rima
La rima (Beltrami 20024: 53-60, 78-83, 206-221; Menichetti 1993: 506-590) è il fenomeno che si produce nel caso di omofonia perfetta di due parole a partire dalla vocale tonica inclusa (come in vita e smarrita; non rimano invece discàro e bàrbaro e neppure omografi non omofoni come bàlia e balìa). Non contano gli eventuali suoni precedenti (consonantici e/o semiconsonantici) che facciano parte della ➔ sillaba tonica; è però possibile che l’identità fonica si ‘arricchisca’ a ritroso, includendo uno o più suoni antecedenti la tonica (in tal caso si parla di rima ricca: vedi oltre).
Il termine, oltre al fenomeno prosodico, può designare anche il segmento fonico pertinente (vita e smarrita rimano in -ita; -ita è la rima di parole come vita e smarrita). Con rimante (ovvero parola in rima, o parola-rima) si designa una parola collocata in fine (o ‘in punta’) di verso, collegata da rima a uno o più rimanti dello stesso componimento. Sono in rima, o rimano, due (o più) versi terminanti per parole che rimino tra di loro o, più precisamente, due versi che siano identici a partire dall’ultima tonica. In alcuni casi, la rima può essere interna al verso, e in specie al mezzo, cioè al termine di emistichio (➔ versificazione) – come nella ➔ canzone petrarchesca Vergine bella, in cui il primo emistichio dell’endecasillabo finale di ogni stanza rima con il precedente settenario («soccorri a la mia guerra, / bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina», Rerum vulgarium fragmenta – d’ora in avanti Canz., CCCLXVI, 12-13) – collegando gli emistichi di due versi, o l’emistichio e la fine di un verso o di altro/altri versi, o anche partizioni di versi non coincidenti con emistichi (un esempio virtuosistico nell’applicazione di rime al mezzo e interne è la ➔ canzone di Guido Cavalcanti Donna me prega).
Si ha rima piana, tronca o sdrucciola se la rima si produce rispettivamente tra parole piane, tronche o sdrucciole. Per l’assoluta prevalenza in italiano di parole piane (➔ parola italiana, struttura della) la maggioranza preponderante delle rime è piana (rime piane possono eccezionalmente aversi a partire da parole tronche nelle rime ‘composte’). La rima tronca in vocale (tu : virtù), almeno fino all’avvento della tradizione dell’ode-canzonetta, tende a essere evitata al di fuori di esercizi tecnici o di genere ‘comico’, mentre la rima tronca in consonante (nei tipi amor : cor, partir : dir, sen : vien, ecc.), rarissima nella poesia antica, diventa caratteristica della tradizione dell’ode-canzonetta, persistendo fino a tutto l’Ottocento. Relativamente più diffusa, a partire dal Trecento (in Fazio degli Uberti, ma anche in Antonio da Ferrara e altri) e in alcuni generi specializzati (la poesia bucolica quattrocentesca), è la rima sdrucciola, nella quale si tollerano eccezioni alla perfezione dell’identità dei suoni. Dal Seicento in poi, in specie nell’ode-canzonetta, è istituzionalizzato l’uso della rima sdrucciola in una variante ‘ritmica’ secondo la quale è ammesso che due parole sdrucciole siano in rima a prescindere dai suoni che le compongono.
Convenzionalmente, il collegamento in rima di due parole (o versi) si segnala graficamente mediante due punti; la rima (nell’accezione di terminazione significativa) mediante il corsivo o il maiuscolo (esempi: «vita : smarrita», «vita : smarrita», «vITA : smarrITA»). Nello schema rimico e nello schema metrico (➔ metrica e lingua), due (o più) versi in rima sono designati mediante la stessa lettera dell’alfabeto (maiuscola o minuscola, a seconda della lunghezza del verso).
Rientrando di per sé tra le figure stilistiche determinate dalla ripetizione di sequenze foniche (come, per es., l’allitterazione, l’assonanza e la consonanza), che possono praticarsi a diverso titolo tanto in poesia che in prosa (si pensi alle varietà di prosa ritmica, al cursus, ecc.), la rima assume valore metrico – tipicamente nella versificazione romanza (e già, in parte, nella versificazione mediolatina; non in quella classica) – se concorre all’identificazione di strutture metriche. Nella poesia a schema libero la rima non ha funzione tecnicamente strutturante, ma contribuisce alla scansione ritmica del testo (così in molte ‘canzoni leopardiane’); ovvero allude a una tradizione culturale radicata, per quanto non vigente (come nella poesia novecentesca, dominata dalla versificazione libera).
Quanto ai tipi di rima, si distinguono, in relazione alla definizione generale del fenomeno, le cosiddette rime culturali (distinte dai fenomeni di omofonia imperfetta: assonanza e consonanza); in relazione alle caratteristiche di artificiosità, le rime tecniche (o artificiose).
