'ambiente e la discriminazione di genere. Una simile e inedita 'pressione sociale' portò ad ampliare gli orizzonti delle politiche di ricerca, portando a includervi finalità di controllo e di regolazione.In vari paesi furono infatti istituite agenzie di controllo e monitoraggio dell'impatto della tecnologia sull'ambiente; negli Stati Uniti, l'Office of Science and Technology Policy fu eliminato e sostituito dall'Office of Technology Assessment (OTA), costituito presso il Congresso nel 1972.
Numerose iniziative, soprattutto a livello locale, furono intraprese per facilitare il coinvolgimento di non scienziati nei processi decisionali di politica della ricerca ritenuti di particolare rilevanza pubblica, quali l'energia nucleare e le tecniche emergenti di ingegneria genetica. Come ha osservato Dorothy Nelkin, se lo slogan dell'Esposizione mondiale di Chicago del 1933, in cui si celebrava 'un secolo di progresso', era stato: "La scienza scopre - l'industria applica - l'uomo adatta", una mostra mondiale organizzata negli anni settanta avrebbe certamente adottato lo slogan: "La scienza scopre - l'industria applica - l'uomo controlla" (v. Nelkin, 1977).
Questi fermenti arrivarono anche in Italia, dove alcuni intellettuali riuniti nel cosiddetto Club di Roma attirarono, grazie ad un Rapporto commissionato al MIT, l'attenzione sui dilemmi e le conseguenze dello sviluppo tecnologico, soprattutto sul piano ambientale (v. Club di Roma, 1971). Fortemente toccata dagli anni della crisi petrolifera sul piano delle risorse oltre che dell'opinione pubblica, l'Italia registrò nel periodo 1970-1975 il più basso tasso di crescita delle risorse pubbliche destinate alla ricerca (v. Pogliano, 1995).
Il secondo rapporto dell'OCSE, Science growth and society. A new perspective, fotografava questa nuova situazione, auspicando una maggiore capacità delle politiche di ricerca di rispondere ai nuovi bisogni espressi dall'opinione pubblica. In termini di allocazione delle risorse, questo approccio trovò frequente traduzione nella definizione di programmi di ricerca ad hoc, indirizzati a specifiche tematiche di rilevanza sociale - la 'guerra al cancro' dichiarata dal presidente Nixon, finanziata con un programma di oltre 100 milioni di dollari, e il programma RANN (Research Applied to National Needs) lanciato dalla National Science Foundation. È in questo periodo che conosce il suo massimo sviluppo il cosiddetto 'Project-Grant system', ovvero quel sistema che assegna finanziamenti alla ricerca sulla base di progetti specifici, basando la loro assegnazione e il loro rinnovamento sui resoconti e le pubblicazioni prodotte a documentazione dell'attività svolta. I limiti di questo meccanismo di finanziamento, tuttavia, erano già stati messi in evidenza da alcuni anni. Esso tende infatti ad accentuare la competizione, a sottrarre tempo ai beneficiari dei fondi per gli adempimenti amministrativi che questi comportano, scoraggia soprattutto i giovani ricercatori a progettare ricerche di lungo periodo e favorisce la concentrazione dei fondi - già alla fine degli anni sessanta, il 25% di questo tipo di finanziamenti finiva nelle casse di sole dieci università americane.
Altre forme di finanziamento della ricerca sono quindi state sperimentate in alternativa o in combinazione con questo sistema: la concessione di finanziamenti istituzionali alle università che poi provvedono a distribuirli internamente secondo propri criteri o - è il caso ad esempio di istituzioni americane come i National institutes of health - ad personam, cioè a ricercatori ritenuti particolarmente capaci e promettenti.
Lo sviluppo economico, sebbene in una nuova prospettiva, tornò a essere al centro del dibattito sulle politiche di ricerca a partire dai primi anni ottanta. In parte ciò avvenne per effetto del ritorno di governi conservatori sia negli USA che nel Regno Unito, più disponibili a valorizzare la cultura d'impresa e lo sviluppo dei mercati che l'intervento finanziario dello Stato. In parte per una sorta di nuovo 'effetto Sputnik', legato stavolta alla minaccia competitiva rappresentata dai paesi dell'Estremo Oriente e in particolare dal Giappone. Il successo del modello giapponese portò gli esperti occidentali a individuarne i punti di forza quali la capacità di gestire pianificazioni e previsioni di lungo periodo e soprattutto l'integrazione tra politica della ricerca e politica dell'industria.
Da parte di molti ricercatori, questo modello di coordinamento tra soggetti diversi quali le imprese, le università e i centri di ricerca apparve anche come una via d'uscita dalla rigidità assunta dal Project-Grant system nel corso del decennio precedente - e dalla rilevanza che questo attribuiva alla burocrazia delle istituzioni di ricerca. Il terzo documento sulla politica della ricerca dell'OCSE, prodotto nel 1981, Science and technology policy for the 1980s, si poneva quindi l'obiettivo di stimolare nei paesi membri l'adozione di politiche volte a favorire l'innovazione nei settori emergenti - nuovi materiali, biotecnologie - e soprattutto una collaborazione più stretta tra il mondo della ricerca e quello della produzione.In Italia gli anni ottanta segnano eventi importanti per la politica della ricerca, a cominciare dalla costituzione del Ministero dell'Università e Ricerca Scientifica, che come tale riaffermava l'importanza di tenere congiunte le attività di ricerca con quelle dell'insegnamento universitario. Poi la trasformazione del CNEN (Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare) in ENEA (Comitato nazionale per la ricerca e per lo sviluppo dell'energia nucleare e delle energie alternative) e DISP (Direzione sicurezza nucleare e protezione sanitaria), con un campo d'azione ampliato anche ad altre fonti energetiche e alla tutela dell'ambiente: una trasformazione che si rivelerà profetica rispetto ai risultati del referendum del 1987 con la quale la popolazione italiana decise una moratoria delle attività volte allo sfruttamento dell'energia nucleare. Nel 1988 si dette infine vita all'Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Il decennio si chiuse tuttavia con un giudizio piuttosto severo della politica scientifica e tecnologica italiana da parte dell'OCSE, che tornò a esaminare sotto questo punto di vista il nostro paese a vent'anni di distanza da un primo rapporto.
