Rischi e benefici delle innovazioni finanziarie
I cambiamenti della struttura finanziaria
Negli ultimi trent’anni, e soprattutto a partire dagli anni Novanta del 20° sec., i sistemi finanziari di ogni area geografica sono mutati profondamente per quanto attiene alle quantità di attività finanziarie intermediate, alla struttura finanziaria (cioè il modus operandi degli intermediari e delle relazioni che tra loro intercorrono), alle regole della vigilanza e all’architettura istituzionale degli organismi che ne assicurano il rispetto. La deregolamentazione, l’accresciuta concorrenza, l’innovazione tecnologica e la teoria della finanza sono state determinanti fondamentali di questa trasformazione strutturale.
Sotto l’aspetto quantitativo, tutte le attività e le passività delle principali economie sono cresciute ben più del prodotto interno lordo (PIL). Nel contempo sono aumentate esponenzialmente le operazioni da e verso l’estero, non solo fra Paesi industriali, ma anche fra questi e le economie emergenti. Si è ridotto l’home bias, ossia la preferenza degli investitori a effettuare transazioni finanziarie attraverso le quali si scambiano attività e passività di operatori nazionali.
Come causa ed effetto di questi recenti sviluppi è radicalmente mutata la struttura stessa della finanza, ossia l’importanza relativa al ruolo delle banche, degli intermediari in titoli, all’interno dei quali spicca, in particolare, la crescita degli investitori istituzionali (fondi comuni, hedge funds, cioè i fondi d’investimento speculativi a elevato rischio, e fondi pensione), e delle società d’assicurazione.
Due fenomeni sono caratteristici di tali mutamenti strutturali. Si è ridotta l’ampiezza delle transazioni con la clientela basate sulla conoscenza diretta (relationship banking), e sono correlativamente cresciute le transazioni che si fondano sull’informazione pubblica disponibile sul mercato. In altri termini, il rapporto tra la banca e il cliente si è modificato fino ad assumere sempre più le caratteristiche del tipo arm’s length (a distanza). Inoltre è fortemente cresciuta l’istituzionalizzazione del risparmio, termine, questo, che denota la riduzione della quota del risparmio delle famiglie data in gestione alle banche rispetto a quella allocata presso gli investitori istituzionali.
Il paragrafo che segue offre una descrizione sommaria di questi fondamentali cambiamenti strutturali della finanza. Il paragrafo successivo è invece interamente dedicato all’illustrazione dei benefici e dei rischi di tali cambiamenti.
Cresce l’intermediazione finanziaria
Nel periodo che va dal 1995 al 2006, le principali poste dell’attivo e del passivo delle banche negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell’area dell’euro, ma non nel Giappone (dove in questo periodo di tempo si sono continuati a manifestare i gravi effetti della crisi finanziaria iniziata verso la fine degli anni Ottanta), sono cresciute a tassi sensibilmente superiori a quelli del PIL. La crescita dei depositi presso le banche in rapporto al PIL è stata del 13% negli Stati Uniti, del 54% nell’area dell’euro e del 179% nel Regno Unito. Maggiormente limitato è stato l’aumento del rapporto prestiti/PIL, che è cresciuto rispettivamente del 15, del 32 e dell’85%. Ma ben maggiore è stata la crescita dei mercati. È nel comparto della borsa che si sono avuti gli aumenti maggiori: sempre in rapporto al PIL, la capitalizzazione della borsa è infatti salita rispettivamente del 55, del 42 e del 40%.
Sebbene in tutti i Paesi considerati in questa analisi gli indicatori dello sviluppo dei mercati testimonino un aumento dell’intermediazione non bancaria, va osservato che permangono forti e significative differenze nell’importanza che le banche rivestono per il finanziamento dell’economia. Negli Stati Uniti il rapporto fra la capitalizzazione di borsa e il prodotto interno lordo è pari a 1,10, mentre quello dell’attività bancaria (somma diviso due dei depositi e impieghi in rapporto al PIL) è pari a 0,65. Gli stessi rapporti per il Regno Unito ammontano a 1,38 e a 3,13, e per l’area dell’euro a 0,42 e a 0,65.
Aumento dell’intermediazione orientata al mercato
Le modifiche della struttura finanziaria prima descritte forniscono un’indicazione dello spostamento della finanza verso un modello basato sul mercato e di un certo grado di disintermediazione bancaria. Il finanziamento tramite il mercato non è avvenuto, però, con uguale intensità nei vari Paesi. Permangono forti differenze nella dimensione dei mercati.
In un recente studio (International monetary fund 2006, cap. 4), il Fondo monetario internazionale (FMI) valuta quanto le transazioni finanziarie, comprese quelle poste in atto dalle banche, siano più orientate al mercato, cioè basate maggiormente sulle informazioni pubblicamente disponibili e sulla capacità dei sistemi giuridici di imporre il rispetto delle clausole contrattuali, e in misura minore, invece, sulle informazioni bilaterali fra creditore e debitore che non sono pubbliche (finanza relazionale).
Il Fondo monetario internazionale misura i diversi elementi chiave del modus operandi dei sistemi finanziari, vale a dire: a) il grado d’intermediazione bancaria tradizionale; b) l’intensità della nuova intermediazione finanziaria, cioè l’attività delle istituzioni finanziarie non bancarie, come, per es., l’uso della cartolarizzazione o di nuovi strumenti finanziari; c) il grado di liquidità e di profondità dei mercati finanziari.
Sulla base di queste misure, lo studio citato perviene alla conclusione che il grado di orientamento al mercato dei sistemi finanziari è cresciuto in tutti i principali Paesi, e che l’intermediazione finanziaria tradizionale svolta dalle banche è diminuita ovunque, anche se permangono forti differenze tra Paesi. Nei Paesi europei essa è scesa del 5%, ma, ciononostante, nel 2004 essa era ancora due volte quella svolta dalle banche degli Stati Uniti. Le differenze tra Paesi sono ancora più marcate se si guarda all’uso delle nuove forme di intermediazione finanziaria. Per es., l’allocazione del risparmio delle famiglie presso le ‘non-banche’ (le finanziarie non bancarie che forniscono i servizi tipici degli istituti di credito, a eccezione della raccolta di depositi) è molto più elevata nei Paesi anglosassoni che nei Paesi dell’Europa continentale, a eccezione dei Paesi Bassi e della Svizzera. Non si rileva, cioè, né una tendenza generale verso la disintermediazione, né una trasformazione dei sistemi finanziari legati alle banche in ambiti basati sul mercato, né una perdita di importanza delle banche. In altri termini, i sistemi finanziari non sembrano convergere.
La crescita degli investitori istituzionali
Parallelamente, e con un ritmo sempre crescente negli ultimi anni, è fortemente aumentata l’intermediazione istituzionale a scapito di quella bancaria, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito (Filosa 2006, tab. 15). Il passaggio a una gestione professionale dei patrimoni mediante gli investitori istituzionali (fondi pensione, compagnie d’assicurazione e fondi comuni) ha anche coinciso con una riduzione dell’avversione al rischio da parte degli investitori, come testimonia la crescita dei fondi azionari e dell’investimento nei Paesi emergenti.
L’aspetto di maggiore rilevanza è il fatto che la ricchezza delle famiglie detenuta dagli investitori istituzionali è cresciuta continuamente, superando quella tradizionalmente allocata presso le banche. In base a uno studio del Committee on the global financial system (2007, p. 37, tab. B1), insediato presso la Bank of international settlements, la ricchezza delle famiglie è cresciuta tra il 1995 e il 2005 del 50%, da 47.700 miliardi di dollari a 74.800. Nel 2005, la quota maggiore di tale ricchezza era gestita dagli investitori istituzionali, presso i quali era allocato il 44% della ricchezza delle famiglie (36% nel 1995), contro il 30% detenuto nella forma di depositi e di impieghi bancari (34% nel 1995) e il 27% costituito da azioni e titoli (23% nel 1995).