Le rime culturali rivestono il ruolo di ‘rime perfette’ (cioè di rime a tutti gli effetti) anche se non obbediscono pienamente alla definizione enunciata. Nella prosodia italiana (a differenza di quanto accade in ambito galloromanzo) si prescinde, nel caso di e e di o toniche, dal timbro, o apertura, dei fonemi: è ammesso, cioè, che è (aperta: e con essa il dittongo iè) rimi con é (chiusa), come nella serie di rimanti danteschi «pianéta : quèta : piéta» (Inf. I, 17 : 19 : 21), e che ò (aperta: e con essa il dittongo uò) rimi con ó (chiusa), come nella serie «mólto : vólto : vòlto» (Inf. I, 32 : 34 : 36). Così, nella prima quartina del primo sonetto del Canzoniere petrarchesco sono in rima «suòno : sóno» e «còre : erróre» (Canz. I, 1 : 4, 2 : 3). Qualcosa di paragonabile, nel consonantismo, attiene alla possibilità di far rimare s sorda con s sonora, mentre è stato dimostrato che, almeno fino al Cinquecento, z sorda non può rimare con z sonora (D’Ovidio 1932: 77-119).
Rime culturali vere e proprie della poesia antica (e non rime imperfette, come altrimenti dovrebbero considerarsi) sono la rima aretina (o guittoniana), bolognese, siciliana. La più frequente, e nota, è la rima siciliana, che prevede la rima di i con é (chiusa) e di u con ó (chiusa). Se ne riconduce la genesi al processo di toscanizzazione delle poesie della ➔ Scuola poetica siciliana, verosimilmente composte osservando il sistema pentavocalico del siciliano (con evoluzione Ē > /i/, Ō > /u/). Ne sarebbe derivata l’ammissibilità fuor di Sicilia di questa rima, adottata spesso da ➔ Dante (per es., «desse : venisse : tremesse», Inf. I, 44 : 46 : 48; «sotto : tutto : costrutto», Inf. XI, 26 : 28 : 30). Un retaggio ‘normalizzato’ della rima siciliana è ancora in alcune forme della lingua poetica ottocentesca, come nui (linguisticamente ingiustificato) in rima con lui ai vv. 31 : 34 del “Cinque maggio” di ➔ Alessandro Manzoni. Una ‘estensione’ della rima siciliana è la rima aretina, o guittoniana (in quanto riscontrabile in Guittone d’Arezzo), secondo cui i e u possono rimare anche con è e con ò. Di rima bolognese si parla in proposito della serie dantesca «nome : come : lume» (Inf. X, 65 : 67 : 69), posto il bolognese lome «lume».
Al di fuori delle rime culturali, eccezioni alla regola che prevede la perfezione della rima sono rare, quanto meno nella lirica colta. Negli altri casi si parla di rime imperfette. Figure foniche d’identità imperfetta, variamente significative nella definizione metrico-stilistica di un testo, sono le ‘assonanze’ e le ‘consonanze’. Si definisce assonanza l’identità – sempre nel segmento finale di parola/verso a partire dalla tonica – dei suoni vocalici, mentre variano quelli consonantici (come in nome e amore). Un grado ulteriormente imperfetto di assonanza può aversi quando è identica soltanto la vocale tonica. Nella tradizione italiana l’assonanza come equivalente imperfetto della rima caratterizza generi metrici di stile meno sorvegliato (quali le laude e i cantari). Si definisce consonanza l’identità, sempre nel segmento finale a partire dalla tonica, dei suoni consonantici, mentre variano quelli vocalici (come in astro e nostri). Assonanze e consonanze possono collegare tra loro rime diverse, arricchendo la partitura dei giochi fonici di un componimento: per es., nel sonetto petrarchesco Amor, che ’ncende il cor d’ardente zelo (Canz. CLXXXII), la rima A è in -èlo, la rima B in -étto, e si ha perciò assonanza tra i rispettivi rimanti.
Si dicono tecniche (o artificiose) le rime caratterizzate dalla presenza aggiuntiva di uno o più artifici stilistici, attinenti alla ‘ricchezza’ fonica, alla ‘difficoltà’ (= rarità, preziosità), alla relazione grammaticale o semantica tra i rimanti, e così via; sono diffuse nella poesia antica (in specie duecentesca). La rima è ricca quando l’identità fonica si estende a ritroso prima della tonica, di uno o più suoni (per es., stagione : cagione, in Inf. I, 41 : 43; sentero : altero, in Canz. XIII, 13 : 14). La ricchezza può coinvolgere anche suoni estranei alla parola-rima, e in questo caso si parla di rima contraffatta (come in l’ore : colore, Canz. IX, 1 : 4). La ricchezza, così come la rarità, può contribuire alla ‘difficoltà’ di una rima (si parla anche di rime rare, o care «preziose»). Sono ‘facili’, per contro, le rime desinenziali (tra parole di uguale desinenza) o suffissali (tra parole di uguale suffisso). Non necessariamente ‘facili’ possono essere le rime derivative, o etimologiche (tra rimanti collegati da un rapporto, reale o anche apparente, di derivazione), e le inclusive (tra rimanti dei quali l’uno è incluso negli altri, anche in assenza di rapporti di derivazione). ‘Facile’, e in questo caso in genere evitata, è la rima identica, che si verifica quando una parola rima con sé stessa (la rima identica è però ammessa nella ➔ sestina lirica, in cui lo stesso rimante deve comparire 7 volte). Può invece dar luogo a ricerche sofisticate (per es., ancora nella sestina) la rima equivoca, che si verifica quando rimano tra loro due o più parole foneticamente identiche (omofone), ma diverse per significato e per appartenenza grammaticale. Interamente su rime equivoche è un ➔ sonetto di ➔ Francesco Petrarca, del quale si cita la prima quartina (tutte le rime citate sono altresì ricche secondo la variante della rima contraffatta):
Quand’io son tutto vòlto in quella parte [nome]
ove ’l bel viso di madonna luce [verbo],
et m’è rimasa nel pensier la luce [nome]
che m’arde e strugge dentro a parte a parte [locuz.