L'immagine che ne risultò fu quella di un paese che non aveva saputo accompagnare la crescita economica degli anni ottanta con un corrispondente impegno nel campo della ricerca: la quota del PIL destinata a questi scopi restava infatti ferma all'1,29%, contro il 2,5% della media dei paesi dell'OCSE; i ricercatori erano 27 ogni diecimila abitanti contro una media OCSE di 49 e una distribuzione oltretutto gravemente diseguale all'interno del paese: a un terzo del territorio nazionale veniva destinato appena il 10% delle risorse per la ricerca, con una media di circa 24 ricercatori ogni diecimila abitanti al Centro-Nord e di circa 3 al Sud (v. Pogliano, 1995; v. Cannavò e altri, 1989).
Questo rapporto tra ricercatori e ambito produttivo rappresenta indubbiamente una delle tendenze che più si sono consolidate negli ultimi anni, giungendo a caratterizzare in modo significativo l'organizzazione e la politica attuale della ricerca. Soprattutto in aree quali la microelettronica, l'informatica e le biotecnologie, si assiste infatti a un fenomeno senza precedenti di intersezione tra ricerca e mercato e di "trasformazione di conoscenza scientifica in attività economica" (v. Etzkowitz e Webster, 1995). Sono sempre più frequenti, nelle università, gli uffici che si occupano di brevettare i risultati delle ricerche, così come le convenzioni attraverso le quali industrie di determinati settori usufruiscono di servizi e consulenze da parte delle università, per non parlare del fenomeno recente di costituzione, in seno a università e istituti di ricerca, di imprese a scopo di lucro nate con l'obiettivo di sfruttare i proventi di particolari ricerche. Nel giugno 2000 ha fatto scalpore l'annuncio secondo cui un'azienda privata, l'americana Celera, avrebbe ottenuto la decodificazione della mappa genetica umana precedendo il grande consorzio pubblico dello Human Genome Project.
La quota di finanziamento della ricerca pubblica da parte dell'industria, tradizionalmente modesta, ha raggiunto in paesi quali la Germania e la Svezia livelli pari al 10-15% di tutto il budget della ricerca pubblica. L'Università di Harvard prevede di ricavare, entro il 2010, oltre un quarto delle proprie risorse dal settore industriale (v. Etzkowitz e Webster, 1995).Questa "seconda rivoluzione accademica" (v. Etzkowitz, 1990) che porta a considerare la proprietà intellettuale come proprietà privata, ridefinisce il ruolo dello scienziato, sostituendo la tradizionale 'divisione del lavoro' che attribuiva al ricercatore le ricompense in termini di reputazione e all'industria quelle economiche. "Posso fare buona scienza e guadagnarci" è la significativa sintesi di un biologo molecolare intervistato a proposito di questa transizione (v. Etzkowitz, 1983). L'idealizzato codice etico dello scienziato professionista (v. Merton, 1942), basato su principî quali comunitarismo e disinteresse, ha lasciato il posto a una "nuova struttura normativa della scienza [...] che riflette la trasformazione della scienza da un'istituzione relativamente minore, incapsulata dall'influenza sociale, in un'istituzione di primaria importanza che influenza - ed è influenzata da - altre sfere sociali" (v. Etzkowitz e Webster, 1995, p. 488).
Quali sono i fattori responsabili di una trasformazione così profonda? Per quello che riguarda i contenuti della ricerca, un ruolo è stato indubbiamente svolto dal graduale indebolimento della distinzione tra ricerca di base e applicata e dal carattere ormai compiutamente interdisciplinare che alcuni filoni di ricerca hanno assunto, soprattutto in settori emergenti quali le tecnologie informative e di comunicazione o le biotecnologie.A livello di macroprocessi economici e produttivi, un fattore importante è rappresentato dalla riorganizzazione postfordista della produzione capitalistica, con la sua enfasi sulla flessibilità e sull'esternalizzazione di servizi al di fuori dell'impresa e su un ruolo più significativo per le attività di consulenza e ricerca.
Nell'ambito delle istituzioni di ricerca, si è assistito a un diffuso ritrarsi del supporto statale e in generale del Project-Grant system, parzialmente compensato dal diritto che è stato riconosciuto sin dagli anni ottanta alle università di disporre dei brevetti per i risultati delle proprie ricerche. Il 25% dei brevetti riconosciuti alle università americane tra il 1969 e il 1991 è stato assegnato tra il 1990 e il 1991, con un aumento del 100% degli accordi di brevettazione tra università e industria nel periodo 1987-1991. Gli accordi di cooperazione tra laboratori federali e industrie sono cresciuti del 900% nello stesso periodo, portando alla costituzione di oltre mille centri di ricerca misti universitario-industriali (v. Haraway, 1997).
Infine, le comunità scientifiche e le istituzioni accademiche sono sempre più coinvolte in quei progetti di sviluppo locale che hanno portato, tra l'altro, alla costituzione di parchi scientifici e tecnologici allo scopo di facilitare la creazione e la diffusione di innovazione. In tale contesto, il ruolo delle istituzioni pubbliche non scompare, ma si ridefinisce come una sorta di 'moderatore/coordinatore/facilitatore' della relazione tra soggetti diversi.Simili processi, come si è accennato, ridefiniscono non solo il rapporto tra sfera scientifica e sfera economica, ma anche gli stessi caratteri dell'impresa scientifica e del ruolo sociale dello scienziato. Ad esempio, l'attività di consulenza a un'impresa da parte di un professore universitario, un tempo ritenuta 'esterna' al suo ruolo, può in questo nuovo quadro divenire elemento integrante dell'attività di ricerca del singolo e dei compiti attribuitigli dall'istituzione. D'altra parte, i processi di valutazione del lavoro dei propri colleghi attraverso il peer review possono entrare in conflitto con l'esigenza di segretezza che deriva dalla possibilità di sfruttamento commerciale delle ricerche e accentuare le spinte centrifughe verso collaborazioni e finanziamenti privati.
Alcuni studiosi attribuiscono una tale portata a questo mutamento di scenari da considerare la possibilità che le istituzioni universitarie assumano un ruolo centrale paragonabile a quello svolto in passato dagli apparati militari (il cosiddetto 'complesso militare-industriale') in un nuovo triplice complesso 'accademico-industriale-governativo' (v. Etzkowitz e Webster, 1995). Quello che è certo è che attorno a questa trasformazione si stanno rafforzando altre tendenze di medio e lungo periodo. Tra queste vi è senza dubbio il fenomeno, che abbiamo visto all'opera sin dagli anni della guerra, di crescente caratterizzazione della scienza come impresa collettiva e inserita all'interno di grandi e complesse organizzazioni. Vi è poi il carattere interdisciplinare della ricerca, in cui i filoni più vivaci e promettenti sembrano proprio quelli che si situano all'intersezione tra le tradizionali aree settoriali. Infine, si va accentuando la difficoltà di tracciare confini e distinzioni precise tra ricerca pura e ricerca applicata, con lo sviluppo di percorsi sempre meno lineari ma non meno efficaci in termini di interazione, tra ricerca scientifica e innovazione tecnologica (v. Ancarani, 1996).
Tra i temi centrali della definizione di politiche della ricerca vi è senz'altro quello dell'allocazione delle risorse. Quali sono, in altre parole, i criteri che possono guidare i policy makers nella determinazione e nella distribuzione delle risorse disponibili?Una prima proposta operativa e di indubbia influenza sul dibattito successivo è dovuta a Weinberg (v., 1963) che distingue due ordini di criteri: interni ed esterni. Quelli interni cercano di rispondere alla domanda: "Qual è il livello qualitativo della scienza in questo settore?". I criteri interni sono abitualmente articolati in domande specifiche quali: "Questo settore è abbastanza maturo per poter essere sfruttato?" e "Gli scienziati che lavorano in questo settore sono davvero competenti?".
Sebbene siano questi i criteri più largamente utilizzati quando una commissione di esperti si trova a dover valutare una richiesta di finanziamento per un progetto di ricerca, Weinberg li ritiene insufficienti e propone di rivalutare i criteri esterni, ovvero quelli che cercano di rispondere alla domanda: "Perché perseguire questo particolare tipo di attività scientifica?". Si tratta di criteri assai difficili da formulare, poiché mettono a confronto settori e priorità tra di loro incommensurabili quali la biologia molecolare o la fisica delle particelle. Eppure questi sono i dilemmi cruciali della politica della ricerca, che in una situazione di risorse limitate si trova inevitabilmente a dover operare delle scelte privilegiando alcune attività a discapito di altre.Tre sono gli ordini di criteri in base ai quali può essere articolata questa valutazione esterna.
Il primo è il 'valore tecnologico': dati certi obiettivi tecnologici che una società ha in vista - quale può essere, ad esempio quello di avere in futuro energia meno costosa, o più pulita - si può tentare di valutare quale probabilità abbia una certa attività di ricerca di contribuire a raggiungere quegli obiettivi. Il secondo, estremamente delicato, è il 'valore scientifico', desumibile secondo Weinberg dalla capacità che un certo filone può avere di contribuire allo sviluppo delle discipline a esso vicine. Il terzo è il 'valore sociale': la capacità di un progetto scientifico di promuovere valori socialmente condivisi quali possono essere ad esempio il benessere della popolazione (cibo, sicurezza, salute), il prestigio della nazione e lo sviluppo di collaborazioni a livello internazionale.
L'applicazione di questi criteri avrebbe dovuto, per Weinberg, portare a sostenere massicciamente il campo della biologia molecolare - caratterizzato da un elevato valore scientifico, tecnologico e sociale - o quello dell'energia nucleare, penalizzando invece la fisica delle alte energie - poco rilevante in base a tutti e tre gli ordini di criteri e oltretutto estremamente costosa - e l'esplorazione dello spazio. È interessante riflettere - a distanza di quasi trent'anni dallo studio di Weinberg - su quali criteri siano effettivamente stati seguiti nell'allocazione delle risorse nei suddetti filoni di ricerca: ad esempio, è ipotizzabile che il massiccio sostegno dato alla fisica delle alte energie sia stato dovuto al peso di fattori quali la possibilità di collaborazioni internazionali o la capacità dei fisici di far pesare elementi di valutazione 'interna' all'ambito scientifico. Nel caso dell'energia nucleare, invece, le priorità sociali si sono probabilmente ridefinite nel corso degli anni.
Sebbene il modello di Weinberg tocchi alcuni dei nodi cruciali del problema, nella pratica i processi di definizione delle politiche di ricerca se ne sono spesso discostati in modo significativo. Questo ci porta anche a giustificare il frequente utilizzo, in queste pagine, della forma plurale 'politiche della ricerca'. La definizione concreta delle misure adottate per orientare e sostenere lo sviluppo della scienza e della tecnologia risulta infatti dalla combinazione di diverse 'culture di policy' (policy cultures). Le tre principali sono state per lungo tempo quella burocratica (che comprende i modelli di organizzazione statali e quelli militari), quella accademica e quella economica (caratteristica del mondo dell'impresa). L'interazione tra queste tre culture, in diversi gradi e formule, ha portato a diversi orientamenti della politica della ricerca in prospettiva sia storica che di specificità nazionale. Così, a periodi in cui la policy culture burocratica, e in particolare militare, è stata dominante - la prima fase delle politiche di ricerca, in particolare nel secondo dopoguerra - sono subentrate fasi in cui gli stili e i modelli accademici o imprenditoriali sono divenuti più rilevanti. Nello stesso modo, si sono formate e trasformate nel corso del tempo culture di policy caratteristiche dei singoli Stati.Le differenti configurazioni di queste culture sono andate col tempo a individuare uno spazio di azione per la politica della ricerca che va ben al di là del problema specifico dell'allocazione delle risorse, individuando temi quali:
a) l'uso della scienza e della tecnologia per soddisfare i bisogni pubblici;
b) l'impatto della scienza e della tecnologia;
c) il controllo e la regolazione del cambiamento tecnologico (v. Nelkin, 1977).
L'uso della scienza e della tecnologia per soddisfare i bisogni pubblici. - Nel primo ambito problematico rientrano aspetti quali l'allocazione delle risorse, a sua volta influenzata dagli obiettivi che un certo paese si propone, dall'urgenza maggiore o minore che viene attribuita alle varie esigenze sociali e alla "convergenza di opportunità politica e opportunità tecnologica" (v. Nelkin, 1977, p. 397). La ricerca di fonti alternative di energia, la tutela dell'ambiente o il desiderio di mantenere la propria autonomia in alcuni settori scientifici e tecnologici possono essere di volta in volta obiettivi ritenuti importanti e desiderabili in un certo paese. Ma non sempre la maturazione di una finalità a livello politico coincide con la maturazione degli strumenti scientifici e tecnologici necessari a risolverlo. Un'innovazione tecnologica nel campo della produzione energetica mediante fissione nucleare, ad esempio, che poteva essere considerata 'politicamente opportuna' negli anni cinquanta, faticherebbe oggi a soddisfare questo criterio in numerosi paesi industrializzati. Viceversa, la società appare già da alcuni anni 'pronta' per una cura contro l'AIDS non ancora maturata dalla ricerca.
L'utilizzo di scienza e tecnologia si realizza anche attraverso una serie di scelte strategiche, che vanno ad esempio a privilegiare la centralizzazione piuttosto che il pluralismo, la ricerca di base invece di progetti specificamente mirati a determinati obiettivi o che riguardano l'equilibrio tra le pressioni del pubblico e quelle dei professionisti della ricerca.Sebbene la 'dottrina Bush' enfatizzasse l'importanza di un coordinamento centrale nell'assegnazione dei fondi, il modello di research policy statunitense è stato in seguito prevalentemente improntato al pluralismo e all'autonomia delle diverse agenzie e centri di finanziamento, a differenza di quanto è avvenuto in paesi europei come la Francia e - almeno sino agli anni settanta - il Regno Unito. Un dato caratteristico delle strategie americane rispetto a quelle europee resta in ogni caso il ruolo di rilievo storicamente svolto dal settore privato, soprattutto nell'ambito dello sviluppo tecnologico in cui solo l'area dei programmi militari e spaziali ha visto un predominio dell'intervento governativo.
Il dilemma tra ricerca di base e progetti mirati è stato per anni influenzato dalla cosiddetta "sindrome da Manhattan project" (v. Nelkin, 1977, p. 402): l'enorme impatto di programmi come quello che portò a realizzare il primo ordigno a fissione nucleare o il 'programma Apollo' che portò allo sbarco sulla luna. Non sempre, tuttavia, un settore è 'maturo' per un massiccio investimento di questo tipo. Un caso che gli studiosi di science policy spesso citano è quello della 'guerra al cancro', avviata negli USA e in numerosi altri paesi a partire dai primi anni settanta. L'assenza di un quadro teorico chiaramente predominante e sufficientemente sviluppato portò a concentrare le risorse su una rosa ridotta di progetti - prevalentemente sulla base della reputazione di alcuni scienziati particolarmente visibili - mentre sarebbe stato più fruttuoso sostenere uno spettro più ampio di approcci a carattere 'esplorativo'.
La costituzione di imponenti macchine organizzative in ambito scientifico-tecnologico, in particolare, è stata considerata come una potenziale causa di 'irrigidimento' delle politiche di ricerca. Tali strutture, infatti, una volta costituite, tendono ad acquisire la priorità nell'assegnazione dei fondi perché il loro smantellamento rappresenterebbe una sconfitta tanto per gli scienziati quanto per i policy makers (v. Weinberg, 1963). In questo senso, la definizione degli obiettivi può avvenire a posteriori per giustificare il sostegno a programmi e istituzioni già esistenti. Ad esempio, lo sviluppo di progetti nel campo dell'energia solare o la costruzione dello Space shuttle risposero all'esigenza di conservare un ruolo alla NASA, mentre la prosecuzione del progetto spaziale europeo Ariane servì anche a impiegare il personale della SNIAS (la società nazionale francese per l'industria aeronautica e spaziale) dopo il declino del progetto Concorde (v. Nelkin, 1977).