All’interno del settore, sono i fondi pensione e le compagnie d’assicurazione a detenere la quota maggiore (circa i 2/3) della ricchezza investita dalle famiglie, anche se il dato aggregato deriva da situazioni assai differenti da Paese e Paese. Soprattutto nei Paesi anglosassoni, ma anche nei Paesi Bassi e in Svizzera, il più maturo sviluppo dei fondi pensione rende queste istituzioni i principali destinatari della ricchezza delle famiglie investita da operatori professionali. In questi Paesi i fondi pensione raccolgono circa il 70% del totale delle attività destinate a finanziare le pensioni. Nell’Europa continentale, per contro, sono le compagnie d’assicurazione a raccogliere la percentuale maggiore del risparmio delle famiglie. In Francia, Germania e Italia i fondi pensione detengono rispettivamente l’1,1%, il 13,2% e il 2,9% del risparmio, contro il 54,7%, il 73,1% e il 52,4% delle compagnie d’assicurazione.
L’apertura verso l’estero
Gli anni Novanta rappresentano, nel giudizio di molti storici, la seconda era della globalizzazione della finanza (la prima è considerata quella terminata con la Prima guerra mondiale).
Nei Paesi industriali la globalizzazione finanziaria ha assunto dimensioni particolarmente rilevanti: tra il 1990 e il 2003 il totale delle attività e quello delle passività sull’estero in rapporto al prodotto interno lordo si sono triplicati (International monetary fund 2005). Alla fine del 2003 tale rapporto era pari a circa il 200%. Nell’aggregato costituito dal complesso dei Paesi industrializzati, le attività sono solo di poco inferiori alle passività. Tutto questo è avvenuto perché la liberalizzazione delle transazioni internazionali con l’estero ha indotto forti effetti di diversificazione di portafoglio. In tali circostanze gli investitori residenti in ciascun Paese hanno accresciuto fortemente il loro portafoglio estero, mentre, allo stesso tempo, gli investitori non residenti hanno aumentato l’acquisto di attività nel Paese in questione in misura da non far variare di molto i saldi netti.
La consistenza degli investimenti di portafoglio in azioni e titoli esteri, in rapporto alla capitalizzazione interna, è passata, tra il 1970 e il 2003, dal 2 al 14,3% in Canada, dal 4,9 al 31,1 % in Germania, dall’1,3 (dato del 1975) al 16,7% in Giappone, dal 9,5% al 48,1% nel Regno Unito, e dall’1,5 al 7,4% negli Stati Uniti. I flussi di finanziamento estero ai Paesi in via di sviluppo (PVS) si differenziano in modo significativo da quelli che hanno interessato i Paesi industriali perché, mentre per questi ultimi i flussi netti di capitale hanno seguito una tendenza ascendente pressoché ininterrotta, per i PVS essi si caratterizzano per un’alternanza di forti espansioni e violenti riflussi. L’afflusso verso i PVS di parte degli accresciuti proventi dei produttori di petrolio dopo il 1973 e il 1978, la crisi del debito della metà degli anni Ottanta, l’improvviso e inatteso accesso al mercato internazionale del capitale degli anni Novanta, nonché le crisi finanziarie del Messico, della Russia e del Sud-Est asiatico, rappresentano i principali punti di svolta dei flussi di risorse verso e dai Paesi emergenti.
I dati patrimoniali segnalano per questi Paesi due importanti differenze rispetto ai Paesi industriali. In primo luogo il valore assoluto dell’attivo e del passivo è di molto inferiore a quello registrato dalle nazioni avanzate, anche se il loro rapporto con il PIL è elevato (70% circa). In secondo luogo le attività verso l’estero sono state sempre nettamente inferiori alle passività. Vi sono, tuttavia, importanti differenze fra regioni: nel 2003, per es., il rapporto attivo/passivo era pari a 0,56 nei Paesi emergenti dell’Asia e solo a 0,29 in America Latina.
L’avvento dell’euro e l’integrazione finanziaria
In Europa l’adozione della moneta comune ha cancellato gran parte della segmentazione dei mercati. L’eliminazione del rischio di cambio e l’attenuazione delle differenze nei tassi d’interesse nazionali hanno consentito ai prenditori di fondi di avere a disposizione una più ampia base di investitori, e hanno altresì ampliato le possibilità di scelta degli investitori, che sono ora in grado di allocare il risparmio finanziario su base paneuropea e su un numero di strumenti finanziari fortemente accresciuto. Il grado d’integrazione della finanza europea tuttavia non si è presentato con la stessa intensità nei diversi settori: mentre l’integrazione del mercato monetario e di quello dei titoli è stata particolarmente significativa, nel caso delle banche e del mercato azionario il processo è stato più limitato oppure risulta del tutto assente.
I progressi maggiori si sono avuti nell’area che più da vicino è stata influenzata dall’unificazione della politica monetaria, sia perché la quasi totalità delle istituzioni creditizie partecipa all’allocazione della liquidità decisa dalla Banca centrale europea (BCE) e attuata a livello operativo dalle banche centrali nazionali, sia perché l’introduzione dell’euro ha coinciso con un forte aumento dell’attività interbancaria cross-border (transnazionale). L’area in cui il successo dell’euro quale fattore d’integrazione internazionale è particolarmente visibile riguarda il mercato dei titoli, dove i vantaggi di costo, di gestione e di scelta allocativa sono rilevanti sia per i richiedenti fondi sia per gli investitori. Anche se in questo mercato il grado d’internazionalizzazione era elevato già prima dell’introduzione dell’euro, il venir meno del rischio di cambio e di gran parte delle differenze di tasso ha indiscutibilmente favorito una forte espansione delle emissioni. Di ancora maggior rilievo risulta il fatto che l’introduzione dell’euro ha permesso una più ampia diversificazione degli emittenti per settore di attività economica e ha garantito l’accesso al mercato a prenditori con diverso merito di credito (cioè con diversa capacità, mostrata nel passato, di assolvere ai propri obblighi di rimborso del prestito e di pagamento degli interessi). Persistono, tuttavia, vincoli all’internazionalizzazione, la cui eliminazione richiede modifiche regolamentari, legislative e fiscali che dovranno essere introdotte nel medio termine.
Le emissioni internazionali di titoli. In tutti i Paesi censiti dalla Bank for international settlements, dalle cui rilevazioni sono tratti i dati seguenti, le emissioni internazionali di titoli salgono, tra il 1994 e il 2007, del 17,9% all’anno. Quelle denominate in euro rappresentano, alla fine del 2007, il 73,1% delle emissioni denominate nelle altre valute. La crescita delle emissioni in euro sopravanza quella delle emissioni nelle altre valute in tutti i principali Paesi e si commisura al 23,5% nell’area dell’euro (22,7% in Germania, 48,4% in Francia e 35,2% in Italia), al 35,2% nel Regno Unito e al 24,6% negli Stati Uniti.
La crescita delle emissioni in euro nei Paesi dell’Unione monetaria riguarda soprattutto il settore privato, poiché gli impegni di riduzione dei deficit dei bilanci pubblici presi con l’introduzione della moneta unica hanno fatto fortemente decelerare, con l’eccezione della Germania, le emissioni del settore pubblico. All’interno del settore privato l’aumento delle emissioni ha interessato soprattutto il settore degli intermediari finanziari, che nel 2007 rappresentano l’84,7% delle emissioni totali in euro nei Paesi dell’Unione monetaria, il 95,3% nel Regno Unito e l’82,4% negli Stati Uniti. Le emissioni delle imprese non finanziarie, pur mostrando tassi di crescita elevati, sono avvenute per un ammontare ancora limitato.
