RIMA
. È identità di suono di due parole dalla vocale accen- tata in poi (per es., mercede: fede) e serve ad accrescere la melodia dei versi, ricorrendo a intervalli determinati alla fine di essi o alla fine di un emistichio, nel qual caso si chiama rimalmezzo.
La parola rima deriva da rhytmus, che nel Medioevo indicava il verso ametrico, accentato, popolare, quello cioè che col tempo fu provvisto di rima. Per ragioni fonetiche la voce deve avere le sue origini in Francia, donde essa si è irradiata non solo in Italia e negli altri paesi latini, ma anche in quelli germanici. Va notato però che nel medio alto-tedesco, ove appare per la prima volta verso la fine del sec. XII, rîm vale "verso" e che in tedesco il significato di rima risale solo alla fine dei sec. XVII.
Per indicare la rime le lingue slave hanno, accanto a qualche termine indigeno, la voce latino-germanica: p. es., cèco rym, polacco rym; il russo però si serve di rifma, che deriva direttamente dal greco ῥυϑμός.
Quando c'è identità delle vocali e non delle consonanti, si ha l'assonanza tonica (lontana: scala), quando invece c'è identità di lettere nella sillaba atona che segue immediatamente la tonica, la quale è differente, si ha l'assonanza atona (cantore: temere). Questa assonanza è detta da taluni anche allitterazione, che più propriamente indica l'identità di suono o sillaba iniziale, e come tale ha avuto grande importanza nella metrica germanica (Allitération, Stabreim), precedendovi con qualche interruzione l'uso della rima vera e propria (v. allitterazione).
L'assonanza tonica o atona è stata sempre propria della poesia popolare. La tonica la troviamo anche nella poesia artistica, ma solo nel periodo delle origini delle letterature, e rappresenta la fase primordiale della rima, alla quale questa si sostituisce col progredire dell'arte. I moderni l'hanno usata o per imitare le forme antiche di poesia, come il D'Annunzio nella Notte di Caprera, o, come ha fatto il Pascoli, per conservare il metro originale nelle traduzioni di componimenti medievali.
Rispetto all'identità dei suoni nella rima, la tecnica, nel passato, non fu la stessa dappertutto nel territorio romanzo. I trovatori provenzali rimavano rigorosamente vocali chiuse con vocali chiuse e vocali aperte con aperte, e così pure, secondo l'opinione oggi prevalente, gli antichi rimatori siciliani e certamente l'anonimo autore di un'ampia raccolta di rime genovesi della fine del sec. XIII; ma i rimatori toscani, e poi tutti i poeti italiani che seguirono fino ai tempi moderni, non fecero e non fanno alcuna distinzione fra le due specie di vocali. Per quanto riguarda le consonanti, i poeti italiani fino al sec. XVI fecero distinzione fra z aspra e sonora e non rimarono mai, p. es., mezzo (metà) con prezzo; ma dopo quel secolo la norma non fu rigorosamente seguita da tutti, finché cadde interamente in disuso. Secondo la natura delle parole, la rima si dice piana, tronca, sdrucciola, ma quest'ultima è rara e, come la tronca, non si usa mai sola. Talvolta le rime sono rappresentate da parole che hanno interamente lo stesso suono e significato diverso (parte, volta) e allora si chiamano equivoche, ma l'uso di esse è artificio, di cui gli antichi poeti si compiacquero per dimostrare la loro abilità, riuscendo spesso oscuri (v. Petrarca, Quand'io son tutto volto in quella parte). Peggiore artificio è l'uso in rima di parole identiche di suono e di significato per tutto un componimento (v. sestina); ma usato con discrezione e giustificato da un nobile intento può riuscire a un effetto lodevole, come in alcuni casi notissimi di Dante (Parad., XII, 70-4; XIV, 104-8; XIX, 104-8; XXXII, 83-7) e dell'Ariosto ( Orl. Furioso, XXVII, 45). Infine l'artificio può essere usato con buon effetto comico in composizioni satiriche, come quelle del Berni (Ser Cecco non può star senza la corte), del Giusti (Una volta il vocabolo Tedeschi) e del Carducci (Pietro Fannni sta nelle postille). Altre forme particolari di rime, poco frequenti invero, sono quelle formate di parole che rimano con due o tre monosillabi riuniti come fossero una parola sola (Dante, Inf., VII, 26, 28, 30; XXX, 83, 85, 87), nelle quali, leggendo, è necessaria la ritrazione dell'accento; e quelle formate di parole spezzate per tmesi fra un verso e il seguente (Dante, Parad., XXIV, 16), che talvolta hanno effetti bellissimi, come in un noto passo dell'Ariosto (Orl. Fur., XIII, 16).