avverb.] (Canz. XVIII, 1-4).
Si ha rima composta (o spezzata, o franta, o rotta) quando, peraltro assai di rado, una rima piana si produce dalla somma di due parole (come nel dantesco «Che andate pensando sì voi sol tre», Purg. XXIV, 133, endecasillabo piano in cui sol tre rima con oltre e poltre). Complicazione della rima composta è la rima equivoca contraffatta, che si può esemplificare in un sonetto di Dante a Dante da Maiano, in cui rimano, tra l’altro, parla [verbo] : par l’à [«lo ha pari»] (Rime 3a, 2 : 4). La rima in tmesi, al contrario, prevede la divisione in fine di verso di un’unità lessicale (tipico l’esempio degli avverbi in -mente, documentato in Par. XXIV, 16-17). Affine è il caso di forme proclitiche come le preposizioni articolate in rima: «cielo : ne lo : candelo» (Par. XI, 11 : 13 : 15). Nella rima per l’occhio si ha identità grafica, ma non fonetica (tipicamente, per cambio di accento: «lo qual io dissi e mando / a lei che mel comandò», nei Documenti d’amore di Francesco da Barberino; si noti che la ritrazione dell’accento nel secondo verso è necessaria non soltanto a garantire la rima ma anche la scansione settenaria del verso). Si tratta di artifici praticati con una certa insistenza nella poesia duecentesca, ma presto abbandonati.
Nella poesia di ➔ Giovanni Pascoli (con riprese novecentesche, per es., in ➔ Eugenio Montale) ha fortuna la rima ipermetra, in cui una parola sdrucciola in fine di verso rima con altra parola a condizione di non considerarne la sillaba finale, come qui in tacita : tenaci:
o quella che illumina tacita
tombe profonde – con visi
scarniti di vecchi; tenaci
di vergini bionde sorrisi
(“La poesia”, vv. 65-68, in Canti di Castelvecchio).
La rima (o meglio terminazione) di un verso che, all’interno di uno schema rimico (per es. di ➔ canzone, o di ➔ ballata), non rimi con altri, si dice irrelata.
La rima può rivestire (anche simultaneamente) funzione «demarcativa», «strutturante» e «associativa» o «ritmica» (Beltrami 20024: 56-60). Il riecheggiare della rima in punta di verso contribuisce a sottolineare il concludersi dell’unità metrica (di per sé definita dalla struttura sillabico-ritmica): questo vale, in forma più significativa, all’interno di verso (laddove cioè la demarcazione non sarebbe, di per sé, percepita). Nella versificazione anisosillabica, la funzione demarcativa della rima diventa rilevante anche in fine di verso (Beltrami 20024: 83). La rima ha funzione strutturante in quanto il suo ricorrere in posizioni obbligate (descritte nello schema rimico), o comunque vincolate al rispetto di norme (e secondo figure ricorrenti; per la loro descrizione ➔ versificazione), concorre a definire le unità strutturali (strofi) dei componimenti pluristrofici e in genere le forme metriche.
Nella versificazione libera, in cui viene a cadere ogni vincolo ‘strutturante’ di rima, l’eventuale presenza di figure foniche iterative assume, proprio in virtù della sua eccezionalità, speciale rilievo stilistico. La relazione fonica tra i rimanti, d’altra parte, anche nella versificazione regolare determina un rapporto non soltanto strutturante, ma anche sintattico e semantico, costituendo un elemento stilistico di rilievo nella costruzione (e nell’analisi) dei componimenti. La prevedibilità (o l’imprevedibilità) degli accostamenti dei rimanti (rime facili, da un lato, o rime difficili, come sono spesso quelle dantesche) allude di per sé a consuetudini culturali (da ricordare, a tal proposito, la tradizione dei rimari, repertori di rime a uso dei poeti; ➔ rimari e dizionari inversi), o a impronte individuali che risultano essenziali alla caratterizzazione della lingua poetica di un testo, di un autore o di un genere.
Beltrami, Pietro G. (20024), La metrica italiana, Bologna, il Mulino (1a ed. 1991).
D’Ovidio, Francesco (1932), Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale, Napoli, Guida, 3 voll.
Menichetti, Aldo (1993), Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore.