RIMINI (A. T., 24-25-26)
Città dell'Emilia, nella provincia di Forlì, presso la riva dell'Adriatico, situata a 44°3′43″ lat. N., tra il torrente Ausa a SE. e il fiume Marecchia a NO. Un tempo la città era cinta di mura, ma queste, opera del sec. XIII e dei secoli seguenti, furono a poco a poco abbattute, tranne che verso occidente e verso SO., dove ancora si vedono i bastioni. La vecchia cinta misurava 4 km. La città è divisa in 4 quartieri, che dal sec. XVI al XVIII ebbero il nome di S. Francesco, S. Domenico, S. Agostino e dei Servi; ai quali rispondono ora i rioni Cittadella, Clodio, Pataso e Montecavallo. Fuori delle vecchie mura si sono formati, nel secolo XIX, i sobborghi S. Giuliano, sulla sinistra del Marecchia e lungo la Via Emilia; XX Settembre, sulla destra dell'Ausa e lungo la Via Flaminia; Mazzini, a occidente, lungo la via di Verucchio; e il sobborgo Marina, a N. della città, fra questa e la ferrovia, fra la ferrovia e il mare. Tutti questi sobborghi si sono ingranditi di case e di ville, ma soprattutto il sobborgo Marina s'è enormemente ampliato. È una nuova città che è sorta presso il mare, vivace durante la stagione estiva, silenziosa quando è assente la numerosa clientela. Il centro di Rimini resta pur sempre la Piazza Giulio Cesare, che è come il punto d'incontro della Via Emilia e della Flaminia; e infatti ai due estremi del Corso d'Augusto sorgono i due monumenti più insigni della città, il Ponte di Augusto, detto anche di Tiberio, e l'Arco di Augusto. E a non molta distanza dalla piazza sorgono anche il tempio Malatestiano e la rocca dovuta ai Malatesta.
L'importanza romana e medievale di Rimini, che è pur notevole, cede di fronte alla sua funzione presente di una delle maggiori e più frequentate stazioni balnearie d'Italia; e Rimini ha fatto di tutto per accostarsi ai desiderî delle migliaia d'Italiani e di stranieri che ogni anno frequentano la sua spiaggia. Il Lungomare riminese ha inizio al porto-canale (una balaustrata lo divide dalla spiaggia), gira attorno al Kursaal, nella grande Piazza del Risorgimento, tutta ad aiuole, e ampio 40 m. si avanza per oltre un km. Più dentro terra e parallelo al lungomare è un altro viale che prende nomi diversi - Vespucci, Regina Elena, Regina Margherita - su cui corre il tram elettrico Rimini-Riccione. Lungo questo viale e lungo i viali trasversali, per circa quattro chilometri si sviluppa la nuova città, con giardini, con piazze, lieta, verde, elegante.
Malgrado la sua funzione di centro balneario di primissimo ordine, Rimini non dimentica di esser città dalle remote memorie, onde ha raccolto insieme tutto ciò che si riferisce alla sua storia antica: statue, iscrizioni, marmi, musaici e ha ordinato in belle e ampie sale arazzi e quadri, di cui alcuni pregevolissimi. Una bella e buona biblioteca, la "Gambalunghiana" nel palazzo Gambalunga, ricca di codici e d'incunabuli, un bel teatro, opera del Poletti e inaugurato nel 1857; varî ordini. di scuole medie e scuole industriali completano l'insieme di provvidenze che Rimini offre per l'istruzione e per l'educazione dei cittadini. La città ha inoltre ospedali, orfanotrofî, ricoveri, collegi e una congregazione di carità, assai ben provvista.
Il porto-canale di Rimini, costituito dall'ultimo tratto del torrente Marecchia (circa 1450 m.), un tempo di maggiore importanza, ha oggi scarso movimento, e dal 1903 al 1930 è diminuito il tonnellaggio delle merci - carboni, legname, ghiaia e zolfo - sbarcate o imbarcate da 38.900 tonn. (1903) a 23.701 tonn. (1930). Sono in progetto lavori per la costruzione di una darsena esterna, fra l'attuale canale e il nuovo scaricatore del Marecchia, che si apre più a N. Discreto è in Rimini l'utile che si ricava dalla pesca.
