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Rimini

di Augusto Vasina - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Rimini

Augusto Vasina

La presenza negli scritti danteschi di questa città adriatica, che pure ebbe nel corso dei secoli XIII e XIV una vita spirituale e materiale particolarmente intensa, non riesce ad assumere un significato peculiare: in assenza di qualsiasi riferimento di natura linguistica, essa, infatti, si coglie quasi sempre dietro i momenti salienti dell'ascesa dei Malatesta (v.) al potere signorile su R.; momenti rievocati tutti nella prima cantica della Commedia, secondo una sequenza che rispetta sostanzialmente l'ordine cronologico delle vicende drammatiche che segnarono in R. il trapasso dalle libertà comunali al regime tirannico. Tali vicende si articolano con un crescendo di tragicità, in tre episodi essenziali che nella poesia dantesca assumono quasi valore emblematico: in primo luogo la soppressione violenta, compiuta da Gianciotto Malatesta per vendicare il duplice tradimento subìto, del fratello Paolo e della consorte Francesca da Polenta, divenuta così la Francesca da R. della tradizione letteraria; un dramma passionale, pietosamente rievocato da D. nei suoi moventi affettivi (If V 82-142), che pure aveva i suoi risvolti politici nel primo serio tentativo, a esso sotteso, operato dai Malatesta d'insignorirsi di R. mediante l'appoggio esterno dei Polentani, che il mastin vecchio da Verucchio (XXVII 46) aveva assicurato alla sua famiglia con un'abile politica matrimoniale.

Il secondo episodio è contraddistinto dalla perentoria affermazione malatestiana su R., maturata attorno al 1290, dopo la soppressione del capo ghibellino Montagna dei Parcitadi da parte di Malatesta da Verucchio e del figlio Malatestino. Il cinismo e l'efferatezza dimostrati da costoro nel soffocare in Montagna l'estrema voce rappresentativa delle forze comunali riminesi trovano efficace riecheggiamento nell'ottava bolgia infernale nel canto di Guido da Montefeltro e dei consiglieri fraudolenti: E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio / che fecer di Montagna il mal governo, / là dove soglion fan d'i. denti succhio (If XXVII 46-48); versi che adombrerebbero, secondo il commento di Benvenuto - ché precise testimonianze al riguardo non ci sono pervenute - la premeditata eliminazione di Montagna e degli altri ghibellini riminesi, fatti in precedenza prigionieri, da parte dei Malatesta, e in tale atto proditorio l'inizio di quel retaggio di arbitrii e violenze cui la loro tirannide avrebbe sottoposto la comunità riminese.

Anche il terzo episodio, infine, è caratterizzato da un nuovo atto proditorio che nella poesia dantesca viene quasi a suggellare, in un avvicendarsi fatale di intrighi e violenze, l'ascesa politica della dinastia malatestiana, prima entro R., ora fuori della città e sempre più lontano dalle sue mura: ne è questa volta protagonista Malatestino Malatesta, che nei primi anni del Trecento - anche in tale caso quella dantesca rappresenta l'unica testimonianza superstite -, invitati a convegno in Cattolica Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, le due figure più rappresentative del comune fanese, li farà poi affogare al largo del promontorio di Focara da suoi sicari sulla via del loro rientro in patria. Tale è il senso della predizione che D. fa pronunziare a Pier da Medicina nella nona bolgia infernale (If XXVIII 70-90). Pure in questa mostruosa tragedia provocata dal traditor che vede pur con l'uno (V 85) è adombrato il difficile momento di trapasso della tirannia malatestiana dalla fase di consolidamento in R. a quella di espansione nel territorio circostante e persino nelle città e regioni contermini; quella fase, cioè, che consentirà a R. di divenire il centro di una signoria territoriale a carattere interregionale, mediante l'assorbimento di alcune città della Marca Anconetana, fra le quali, appunto, Fano.

Se nella prima cantica della Commedia R. è sentita dal poeta, nella linea di sviluppo del motivo della tirannide malatestiana, come la città dove il peggiore guelfismo ha dato prova del suo spirito violento e proditorio, non altrettanto si può dire in relazione alle altre due cantiche, dove una qualsiasi presenza della città tende addirittura a perdere consistenza. Nel Purgatorio alla R. malatestiana, contemporanea di D., fa da contrappunto la R. del ‛ buon tempo antico ', contraddistinta da consuetudini cavalleresche e cortesi e qui rappresentata - sempreché l'attribuzione al mondo riminese di questo personaggio dantesco da parte di Benvenuto da Imola sia esatta - dalla figura di Federico Tignoso, rievocata da Guido del Duca, con evidente allusione alla liberalità del Riminese, assieme alla sua brigata (Pg XIV 106).

Nel Paradiso, infine assente ogni accenno diretto o indiretto alla città, si fa riferimento al suo territorio, e più precisamente a un corso d'acqua che ne rappresenta la linea confinaria a settentrione, là dove D. rievoca il fatidico attraversamento del Rubicone da parte di Giulio Cesare nel suo volo verso Roma, che pure lo vide sostare qualche tempo anche in R. (Pd VI 61-63).