Le banche europee oggi. Gli effetti della deregolamentazione prima descritti sono stati, per le banche, particolarmente rilevanti, come mostra Jean Dermine (2006), del cui studio si sintetizzano qui alcuni risultati empirici. In primo luogo, sale fortemente il rapporto fra l’attivo delle banche dei principali Paesi europei e il PIL: tra il 1981 e il 2003, dal 103 al 300,42% in Germania, dal 76 al 256,50% in Francia, dal 100 al 388,51% nel Regno Unito; tra il 1985 e il 2003, dal 116 al 163,38% in Italia. Nell’Unione Europea (UE) a 15, questo rapporto ammonta nel 2003 al 280,98%.
In secondo luogo, il numero delle fusioni e delle acquisizioni (mergers and acquisitions, M&A) avvenute tra il 1997 e il 2004 è molto elevato, anche se il volume di queste operazioni è stato sensibilmente inferiore a quello di altri settori di attività. Esso è pari a 480 (47% del totale) nel caso di M&A interne a uno stesso Paese. Sono 244 (24% del totale) le transazioni avvenute tra i Paesi dello Spazio economico europeo (l’area economica che raggruppa i Paesi dell’EFTA, esclusa la Svizzera, e quelli della UE) e 300 (29%) quelle avvenute al di fuori di quest’area. Si nota da questi dati che le fusioni e le acquisizioni all’interno di uno stesso Paese sono state prevalenti, in particolare in Italia, dove 154 operazioni su 203 (75,9%) hanno riguardato istituzioni nazionali. Dermine stima che il valore delle fusioni e delle incorporazioni fra banche, tra il 1990 e il 2003, ammonti a 581,4 miliardi di euro. Tale importo, tuttavia, non è particolarmente elevato se lo si confronta con il totale mondiale delle M&A dell’industria finanziaria dei Paesi industrializzati. Il Fondo monetario internazionale stima, infatti (International monetary fund 2007a, p. 99, tab. 3.1), che dal 1996 al 2006 il valore di queste sia ammontato nei Paesi industrializzati a 4171 miliardi di dollari (778,5 nel solo 2006), 889 dei quali si riferiscono a M&A cross-border. In Europa le fusioni e le incorporazioni hanno fatto crescere il grado di concentrazione del sistema bancario soprattutto nei piccoli Paesi. In quelli grandi, invece, permane una forte frammentazione.
Quanto, infine, al grado d’integrazione bancaria, Dermine conferma analisi precedenti secondo le quali il grado d’integrazione è basso nel mercato retail e più elevato in quello wholesale. La limitata integrazione del mercato retail è da attribuire a diverse cause. Una prima attiene al ‘grado di fiducia’ nell’istituzione: la conoscenza della banca, la sua vicinanza e la conoscenza dei sistemi giuridici nazionali sono tutti fattori che portano, normalmente, a preferire le banche nazionali. È poi difficile che la legge del prezzo unico (in base alla quale, in un contesto di economia di mercato concorrenziale, beni identici dovrebbero essere venduti allo stesso prezzo in Paesi differenti) possa valere per i prezzi dei singoli servizi offerti dalle banche. Una terza causa, infine, è rappresentata dall’esistenza di asimmetrie informative.
Misure statistiche del grado d’integrazione finanziaria in Europa. I dati prima discussi in tema d’integrazione finanziaria delle emissioni internazionali di titoli e quelli sulle M&A delle banche rappresentano solo una parte del più ampio insieme di indicatori statistici dell’integrazione finanziaria e delle differenze nel grado d’integrazione fra i diversi comparti della finanza europea. L’uso di misure statistiche, quali le correlazioni dei rendimenti e/o le stime delle determinanti della volatilità delle diverse attività finanziarie consentono di misurare il grado di integrazione dei diversi strumenti finanziari con precisione maggiore di quella che si può ricavare dall’esame delle variazioni dei volumi. L’insieme di questi indicatori è presentato e discusso ampiamente in un recente studio della BCE (European central bank 2007), del quale in questa sede si espongono soltanto alcune delle principali conclusioni che l’esame di tali indicatori sembra avvalorare.
Nel comparto più vicino alla condotta della politica monetaria, il grado d’integrazione, misurato dalla correlazione dei principali indicatori di prezzo degli strumenti del mercato monetario non assistito da garanzie (unsecured), è quasi perfetto. La BCE, però, mostra che nel comparto dei titoli pubblici a brevissimo termine tale integrazione è minore di quella che si osserva, per es., nel mercato complessivo dei titoli. In questo comparto, inoltre, si registrano differenze nel grado d’integrazione (peraltro elevato) fra i titoli pubblici a medio-lungo termine emessi dai diversi Paesi. Essi, a conferma dell’elevata integrazione, sarebbero prevalentemente mossi da fattori comuni all’intera area dell’euro. Si notano, peraltro, scarti nei rendimenti che la BCE imputa a differenze nel grado di rischio dei titoli emessi dai diversi Paesi. Tali scarti, tuttavia, non costituirebbero un’indicazione di mancata integrazione. In parte diversa è la situazione del mercato dei titoli delle imprese, i cui rendimenti, pur mostrando un apprezzabile grado di convergenza, sembrano ancora sospinti soprattutto da determinanti nazionali.
L’integrazione è, invece, relativamente lontana nel caso del mercato azionario. In questo settore l’analisi della variabilità, condotta esaminando i variance ratios, mostra che la dinamica dei mercati azionari è sospinta da fattori nazionali. A frenare l’integrazione concorrono fattori fiscali, i sistemi di pagamento e compensazione, la frammentazione degli enti che detengono e amministrano le azioni e le altre attività finanziarie (Central Security Depositories, CSD).
I nuovi prodotti
Fino a non molti anni fa il principale contratto finanziario era rappresentato da quello di prestito concesso da una banca a un individuo o a un’impresa, ovvero dall’emissione di titoli da parte di un’impresa o dello Stato, sulla base di condizioni standardizzate (prospetto, durata del prestito, piano d’ammortamento, tasso d’interesse ecc.). L’intermediario presso il quale si contraeva il debito deteneva il credito fino alla scadenza. Il modello d’intermediazione coerente con questo schema è detto, pertanto, originate and hold («crea e detieni»). Nel corso del tempo i sistemi finanziari sono divenuti molto più complessi, soprattutto per la diffusione e la rapida crescita della finanza strutturata. Darrell Duffie (2008, p. 3, fig. 1) documenta che negli Stati Uniti le emissioni complessive dei principali strumenti della finanza strutturata sono passate dal valore trascurabile che avevano nel 1995 a oltre 2700 miliardi di dollari nel 2006. Fra le diverse categorie di prestiti cartolarizzati, specialmente rilevante è quella dei crediti immobiliari.
La finanza strutturata è costituita dall’insieme di contratti finanziari attraverso i quali un’entità che vanta crediti (prestiti bancari, titoli, azioni ecc.) verso debitori precisamente identificati nei contratti stessi, vende sul mercato, mediante entità appositamente create dette special purpose vehicles (SPV, società di investimento con finalità speciali), i crediti in questione agli investitori, creando passività finanziarie i cui pagamenti dipendono dal verificarsi di eventi riguardanti la solvibilità del debitore originario (contingent claims).
La caratteristica principale della finanza strutturata è quella di rescindere il legame esistente tra la concessione del credito e il rischio di credito connesso al credito stesso. Così il modello d’intermediazione si è spostato verso quello detto originate and distribuite («crea e distribuisci»). Nella letteratura, l’entità che trasferisce il credito è chiamata risk shedder, oppure acquirente della protezione, mentre l’investitore, che si accolla il rischio di credito, è detto risk taker, oppure venditore della protezione.
