RIFORMA (ted. e ingl. Reformation)
Questo termine, che ha finito con acquistare larga varietà di accezioni, viene generalmente applicato a innovazioni o mutamenti profondi nella vita dello Stato e della Chiesa, e dovuti - almeno per ciò che riguarda lo Stato - all'azione legittima e regolare dei poteri costituiti, agenti gradualmente secondo un programma predeterminato: tali le "riforme" introdotte dai principi negli organismi statali nel corso del sec. XVIII e per cui si parla anche di una "età delle riforme" (v. riforme, età delle); onde, contrapponendo queste riforme al moto violento della rivoluzione francese, in politica il concetto di "riforma" venne per lungo tempo considerato quale antitesi a quello di rivoluzione (v. riformismo), e s'ebbe, p. es., nel partito socialista italiano una frazione "riformista", in complesso legalitaria e opposta a quella rivoluzionaria o estremista. Per quanto concerne la Chiesa, si parla di "riforma" anche a proposito delle misure che gli ordini monastici e il papato attuarono, fra vivi contrasti, nel corso del sec. XI; ma più comunemente, e quasi per eccellenza, così nei paesi in cui la maggioranza della popolazione si distaccò dalla Chiesa cattolica, come in quelli nei quali le rimase, o le ritornò ad essere, fedele, "riforma" e "riforma religiosa" è chiamato quel complesso movimento, religioso politico culturale, che produsse appunto, lungo il sec. XVI, la frattura della cristianità cattolica medievale in diverse comunità, a loro volta poi più o meno soggette a un ulteriore processo di frazionamento o differenziazione. E di questa riforma appunto vogliamo occuparci, in uno sforzo di coglierne sinteticamente il significato storico essenziale (per i singoli eventi, cfr. anabattisti; calvinismo; calvino; francia; germania; luteranismo; lutero; svizzera; zwingli, ecc.).
Appunto in base a questo suo senso più specifico, il termine "riforma" è stato adottato nella storia generale delle religioni, per designare anche altri movimenti che, come quello della Riforma del sec. XVI, furono vere e proprie rivoluzioni religiose: tali, p. es., le "riforme" di Zarathustra e del Buddha. Ora, è un fatto facilmente constatabile che appunto da simili "riforme" hanno tratto origine le religioni cosiddette "fondate", le religioni "rivelate": religioni cioè che alla loro origine hanno un fondatore, ribellatosi al sistema religioso vigente al suo tempo, in nome di una più alta rivelazione della quale egli si considerava il depositario. Religioni, cioè, di carattere profetico; ma nelle quali, a un certo punto del loro svolgimento storico, e in generale ben presto, l'ulteriore sviluppo del profetismo trova ostacoli, e il contenuto della rivelazione si riconosce fissato e condensato, definitivamente, in un "canone" di scritture sacre: le quali rimangono base e norma, fissa e immutabile, di tutta la vita religiosa, mentre si tende a impedire ulteriori arricchimenti e a mettere al bando chi si distacchi, comunque, dalla "ortodossia"; e sempre più si ravvisa l'assoluta perfezione della prassi e della dottrina nella persona stessa del fondatore e, dopo lui, nei suoi discepoli immediati. Insomma la perfezione è collocata alle origini, cioè nella rivelazione iniziale, e quanto più ci si allontana da essa tanto maggiore è la decadenza. Così anche nel cristianesimo: non solo il dogma, i sacramenti, la Chiesa stessa e la sua gerarchia sono d'istituzione divina, non solo modello di ogni virtù e solo essere perfetto è il fondatore e redentore Dio e uomo; ma l'età antica della Chiesa - l'età gloriosa degli apostoli, dei martiri e dei santi - è stata sempre considerata come un modello, pure riconoscendosi che la santità stessa non è mai venuta meno nella Chiesa. In questa sua tendenza a porre la perfezione assoluta agli inizî, il cristianesimo, come le altre religioni fondate, presenta un punto di contatto con la concezione predominante nel mondo antico, che alle origini del genere umano, non nel futuro immediato o lontano, collocava l'età dell'oro.