L'impatto della scienza e della tecnologia. - La politica della ricerca oggi affronta anche in misura significativa le conseguenze dello sviluppo scientifico e tecnologico sulla nostra vita. Questa preoccupazione investe principalmente aree di policy quali l'ambiente, il lavoro, i diritti individuali e i valori democratici.
La crescente preoccupazione e mobilitazione pubblica per la qualità dell'ambiente naturale e per le conseguenze che su di esso hanno scienza e tecnologia, ha portato a inserire nell'agenda di gran parte dei governi e di numerose organizzazioni transnazionali politiche di monitoraggio e contenimento dell'impatto ambientale. Lo stesso vale per le condizioni di lavoro di coloro che operano in settori a elevato rischio tecnologico o ambientale. Più recentemente, tuttavia, le politiche volte a coordinare innovazione tecnologica e occupazione si sono ampliate sino a comprendere iniziative a carattere formativo miranti a permettere alla forza lavoro di tenere il passo con lo sviluppo tecnologico in aree quali l'informazione e la comunicazione (v. European Community Commission, 1996).
Più complesso ancora è il tema del rapporto tra R&S, diritti individuali e democrazia. Lo sviluppo di sofisticate tecnologie nel campo della comunicazione-informazione o le possibilità offerte dalle biotecnologie e dalla mappatura del patrimonio genetico pongono al centro del dibattito pubblico problemi di tutela della privacy individuale. Sino a che punto le esigenze di sicurezza della collettività, ad esempio, possono rendere opportuno il controllo di spazi pubblici attraverso telecamere o comunicazioni in rete? Sino a che punto gli obiettivi di prevenzione della salute pubblica o della stessa sicurezza, ad esempio, possono portare a screening genetici della popolazione per individuare potenziali patologie o addirittura predisposizioni innate al crimine?
Infine, il dilemma dell'equilibrio tra specializzazione tecnico-scientifica e controllo democratico si presenta sin dall'inizio al centro di ogni politica della ricerca. L'esteso utilizzo dell'expertise scientifico nell'ambito delle decisioni politiche porta a temere il rischio di una 'tecnocrazia' tale da ridurre i livelli di partecipazione pubblica e fondare la stessa legittimazione delle istituzioni politiche più sulla loro efficienza tecnica che sulla loro capacità di rappresentare le istanze pubbliche (v. Lowi, 1972). Se su alcuni temi - come l'utilizzo di energia nucleare in Italia o, più recentemente, in Svizzera, la commercializzazione di cibi geneticamente modificati - si è ritenuto opportuno consultare direttamente la popolazione, in altri casi la politica della ricerca è stata contenuta in ambiti decisionali molto più stretti. Nella sua analisi del coinvolgimento massiccio degli scienziati nell'ambito delle istituzioni politiche e militari britanniche nel corso della seconda guerra mondiale, Snow (v., 1960) ha messo in evidenza come il ruolo degli esperti scientifici divenga particolarmente rilevante e problematico in situazioni di 'politica chiusa', condizionate cioè dalla segretezza e dalla restrizione dei circoli scientifici e decisionali. In queste situazioni, senza il confronto e il controllo dei colleghi che abitualmente caratterizzano il lavoro scientifico, un numero assai ristretto di esperti - spesso, come dimostra il caso studiato da Snow, solo uno - si trova in una condizione di estrema concentrazione di responsabilità e di possibilità di influenza sul potere politico con evidenti rischi sotto vari profili.
La presenza e l'importanza di obiettivi legati all'analisi dell'impatto scientifico e tecnologico nell'agenda del policy making dipende naturalmente da una serie di fattori. Il primo è il livello di sensibilità e mobilitazione pubblica nei confronti di un certo argomento. Queste possono a loro volta essere sollecitate dalla presa di posizione di un soggetto particolarmente visibile - come nel caso dell'impegno antinucleare del premio Nobel Linus Pauling o dell'impegno di molte stars dello spettacolo nella lotta contro l'AIDS - o da eventi che acquistano particolare rilievo per l'opinione pubblica - come nel caso del talidomide, un sedativo prescritto a numerose donne in gravidanza che poi si scoprì causare la focomelia nel nascituro. La configurazione degli interessi economici può rappresentare un altro fattore di rilievo: il contesto del policy making nell'ambito dell'energia nucleare, ad esempio, può cambiare da paese a paese sulla base delle alternative energetiche esistenti e degli investimenti fatti dalle agenzie nazionali e dai grandi gruppi economici. Il tema dell'impatto della scienza e della tecnologia si è spesso intrecciato anche con il tema - che qui non può essere affrontato compiutamente - delle politiche della ricerca e del trasferimento tecnologico nei paesi in via di sviluppo (v. Sardar e RosserOwen, 1977; v. Shrum e Shenhav, 1995).