Il centro conta 30.822 ab.: il comune, che cedette non poco territorio per la creazione del comune di Riccione, ha una superficie di 152,49 kmq. e una popolazione di 62.638 ab. (1931). R. è stazione della ferrovia Bologna-Ancona, della Rimini-Ferrara, della Rimini-San Marino e della Rimini-Mercatino Marecchia.
Monumenti. - La città moderna presenta ruderi e monumenti insigni dell'età imperiale romana. Importantissimo l'arco commemorativo di Augusto (v. arco, IV, tav. XXIV) porta meridionale della città, dedicato all'imperatore nel 27 a. C., anno del suo 7° consolato (cos. sept. design. octavo, come si legge ancora nell'iscrizione frammentaria dell'attico). L'arco, ottimamente conservato, è coronato da una merlatura attestante l'adattamento medievale ad opera fortificata. Esso è ad unico fornice molto espanso, con colonne corinzie ai lati, sulle due facce, e medaglioni nei pennacchi dell'arco, con teste di divinità in rilievo. Al sommo era stata posta una statua di bronzo dell'imperatore. L'arco risulta finito al tempo di Tiberio (anno 22 d. C.).
Un decreto d'Augusto provvide alla costruzione del ponte (v. ponte, XXVII, tav. CC), che da lui si denominò, quantunque lo terminasse Tiberio (14-21 d. C.). La grandiosa opera consta di cinque archi di travertino; quello centrale ha la luce di m. 10,50, e l'ultimo verso il borgo S. Giuliano fu tagliato nel 552 per respingere di là dal Marecchia i Greci di Narsete. La terza costruzione romana è l'anfiteatro, i cui scavi, principiati nel 1843-44 permisero di stabilire la lunghezza degli assi (m. 120 × 91). Le esplorazioni del 1926 furono riprese nel 1934.
A ricordo della marcia di Giulio Cesare su Roma, Benito Mussolini offrì a Rimini la statua di bronzo uguale a quella eretta sulla nuova Via dell'Impero in Roma. Il 10 settembre 1933 la storica effigie fu scoperta nel luogo dove il grande condottiero tenne l'allocuzione alla XIII legione.
Sigismondo Malatesta innalzò nel 1446 il Castello, di cui rimangono tuttora alcuni ruderi. Una medaglia di Matteo De' Pasti (v. de' pasti) e l'affresco di Piero deila Francesca nel Tempio malatestiano bastano a darci un'immagine della fortezza che possedeva sei alte torri, ed era circuita dalla fossa su cui s'abbassavano i ponti di legno. Rimontano al principio del secolo XIX l'inconsulta rovina delle mura e delle torri e l'interramento della fossa.