Nell'ambiente cittadino riminese, dominato fino agl'inizi del Cinquecento dalla signoria malatestiana, solo assai tardi sembra che maturassero condizioni favorevoli alla fortuna di D. e delle sue opere. A tale riguardo si direbbe particolarmente significativo del regime tirannico instaurato in R. dal guelfismo intransigente dei Malatesta - quel regime che era stato duramente osteggiato dall'Alighieri - il fatto che la prima testimonianza di una tradizione degli scritti danteschi nella città provenisse dagli ambienti ecclesiastici dei Mendicanti riminesi e per di più fosse decisamente sfavorevole a D.: ci si riferisce qui al domenicano Guido Vernani che nel suo Tractatus de reprobatione Monarchiae, scritto intorno al 1333-1334, contrappose aspramente alle teorie politiche di D. quelle dottrine curialiste che ormai si erano largamente affermate ovunque nei primi decenni del Trecento.

Tale atteggiamento di netta preclusione nei riguardi di D. e delle sue opere espresso dal mondo ecclesiastico riminese potrebbe costituire un argomento di più per negare - se ancora ve ne fosse bisogno - qualsiasi credito alla tradizione locale secondo cui nell'abside della chiesa urbana di S. Agostino (già S. Giovanni Evangelista) sarebbe stata affrescata, assieme a discendenti e a cortigiani dei Malatesta, la figura di D. da un pittore di scuola riminese trecentesca.

Tracce più consistenti e durature di una tradizione delle opere dantesche in R. cominciano a rinvenirsi solo a partire dal Quattrocento avanzato, ai tempi, cioè, della eccezionale fioritura artistica e culturale alla corte di Sigismondo Pandolfo Malatesta, che precede il definitivo tramonto politico dei signori di Rimini. Infatti, un cronista operante alla corte di Sigismondo verso la metà del Quattrocento, Broglia Tartaglia di Lavello, si compiace nei suoi scritti di reminiscenze dantesche. Inoltre Benedetto da Cesena (v.) nello stesso periodo imita presso la corte riminese la terza cantica della commedia, componendo il suo De Honore mulierum.

Un momento significativo nel processo di consolidamento della fortuna dantesca in R. sembra rappresentato nel sec. XVI dal trasferimento nella nostra città del codice membranaceo Gradenighiano, in cui la Commedia, col commento di lacopo della Lana, venne esemplata in scrittura elegante a Venezia, attorno al 1390-1394, da Giacomo di Marco Gradenigo e illustrata da preziose miniature. Esso è tuttora conservato presso la civica biblioteca Gambalunga (Ms. D-II-41) dal sec. XVIII, quando le fu donata dal cardinale G. Garampi.

Come in altre città della regione, anche in R. si ebbe a registrare nel sec. XVIII un rinnovato interesse per le opere di D., auspice lo stesso cardinale Garampi, che contro l'Hardouin difese in un suo scritto l'attribuzione della Commedia all'Alighieri.

Negli ultimi due secoli, soprattutto negli ambienti ecclesiastici di R. e del Riminese la poesia di D. trovò operosi cultori e interpreti, com'è testimoniato dal magistero e dagli scritti, rimasti per lo più inediti, di Alessandro Mariotti (1822-1903), Giovanni Trebbi (1824-1888) e Gaetano Dehò.

Anche presso la biblioteca Gambalunga, per merito soprattutto di Luigi e Carlo Tonini, e certamente non senza l'effetto stimolante della presenza del codice Gradenighiano, si ebbe, a cavaliere dei secoli XIX e XX, una ripresa delle ricerche e degli studi danteschi, sull'esempio della documentata opera di L. Tonini: Memorie storiche intorno a Francesca da R. (Rimini 1852, 1870²).

Bibl. - L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, II, Rimini 1856, 598 ss.; III, ibid. 1862, 241 ss.; C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica in R. dal sec. XIV ai primordi del sec. XIX, ibid. 1884; A. Tambellini, Il codice dantesco Gradenighiano, Appunti, in " Il Propugnatore " n.s., IV 2 (1891)159-198; C. Castellani, Jacopo del Cassero e il Codice Dantesco della Biblioteca di R., in " La Bibliofilia " VIII (1906-1907) 253-281; G. Pecci, D. e l'origine di casa Malatesta, Rimini 1921; F. Filippini, Gli affreschi nell'abside della chiesa di S. Agostino in R. e un ritratto di D., in " Boll. d'Arte " I (1921) 3-21; A.F. Massera, Un romagnolo imitatore del poema dantesco nel Quattrocento (Benedetto da Cesena), in " Documenti e Studi R. Deputazione St. Patria Province Romagna " IV (1922) 165-176; T. Kaeppeli, Der Dantegegner Guido Vernani O.P., von R., in " Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken " XXVIII (1938) 107-146; P. Zama, I Malatesti, Faenza 1956, 6 ss.; N. Matteini, Il più antico oppositore di D.: Guido Vernani da R., Padova 1958; ID., Francesca da R. - Storia, mito, arte, Bologna 1965; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di D., Firenze 1965, ad indicem; J. Larner, The Lords of Romagna, Londra 1965, ad indicem (traduz. ital., Signorie di Romagna, Bologna 1972); G. Pecci, Note sulla fortuna e sul culto di D. in R., in " Quaderni Rubiconia Accad. Filopatridi " VII (1966) 59-79; A. Vasina, Romagna medievale, Ravenna 1970, 249-316.

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