Il controllo e la regolazione del cambiamento scientifico e tecnologico. - Sulla base di questo tipo di preoccupazioni, gli strumenti di regolazione della ricerca e delle sue applicazioni tecnologiche si sono estesi ben oltre i tradizionali strumenti di allocazione delle risorse, delineando pratiche di controllo che gli studiosi di science policy hanno distinto in reattive, anticipatorie e partecipative (v. Nelkin, 1977).Le forme reattive si esprimono principalmente in agenzie e commissioni create con l'obiettivo di definire le soglie accettabili di rischio e in generale di garantire valutazioni e controlli indipendenti dal potere economico e da quello politico. A questo livello, un ruolo è svolto anche dalle sedi giudiziarie, dove, ad esempio, possono essere stabiliti risarcimenti per effetti negativi imputabili a una tecnologia.La funzione regolativa anticipatoria utilizza invece studi a carattere previsionale sugli scenari futuri in termini di sviluppo scientifico, tecnologico, e dei relativi bisogni sociali; in alcuni paesi, agenzie specifiche si dedicano al 'technology assessment', cioè all'accertamento dell'impatto che una tecnologia in evoluzione potrà avere a diversi livelli (è il caso del già citato OTA negli Stati Uniti).
Infine, le forme partecipatorie derivano dalle varie modalità di mobilitazione pubblica emerse, anche a livello locale, in risposta a specifiche iniziative scientifiche e tecnologiche. La partecipazione di questi 'citizen groups' - per usare la definizione che è stata data loro negli USA - ai processi decisionali in questo ambito è stata progressivamente riconosciuta dal potere politico e istituzionalizzata, soprattutto in alcuni paesi del nord Europa (v. Sclove, 1994). Come si è visto nell'excursus sull'evoluzione delle politiche di ricerca, queste pratiche segnalano l'avvento di una nuova cultura di policy, emersa con forza soprattutto nel corso degli ultimi trent'anni. Si tratta di una cultura che è stata definita 'civica' in quanto enfatizza il coinvolgimento dei non 'addetti ai lavori' (coloro che non sono né scienziati, né policy makers), nei processi decisionali che investono la scienza e la tecnologia. L'attribuzione alla scienza di una maggiore 'responsabilità sociale', l'utilizzo dell'expertise scientifico a fini regolativi e di controllo delle stesse attività scientifiche e tecnologiche, la costituzione di comitati misti in cui non esperti siedono accanto agli scienziati, sono tutti risultati di questo processo di crescente attenzione e partecipazione pubblica (v. Epstein, 1995; v. Bucchi, 1998).
Trasparenza, informazione e coinvolgimento del pubblico sono divenuti elementi integranti delle politiche di ricerca, sanciti anche da documenti legislativi quali la 'Direttiva Seveso', emanata a livello europeo sulla scia del grave incidente accaduto nella cittadina italiana (v. Valentini, 1992). Nel 1998, il rapporto di una commissione del Congresso americano sulla politica della ricerca inseriva tra i principali obiettivi "l'ampliamento delle linee di comunicazione tra scienziati e pubblico americano" (v. National Science Board, 2000); ricerche sul livello di interesse e comprensione pubblica dei temi scientifici vengono ormai condotte regolarmente da numerose istituzioni politiche e di ricerca (v. European Community Commission, 1996; v. National Science Board, 2000).
Un tratto che si è affermato nel corso dei secoli come caratteristico dell'attività scientifica, rispetto ad altre imprese sociali, è la sua propensione a trascendere le barriere nazionali (v. Rossi, 1997; v. Merton, 1942). I sociologi della scienza hanno coniato l'espressione 'invisible colleges' per indicare proprio la formazione di comunità composte da ricercatori fisicamente distanti, ma continuamente in contatto e attivamente impegnati nello scambio di informazioni, metodi e risultati (v. Crane, 1972).
La stessa istituzione e la successiva gestione del premio Nobel nella neutrale Svezia ha sempre teso a enfatizzare questo carattere 'universale' della pratica della scienza, il suo essere al di sopra delle divisioni e degli schieramenti politici anche nei periodi di più intensa contrapposizione tra Stati - le due guerre o la stagione della guerra fredda.Gli Stati europei sono stati particolarmente sensibili alle possibilità di collaborazione in questo ambito, spinti dalla necessità di fronteggiare l'egemonia degli Stati Uniti in campo scientifico e tecnologico soprattutto a partire dal secondo dopoguerra (v. Krige, 1998). Si è già accennato all'istituzione del CERN, istituito nel 1953 a Ginevra. Senza dubbio una delle esperienze più significative nell'ambito della collaborazione internazionale a livello di politiche della ricerca, oltre che la più grande macchina di esperimenti del mondo, il CERN conta oggi diciannove paesi membri (i quindici dell'Unione Europea più Svizzera, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) che contribuiscono ciascuno in proporzione al Prodotto Interno Lordo nazionale per un budget totale di circa 870 milioni di franchi svizzeri (oltre mille miliardi di lire).
Trecento fisici e tremila tra ingegneri, tecnici, operai e personale amministrativo consentono a fisici provenienti da università e istituti di ogni parte del mondo di compiere esperimenti di fisica delle particelle che spesso durano alcuni mesi e prevedono il coinvolgimento di centinaia di ricercatori. In campo spaziale, la cooperazione europea ha dato vita nel 1975 alla European Space Agency (ESA), un'organizzazione che nel 2000 vede affiliati quattordici Stati per un budget totale di circa 3 miliardi di euro (circa sei miliardi di lire). L'agenzia ha un ampio spettro di attività che vanno dalla ricerca scientifica alle telecomunicazioni spaziali, al lancio di satelliti e alla meteorologia. Altre istituzioni a carattere settoriale sono la European Molecular Biology Organisation (EMBO), lo European Molecular Biology Laboratory (EMBL), lo European Southern Observatory (ESO), la European Synchrotron Radiation Facility (ESRF).Un ruolo chiave nelle politiche di cooperazione scientifica a livello europeo è stato naturalmente esercitato dalle attività svolte nell'ambito delle Comunità europee. Le tre Comunità originarie prevedevano già forme di collaborazione nell'ambito della ricerca nei settori oggetti dei trattati: carbone e acciaio, agricoltura ed energia nucleare. Tuttavia, fu a partire dalla fine degli anni sessanta, con l'unificazione delle Commissioni e dei Consigli delle Comunità e con il generale rilancio della Comunità, che cominciarono a essere poste le basi per una politica della ricerca non settoriale a livello europeo (v. Guzzetti, 1997).