Capolavoro di Leon Battista Alberti è il grandioso rivestimento (1450) del dugentesco S. Francesco che, così rinnovato, si chiamò il Tempio malatestiano. Il prospetto triplica fra quattro colonne scanalate l'Arco d'Augusto, e ne ripete nei semipennacchi il motivo dei medaglioni. Per formarsi un'idea del secondo ordine con le curve di raccordo, con la parte mediana soprelevata e con l'imposta della cupola, bisogna ricorrere alla medaglia di Matteo De' Pasti, direttore dei lavori e architetto delle cappelle decorate da Agostino di Duccio e dai suoi scolari. I lati della costruzione portano dentro archi maestosi i sarcofagi dei dotti cari al Malatesta e d'alcuni Riminesi vissuti più tardi. L'Alberti aveva spedito per la costruzione un modello di legno, che fu modificato in alcuni punti secondo le notizie contenute in una lettera di Matteo De' Pasti (1454). La pianta, che doveva essere a croce latina, con la cupola di tipo brunelleschiano sull'incrocio delle due navate, ebbe semplice sviluppo longitudinale con cappelle aperte nei fianchi. La decorazione plastica dell'interno, profusa nei pilastri angolari delle cappelle, chiuse da ornate balaustrate, fu diretta da Agostino di Duccio (v.) ed eseguita in gran parte da lui e dai suoi aiuti. Squisita nei rilievi dei Pianeti, delle Arti liberali, dei giuochi di putti, essa ha molta importanza anche per la cultura del tempo, umanistica e tradizionale. Tra le opere d'arte sono da ricordare: nella prima cappella a destra, due padiglioni di marmo con angeli ducceschi; nella cella delle reliquie (che contiene l'affresco votivo di Piero della Francesca), il portale finemente scolpito; nella seconda cappella, dalla stessa parte, l'arca d'Isotta portata da due elefanti e alcune coppie d'angeli ducceschi; e nella prima a sinistra, la tomba degli Antenati, assai vicina allo stile di Duccio, massime per gli squisiti bassorilievi che si possono confrontare con le eccellenti figure delle Arti liberali nella cappella contigua.
La più antica chiesa di Rimini è il S. Giovanni Evangelista o S. Agostino, eretto nel 1247; l'alto e bel campanile rimonta allo scorcio dello stesso secolo, e il fianco sinistro dell'unica navata ebbe un saggio restauro nel 1932. La parte moderna s'adorna di stucchi disegnati da Ferdinando Bibiena e d'affreschi di Vittorio Bigari. Di grande interesse per la scuola romagnola del Trecento sono i dipinti murali, scoperti nel 1917 sotto l'intonaco dell'abside e altri negli ambienti attigui.
La chiesa di S. Giuliano, ricostruita nel sec. XVI sull'area della vecchia abbazia benedettina, conserva un polittico di Bitino da Faenza, e una fastosa tela di Paolo Veronese col martirio del Santo. La chiesa dei Servi, innalzata nel 1317, subì un rinnovamento nel 1779, eseguito dal bolognese G. Stegani. L'unica navata a binati di colonne s'arricchisce degli stucchi d'Antonio Trentanove e di parecchie dorature.
Sulla Piazza Giulio Cesare sorge il tempietto di S. Antonio, a pianta ottagona, con colonne e rivestimento di marmi. Questo sacello di data incerta ricorda il miracolo della giumenta che s'inginocchia dinnanzi all'ostensorio, e precede il tempio omonimo eretto nel 1614 e rinnovato più tardi (1719) dal riminese Francesco Garampi.
Fra gli edifizî civili primeggia l'Arengo (1204) con portico ad archi acuti e polifore nel primo piano. Il salone superiore (che ha la superficie di 600 mq.) fu restaurato nel 1924 e custodisce un grande affresco trasportato su tela, già nella chiesa di S. Agostino. Il Palazzo del podestà (1234 c.) mantiene scarse tracce della costruzione primitiva; tra le fabbriche moderne è notevole il classicheggiante Teatro Vittorio Emanuele II eretto dal modenese Luigi Poletti e inaugurato nel 1857, mentre il ridotto fu compiuto e aperto nel 1930.
La pinacoteca, riordinata nell'antico convento di S. Francesco, contiene arazzi olandesi del Cinque e del Seicento. Fra i quadri è celebre il Cristo morto di Giambellino, e meritano menzione il S. Vincenzo Ferreri di Domenico del Ghirlandaio, il polittico di Giuliano da Rimini, un'ancona di Benedetto Coda, ecc. Nelle stanze a pianterreno della galleria è il museo archeologico, inaugurato nel 1932: vi hanno particolare importanza le raccolte preistoriche, quella epigrafica e le altre di oggetti fittili. La Biblioteca Gambalunga conta 80.000 volumi, 380 incunabuli e 2500 manoscritti, fra i quali sono degni di studio alcuni codici membranacei miniati. Nella grande piazza del centro - Piazza Cavour - si trova la Fontana, eretta sotto Paolo III da Giovanni da Carrara, e non più omogenea nelle sue parti; il restauro del 1807 la privò del putto che, nel mezzo, fu sostituito da una pigna. Curiosa la statua di Paolo V (Camillo Borghese) trasformata in S. Gaudenzio (1797), protettore della città. Il modello rimasto incompiuto alla morte di Niccolò Cordier fu ultimato e fuso dal Sebastiani di Recanati, cui spettano pure i rilievi del sedile e del manto.
V. tavv. LXI-LXIV.
Storia. - L'antica Ariminum, così detta dal nome antico della Marecchia (Ariminus), era posta presso il confine della regione Emilia (regione VIII augustea) con l'Umbria (VI augustea). Ancora in età preistorica il luogo partecipa della civiltà villanoviana. Città di origine e di cultura umbro-etrusca, fu fondata da Umbri, secondo Strabone (IV, 217). Presa dai Galli Senoni sino dalla prima invasione gallica, circa il 400 a. C., viene occupata nel 268 dai Romani che vi fondano una colonia latina. La monetazione di Rimini, semplici pezzi di aes grave di rozza fattura, è probabilmente posteriore a questa data. Durante la seconda guerra punica, come nelle guerre sociali, e più tardi in età bizantina, Rimini fu apprezzata base di operazioni militari marittime e terrestri. Fu punto estremo di arrivo della Via Flaminia (iniziata dal censore Gaio Flaminio nel 221 a. C.), e punto di partenza della Via Emilia (iniziata da M. Emilio Lepido nel 187 a. C.). Divenuta municipio per effetto della guerra sociale (ascritta alla tribù Aniensis), inclusa come estrema città di confine nella provincia della Gallia Cisalpina fondata dallo stesso Silla, fu poi saccheggiata dai soldati di questo. Venne compresa nella divisione delle terre ai veterani del 43 a. C. Fu da Augusto restaurata nel suo porto e nuovamente colonizzata (Colon. Aug. Arim.). Occupata dai Vitelliani nel 69, Rimini è poi ricordata solo nel sec. III d. C., come sede di un Iuridicus per Flaminiam, Umbriam, Picenum. In età romana la suprema magistratura della città era rappresentata dai duoviri (iure dicundo). Al tempo dell'istituzione della colonia latina, funzionava in Rimini come magistratura suprema il consolato. Ricca la documentazione epigrafica delle altre magistrature cittadine (aediles, quaestores, curatores; decariones, ordo Ariminensium).
Alla sua grande importanza politica e militare nel periodo romano, e a quelle stesse ragioni geografiche che l'avevano determinata, Rimini dovette il notevole rilievo della sua storia medievale politica e religiosa. Le memorie della Chiesa riminese cominciano assai presto, con il vescovo Stemnio del 313, ma il S. Gaudenzio vescovo e protettore di Rimini, che una parte delle fonti pone nel sec. IV, sembra anteriore; nel 359 Rimini ospita il concilio voluto dall'imperatore Costanzo (v. più oltre). Alla caduta dell'impero, Rimini fece parte del regno di Odoacre, poi di quello gotico, ma nel 538 fu presa dai Bizantini, che vi si chiusero assediati da Vitige fino all'arrivo dell'esercito di Belisario. Più tardi la riebbero per breve tempo i Goti (549-553), che tagliarono un arco del ponte d'Augusto per impedire a Narsete la via di Roma. Ripresa da Narsete, la città rimase per tutto quel secolo e il seguente ai Greci, e quando l'esarcato d'Italia fu da loro riorganizzato, fu assegnata alla Pentapoli e forse fatta capitale di quella provincia. Colpita già al tempo di Liutprando da scorrerie dei Longobardi, venne alla metà del secolo VIII nelle loro mani, poi in quelle dei Franchi, e subito dopo fu ceduta alla Chiesa in forza della donazione di Pipino. Ai duchi bizantini che l'avevano governata sino allora succedettero magistrati