Accanto alle tradizionali forme d’assicurazione contro i rischi d’insolvenza (si pensi, per es., all’assicurazione dei crediti all’esportazione) è sorta una molteplicità di strumenti finanziari per il trasferimento del rischio di credito (credit risk transfer, CRT), che consentono a un creditore (risk shedder) di trasferire il rischio di credito a un terzo (risk taker) attraverso operazioni di cartolarizzazione.
I principali strumenti per il CRT (Committee on the global financial system 2003, 2005) sono i credit default swaps (CDS), le credit linked notes (CLN), le asset backed securities (ABS) e le collateralized debt obligations (CDO). I CDS sono contratti finanziari bilaterali con i quali il risk shedder trasferisce il rischio di credito connesso a un credito vantato nei confronti di un ben identificato debitore pagando periodicamente un premio al risk taker. In caso d’inadempienza del debitore (dovuta, per es., al mancato rimborso di un prestito o di titoli, o al fallimento del debitore oppure alla ristrutturazione del credito), il risk taker dovrà pagare al risk shedder (spesso tramite consegna di titoli) un ammontare pari al valore nozionale del credito trasferito. Le CLN sono strumenti di finanza strutturata rappresentati da titoli che incorporano un derivato creditizio per la protezione di un insieme (pool) di crediti. La CLN è collocata presso gli investitori (normalmente tramite una SPV), i quali versano in contanti al risk shedder l’ammontare delle CLN acquistate. Gli investitori ricevono delle cedole pari all’interesse di mercato più un premio, e sono rimborsati alla pari. Se il debitore risulta inadempiente, essi riceveranno il valore di mercato del titolo. In caso d’insolvenza, il detentore della CLN può solo rivalersi sul debitore inadempiente. Le ABS sono titoli emessi da una SPV. Esse sono garantite da diversi tipi di attività finanziarie (crediti, altri titoli, fatture ecc.) che il risk shedder trasferisce alla SPV. Le CDO, infine, sono strumenti analoghi alle ABS, la cui garanzia però è costituita da attività meno omogenee di quelle conferite per la creazione di ABS. Gli attivi possono essere rappresentati da prestiti, nel qual caso si parla di collateralized loan obligations (CLO), oppure il trasferimento riguarda titoli, nel qual caso si parla di collateralized bond obligations (CBO).
Il risk shedder che intenda eliminare il rischio di credito dal proprio bilancio, per es., attraverso la creazione delle CDO (si pensi a una banca che voglia trasferire i rischi connessi alla concessione di taluni prestiti), vende sul mercato il credito vantato nei confronti di uno o più debitori, emettendo titoli rappresentativi del credito stesso. Normalmente il collocamento delle CDO avviene per il tramite della SPV, che è spesso un’emanazione dell’entità che intende trasferire il rischio. La SPV assume nel proprio bilancio le CDO che essa stessa crea per l’eventuale collocamento sul mercato, e si finanzia a breve termine sul mercato emettendo titoli a breve. Alternativamente, o congiuntamente, il finanziamento può avvenire a opera delle stesse banche, che smobilizzano i crediti mediante l’accensione di linee di credito.
Ai fini del collocamento sul mercato, i derivati creditizi sono suddivisi in diverse tranche, che sono caratterizzate da differenti combinazioni rischio-rendimento. Ciascuna di queste tranche riceve un rating dalle apposite agenzie. La tranche che è soggetta al più elevato rischio di credito, perché su di essa graveranno le prime eventuali insolvenze, è chiamata equity tranche. Seguono poi una o più mezzanine tranches, che hanno un grado di rischiosità progressivamente decrescente. Esse hanno ratings minimi, tali da poter essere acquistati dagli investitori istituzionali e dagli hedge funds. In caso d’insolvenza del debitore, queste tranche assorbiranno le perdite solo quando l’equity tranche sarà completamente esaurita. L’ultima, la senior tranche, è quella meno rischiosa: essa può anche ricevere un rating AAA. Poiché la probabilità attesa ex ante che le perdite che dovranno eventualmente essere assorbite dalle mezzanine tranches è decrescente, il rating di queste tranche è progressivamente più elevato e il rendimento via via minore. L’attribuzione del rating è effettuata impiegando complessi modelli statistico-matematici, sull’affidabilità dei quali si tornerà in seguito.
Benefici e rischi
I profondi mutamenti strutturali che hanno interessato la quasi totalità dei sistemi finanziari mondiali hanno permesso di ottenere numerosi benefici: la riduzione dei costi di transazione, un maggiore accesso alla finanza per tutti gli operatori (famiglie, imprese e intermediari) e una migliore condivisione dei rischi. I sistemi finanziari, in altre parole, hanno la possibilità di svolgere meglio le diverse funzioni che sono richieste dalle moderne economie.
La liberalizzazione e la globalizzazione della finanza, il maggiore orientamento al mercato delle istituzioni finanziarie e la diffusione di prodotti innovativi hanno alterato profondamente il trade-off tra i costi e i benefici della finanza. L’analisi svolta in più sedi non incoraggia, però, giudizi incondizionatamente positivi circa i vantaggi offerti dal nuovo assetto, sia ai Paesi industriali sia a quelli in via di sviluppo.
Liberalizzazione e squilibri finanziari
In primo luogo la liberalizzazione finanziaria ha fortemente accresciuto la possibilità che il sistema sia esposto al rischio che si formino rilevanti squilibri finanziari. Il sistema finanziario è essenzialmente prociclico. Tali, infatti, sono la percezione del rischio e la propensione ad accettarlo. Sono prociclici i prezzi delle attività, gli spreads (differenziali) dei tassi d’interesse, i ratings delle agenzie specializzate e quelli prodotti internamente dagli intermediari finanziari, i profitti e gli accantonamenti contro le perdite attese (Borio, White 2004).
Il prodursi di pericolosi squilibri finanziari può spesso essere ricondotto al mantenimento, per periodi prolungati, di bassi tassi d’interesse, come, per es., è avvenuto dagli anni Novanta dopo l’attuazione, con successo, della politica di disinflazione condotta nei principali Paesi industriali e in un numero crescente di Paesi in via di sviluppo. Bassi tassi d’interesse avrebbero permesso una crescita eccessiva del credito all’economia e favorito la formazione di bolle speculative dei prezzi delle attività reali e finanziarie. Sarebbe proprio la credibilità delle banche centrali che, ancorando le aspettative inflazionistiche, avrebbe di fatto ritardato l’emergere di pressioni sui prezzi dei beni rispetto alle quotazioni delle attività, e quindi il segnale della necessità di contenere l’espansione della moneta e del credito. Si argomenta, perciò, che una politica monetaria che abbia come esclusivo obiettivo il controllo dell’inflazione non è adatta a intervenire per limitare la crescita oltremisura dell’indebitamento del settore privato, eccessi nell’investimento o, infine, la formazione di bolle speculative.
Orientamento al mercato dei sistemi finanziari
Per quanto riguarda il maggiore orientamento al mercato della finanza, si concorda sul fatto che vi sia uno stringente trade-off tra benefici e costi. In un recente contributo (International monetary fund 2006) si mostra che un sistema orientato al mercato porta vantaggi sia alle famiglie sia alle imprese. Tali prospettive economiche derivano da un lato dal fatto che il maggiore e più agevole accesso alla finanza che tale sistema consente offre alle famiglie la possibilità di limitare le oscillazioni cicliche del consumo più di quanto non avverrebbe se il sistema fosse prevalentemente quello tradizionale della finanza relazionale. Importanti vantaggi per l’intera economia deriverebbero, inoltre, dalla maggiore capacità che i sistemi orientati al mercato offrono alle imprese per il finanziamento della formazione di capitale, specialmente quello volto a introdurre processi innovativi (Rajan, Zingales 2003). Per contro, un sistema di finanza relazionale permetterebbe di attenuare le oscillazioni cicliche dell’investimento, giacché il sistema bancario sarebbe in grado di evitare forti contrazioni del finanziamento alle imprese nelle situazioni cicliche avverse.