La distribuzione delle rime nei componimenti poetici ha una grande varietà, corrispondente ai varî tipi di quelli: sonetto, canzone. ballata, terzina, quartina, ecc., e per essi si rimanda alle singole voci. Il pregio delle rime consiste nella varietà e nell'evitare da una parte le comuni e facili, e dall'altra le difficili e artificiose, scegliendo invece quelle che suscitino immagini, e, accrescendo l'armonia del verso, arricchiscano nello stesso tempo il pensiero del poeta: in quest'uso corrispondente agli alti fini dell'arte solo i grandi poeti eccellono veramente.
Sulle origini della rima si è molto discusso e si discute ancora. Il problema si collega con le origini della poesia provenzale, la prima ad apparire nelle letterature moderne, nella quale la rima si presenta nella pienezza della sua funzione, in complicate e raffinate combinazioni e legamenti di versi. Si è pensato che in Francia essa derivasse dalla Germania o rifiorisse dalla poesia celtica, ma queste opinioni, sebbene sostenute anche da studiosi autorevoli, non ebbero fortuna. E invece assodato ormai che i popoli germanici hanno incominciato (intorno all'870, Liber Evangeliorum di Otfried) ad usare la rima sotto l'influenza della metrica dell'innica medievale, pur continuando ancora, in varia misura secondo i singoli paesi, ma soprattutto in Islanda, a servirsi anche degli antichi versi allitteranti. E anche nella successiva fioritura dell'arte della rima, presso il Minnesang tedesco e nel tardo Medioevo inglese, è indubbio l'influsso della versificazione francese e provenzale. Nell'ambito di questa va dunque cercata in primo luogo l'origine della rima. A contrastare tale derivazione, o quanto meno a modificarla, è sorta però un'altra ipotesi. Nel sec. XVI G. M. Barbieri (v.) in un suo trattato Dell'origine della poesia rimata, rimasto allora inedito, espresse per il primo l'opinione che la rima fosse stata trasmessa dagli Arabi che invasero la Spagna e penetrarono nella Francia meridionale. Sulla fine del sec. XVII, indipendentemente dal Barbieri, l'ipotesi fu affacciata pubblicamente, la prima volta, in Francia, e per tutto il sec. XVIII fu accolta con favore sebbene non senza qualche fiera opposizione. Celebre la polemica fra due gesuiti spagnoli emigrati in Italia, G. Andrés, sostenitore dell'origine araba, e St. Arteaga, che la negava. Vi partecipò, seguendo le idee del primo, Girolamo Tiraboschi (v.) che in quell'occasione pubblicò il libro del Barbieri, preceduto da una sua prefazione sull'argomento. La stessa opinione fu seguita più tardi da storici come il Ginguené, il Sismondi, il Villemain, di contro al Fauriel che fece molte riserve, al Diez e allo Schlegel che la respinsero. Né miglior fortuna ebbe presso i dotti spagnoli, anche arabisti, e presso gli storici della poesia provenzale. La teoria pareva tramontata del tutto, quando in questi ultimi anni è stata rimessa a nuovo da novelli sostenitori delle origini della poesia provenzale dall'araba: dal Singer, dal Burdach e soprattutto dall'insigne arabista J. Ribera; ma neppure oggi si può dire che abbia trovato molti consensi. Ma lasciando da parte il problema delle origini della poesia provenzale, e guardando soltanto alla questione della rima, è da osservare che sporadicamente la rima la troviamo fin nei più antichi poeti latini: Ennio, Varrone; e poi in Lucrezio, Virgilio, Orazio, Seneca, sia pure determinata da ragioni particolari di stile e d'espressione e sia pure in alcuni casi nata per un mero giuoco di parole: in ogni caso chi leggeva sentiva la consonanza delle parole. Quando poi nel Medioevo nacque la nuova poesia ritmica latina così sacra come profana, è naturale che i poeti accogliessero quanto era loro possibile di elementi d'armonia e allargassero e fissassero l'uso della rima, di cui trovavano esempî nella poesia classica e che offriva un mezzo mnemonico efficace alla diffusione dei canti. Quelli poi che cominciarono a rimare in volgare, da qualsiasi parte venisse a loro la spinta, non potevano, per rispetto alla forma e alla tecnica, non osservare la poesia latina che risonava intorno, e come derivarono da questa i nuovi ritmi, così è legittimo pensare che ne togliessero la rima.