dello stesso nome, molti dei quali ci sono noti da documenti, finché nella seconda metà del sec. X ai duchi subentrarono conti imperiali. Più tardi incominciano le magistrature propriamente locali: nel sec. XI il pater civitatis, che nel secolo seguente diviene cognome di famiglia (Parcitadi) mentre ne prendono il posto i proceri, un istituto che troviamo anche in piccoli centri del contado, contemporaneamente ai consoli. I consoli sono già documentati con relativa certezza nel 1158. È dell'anno prima un diploma di Federico I che concede ai Riminesi il loro contado. Il comune dunque è già nato e fiorente, e di qui in poi fa alleanze politiche e patti di commercio (anche marittimo) con città vicine e lontane, consolida la sua potenza su un largo territorio, partecipa a guerre tra comuni, conduce guerre proprie contro comuni vicini, specie per cause di confine contro Cesena, innalza ai primi del sec. XIII il proprio palazzo. Intanto le lotte delle fazioni, la ghibellina che fa capo ai Parcitadi, la guelfa che s'impersona nei Malatesta, una stirpe di signori montanari discesa da Pennabilli a Verucchio e a Rimini già alla fine del sec. XII, avviano questi ultimi alla signoria. La signoria (v. malatesta) si forma alla fine del Duecento, per opera di Malatesta da Verucchio, morto centenario nel 1312, e dei suoi figli, Paolo Bello, Gianciotto e Malatestino "dall'occhio" (tutti personaggi che troviamo in Dante), e si consolida dal 1295 in avanti. Nel 1334 a Malatesta II il consiglio riconosce il dominio e la defensoria a vita della città, e nel 1355 il papa concede in vicariato Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone. Il dominio si allarga ancora con i discendenti e tocca il sommo nel secolo seguente con Sigismondo Pandolfo, alla corte del quale, parallelo al rigoglio delle arti, è un largo fiorire degli studî umanistici e della poesia latina e volgare (già delineatosi sotto il precedente Pandolfo, amico del Petrarca). Negli ultimi anni di Sigismondo, per la guerra mossagli da Pio II, il dominio si riduce alla sola città di Rimini (1463), e tale continua con i suoi discendenti fino al dominio borgiano (1500-03) e veneziano (1503-1509). Segue il governo diretto della Chiesa, con brevi tentativi di ritorno da parte di Pandolfo V e di suo figlio Sigismondo (1522-23, 1527-28) e la storia di Rimini non offre per quasi tre secoli avvenimenti notevoli. Ritorna ad essere più ricca durante il Risorgimento, con il proclama di Rimini di Gioacchino Murat (1815), con il combattimento delle Celle tra gli Austriaci e gl'insorti (25 marzo 1831), che ispirò lo scritto Une nuit de Rimini en 1831 del Mazzini, con la partecipazione di Giovanni Venerucci al moto dei Bandiera, con il moto di Rimini del 1845 (gli Ultimi casi di Romagna di cui scrisse allora il D'Azeglio) e la contemporanea pubblicazione del Manifesto chiedente riforme, steso dal Farini. La seconda metà del sec. XIX e i primi decennî del XX sono caratterizzati dalla fortissima impronta segnata nell'economia e nell'urbanistica della città dall'industria balneare, che nel 1843 muoveva i primi passi ad opera di pionieri quali Claudio Tintori, Alessandro e Ruggiero Baldini.