I principali svantaggi dei sistemi finanziari maggiormente orientati al mercato consistono nel fatto che gli investitori sono più vulnerabili alle variazioni improvvise dei prezzi delle attività, o a comportamenti fraudolenti o eccessivamente rischiosi da parte degli amministratori delle imprese. Forti diminuzioni dei prezzi delle attività finanziarie o reali possono ingenerare pericolose spirali al ribasso dei prezzi stessi, anche se a provocare l’iniziale declino è uno shock di modeste proporzioni. L’iniziale caduta dei prezzi dà generalmente luogo a una restrizione del credito, alla richiesta di adeguamento delle garanzie originariamente prestate (il cui valore può scendere, per effetto della caduta dei prezzi, anche al di sotto del credito originariamente concesso), all’aumento dei margini tra livello delle garanzie e credito, a una forte contrazione della liquidità.
Nella fase ascendente del ciclo, l’effetto leva (leverage) permette di moltiplicare le risorse disponibili per l’investimento finanziario. Nel caso di crisi, l’effetto leva opera in senso inverso, accrescendo le pressioni al ribasso dei prezzi delle attività finanziarie. Ciò avviene per diversi motivi. In primo luogo, la caduta dei prezzi aumenta aritmeticamente il grado di leverage e richiede pertanto la vendita di parte dell’investimento per ripristinare l’originario livello della leva. Secondariamente, le tensioni del mercato normalmente comportano la richiesta da parte di chi ha fornito i fondi di ridurre il grado di leverage. Tale richiesta costringe a nuove vendite. Infine, la richiesta di riduzione del leverage è accompagnata normalmente dalla richiesta di un aumento dei margini (la differenza fra il prezzo dell’attività e il prezzo al quale il credito è concesso), giacché l’attività è divenuta più rischiosa. Un ulteriore, fattore d’amplificazione della crisi è da attribuire ai meccanismi attraverso i quali avviene la rarefazione della liquidità. Le turbolenze determinano un improvviso e drammatico aumento del fabbisogno della liquidità necessaria a dare esecuzione alle transazioni e a finanziare il riposizionamento degli operatori di mercato, perché il bisogno di ridurre le esposizioni determina un uso intenso dei numerosi meccanismi per la gestione del rischio (per es,. l’attivazione dei sistemi automatici stop-losses, l’uso del dynamic hedging e la riduzione delle esposizioni rischiose che si rende necessaria per assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali di capitale; e, infine, le indicazioni che provengono dai sistemi di value-at-risk, impegnati a stimare quale sia la perdita massima che non è probabile, date certe ipotesi, un’istituzione possa superare in un dato intervallo di tempo). Al crescere del value-at-risk stimato, sale l’incentivo a ridurre le attività rischiose e ad aumentare quelle liquide. L’analisi condotta dal Fondo monetario internazionale (International monetary fund 2007b) fa ritenere che l’uso di tale tecnica possa contribuire ad accrescere l’instabilità del mercato. Allo stesso tempo, l’aumento del rischio di controparte, reale o percepito, induce banche e mercati a contrarre l’offerta di fondi, riducendo le linee di credito o chiedendo il rientro anticipato delle esposizioni (Borio 2004).
In queste condizioni, la complessa rete di relazioni fra banche, investitori istituzionali e pubblico, che in condizioni normali permette l’abbondanza di liquidità, lo sviluppo dei mercati e l’aumento dei prezzi delle attività reali e finanziarie, fino alla formazione di bolle speculative, opera in senso inverso (Minsky 1982). Essa diviene la via attraverso la quale si diffondono e si approfondiscono gli squilibri, s’innesca la spirale delle pressioni al ribasso delle quotazioni e si determina la contrazione dell’economia reale. Si mette in moto, in altri termini, un meccanismo noto sin dai tempi della Grande depressione, quando Irving Fisher pubblicò la sua teoria della deflazione da debiti (la quale spiega il meccanismo cumulativo che porta alla contrazione della produzione e alla crescita del debito nel corso delle crisi finanziarie).
Il più elevato grado d’orientamento al mercato dei sistemi finanziari, inoltre, ha accresciuto gli incentivi ai quali rispondono gli amministratori delle istituzioni finanziarie nella loro attività, alterando, di conseguenza, la natura e il grado di rischiosità del sistema finanziario. In particolare, il sistema di remunerazione degli amministratori che lega i compensi al volume delle transazioni effettuate e al loro rendimento, sollecita gli amministratori stessi a favorire quelle operazioni che promettono i profitti più elevati ma che, al contempo, sono più rischiose, se non anche fraudolente (e che portano le imprese a correre i cosiddetti tail risks, quelli cioè che hanno una piccola probabilità di verificarsi ma un forte potenziale di danno); oppure ad assumere comportamenti imitativi (herding) che allontanano i prezzi delle attività da valori giustificabili dalle determinanti fondamentali (Rajan 2006). Le crisi finanziarie provocate da imprese quali Enron e World Com rappresentano degli esempi recenti di tali rischi.
Pertanto, quanto maggiore è il ricorso al mercato rispetto alla più tradizionale finanza relazionale, tanto maggiore è la necessità, se si vogliono minimizzare i nuovi e vecchi rischi finanziari, che il sistema abbia una solida ed efficace infrastruttura finanziaria. Questa infrastruttura ha diverse componenti: solide regole per la capitalizzazione delle istituzioni finanziarie, efficienti metodi e criteri organizzativi per la gestione del rischio, rigorosa vigilanza sugli intermediari, una robusta infrastruttura per la protezione dell’investitore, la normativa d’impresa, la legge fallimentare, un sistema giuridico e giudiziario capace di assicurare il rispetto dei contratti (compresa la loro esecuzione forzata in caso di inadempienze), un sicuro sistema dei pagamenti e delle compensazioni.
La globalizzazione della finanza
Particolarmente controverso è il giudizio, a diversi anni dalla pressoché generalizzata apertura verso l’estero delle economie, sui costi e i benefici della globalizzazione finanziaria.
La comunità internazionale si trova, infatti, divisa tra coloro (per es., Fischer 1998) i quali sostengono che la globalizzazione è, specie per i Paesi in via di sviluppo, apportatrice di vantaggi e opportunità (aumento del tasso di sviluppo, attenuazione delle fluttuazioni del reddito e del consumo e maggiore sostenibilità dei disavanzi della bilancia dei pagamenti), e coloro (per es., Stiglitz 2004) i quali considerano la globalizzazione come causa dell’aumento delle disuguaglianze di reddito e dell’instabilità globale. In realtà l’evidenza empirica sull’argomento suggerisce che il conseguimento dei benefici potenziali offerti dalla globalizzazione, come anche il potenziale negativo che essa rappresenta per l’innesco di crisi, non traggono origine dal mero aprirsi delle economie ai flussi internazionali di capitale e di merci, ma dipendono molto dalla condotta della politica economica, dal grado di sviluppo dei mercati finanziari, dall’adeguatezza delle istituzioni che esercitano la sorveglianza sul sistema finanziario e infine, più in generale, dalla qualità dell’ordinamento giuridico.