Pure, il cristianesimo reca in sé un altro elemento, opposto a cotesto. Il cristianesimo nascente ereditò dal giudaismo, tra altre cose, la speranza nel "mondo avvenire", nel regno messianico: secolo d'oro alla fine, non già all'inizio, dei tempi. Ma anche nella cultura della tarda antichità si veniva diffondendo, connessa con alcuni culti misterici, con le dottrine astrologiche, con la filosofia stoica, l'idea che l'età dell'oro dovesse ritornare, o - nei sistemi rigidamente dualistici - che un giorno lo stato di commistione del bene con il male dovesse cessare, con la vittoria del primo. Non è qui il luogo di porre il problema delle relazioni tra quelle due correnti. Ma è di fondamentale importanza tener presente questo elemento escatologico - che nel cristianesimo agì con maggiore o minor forza secondo i momenti - in quanto con esso la perfezione veniva ad essere collocata nell'avvenire, e non importa ora se vicino o lontano. Perché proprio là dove all'escatologia si dà maggior peso, proprio in quegli ambienti cristiani ove il ritorno glorioso di Cristo è atteso e invocato con più vivo fervore e ansia, insomma nelle correnti che all'ingrosso si designano come millenaristiche: ivi si mantiene attivo il lievito del profetismo, in forme che reagiscono contro la normale disciplina ecclesiastica. Ma questo elemento escatologico nel cristianesimo si viene, col volger del tempo, progressivamente attenuando: tra la fine del sec. IV e l'inizio del V, lo si può considerare come quasi del tutto spento. Prevale una tendenza antica, che in parte ha le sue origini già nell'apologetica del giudaismo, a non considerare più la Chiesa o la perfezione morale e religiosa e "il mondo" come termini antitetici, cristianesimo e cultura profana come irriducibilmente avversi: ad ammettere anzi che buona parte della verità cristiana fosse rintracciabile nelle opere dei filosofi. Poiché la verità è divina, conseguenza inevitabile era che anche i saggi dell'antichità avessero avuto almeno qualche sentore della rivelazione. Il Verbo - pensavano già apologeti come Giustino - ispirò anche i sapienti della Grecia benché meno pienamente che Ebrei e cristiani. Di pari passo, tra scrittori della stessa tendenza - che comprende Clemente alessandrino, Origene, Eusebio - si veniva radicando l'interpretazione allegorica, la quale si prestava mirabilmente sia a ravvisare adombrate nelle "favole" pagane le verità della fede, sia ad attenuare e dissolvere le dichiarazioni di carattere escatologico, specialmente dell'Apocalisse, il libro biblico che nella corrente accennata incontrò la più fiera avversione.
Ma una nuova, e fortissima, esplosione di entusiasmo apocalittico si ha nel sec. XII con Gioacchino da Fiore. Nella predicazione di lui e in quella dei seguaci diretti e indiretti, come nel pensiero e nelle opere di altre figure eminenti che ne avrebbero risentito l'influsso, è stato rintracciato come il primo germe delle idee di rinascita e di riforma, intesa quest'ultima strettamente come l'assunzione di una nuova forma (nel senso filosofico, aristotelico) e cioè come una palingenesi, una trasformazione. Ma conviene discriminare con attenzione. Se Gioacchino attende l'avvento della terza età, quella dello Spirito, corrispondente alla manifestazione della terza persona della Trinità, come il terzo momento della "economia" generale della salvezza, come l'epoca della Chiesa spirituale, non bisogna dimenticare che per lui, che la profetizza, quest'era è nell'avvenire, benché prossimo tanto che già è dato scorgerne i segni premonitori. Ma per gli "spirituali" francescani questa nuova era è stata già in qualche modo inaugurata, dallo stesso Gioacchino e da S. Francesco; essa è in certo modo in atto, anche per coloro che attendono il fatidico anno 1260. Similmente per Cola di Rienzo, nell'opera e negli scritti del quale sono stati messi in evidenza di recente con molta forza gli spunti mistici di derivazione gioachimita, la rinascita, la reformatio, l'instaurazione cioè di nuovi valori, è ugualmente in atto. Per tutti questi epigoni del movimento gioachimita, insomma, l'era della perfezione è in parte almeno già presente: essa non è più tutta proiettata nel futuro, in un avvenire che non ha con il presente alcun punto di contatto. Per di più, questa perfezione tende sempre più ad essere concepita come un ritorno alla purezza della primitiva Chiesa evangelica: e questo ritorno alle origini, che salva la Chiesa e la religione, è stato, nella coscienza delle masse (se ne farà interprete più tardi anche il Machiavelli), opera precisamente di S. Francesco. I mali presenti della Chiesa, i difetti della sua organizzazione gerarchica e le mende del clero, l'inadeguatezza dehe concezioni teologiche e l'aridità del diritto canonico, tutto ciò ch'è oggetto di critica, è messo in rilievo per via d'un confronto fatto costantemente, non già con la perfetta Chiesa avvenire nell'età del Paraclito, bensì con la perfetta Chiesa del passato, dell'età apostolica. Cotale indirizzo di pensiero si manifesta già, in diverse occasioni, nella Divina commedia: è la donazione di Costantino che segna il trapasso dalla povera e perfetta Chiesa delle origini alla ricca e mondanizzata Chiesa medievale. Si assiste, insomma, nello stesso tardo Medioevo, a un progressivo attenuarsi dell'elemento escatologico, riaffermato con tanto vigore da Gioacchino: attenuazione che costituisce un riscontro a ciò che s'è verificato nella Chiesa antica, mentre anche qui sopravvivono, ma ai margini della vita cristiana, fuori dell'ambito della Chiesa e da essa riprovati come ereticali, i movimenti e le sette dalle tendenze escatologiche più pronunciate e irriducibili (in Italia: Segalelli, fra Dolcino). Se dapprima troviamo un oscillare, un'incertezza, tra la speranza nell'avvento della Chiesa futura (un futuro e un avvento che si attueranno da sé, che si pongono come in certo modo affatto trascendenti lo stato attuale delle cose), e la coscienza della necessità di agire nel presente, in quanto le nuove forze sono almeno in parte già operanti (e quella speranza e questa coscienza sono pur esse forze di prim'ordine); quello che tende a prevalere è questo secondo elemento, e l'idea della necessità di una riforma, di un rinnovamento, tende sempre più ad uscire dal campo dell'escatologia per affermarsi in quello della soteriologia, come ricerca di una salvezza dell'anima propria, individualisticamente, nonché in quella della pratica e dell'azione. Il che non significa che tali idee perdano ogni loro connotazione e carattere mistici; ma ciò è tuttavia l'indice di una trasformazione profonda.