Agli inizi del decennio successivo, con Altiero Spinelli come commissario per industria e ricerca, fu riorientata l'attività del Joint Research Centre dell'EURATOM, che non aveva dato sino ad allora i risultati sperati, verso la ricerca di base e verso settori diversi dalla ricerca nucleare. Si dette vita al CERD (European Committee for Research and Development), un comitato di scienziati di alto livello con funzioni di consulenza alla Commissione nella definizione di programmi di ricerca, e nel 1972 scienza e tecnologia vennero ufficialmente inseriti tra le competenze comunitarie.L'ingresso di tre nuovi Stati membri - Danimarca, Irlanda e Regno Unito - portò a una riorganizzazione delle competenze: Spinelli divenne responsabile di industria e tecnologia mentre Ralf Dahrendorf fu nominato commissario per la scienza e l'educazione. Mentre Spinelli vedeva un ruolo per una politica di ricerca europea comune soprattutto in settori di frontiera, in rapida evoluzione e di grande rilevanza economica quali l'elettronica, le telecomunicazioni e i trasporti, Dahrendorf era più orientato a considerare l'Europa come uno 'spazio scientifico comune', una sorta di 'mercato aperto' delle competenze.
La Commissione, più che istituire grandi e costosi programmi di ricerca applicata, doveva concentrarsi principalmente sul rafforzamento di networks e attività di collaborazione tra istituzioni e gruppi di ricerca già operativi. Fu sulla base delle sue proposte che il Consiglio approvò nel 1974 le risoluzioni che sanciscono l'inizio ufficiale di una politica scientifica e tecnologica delle Comunità europee, assicurando tra l'altro il supporto comunitario a un organismo istituito da numerose università e centri europei, la European Research Foundation. Queste due concezioni del ruolo di una politica della ricerca comune agli Stati europei continuarono ad alternarsi e intrecciarsi in forme diverse anche nei decenni successivi.
Nel 1978 fu costituito un altro centro di ricerca, il JET (Joint European Tokamak) a Culham, nel Regno Unito, per permettere anche ai fisici europei di compiere quegli esperimenti nel campo della fisica del plasma e della fusione nucleare che vedevano impegnati già da alcuni anni i loro colleghi americani e sovietici. Un accordo stabilito nel 1988 tra Comunità europee, Stati Uniti e Giappone per un reattore sperimentale nel campo dell'ignizione del plasma, testimonia la riuscita dei tentativi europei di reggere, attraverso uno sforzo congiunto, il passo con la ricerca delle grandi potenze economiche; un altro effetto della collaborazione europea a livello scientifico è stato la creazione di una piattaforma comune in grado di stabilire accordi di cooperazione con soggetti terzi - cosa che è accaduta sempre più frequentemente negli ultimi anni.
In particolare, nel corso degli anni novanta sono stati stipulati accordi bilaterali con gli Stati Uniti nel settore delle biotecnologie; con la Cina, istituendo un centro di cooperazione biotecnologica; e con il Giappone, attraverso la prima riunione di un forum euro-giapponese in campo scientifico e tecnologico.
Nel 1984 fu lanciato il primo Framework Programme, che integrava in un'unica cornice i diversi programmi già esistenti in campo scientifico e tecnologico, sottolineando la necessità di dedicare le risorse a livello europeo a quelle iniziative che gli Stati europei da soli non sarebbero stati in grado di realizzare, secondo quello che poi sarebbe divenuto noto come il 'principio di sussidiarietà'. Su iniziativa del governo francese, nel 1985, diciassette paesi europei parteciparono alla costituzione di Eureka, un programma di cooperazione tecnologica concepito a imitazione di simili programmi già esistenti negli Usa e in Giappone, allo scopo di sviluppare "prodotti, sistemi e servizi a tecnologia avanzata per il mercato mondiale" (v. Guzzetti, 1995, p. 117), con una prospettiva quindi dichiaratamente applicativa e legata all'industria. Nel complesso, circa il 13% del budget che gli Stati membri riservano alla ricerca passa oggi attraverso la cooperazione a livello europeo, finanziando il Framework programme e organismi quali CERN, Eureka ed ESA.
Come si è visto, lo sviluppo e il consolidamento di politiche della ricerca è stato segnato anche dal corrispondente sviluppo di sistemi di monitoraggio e di rapporti sullo stato delle attività di R&S. Governi nazionali, istituzioni internazionali come l'OCSE e istituzioni indipendenti producono e mettono periodicamente a disposizione dati e indicatori sullo sviluppo della ricerca e sui suoi aspetti specifici. Qual è dunque il quadro che emerge all'inizio del terzo millennio? I dati disponibili più recenti sono quelli presentati nei rapporti pubblicati nel 1999-2000 da varie istituzioni, dati che tuttavia si riferiscono a rilevazioni ed elaborazioni condotte perlopiù nel 1997 e 1998 (v. OECD, 1999; v. National Science Board, 2000; v. Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1997).