I benefici. In teoria la globalizzazione finanziaria è apportatrice di maggiore crescita economica, perché gli afflussi di capitale verso i Paesi che ne sono meno dotati permette sia maggiori rendimenti dell’investimento, sia trasferimenti di tecnologia e capacità imprenditoriale. Diversi studi (per es., Levine 2003) hanno da tempo stabilito un legame statisticamente significativo tra globalizzazione e sviluppo economico. Questi studi, come del resto molti altri, sono tuttavia poco robusti al mutare della specificazione dei modelli usati per la stima, sollevando dubbi sugli asseriti benefici reali della globalizzazione finanziaria.
Analogamente la teoria suggerisce che la globalizzazione permette di attenuare le fluttuazioni cicliche del consumo e del reddito giacché consente l’accesso a risorse finanziarie estere (il cui rendimento è legato all’andamento economico dell’estero), che permettono il finanziamento di livelli di consumo relativamente costanti. L’apertura favorirebbe in tal modo una condivisione dei rischi (risk sharing).
In recenti studi (International monetary fund 2005, 2007c) si stima, in effetti, che il risk sharing potenziale è elevato per tutti i Paesi, e che esso è tanto maggiore quanto più alta è la variabilità del reddito del Paese che apre all’estero e quanto più basso è il grado iniziale d’integrazione finanziaria con l’estero. I risultati della verifica empirica sono, tuttavia, poco incoraggianti: del risk sharing avrebbero beneficiato principalmente i Paesi industriali, mentre per quelli in via di sviluppo i benefici si sarebbero concretizzati solo in quelle economie che hanno superato soglie minime di sviluppo istituzionale e dei mercati, e di stabilità nella condotta delle politiche economiche. L’evidenza empirica farebbe quindi giustizia dell’eccessiva enfasi posta inizialmente da molti osservatori sui benefici diretti della globalizzazione finanziaria. Essi sarebbero invece indiretti, solo potenziali e difficilmente argomentabili sulla base dell’esperienza concreta fin qui fatta da diversi Paesi (Rodrik, Subramanian 2008).
I rischi. A fronte dell’incerta realizzazione dei benefici potenziali dell’apertura verso l’estero, ha preso forza l’argomentazione secondo la quale la globalizzazione è fonte d’instabilità finanziaria e di aumentata disuguaglianza dei redditi.
Quanto alle crisi, vi è un’abbondante evidenza empirica del fatto che dagli anni Ottanta si è avuta un’inattesa e devastante recrudescenza dell’instabilità finanziaria. La possibilità che l’apertura delle economie possa aver contribuito alla ripresa delle crisi, valutarie e bancarie, è coerente con l’osservazione che, nella generalità dei casi, all’origine delle crisi vi sono cambiamenti di regime di varia natura, come la deregolamentazione finanziaria, le trasformazioni strutturali dell’economia (si pensi, per es., ai cambiamenti intervenuti nei Paesi ex comunisti), innovazioni tecnologiche, eventi politici. Questi cambiamenti di regime modificano natura, portata e frequenza dei diversi disturbi ai quali il sistema è sottoposto, e di conseguenza cambiano gli incentivi che muovono le azioni dei soggetti economici, accrescono la vulnerabilità del sistema, favoriscono l’entrata di operatori nuovi e molte volte inesperti.
Un elenco, certamente incompleto, delle crisi finanziarie più gravi che hanno segnato l’ultimo ventennio del secolo scorso e i primi anni di quello attuale, include il fallimento delle casse di risparmio americane (1987-1989), la crisi debitoria dei Paesi emergenti, iniziata con la dichiarazione di moratoria del debito estero da parte del Messico nel 1982, le crisi bancarie e di cambio dei Paesi scandinavi (1990-1992), il crollo delle bolle speculative nei mercati azionario, immobiliare e delle aree edificabili in Giappone (1992-1996), la crisi del Sistema monetario europeo (1992-93), la crisi bancaria e valutaria del Messico nel 1994, la crisi sistemica che nel 1996-97 ha investito i Paesi del Sud-Est asiatico, il default (inadempienza) sul debito pubblico della Russia e il quasi fallimento di un hedge fund americano di successo (LTCM, Long-Term Capital Management) nel 1998, la crisi debitoria e valutaria dell’Argentina nel 2001 e quella, iniziata nel 2007, del mercato dei titoli cartolarizzati (subprime mortgages).
Tuttavia, da una rassegna dei lavori empirici sul tema (Kose, Prasad, Wei, Rogoff 2006) non emerge evidenza che la globalizzazione finanziaria, di per sé, sia la causa dell’instabilità, o che le economie che impongono ostacoli alla libera circolazione dei capitali siano meno soggette a crisi finanziarie, o che in queste economie le crisi abbiano conseguenze meno onerose rispetto a quanto avviene nei Paesi che hanno liberalizzato i flussi internazionali di capitale.
Le crisi finanziarie, infatti, dipendono dall’operare di diverse variabili. Nessuna crisi può essere spiegata da una singola variabile: gli episodi d’instabilità sono generalmente causati da più determinanti che operano simultaneamente. In alcuni episodi, come quelli dell’Argentina (2001) e del Messico (1994), la chiave interpretativa è quella degli attacchi speculativi ai regimi di cambio. La crisi di cambio dipende dall’incoerenza fra un’eccessiva espansione del credito e il mantenimento della parità. L’espansione del credito si traduce in una parallela diminuzione delle riserve, fino al punto in cui queste raggiungono un valore minimo, oltrepassato il quale avviene l’attacco speculativo (Flood, Marion 1998), che la maggior parte delle volte si accompagna a gravi episodi di panico bancario (International finance and financial crises, 1999). Alternativamente, la crisi valutaria scoppia quando gli speculatori si convincono che le autorità perseguono obiettivi che non sono coerenti con il mantenimento della parità, e quindi si trovano di fronte all’alternativa tra mantenere fisso il cambio o perseguire altri obiettivi che ne comportano l’abbandono. Altri episodi d’instabilità sono da ricondurre a un eccessivo stimolo monetario, che fa salire a dismisura i prezzi delle attività finanziarie (titoli e azioni) e reali (terra e immobili), perché alimenta la formazione di aspettative al rialzo, progressivamente svincolate dall’andamento delle variabili fondamentali dell’economia. L’inversione del ciclo, causata, per es., da uno shock che muti il segno delle aspettative, innesca una crisi sistemica e cumulativa (Minsky 1982; Kindleberger 19892). Per es., la prolungata recessione del Giappone dopo lo scoppio delle bolle speculative nei mercati azionario, dell’edilizia e delle aree fabbricabili e le crisi che hanno interessato i Paesi del Sud-Est asiatico sono interpretabili in base a varianti di questo schema concettuale, poiché in tali Paesi le crisi hanno tutte fatto seguito a prolungati eccessi di crescita del credito. In particolare, Claudio E.V. Borio e William White (2004) argomentano che la formazione di bolle speculative è stata favorita da una condotta della politica monetaria eccessivamente e persistentemente espansiva, che ha sovrastimato l’importanza della stabilità dei prezzi e sottovalutato, invece, il ruolo che l’espansione del credito riveste nella determinazione del ciclo economico e dei prezzi delle attività finanziarie e reali.
Analogamente, Ben S. Bernanke, Mark Gertler e Simon Gilchrist (1999) argomentano che l’esistenza di imperfezioni di mercato amplifica le fluttuazioni cicliche, per l’operare di un meccanismo detto acceleratore finanziario. Per es., il verificarsi di uno shock esogeno, quale un boom di borsa, fa crescere il prodotto non solo e non tanto attraverso il tradizionale effetto ricchezza, ma anche, e soprattutto, perché accresce il valore delle imprese. Salendo questo, crescono parallelamente le possibilità di autofinanziamento e, di conseguenza, l’investimento e la produzione. Un crollo di borsa, simmetricamente, causa la recessione e nei casi più gravi fallimenti a catena, sospensioni del servizio del debito e crisi bancarie, tanto più acute quanto più carenti sono la regolamentazione e la vigilanza.