Così la tanto vagheggiata e richiesta reformatio in capite et in membris sembra a volte che finisse col diventare, per i più, e nell'opera stessa dei grandi concilî, una vera e propria "riforma" nel senso moderno e più banale del termine, d'ordine gerarchico-amministrativo: rimozione di abusi, richiamo del clero corrotto a vita più degna, soppressione del fiscalismo o dei suoi eccessi più gravi, ecc. Ma, affrettiamoci a dirlo, non questo soltanto. Le osservazioni e le proposte pratiche, così come le denunce degli abusi e delle corruzioni, che sono continue lungo il corso del sec. XV e del XVI fino al Consilium de emendanda Ecclesia della famosa commissione nominata da Paolo III e al Concilio di Trento, ricevono un loro significato profondo, come s'è detto, dal confronto sempre presente alle menti, anche se implicito, con le condizioni della Chiesa nei primi tempi; così come per un altro verso sono spesso condizionate dalla lotta tra l'autorità ecclesiastica e il potere civile che, con la formazione e il consolidarsi delle monarchie nazionali, diviene sempre più cosciente della sua autonomia, dei proprî fini e della propria potenza. E quel confronto da una parte, e questa lotta dall'altra, portano necessariamente alcuni almeno dei vagheggiatori della riforma ecclesiastica ad operare sul terreno teologico e dogmatico: così il Wycliffe, che nel suo ideale, d'ispirazione francescana, di ripristinamento della povertà, della vita evangelica e della predicazione al popolo, trova alleata la nobiltà laica nel tentativo di sottrarre alla Chiesa i suoi beni, ma per combattere il potere del sacerdozio e per dare un fondamento teologico al proprio programma, è portato quasi da una forza irresistibile alla formulazione di tesi teologiche relative alla salvezza e ai sacramenti nettamente eterodosse, per cui lo si è potuto additare come il precursore della Riforma religiosa del Cinquecento. Germi delle nuove idee si spargono per l'Europa, e l'opera stessa dei grandi concilî accresce, dopo il grande scisma, il turbamento degli spiriti: le dottrine conciliari, proscritte ufficialmente ben presto, rimangono ancora a lungo vive nelle coscienze: parecchi, i quali pur sono o si credono buoni cattolici ortodossi, continuano a lungo a credere che l'autorità del concilio sia prevalente su quella del papa, o almeno a dubitare della superiorità di quest'ultimo.
Anche su ciò, forte è l'influsso esercitato dalla sempre maggiore conoscenza della storia antica della Chiesa e delle fonti patristiche. Tocchiamo a questo punto il problema, molto dibattuto e con particolare insistenza in questi ultimi anni, dei rapporti tra Umanesimo, Rinascimento e Riforma.
Relegata ormai nel mondo degli errori, o quanto meno delle esagerazioni unilaterali, la vecchia tesi del carattere "pagano" della cultura dell'umanesimo, acquista sempre più credito un'interpretazione "cristiana" di questo importantissimo movimento. Del quale non vogliamo né possiamo trattare qui di proposito (v. rinascimento; umanesimo), se non per avveriire che sarà sempre bene, ad evitare confusioni pericolose, distinguere ciò che a ragione può chiamarsi, genericamente, cristiano e ciò che si deve ritenere, specificamente, cattolico, alla luce - s'intende - dello stato della teologia pretridentina. Ma sta di fatto che troppi scritti di umanisti sono stati esplicitamgnte oggetto di condanne o di critiche acerbe da parte di teologi autorizzati, perché si possa oggi, come talvolta avviene, considerarli tranquillamente come ortodossi. E sta di fatto che il movimento del cosiddetto "umanismo cristiano" comporta troppa varietà di sfumature e di atteggiamenti individuali, nei suoi rappresentanti, perché si possa raffigurarlo come un movimento unico ed uniforme, senza le dovute cautele. Elementi comuni esistono senza dubbio: e si possono facilmente ridurre a uno. E quest'uno è il ritorno alla teologia platonica, o piuttosto neoplatonica, del tipo che, con una sola parola, potremo dire origenistico: ritorno che comporta parecchie conseguenza importantissime, quali l'accoglimento della vecchia tesi, cara agli apologist; greci, del carattere universale della rivelazione; l'interpretazione del Vangelo prevalentemente come norma di condotta, etica, anzi "filosofià di Cristo" - onde l'avversione vivissima alla teologia medievale e alle nugae e ineptiae degli scolastici - e una certa esaltazione della figura di Cristo in quanto maestro e, correlativamente, la tendenza a porre in seconda linea la sua opera di redentore (e pertanto la divinità di lui) e un sottolineare l'efficacia della libertà e della volontà umana nel conseguimento della salvezza. Sono questi i motivi che spiegano, in una sfera superiore a quella dei rapporti personali, l'adesione e poi l'avversione di Erasmo a Lutero: cioè quelle relazioni a cui è fortissima la tentazione di ridurre, in realtà restringendola e impoverendola, l'intera questione dei rapporti tra Rinascimento e Riforma.