Bibl.: Fondamentale fonte d'informazione sulla storia e la vita riminesi di ogni tempo è l'opera di L. Tonini, Storia civile e sacra riminese, voll. 6, in 9 parti (il VI è pera del figlio Carlo), Rimini 1848-88; di lui sono ancora importanti opuscoli e memorie, come quelle pubblicate negli Atti e mem. d. R. Dep. di st. pat. per le prov. Rom., dal 1863 al 1870; v. anche le varie edizioni della Guida, da quella del 1863 in poi; L. e C. Tonini, Guida storico-artistica di Rimini, 6ª ed., Rimini 1926; C. Tonini, Compendio della storia di Rimini dalle origini al 1861, voll. 2, Rimini 1896. Vedi inoltre: per l'età romana, Corp. Inscr. Lat., XI, pp. 6*-9*, 73-108, 1023 e sgg., 1234-35; Inscr. Graecae, XIV, pp. 534-35; S. Aurigemma, Rimini: Guida ai più notevoli monumenti romani e al museo archeol. com., Bologna 1934 (alle pp. 35-41 un'ampia bibliografia archeologica). - Per il Medioevo e l'età moderna v.: M. Battagli, Marcha, a cura di A. F. Massèra, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVI, 3; Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, a cura di A. F. Massèra, ibid., XV, 2; C. Clementini, Raccolto istorico della fondatione di Rimino e dell'origine e vite de' Malatesti parti 2, Rimini 1617-27; G. Garampi, Memorie... della B. Chiara di Rimini, Roma 1755; F. G. Battaglini, Memorie istoriche di Rimino e de' suoi signori, Bologna 1789; L. e C. Tonini, Storia civile e sacra riminese, VI, Rimini 1848-88; P. F. Kehr, Italia pontificia, IV, Berlino 1909, pp. 157-177; F. Lanzoni, Le diocesi d'Italia, Faenza 1927, II, pp. 706-713. - Per Rimini nella storia della cultura, v.: A. Battaglini, Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, in Basini Parmensis, Opera praestantiora, II, Rimini 1794, pp. 43-255; C. Tonini, La cultura letteraria e scientifica in Rimini dal sec. XIV ai primordi del XIX, voll. 2, Rimini 1884; A. F. Massèra, I poeti isottei, in Giorn. stor. d. lett. ital., LVII (1911), pp. 1-33 e XCII (1928), pp. 1-55; G. Manzoni, Annali tipografici dei Soncino, IV, fasc. i, Bologna 1885; Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, a cura di G. Mazzatinti, II, pp. 132-65; A. Campana, Biblioteche della provincia di Forlì, in Tesori delle biblioteche d'Italia: Emilia e Romagna, Milano 1932, pp. 111-23.
Il concilio di Rimini.
Fu indetto dall'imperatore Costanzo II, durante le controversie ariane, allorché il terremoto che distrusse Nicomedia il 24 agosto 358 rese impossibile convocare in questa città il progettato concilio universale, e fu deciso di tenerne due, uno di vescovi orientali a Seleucia d'Isauria, l'altro di occidentali a Rimini. Si riunì pertanto al principio dell'estate del 359, presenti circa 400 vescovi: tra i più importanti erano, per gli ortodossi, Restituto di Cartagine - cui toccò la presidenza - e Febadio di Agen; per gli ariani, Ursacio di Singiduno, Valente di Mursa, Germinio di Sirmio, Aussenzio di Milano. Fu stabilito che, qualora vi fosse stata una differgenza tra i due concilî, le delegazioni inviate all'imperatore l'avrebbero sottoposta a lui, cercando di risolverla. Il concilio di Rimini dapprima resistette alle pressioni degli ariani e dei funzionarî imperiali, riaffermando la propria fede nella formula di Nicea; ciò condusse a una separazione degli ariani. Le due frazioni inviarono all'imperatore due commissioni diverse; quella degli ariani fu accolta favorevolmente da Costanzo; l'altra, fra manovre dilatorie, pressioni e minacce fu costretta a firmare, nell'ottobre, a Niké in Tracia, una formula di fede nettamente eterodossa. Ritornate le due delegazioni insieme a Rimini, alcuni vescovi tentarono di resistere; ma poi tutti cedettero e firmarono (alcuni con chiarimenti in senso ortodosso). Una nuova delegazione portò a Costanzo i risultati da lui attesi e anzi, guidata da Valente e Ursacio, portò inaspettatamente soccorso al gruppo acaciano. V. anche: arianesimo, IV, p. 296.
Bibl.: Hefele-Leclercq, Histoire des conciles, I, ii, Parigi 1907, p. 929 segg.; per i "Frammenti storici" di S. Ilario di Poitiers, v. l'ediz. di A. Feder, S. Hilarii Pictaviensis opera, iv, Vienna 1916, pp. 78-88, 93 segg., 174 seg.
Il Proclama e il Manifesto di Rimini.
Il Proclama di Rimini fu emanato da Gioacchino Murat il 30 marzo 1815. In esso il re di Napoli, affermando giunta l'ora di compiere gli alti destini d'Italia, esortava gl'Italiani a stringersi in una salda unione, raccogliendosi attorno agli ottantamila italiani del Regno di Napoli che, comandati dal loro re, marciavano per liberare l'Italia: fine, il conseguimento dell'indipendenza, la liberazione del suolo italico da ogni dominio straniero. Conseguita l'indipendenza, e un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una costituzione degna del secolo e di voi, garentisca la vostra libertà e prosperità interna". Del proclama fu affermato autore Pellegrino Rossi, ma la cosa non è storicamente provata. Lo stesso giorno, un altro proclama veniva emanato dal Murat alle sue truppe. L'eco del proclama di Rimini fu grande: e basti rammentare come, sotto la sua impressione, il Manzoni scrivesse il carme Il proclama di Rimini rimasto incompiuto, ma significativo indice delle ripercussioni morali del gesto murattiano nelle classi colte - almeno - della penisola. Praticamente però il rapido tracollo della fortuna del Murat fece sì che il proclama rimanesse privo d'effetti.
Col nome di Manifesto di Rimini è poi noto quel Manifesto delle popolazioni degli Stati Romani ai Principi e ai popoli d'Europa, che fu divulgato in Romagna nel settembre del 1845, quando a Rimini fu innalzato il vessillo dell'insurrezione (23 settembre), la quale si concluse con l'infelice scontro delle Balze. Sembra ormai certo che quel manifesto fosse stato redatto in gran parte da L. C. Farini (costretto due anni prima ad andare in esilio in Toscana), col concorso di O. Biancoli, e che vi avesse pure posto mano il Montanelli da Pisa. Come il Memorandum del 1831, nelle linee generali rispecchiava le aspirazioni dell'elemento moderato in politica, o, come si chiamava allora, del partito dottrinario, cioè del progresso pacifico per via di riforme; e richiedeva: 1. una completa amnistia politica dal 1821 in poi; 2. l'istituzione della giuria, la pubblicità dei processi e un nuovo codice civile e criminale; 3. la soppressione dei tribunali ecclesiastici; 4. la libera elezione dei consigli comunali che nominassero consigli provinciali da cui si presentassero al sovrano liste di candidaii per un consiglio di stato; 4. l'indipendenza dell'istruzione pubblica dai vescovi e dal clero; 6. la libertà di stampa con censura preventiva ristretta ai soli delitti d'ingiuria verso la divinità, la religione, il sovrano e la vita privata dei cittadini; 7. il licenziamento delle truppe svizzere; 8. l'istituzione della guardia civica; 9. che il governo pontificio promuovesse tutti quei miglioramenti sociali che erano reclamati dallo spirito del secolo.
Bibl.: Per il Proclama del 1815: F. Lemmi, G. Murat, e le aspirazioin unitarie nel 1815, in Arch. storico napoletano, 1901; D. Gradoni, Nel centenario del proclama di Rimini, in Rassegna storica del Risorgimento, II (1915); id., Per la prima guerra d'indipendenza italiana nel 1815, Pavia 1929; id., La conversione italiana del Murat, in Nuova rivista storica, XV (1930); id., Federazione e re d'Italia mancati nel 1814-15, ibid., XVI (1931). Per il Manifesto, L. C. Farini, Lo Stato Romano, Firenze 1850, I, pp. 98-112; T. Casini, La giovinezza di L. C. Farini, in Arch. stor. ital., 1911; M. Menghini, R. Andreini e i moti di Romagna dal 1845, in Rass. stor. d. Risorgimento, 1916.