La possibilità di conseguire gli importanti benefici potenziali dell’apertura dell’economia ai flussi internazionali di capitale richiede quindi che sia soddisfatta una serie di prerequisiti. Occorre, in altre parole, rendere operante un insieme di presidi atti a evitare che ricorrano le condizioni che facilitano l’insorgere di crisi: un’appropriata scelta del regime di cambio, una condotta prudente della politica monetaria e di quella fiscale, lo sviluppo dei mercati finanziari interni, l’esistenza di solide regole di vigilanza e l’esercizio della supervisione delle istituzioni finanziarie da parte di organismi indipendenti e dotati dei necessari poteri sanzionatori. In questo senso, M. Ayhan Kose, Eswar Prasad, Shang-Jin Wei e Kenneth Rogoff (2006) sostengono che, piuttosto che negli effetti diretti della globalizzazione, i benefici dell’apertura verso l’estero andrebbero ricercati negli effetti collaterali indiretti. La globalizzazione, in altri termini, sembrerebbe stimolare, anche se non sempre, l’attuazione di riforme riguardanti la condotta della politica economica, l’insieme delle regole che governano la gestione dell’impresa e l’introduzione oppure il rafforzamento delle istituzioni di sorveglianza del sistema finanziario.
Allo stesso tempo le analisi concordano sulla circostanza che la globalizzazione ha coinciso con un diffuso aumento delle disuguaglianze nel livello del reddito in tutte le aree geografiche e nelle differenti classi di reddito. Da uno studio del Fondo monetario internazionale (International monetary fund 2007e), tuttavia, risulterebbe che l’aumento delle disuguaglianze si sarebbe accompagnato a un aumento del livello di reddito anche degli strati della popolazione meno favoriti. In ogni caso, l’aumento delle disuguaglianze non implica necessariamente che la globalizzazione sia la causa unica o principale del fenomeno.
A seconda delle modalità con le quali si attua l’apertura verso l’estero si avrebbero sull’economia effetti anche di segno opposto. Risulterebbe, infatti, che l’apertura commerciale tende a ridurre le disuguaglianze di reddito soprattutto se il commercio con l’estero consente ai Paesi più poveri, specie quelli il cui reddito dipende esclusivamente o prevalentemente da monocolture agricole, di accrescere il peso dei più redditizi settori dell’industria e dei servizi. Per contro, le transazioni finanziarie internazionali tendono ad accentuare le disuguaglianze, specialmente se i flussi di capitale sono costituiti da investimenti diretti, perché questi diminuiscono la quota dei lavori ripetitivi che richiedono una bassa specializzazione e accrescono il vantaggio dei lavoratori che possiedono qualificazioni più elevate. Con il tempo, tuttavia, tali svantaggi tendono ad attenuarsi se, con politiche appropriate, sono promossi l’accesso all’istruzione e la crescita delle qualificazioni professionali della popolazione lavorativa. L’aumento delle disuguaglianze si può manifestare anche perché l’accesso alla finanza è normalmente più ampio e meno costoso per i Paesi meno poveri e per coloro i quali, all’interno dei diversi Paesi, appartengono alle classi di reddito più elevate. Una delle conclusioni principali del citato studio del Fondo monetario internazionale, tuttavia, è che la causa quantitativamente più importante dell’aumento delle disuguaglianze è rappresentata, tanto nei Paesi industriali quanto in quelli in via di sviluppo, dall’avanzamento tecnologico. Deve tuttavia essere tenuto ben presente che l’aumento dell’innovazione e la globalizzazione non sono indipendenti, dato che «i progressi tecnologici hanno contribuito ad approfondire i legami commerciali e finanziari fra Paesi, mentre la globalizzazione ha contribuito a diffondere l’uso della tecnologia» (International monetary fund 2007e, p. 156).
I nuovi strumenti
Gli importanti vantaggi che la finanza strutturata permette di ottenere, sia a chi domanda protezione contro il rischio di credito sia a chi tale protezione offre, contribuiscono a spiegarne la forte crescita dell’ultimo decennio. Essi consistono nella capacità di ripartire il rischio di credito su un’ampia base di soggetti, di contribuire al completamento del mercato, di accrescere la liquidità e di ridurre i costi delle banche e, infine, di fornire al mercato, attraverso i prezzi degli strumenti finanziari per il CRT, efficaci segnali circa la rischiosità delle attività finanziarie sottostanti. Al contempo, tuttavia, gli stessi strumenti presentano elementi di rischio: malfunzionamenti del mercato creati dalle accentuate asimmetrie informative che sono proprie della finanza strutturata, la complessità dei prodotti e l’opacità del mercato in cui essi sono trattati e, soprattutto, le difficoltà che s’incontrano nello stimare correttamente il rischio di credito; tali elementi possono, di fatto, vanificare i vantaggi potenziali offerti quando, per qualsiasi motivo, si abbiano perturbazioni del sistema finanziario.
I vantaggi. Data la loro fondamentale finalizzazione al controllo del rischio, gli strumenti per il CRT costituiscono un metodo poco costoso per ripartire il rischio di credito su un’ampia base d’investitori (banche, altri istituti finanziari, imprese, famiglie). La riduzione della concentrazione del rischio e/o una migliore composizione dell’attivo possono conferire al sistema finanziario maggiore stabilità e robustezza, soprattutto perché permettono di ridurre la vulnerabilità delle banche, che sono spesso all’origine delle crisi finanziarie e della diffusione di queste ultime all’intera economia.
Un secondo vantaggio, anch’esso di carattere sistemico, consiste nel fatto che la finanza strutturata crea un’offerta di strumenti finanziari altrimenti non disponibili sul mercato, o disponibili a costi sensibilmente più elevati. La finanza strutturata, infatti, consente di forgiare strumenti finanziari aventi caratteristiche (profilo di rischio, liquidità, rendimenti e flusso di cassa) tali da corrispondere quasi esattamente alle esigenze della domanda. Si dice, perciò, che gli strumenti per il CRT contribuiscono a completare il mercato perché ne attenuano la segmentazione. L’incompletezza del mercato si manifesta sia nella segmentazione dell’attitudine al rischio degli investitori, sia, in alcuni casi, nei vincoli normativi o statutari che impediscono a talune categorie di investitori istituzionali di effettuare investimenti in titoli rischiosi (come, per es., avviene per le imprese di assicurazione, che hanno vincoli anche stringenti all’investimento in azioni). Tale segmentazione del mercato crea opportunità di arbitraggio che possono essere sfruttate con l’emissione di strumenti di finanza strutturata. Gli strumenti per il CRT, offrendo i benefici della diversificazione (che si ottiene attraverso il pooling di attività diverse fra loro) e quelli della creazione di tranche con gradi crescenti di protezione dal rischio, contribuiscono al completamento del mercato.
La mobilizzazione dell’attivo del bilancio delle banche può produrre tre differenti tipologie di vantaggi economici. In primo luogo la riduzione dell’attivo di bilancio accresce la liquidità delle banche e aumenta, di conseguenza, il potenziale per la concessione di nuovi crediti. In secondo luogo la contrazione del volume dell’attivo, o la diminuzione della sua rischiosità a parità di volume, riduce l’ammontare di capitale regolamentare necessario a soddisfare i requisiti minimi di capitale a fini prudenziali. Infine, l’uso della finanza strutturata, avendo la potenzialità di creare strumenti a basso rischio, riduce il costo della raccolta dei fondi più di quanto avverrebbe se si impiessero tecniche più tradizionali.