La quale, almeno in quegli elementi spirituali che si presentano subito alla mente di ognuno e che costituiscono il fondamento della teologia di Lutero e di Calvino, si presenta come in assoluta antitesi con quel gruppo di dottrine che abbiamo creduto di poter segnalare quali caratteristiche - s'intende, in maniera generalissima - della teologia umanistica; e nondimeno ha potuto da molti, e per lungo tempo, e in parte può ancora, essere segnalata come quasi niente altro che la manifestazione, e per così dire la traduzione, religioso-teologica dell'umanesimo. Interpretazione, questa, dovuta essenzialmente all'aver sottolineato eccessivamente gli aspetti polemici della teologia della Riforma e dell'umanesimo, l'avversione cioè alla cultura e al pensiero medievali, e all'aver ravvisato nell'uno e nell'altro movimento spirituale un solo e medesimo anelito verso la libertà, la stessa e identica manifestazione d'individualismo: nel che questa interpretazione si congiunge e quasi s'identifica con l'altra, divenuta quasi luogo comune e tuttora perdurante in trattazioni popolari, che fa principio fondamentale della Riforma il cosiddetto "libero esame". In realtà, nulla più della libera critica è alieno dallo spirito di un Lutero. Se si può parlare, a proposito di lui - come del resto di Calvino e di altri -, di "libero esame" della Bibbia, ciò può avvenire soltanto a patto d'interpretare quel termine in senso rigidamente, totalmente cattolico, in quanto questi capi spirituali del movimento riformatore respingono il magistero della Chiesa, quale il cattolicismo romano lo concepisce. Ma essi non sono meno lontani dall'ammettere la libera critica e l'interpretazione soggettiva in senso moderno: la "Parola di Dio" è perfettamente chiara, ogni autentica testimonianza dello Spirito conforme ad essa. Lutero è certo un mistico e si sente ispirato e profeta: ma un ispirato che non proclama nessun principio nuovo, un profeta che ha chiara coscienza di essere venuto, non ad accrescere il patrimonio della Rivelazione, bensì piuttosto a discrostarne le concrezioni che dall'esterno e illecitamente sono venute nel corso dei secoli a renderlo irriconoscibile. Lutero non fa altro, non vuole far altro, che proclamare la parola di Dio, la quale oltre tutto non ha bisogno dell'aiuto degli uomini per trionfare: la parola di Dio, che basta a consolare, dando la nozione e la coscienza esatta del valore incomparabile del sacrificio di Cristo. Egli non pretende esercitare, benché su più larga scala e come iniziatore, se non quel ministero della Parola, a cui riduce sostanzialmente la funzione del sacerdozio. Partito da una intuizione puramente soteriologica, e come tale - in quanto ricerca della salvezza dell'anima propria e di ciascun credente - individualistica, cioè dalla soluzione di un problema posto in termini nettamente teologici, e nella quale egli ravvisa la sostanza stessa del Vangelo, Lutero non è però disposto ad ammettere che altri lo possa interpretare diversamente e nemmeno che ciascuno possa essere tentato (si tratta, per lui, proprio di una "tentazione" diabolica) di interpretarlo a suo modo.
Questo suo atteggiamento fondamentale fa di Lutero, come è stato ormai posto in rilievo, un uomo nettamente di tipo medievale. All'inizio della sua attività, egli si presenta soltanto come il capo di una scuola teologica, che vuole far rivivere in pieno il pensiero di sant'Agostino: Theologia nostra et sanctus Augustinus. In filosofia, rimane, e si proclama, un seguace dell'occamismo. Ma, nella lotta contro le scuole avverse e contro l'aristotelismo della cultura medievale, egli sente il bisogno di rifarsi alla teologia pura e solida dell'antichità cristiana, o a quella che gli pare più simile ad essa, così come nell'interpretazione del Nuovo Testamento di risalire al testo originale. È questo il punto d'incontro teorico di Lutero con l'umanesimo; l'incontro pratico avviene poco dopo, forse più ad iniziativa di umanisti che sua; ma egli sa farsi dei circoli culturali, che in quel momento combattono e non senza fortuna la battaglia in favore del Reuchlin, degli alleati entusiasti e potenti. Gli umanisti ravvisano in Lutero chi osa compiere ciò che Erasmo soltanto proclama in libri. Ma, di fronte agli storici che hanno accettato lo stesso punto di vista, e pongono il divario tra umanesimo e riforma soltanto in una mancanza di coraggio degli eruditi fatti per vivere nel proprio studio, privi di volontà, il cui sdegno tutto letterario si placa nel momento stesso in cui riceve la propria espressione verbale, sta il fatto che Lutero stesso non si è ingannato sul conto di Erasmo. L'umanista è tutto Girolamo, il riformatore tutto Agostino. In una sfera ben più alta dei motivi puramente psicologici sta il contrasto fondamentale delle due tendenze: concordi entrambi nel voler ritornare alle origini (ma il riformatore poteva esservi indotto anche semplicemente dal suo concetto della rivelazione, dal suo insistere su di essa contro la tradizione), si rifanno a indirizzi teologici dei quali chi abbia qualche mediocre conoscenza di patristica scorge subito l'insanabile dissidio: chi può essere attratto a includere nelle litanie il nome di Socrate, ha già preso posizione a proposito del problema della salvezza degl'infedeli; e se parla del Vangelo come della filosofia di Cristo, per lo meno respinge nello sfondo lontano la sua morte sulla croce.
Ma ciò non impedisce che, all'inizio della sua predicazione Lutero appaia agli umanisti come l'uomo del destino. E non soltanto agli umanisti. Lutero combatte gli abusi delle indulgenze, combatte il sistema sacerdotale, la curia romana, tutto ciò contro cui protestava la nazione germanica nelle famose lagnanze tante volte ripetute, e che più o meno venivano fatte ovunque in Europa; proseguendo per la propria via, e conducendo la sua polemica implacabile contro il papato, Lutero incontrava e faceva proprie e dava sistemazione ed espressione teologica a tutte le vecchie Aspirazioni alla reformatio Ecclesiae, come pure al sentimento nazionale germanico e alla teologia di Wycliffe e Hus. Se in qualche punto si spinse troppo lontano e, accortosene, si affrettò a ritirarsi (e i biografi moderni si sono compiaciuti di segnalare minutamente tutti i punti in cui egli operò tale ripiegamento), questo potrebbe ben essere dovuto anche al fatto che il teologo medievale, sempre vivo in lui, dovette sentire a un dato momento di avere ecceduto nelle concessioni fatte in un primo tempo, quando si trattava di muovere incontro al favore popolare che gli veniva in aiuto e procurava un successo insperato alla predicazione del Vangelo. Può sembrare soltanto un paradosso non elegante il dire che il successo di Lutero fu fondato in gran parte sopra un equivoco. Ma sta di rado che né Lutero volle, dapprima, operare una riforma della Chiesa nel senso in cui essa era invocata da tanti e rappresentava un'aspirazione ormai tradizionale, né la sua predicazione fu accolta nel senso preciso in cui veniva fatta e in base alle stesse esigenze spirituali che avevano condotto il monaco e docente di Wittenberg a formulare la teologia della fiduciosa sicurezza nell'applicazione immediata dei meriti di Cristo. Pure, il problema fondamentale della Riforma è precisamente questo: in che modo, e attraverso quale mediazione, quella che era stata la teologia nata da un'esperienza personalissima ma non senza riscontri nel mondo medievale (si pensi a Gotescalco) poté dar luogo alla nuova confessione religiosa che attrasse a sé milioni di uomini e offerse il primo impulso ad altri a fare altrettanto? Sennonché, quel paradosso è vero solo fino ad un certo punto. Vogliamo dire, che di equivoco si può parlare solo in parte: che esso, se pure e fino ad un certo punto fu un equivoco, diede tuttavia unità e consistenza al movimento; che ad esso si deve, se possiamo parlare di Riforma come di un movimento complesso, ma sostanzialmente unico.