Nella letteratura italiana la rima fin dalle origini ebbe tale importanza che non si composero quasi mai versi che non fossero rimati, anzi si dissero senz'altro rime i versi e rimatori i poeti, tanto la rima era connaturata con la poesia. Questo dominio della rima si può dire incontrastato fino al Rinascimento, quando, per influenza degli studî classici rinnovati, cominciò a diffondersi l'uso del verso sciolto, che solo qualche rarissima apparizione aveva fatta nel sec. XIV e forse anche nel precedente. Nella poesia drammatica, nella didascalica, nelle versioni dai classici il verso sciolto fece bella prova, continuò poi più o meno gloriosamente nel Seicento, e trionfò nel Settecento fino a dilagare con i versi sciolti, contro i quali si levò il Baretti. Allora ne diedero belli esempî poeti eccellenti, come il Parini, il Monti e poco dopo il Foscolo, i quali però nella lirica delle odi o delle canzoni seguirono ancora la tradizione dei metri rimati. Da questa si liberò per gradi Giacomo Leopardi, il quale in un secondo inomento della sua produzione, seguendo più alte ragioni d'arte, o usò mirabilmente l'endecasillabo sciolto (negl'Idilli, nelle Ricordanze, ecc.), o svincolandosi dai legami della rima distribuita sistematicamente in strofe tutte di uguale struttura, variando queste, fece risentire a liberi intervalli, come l'eco della rima o in fine o in mezzo al verso, là dove il pensiero o la melodia par quasi richiedano un maggiore rilievo; oppure se ne giovò a suggello di un canto, negli ultimi versi, come una più forte battuta musicale di chiusura. Un più fiero colpo alla rima parve fosse dato, e ancora per influenza del classicismo, da Giosue Carducci con le Odi barbare, che ebbero imitatori numerosi; ma con tutto ciò la rima non ebbe a soffrirne molto, e per non dire dei minori, i maggiori poeti, il D'Annunzio e il Pascoli, pur usando non di rado il verso sciolto (e il primo pure quel metro novissimo della Laus Vitae, in cui anche nel verso breve la rima cade qua e là rara e come a caso), hanno impiegato largamente, secondo la tradizione poetica italiana. l'armoniosa consonanza delle parole. Già nella scconda metà del secolo XIX e più ancora nei primi decennî del XX, in Italia e fuori, nuove teorie d'arte, reazioni varie ad ogni forma di tradizionalismo, e fra esse la più recente e rumorosa, il futurismo, abbandonando la vecchia tecnica del verso, non hanno risparmiato la rima. Ma tuttavia essa non è ancora bandita dal regno della poesia.
Non molto diverse furono le sorti della rima nei paesi germanici. L'endecasillabo sciolto italiano fu introdotto in Inghilterra verso la metà drl scc. XVI, e non soltanto vi ebbe grande fortuna, ma da lì irradiò in Germania, contrastandovi, specie nei secoli XVII e XVIII, l'uso dei versi rimati. A questa corrente avversa alla rima si aggiunsero più effiaci ancora i modelli classici. Ma la rima trionfò nella poesia più schiettamente lirica all'epoca del romanticismo che coltivò con grande predilezione forme metriche romanze riccamente rimate, quali il sonetto, la stanza, ecc. Nella poesia contemporanea dei popoli germanici l'uso della rima prevale ancora nella lirica e nell'epica, scarso ne è invece l'uso nella poesia drammatica.
Nei paesi slavi l'uso della rima, oltre ad essere legato alle varie vicende che esso ha avute nelle letterature neolatine e germaniche, ha risentito fortemente l'influsso della poesia popolare: di quella prevalentemente epica, non rimata, degli Slavi meridionali e dei Russi, e di quella, prevalentemente lirica, rimata, dei Cèchi e dei Polacchi. Il carattere stesso della rima, più che dagli esempî occidentali, dipende dalla natura dell'accento nelle singole lingue slave.
