rifare
È vocabolo esclusivo del linguaggio poetico, con due occorrenze nelle Rime (una in un sonetto ‛ comico '); tutte le altre nella Commedia.
Nella maggioranza dei casi, è usato come riflessivo per indicare il recupero, da parte del soggetto, della qualità o condizione espressa dal predicato: Pg XII 7 dritto sì come andar vuolsi rife'mi / con la persona; XXIII 66 Tutta esta gente che piangendo canta / ... in fame e 'n sete qui si rifà santa; e così Rime CVI 84, Pd XX 5. Non riflessivo in Pd IV 48 e XXVI 89.
Compare anche al passivo, con il significato di " far diventare, rendere tale qual era prima ": D. domanda ai beati come, poi / che sarete visibili rifatti, / esser porà ch' al veder non vi nòi (Pd XIV 17; né qui importa esaminare se visibili abbia il significato attivo di " capaci di vedere " o quello passivo che gli è consueto).
Dopo esser stato immerso nell'Eunoè, D. ne riemerge rifatto , sì come piante novelle / rinovellate do novella fronda (Pg XXXIII 143); " ridivenuto, secondo il normale uso del poema ", giacché " l'idea di una rigenerazione a nuovo è formalmente spiegata nel paragone ", spiega il Mattalia; sembra però più convincente l'interpretazione di Tommaseo, Vandelli e Casini-Barbi, i quali, richiamando il virgiliano " collectum robur viresque refectae " (Georg. III 235) spiegano " rinvigorito " (Casini-Barbi).
‛ Rifarsi ' compare anche in un esempio delle Rime, nel secondo dei sonetti diretti da D. a Forese nella tenzone: LXXV 10 ben m'è detto che tu sai un'arte, / che, s'egli è vero, tu ti puoi rifare, / però ch'ell'è di molto gran guadagno. " L'arte è il furto, come chiarirà l'ultimo sonetto di Dante " (Contini), unico rimedio rimasto al Donati per " risarcire i danni " prodotti nelle sue finanze dalla sua vita dissipata di goloso.