Perché, se guardiamo bene alle correnti spirituali dell'epoca, si deve convenire che non ci fu una Riforma. E non intendiamo con ciò alludere al fatto che dal movimento riformatore uscirono più confessioni religiose, come è ben noto a chiunque. Ma accanto a quella che si può e si deve considerare come la corrente principale, lo storico non può fare a meno di segnalarne altre, alle quali lo scarso successo momentaneo, o il discredito in cui furono tenute ad opera di quella principale, non toglie nulla del loro valore religioso-teologico e storico. Anzitutto, l'umanesimo stesso fu un tentativo di riforma: anch'esso si prefisse, nei suoi teologi, l'epurazione della vita ecclesiastica, l'abbattimento della teologia medievale, il ritorno al Vangelo e alle origini; ma senza rompere l'unità della Chiesa. Probabilmente ciò fu dovuto al fatto che, nonostante la virulenza delle invettive che si scambiavano tra loro, quei teologi colti e quei letterati non si sentirono di lanciare anatemi; mancava loro quello "spirito profetico", quel sentimento cioè della propria diretta ispirazione, che solo può dare la certezza fiduciosa e assoluta di essere nel vero e di avere pertanto il diritto e il dovere di dannare i dissidenti. Lo impediva la loro teologia stessa, che per fare al cristianesimo un posto, e posto d'onore, nella venerata cultura dell'antichità, finiva con l'inserire il meglio di quest'ultima nella rivelazione, e con l'estendere pertanto il concetto stesso di rivelazione in maniera quasi illimitata. Ma s'intende qui alludere sopra tutto al gruppo di quei riformatori cosiddetti "spirituali", spesso confusi senz'altro tra loro e con gli anabattisti sotto quest'ultima designazione, e considerati in maniera che troppo risente delle invettive che Lutero scagliò contro di loro, quando sentì il bisogno di salvare la Chiesa, almeno come società mistica, e una certa disciplina. Sono questi i veri individualisti, eredi di un certo senso della tradizione del misticismo medievale, proclamanti il valore dell'ispirazione personale e del contatto diretto con Dio e dell'esperienza individuale: da Hans Denck a Kaspar Schwenckfeld a Sebastian Franck, per restare tra i contemporanei di Lutero, e da lui aspramente combattuti. E vorremmo prescindere dai cosiddetti "riformatori minori" nel mondo germanico, quali il Bullinger, il Bucer, l'Ecolampadio; trascurare un Carlostadio o un Osiandro; dimenticare la lotta di tendenze tra i varî consiglieri di Enrico VIII; ignorare sia il Serveto, sia la schiera - di cui sempre più si viene riconoscendo l'importanza - dei riformatori italiani e in particolare il gruppo sociniano; mettere infine risolutamente da parte quei mistici e teologi che, pur volendo rimanere nella Chiesa cattolica, subirono l'influsso della Riforma o manifestarono idee per qualche rispetto affini ai principî fondamentali dei suoi capi. Sicché è pur lecito affermare che chi voglia abbracciare con lo sguardo quel complesso movimento e non perderne nulla, deve ben riconoscere ch'esso nelle sue origini fu molteplice e vario e tale da dare, in qualche momento, l'impressione che potesse disperdersi per mille rivoli diversi. Il che tuttavia non avvenne se non in minima parte, ed è anche questo un fatto di cui lo storico ha il dovere di rendersi conto. Esso vale anzi, sotto certi aspetti, ben più delle differenze di temperamento e di mentalità tra Lutero, Calvino e Zwingli che ci si compiace generalmente di sottolineare, segnalando lo spirito germanico e aristocratico del primo, quello latino e sistematico (la clarté française) del secondo, la cultura umanistica e il patriottismo svizzero del terzo. Certo, le differenze tra questi tre grandi corifei della Riforma sono notevoli e degne di considerazione, specie allorché vogliamo studiarli singolarmente. Ma nell'insieme del movimento hanno più importanza le somiglianze e può passare in seconda linea persino la famosa, e pur così importante, "controversia sacramentaria" sulla presenza reale o soltanto simbolica di Cristo nell'Eucaristia; così come passano in seconda linea i dissensi interni del protestantesimo luterano, la stessa personalità e la teologia di un Melantone. Ché la doppia predestinazione di Calvino o il suo insistere, come idea centrale, sulla sovranità di Dio, non rappresentano altro se non lo svolgimento logico, dedotto con maggior vigore sistematico, della tesi fondamentale della giustificazione mediante la sola fede. Il fatto che conta è che queste furono le correnti che prevalsero: tanto che parlando di Riforma di solito ci riferiamo ad esse esclusivamente, e che pensando ad esse ravvisiamo nella Riforma una sostanziale unità.
Ora, se davvero non vogliamo misconoscere le differenze, le quali pure esistono anche tra queste tendenze che della Riforma costituiscono la corrente principale, dobbiamo pur cercare che cosa conferì alla Riforma questa unità. E non basterà certo il constatare che lo Zwingli e il Calvino ed altri furono, direttamente o indirettamente, discepoli di Lutero e da lui trassero ispirazione: con ciò non faremmo se non riproporre il problema che abbiamo già considerato come fondamentale. Piuttosto converrà prendere in considerazione appunto quell'aspettazione universale d'un rinnovamento della vita religiosa ed ecclesiastica, il sentimento della sua necessità, la coscienza che per questo bisognasse agire, il riconoscimento che, da Lutero in poi, in qualche modo si agiva. Un'esperienza tutta mistica, e rivoluzionaria in politica, poteva solo attrarre esaltati e oppressi. Concepire i rapporti tra Dio e uomo come problema trinitario, era speculazione ardua e dai riflessi ecclesiologici troppo radicali; concepirli come soteriologia, era appunto inserirsi in quelle aspirazioni. Così Lutero, pur scarsamente sensibile - nonostante qualche affermazione e un certo impiego d'immagini apocalittiche, soprattutto l'identificazione del papato con l'Anticristo - ai valori escatologici, poté essere considerato da alcuni seguaci come un personaggio escatologico. Le concezioni dei principali riformatori in parte dovettero adattarsi a queste aspirazioni diffuse, in parte già le accoglievano, in parte anche contribuirono a diffonderle e avvivarle. Solo così si spiega come, nonostante gli acerbi contrasti e le violente polemiche teologiche tra i riformatori, il laicato avesse coscienza di una certa profonda unità del movimento, sentisse il bisogno di costituire un "fronte comune" contro il papato e i suoi sostenitori, deplorasse le divisioni, cercasse l'unione o la conciliazione tra i principali riformatori. In questa azione, il mondo laico era guidato da un istinto sicuro. Poiché, sostituendo al concetto cattolico della giustificazione - che implicava un'azione dell'uomo per commisurarsi a una giustizia assoluta - quello di una giustizia imputata e facendo così necessariamente consistere la giustizia, occamiticamente, in ciò che è accetto a Dio, cioè nella sua volontà; e in pari tempo riducendo la Chiesa a una società puramente mistica, senza base e senza corpo sulla terra; e considerando i poteri politici come strumenti nelle mani di Dio, ma al tempo stesso come cristiani e quindi partecipi del sacerdozio universale, come tutti i fedeli; per diverse vie e in diversi modi (le differenze, le forme e i gradi dell'attuazione pratica, e anche certe affermazioni teoriche rimaste astratta dottrina, necessariamente qui devono contare meno) i riformatori principali venivano ad aprire allo stato un vasto campo d'azione e a conferirgli un'assolutezza e un carattere spirituale, che fino allora gli erano stati preclusi e negati. Ma non si sopprimeva del tutto la Chiesa. Si spiega, allora, anche come, con una relativamente scarsa e quasi insignificante preparazione teologico-culturale, la Riforma abbia potuto estendersi a tanta parte d'Europa, per opera appunto dei poteri politici, in modo che a prima vista può parere del tutto esteriore e meccanico.
Con questo, e con la convinzione che di fronte alla necessità di tener duro contro il papato ogni divergenza dovesse e potesse essere messa da parte, la Riforma preannuncia veramente il mondo moderno. Qualche tendenza, che lascia presagire le ideologie e le attività caratteristiche del mondo moderno, s'incomincia a intravedere in questa mentalità e cultura del laicato nelle sue classi dirigenti, ma, molto di più, in quelle delle sette dissidenti: così nel razionalismo degli antitrinitarî, umanisti filologi e giuristi, per i quali di fronte ai principî, soprattutto etici, del Vangelo tutte le differenze dogmatiche passavano, e dovevano passare, in seconda linea; come nel postulato, soggiacente a tutte le manifestazioni delle tendenze mistiche ed escatologiche, di una perfettibilità della rivelazione; come, infine, nel progressivo riconoscimento, comune un po' agli uni e agli altri, del valore della volontà e libertà umana, tanto sminuite da Lutero e Calvino.
Si presenta così anche a noi la questione del contributo che alla formazione di tale mondo moderno avrebbe dato la Riforma. Contributo che da alcuni viene esagerato, volendosi, ravvisare già nel moto religioso del sec. XVI la proclamazione di quei principî illuministici, progressisti, umanitarî, democratici, ecc., che sono diventati il contenuto della maggior parte delle comunità riformate, anche a scapito di alcuni dei valori più propriamente religiosi e delle dottrine teologiche fondamentali (p. es., la predestinazione; non senza, del resto, qualche reazione); e da altri, ridotto a così poco, che equivale a una negazione. Potrà sembrare, da quanto si è detto, che il problema abbia già ricevuto anche qui una soluzione, in sostanza negativa; ma cercheremo di esaminarlo, brevemente, un poco più a fondo, senza né abbandonare il punto di vista