L'ammontare attuale della spesa per R&S dei 28 paesi aderenti all'OECD è di 425 miliardi di dollari, pari al 2,2% della somma totale del reddito prodotto in questi paesi. Le attività di tipo scientifico e tecnologico vedono impegnati negli stessi paesi 2,7 milioni di ricercatori, ovvero 55 ricercatori ogni 10.000 unità di forza lavoro. Nel complesso, lungo il corso degli anni novanta, la spesa per R&S è diminuita soprattutto nei paesi dell'Unione Europea, per effetto di dinamiche che hanno coinvolto soprattutto i cinque maggiori paesi dell'Unione (Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Spagna); vi è stata invece una lieve ripresa negli USA e soprattutto in Giappone, dopo un periodo di diminuzione degli investimenti che aveva fatto seguito ai massimi raggiunti nel 1991, quando gli Stati Uniti e il Giappone spendevano rispettivamente il 2,7 e il 2,8% della propria ricchezza nazionale in attività di ricerca. Vale la pena di notare - in termini percentuali - il sorpasso effettuato dal Giappone nei confronti degli Stati Uniti tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta.
Tuttavia, se fino al 1993 si era registrato un avvicinamento degli altri paesi del G7 agli USA negli investimenti per R&S, il declino generalizzato che è subentrato ha colpito meno severamente la ricerca americana, ristabilendo le distanze. Forte concentrazione delle risorse ed egemonia statunitense restano comunque un dato incontrovertibile: basti pensare che l'85% della spesa per R&S registrata all'interno dell'OECD è concentrata in 7 paesi e che il 42,7% è concentrata negli USA, il 28,3% nell'Unione Europea e il 18,2% in Giappone. Questa egemonia appare meno forte se si prende in considerazione quella parte di investimenti che è svincolata da finalità militari (nondefense R&D): in questa categoria la spesa degli altri paesi del G7 è superiore del 17% a quella degli USA (dati della National Science Foundation riferiti al 1996, che è l'ultimo anno per cui esistono statistiche comparabili). Negli anni novanta la crescita maggiore si è registrata tuttavia in paesi quali la Corea, la Svezia, la Finlandia, l'Irlanda e l'Islanda. Il numero assoluto dei ricercatori è cresciuto meno intensamente rispetto al decennio precedente, addirittura diminuendo in alcuni paesi tra cui la Germania, l'Italia e i paesi dell'Europa dell'Est. La quota di ricercatori sul totale della forza lavoro è rimasta invece sostanzialmente stabile dopo l'incremento del decennio precedente.
La tabella mette a confronto la quota di ricchezza nazionale destinata in vari paesi a R&S. Dopo una serie di incrementi che l'hanno caratterizzata fino agli inizi degli anni novanta, come si vede, l'Italia si è assestata su una percentuale di spesa per R&S che supera di poco l'1% del PIL e resta inferiore a quella di gran parte dei principali paesi industrializzati.
L'ultimo dato disponibile per l'Italia è relativo al 1996 e le attribuisce 32,7 unità di personale impegnate nella ricerca su diecimila. Un dato che allinea il nostro paese con altri Stati europei quali la Spagna o il Portogallo, ma decisamente distante da quello che caratterizza, ad esempio, la Francia o i Paesi Scandinavi - dove la quota di ricercatori è più che doppia - per non parlare del Giappone, dove nel 1997 si contavano 92 ricercatori su diecimila unità di forza lavoro.
Interessanti confronti internazionali possono essere fatti anche sul piano delle fonti e della distribuzione delle risorse per R&S. Si è già accennato a una delle tendenze dominanti degli ultimi anni: la crescita del ruolo dell'industria sia come finanziatore, sia come esecutore di ricerca. Attualmente si calcola che circa il 60% della ricerca sia finanziato dalle imprese, e che quasi il 70% sia condotto dalle imprese stesse. In Italia il ruolo dei finanziamenti governativi resta dominante e copre oltre la metà degli stanziamenti totali per la ricerca. In paesi quali gli Stati Uniti o il Regno Unito, la quota governativa non supera un terzo del totale ed è compensata da un notevole sviluppo dei finanziamenti provenienti dall'industria. La situazione più distante da quella italiana è rappresentata anche in questo caso dal Giappone, dove solo il 18,7% dei fondi proviene dal settore pubblico contro il 73,4% di finanziamenti provenienti dall'industria. Differenze simili si riscontrano anche nella destinazione dei finanziamenti, che in Italia raggiungono istituzioni pubbliche di ricerca e istruzione in misura superiore rispetto ad altri paesi (negli USA e in Giappone, ad esempio, oltre il 70% va alla ricerca industriale, contro il 53,7% italiano). Nel corso dell'ultimo ventennio, soprattutto per quello che riguarda la ricerca industriale, è cresciuta invece la componente di finanziamenti provenienti dall'estero - il 5,8% attualmente, di tutte le risorse per R&S (v.OECD, 1999; v. National Science Board, 2000).
Questa tendenza all'internazionalizzazione è segnalata anche dalla crescita del numero di articoli scientifici firmati da gruppi di ricerca transnazionali (attualmente circa il 25% dell'intera letteratura) e dei brevetti frutto di accordi che coinvolgono più paesi. Naturalmente, l'impatto dei processi di globalizzazione assume caratteri diversi nei singoli Stati: a un paese come l'Irlanda, che sembra aver tratto particolare profitto da questi processi in termini di partnerships internazionali, fa da contraltare il relativo 'isolamento' del Giappone, dove la quota di imprese che partecipano ad accordi di ricerca industriale non supera l'1% e la percentuale di fondi di ricerca provenienti dall'estero è pari allo 0,1% del totale.
(V. anche Scienza e società; Tecnica e tecnologia).
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