Queste vicende della rima dal Rinascimento in poi sono state accompagnate da discussioni sui danni che, secondo alcuni, essa arreca alla libera e piena rappresentazione dei fantasmi della poesia. Chi l'ha combattuta e chi l'ha difesa (Fr. Algarotti, Saggio sulla rima, in Opere, Cremona 1779, IV, p. 61; D. Gnoli, La rima e la poesia italiana, in Studi letterari, Bologna 1883, p. 79; E. G. Parodi, La rima nella Divina Commedia, in Poesia e storia nella Divina Commedia, Napoli 1921, p. 83). Anche i poeti hanno espresso la loro opinione, e fra i modernì in Francia il Sainte-Beuve (La rime) e il De Banville (Le Rythme et la rime) l'hanno celebrata; il Verlaine (Art poétique) l'ha combattuta; in Italia lo Zanella (Ad Elena ed Eleonora Aganoor) l'ha difesa. Il Carducci in risposta all'attacco dello Gnoli (op. cit., p. 239) celebrò in un'ode notissima (Alla Rima) i fasti della rima nella poesia romanza popolare e d'arte dalle origini a Dante, che è certo il periodo più nobile della sua vita, e il canto pubblicò la prima volta in fine al volumetto delle prime Odi barbare (1877) "per segno" com'egli disse in una nota "che io con queste Odi non intesi dare veruna battaglia grande o piccola, fortunata o no a quella compagna antica e gloriosa della poesia nuova latina" (Opere, XI, 235). Certo, teoricamente parlando, è facile dimostrare l'impaccio di cui la rima può esser cagione alla libera espressione del pensiero, specialmente quando si tratti di poeti minori, così come del resto si potrebbe dire, e anche per i poeti maggiori (e lo dissero Dante e il Manzoni, ma per ben altre ragioni), che è causa d'impaccio il verso stesso e perfino la parola. Ma lasciando stare siffatte conseguenze dialettiche, non si può non riconoscere che la rima, lungi dall'essere un impedimento, è stata spesso collaboratrice ai poeti veramente grandi.
Vedi anche metrica; rimario.
Bibl.: E. Stengel, Die beiden ältesten provenzalischen Grammatiken, ecc., Marburgo 1878, p. 40 segg.; O. J. Tallgren, Sur la rime italienne et les Siciliens du XIIIe siècle. Observations sur les voyelles fermées et ouvertes, in Mémoires de la Société néophilologique de Helsingfors, V (1909), p. 235; E. G. Parodi, Rima siciliana, rima aretina e bolognese, in Bullettino della Società dantesca italiana, n. s., XX, p. 113; G. Bertoni, Sulla lingua dei più antichi rimatori siciliani, in Archivum Romanicum, XI, p. 581; E. D'Ovidio, Un curioso particolare della storia della nostra rima, e Ancora dello zeta in rima, in Versificazione e arte poetica medievale, Milano 1910, p. 77, 136; id., Nuovi appunti sulla storia dello zeta, in Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna, ecc., Firenze 1911, pp. 231-249; F. W. Maus, Peire Cardenals Strophenbau in seinem Verhältnis, ecc., Marburgo 1884; P. Rajna, Le origini dell'Epopea francese, Firenze 1884, p. 524 segg.; A. Jeanroy, La Poésie lyrique des troubadours, I, p. 62 segg.; II, pp. 366-68, Tolosa e Parigi 1934; A. R. Nykl, The latest in Troubadours Studies, in Archivum Romanicum, XIX, p. 227; Wolfflin, Der Reim im Lateinischen, in Archiv. f. latein. Lexikographie u. Grammatik (1884), p. 366; O. Dingeldein, Der Rein bei d. Griechen u. Römern, Lipsia 1892; G. Mazzoni, Due epistole del sec. XIV in endecasillabi sciolti. Questioni metriche, in Studi offerti dalla Università padovana alla bolognese, ecc., Padova 1888. Per i problemi a cui ha dato luogo, in Francia, l'uso della rima, specie nel Seicento, e più ancora nella poesia romantica, v. metrica: Metrica francese, e la bibliografia relativa. Cfr. anche: W. Grimm, Zur Geschichte des Reims (1852), in Kleinere Schriften, IV, Gütersloh 1887; W. Braune, Reim und Vers, in Sitzungsber. d. heidelb. Akad. d. Wiss. Philos.-hist. Kl., 1916; A. Heusler, Deutsche Vergeschichte, voll. 3, Berlino 1925-29; J. B. Mayer, A Handbook of Modern English Metre, 1903; E. Smith, The Principles of English Metre, Oxford 1923; V. Zirmunskij, Rifma, ee istorija i teorija (La rima, storia e teoria), Pietrogrado 1923. Per alcuni problemi di carattere generale, si veda: J. da S. Correia, A rima e a sua acção linguística e ideológica, Lisbona 1930.