raggiunto né pervenire a conclusioni esageratamente negative, tali da impedirci l'intendimento dell'evoluzione ulteriore. Certo, anche la Riforma, e in particolare Lutero (ma così anche gli epigoni, e Calvino) non si pose il problema della salvezza individuale, o di quella del genere umano, in termini molto differenti dalla Chiesa medievale; certo, anche per la Riforma, la civiltà umana continua ad essere diretta dalla Chiesa e l'opera dello stato è, almeno teoricamente, subordinata. Ma abbiamo osservato come la Riforma contribuisse a rafforzare l'assolutismo dei principi e a preparare lo stato moderno; e la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli, mentre dà un contenuto e un aspetto religioso a tutte le forme dell'attività umana, le sottrae nello stesso tempo alla tutela della gerarchia ecclesiastica e pertanto conferisce loro una certa autonomia, pratica se non anche teorica. A ciò naturalmente contribuì anche quella particolare "ascesi interiore" o "intramondana" del protestantesimo, che, prescrivendo di vivere nel mondo pur negandolo ma senza, nonché fuggirlo, neppur giustificare l'abbandono di esso, finiva con il dare una giustificazione, sia pure indiretta, all'azione umana e incoraggiarla. Molto di più ciò avvenne nel calvinismo, nel seno del quale la necessità di agire nel mondo per modificarlo e conformarlo alla legge divina fu sentita tanto più vivamente, e la dottrina della predestinazione - tanto più rigida di quella luterana - diede lo spunto al concetto della "vocazione", e del dovere di esercitare un'attività continua e proficua: onde quasi tutti oggi concordano con W. Weber e E. Troeltsch, e ravvisano nel calvinismo e nelle sue dottrine il mondo ideale entro cui nacque e si sviluppò lo spirito capitalistico e, pertanto, il capitalismo moderno. Senza dubbio, ciò non avvenne per solo influsso della Riforma, e anzi il contributo di questa alla creazione dello spirito moderno fu - in ogni campo - prevalentemente indiretto; e la Riforma nelle sue correnti principali è piuttosto intenta a contemplare un modello ideale nel passato; e certo, al formarsi delle nuove ideologie contribuirono potentemente le sette minori e le lotte religiose nei secoli che seguirono, e il sorgere della filosofia e delle scienze moderne. Ma, nonostante ciò, la Riforma non fu un movimento che possa contenersi tutto e intero, esclusivamente, nel cerchio della mentalità medievale. Le aspirazioni, sia pure anch'esse sorte nel mondo medievale, a un rinnovamento, che le conferirono unità e furono causa del suo successo, contribuirono anche a darle il suo significato storico permanente: coloro che seguivano Lutero o Calvino, Carlostadio o i Socini, Zwingli o T. Cranmer, ecc., ebbero coscienza di avere operato una rottura irrimediabile, non solo con la Chiesa cattolica, ma con tutta quanta la religione, la politica, la scienza, l'economia di quel mondo che anch'essi, come i loro contemporanei imbevuti dello spirito del Rinascimento, sentirono come un'epoca di decadenza e chiamarono Medioevo.
Bibl.: T. M. Lindsay, History of the Reformation, Edimburgo 1906, voll. 2; P. Joachimsen, Das Zeitalter der Reformation, Berlino 1930 (Propyläen-Weltgeschichte, V); P. Wernle, Renaissance und Reformation, Tubinga 1912; F. Strich, Renaiss. u. Reform., in Deutsche Vierteljahrschrift f. Literaturwissensch. u. Geistegesch., I (1923), p. 582 segg.; P. Joachimsen, Renaiss., Humanismus, Reform., in Zeitwende, I (1925), fasc. 1°, p. 402 segg.; K. Burdach, Gesammelte Schriften, I, ii, Halle 1925 (trad. ital., Riforma rinascimento umanesimo, Firenze 1935); W. Dilthey, Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaiss. und Reform., Lipsia 1914 (Gesammelte Schriften, II; trad. it., L'analisi dell'uomo e l'intuizione della natura, ecc., Firenze [1927]); E. Troeltsch, Die Bedeutung des Protestantismus für die Entstehung der modernen Welt, 4ª ed., Monaco 1925 (trad. it., Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, Firenze [1929]); id., Protestantisches Christentum und Kirche in der Neuzeit, in Die Kultur der Gegenwart, I, iv, 1, 2ª ed., Lipsia 1909; id., Die Soziallehre der christlichen Kirchen und Gruppen, Tubinga 1912 (Gesammelte Schriften, I); K. Holl, Gesammelte Aufsätze, I, 4ª-5ª ed., Tubinga 1927 (Die Neubau der Sittlichkeit e Die Kulturbedeutung der Reformation); H. Böhmer, Gesammelte Aufsätze, Gotha 1927 (Das Wesen der Reformation); R. M. Jones, Spiritual Reformers of the 16th and 17th centuries, Londra 1928; G. de Lagarde, Recherches sur l'esprit politique de la Réforme, Parigi 1926; G. de Ruggiero, Storia della filosofia: Rinascimento, Riforma, Controriforma, Bari 1930, voll. 2 (cfr. A. Pincherle, in Riv. stor. ital., s. 4ª, II, 1931, fasc. 2); C. Morandi, Problemi storici della Riforma, in Civiltà moderna, I (1929), p. 668 segg.; D. Cantimori, in Riv. stor. ital., s. 5ª, I (1936), n. i (per l'Italia). Cfr. inoltre la bibliografia alle singole voci di dottrine o persone, e alle voci: rinascimento; umanesimo, cui si rimanda anche per aspetti e problemi qui solo accennati o considerati da un punto di vista particolare.