I rischi. I problemi di malfunzionamento del mercato creati dalle asimmetrie informative possono essere particolarmente acuti nel caso dei contratti che prevedono il trasferimento del rischio. Questi possono influenzare sia le relazioni tra creditore e debitore, sia quelle tra chi compra protezione, il risk shedder, e chi vende protezione, il risk taker. Le asimmetrie informative possono pre-esistere alla stipula del contratto, e in questo caso si manifesta una situazione di selezione avversa, oppure possono emergere dopo la stipula del contratto per volontà di una delle parti, così da concretizzare il cosiddetto azzardo morale.
Per quanto riguarda le relazioni fra creditore e debitore, si può verificare una situazione di selezione avversa allorché il creditore, che ritenga di poter agevolmente trasferire il rischio, non esercita la dovuta diligenza nel vaglio dell’affidabilità del debitore. Se ciò avviene, e se il creditore trasferisce i crediti di cattiva qualità, trattenendo in bilancio quelli più sicuri, si ha selezione avversa anche nelle relazioni tra risk shedder e risk taker. Si ha, poi, azzardo morale nelle relazioni tra risk shedder e risk taker se il primo, dopo aver trasferito il credito, riduce o sospende del tutto l’attività di monitoraggio del debitore. L’incentivo a non condurre un’efficace attività di monitoraggio è, infatti, fortemente accresciuto dall’emissione degli strumenti per il CRT. Un’altra situazione di azzardo morale ha luogo quando il risk shedder può, se le clausole contrattuali lo consentono, sostituire attività che vengono a scadenza con altre di minor valore. Infine, si manifesta l’azzardo morale da parte del risk taker quando questi rifiuti il pagamento o intraprenda azione legale volta allo stesso fine (ciò può avvenire soprattutto se il contratto è incompleto, il che avviene quando mancano, o sono ambigue, le clausole che dovrebbero definire con precisione l’evento creditizio e/o i diritti e i doveri dei contraenti in tutti i possibili scenari).
Le due caratteristiche principali degli strumenti per il CRT, il tranching e il pooling, se per un verso costituiscono il fondamento dei principali benefici offerti da questi strumenti, per un altro contribuiscono a renderli così complessi da offuscarne l’inerente rischiosità. La costruzione di questi strumenti richiede, infatti, una dettagliata documentazione, transazione per transazione, al fine di consentire che tutte le loro proprietà (rischio, liquidità e mantenimento del valore, e gerarchia nei pagamenti per interesse e rimborsi di spettanza delle diverse tranche) siano rispettate in tutte le condizioni di mercato che possono plausibilmente verificarsi. Se, invece, la documentazione è poco dettagliata o incompleta, tali proprietà possono non essere incorporate nello strumento per il CRT, ed è quindi possibile che gli investitori non siano consapevoli dei rischi che essi corrono in particolari situazioni di mercato. Il mercato di questi strumenti, inoltre, è intrinsecamente opaco. Essi sono soprattutto trattati nei mercati over-the-counter (OTC) che, al contrario di quanto avviene nelle borse, non rendono noti i nominativi dei contraenti delle transazioni e i prezzi ai quali esse sono concluse. Queste caratteristiche dei mercati OTC rendono pertanto difficoltosa o impossibile la determinazione del prezzo sulla base di fattori fondamentali di mercato (price discovery), con effetti particolarmente negativi nei casi di crisi, proprio quando, cioè, la pubblicità dei prezzi diviene indispensabile per orientare gli operatori e contribuire a ristabilire condizioni ordinate di mercato.
La possibilità che i benefici potenziali degli strumenti per il CRT si realizzino nella pratica dipende in misura determinante dall’esattezza della stima del rischio e, quindi, dalla precisione con la quale questa stima è riflessa nei prezzi di mercato. È questo, però, uno dei punti deboli della finanza strutturata. I modelli statistici impiegati dalle agenzie di rating per la stima del rischio di credito sono complessi, poco trasparenti e scarsamente affidabili, riflettendo anche le difficoltà che s’incontrano, persino a livello accademico, nell’elaborazione di metodi di stima efficaci. Inoltre, i dati statistici necessari per la stima dei modelli sono carenti, nel senso che mancano molte serie storiche dei principali dati di base dei modelli e, quando esistono, coprono archi temporali troppo brevi per costituire la base di una rappresentazione statisticamente significativa della stima del rischio e della sua dinamica nelle diverse fasi del ciclo economico. Ma è soprattutto la difficoltà di stimare uno dei principali dati di input dei modelli, la correlazione dei defaults, che rende le stime poco affidabili. Inoltre, i modelli non tengono conto del fatto che le correlazioni stimate variano fortemente all’emergere di tensioni sul mercato. Pertanto i prezzi di strumenti ritenuti sicuri possono crollare in modo inaspettato, rivelando che l’esposizione al rischio era molto maggiore di quanto i detentori degli strumenti ritenessero al momento dell’investimento.
Questi rischi si sono materializzati bruscamente verso la metà del 2007, quando si è sviluppata una crisi che, partendo dagli strumenti connessi ai prestiti immobiliari concessi a prenditori con basso merito di credito (subprime mortgages), si è presto estesa a tutti i principali segmenti di mercato e alle principali economie (International monetary fund 2007a, 2007b).
La gravità della crisi va attribuita al simultaneo operare di diversi fattori.
In primo luogo, l’insufficiente vigilanza. Infatti, il mercato americano dei prestiti immobiliari subprime è stato movimentato per più del 50% da finance companies e brokers non soggetti alla vigilanza federale. Si è lasciata crescere, talvolta con espressioni di compiacimento, quella rilevante quota del sistema finanziario che la Federal reserve (Fed) non può «regolare, supervisionare e proteggere» (Wray 2007, p. 9). Non sorprende quindi che questi intermediari abbiano concesso crediti immobiliari, spesso di dubbia qualità: per es., L. Randall Wray (2007, p. 30, tab. 1) riporta che i subprime mortgages sono saliti da 190 miliardi di dollari del 2001, pari all’8,6% dei prestiti immobiliari totali, a 600 nel 2006, pari al 20,1%. Inoltre c’è stata scarsa vigilanza nei confronti delle grandi banche internazionali che hanno accumulato un rilevante ammontare di titoli a elevato rischio. In altri termini, si sono verificati seri malfunzionamenti del mercato, causati dalle asimmetrie informative (selezione avversa e insufficiente monitoraggio dei debitori) e dall’elevata concentrazione del rischio nelle principali banche, aggravate da diverse carenze nella gestione del rischio e da un’inadeguata vigilanza sulle stesse.
In secondo luogo, il generalizzato deleveraging, che, per l’operare dei meccanismi illustrati nel paragrafo Liberalizzazione e squilibri finanziari, ha rafforzato la pressione al ribasso dei prezzi delle attività finanziarie e degli immobili. L’imperfetta misurazione del rischio è stata improvvisamente rivelata dal crollo delle quotazioni e da successivi deprezzamenti degli strumenti circolanti sul mercato.
In terzo luogo, la repentina rarefazione della liquidità, che, in base ai meccanismi descritti nel paragrafo Orientamento al mercato dei sistemi finanziari, ha accentuato e accelerato la spirale viziosa della caduta delle quotazioni, dell’arresto delle contrattazioni finanziarie e dell’attività del mercato immobiliare. In particolare, venendo progressivamente meno la possibilità di finanziarsi sul mercato, le SPV hanno fatto ampio ricorso a linee di credito concesse dalle banche al momento dell’emissione dei titoli. Ciò ha costretto le banche a immettere di nuovo nel bilancio i prestiti precedentemente trasferiti alle SPV. Ne è derivato un ulteriore aumento delle occorrenze di liquidità, poiché la reintroduzione in bilancio dei prestiti subprime, e le relative perdite, hanno reso necessario un adeguamento della dotazione di capitale al fine di rispettare i livelli prescritti dalla regolamentazione prudenziale. I problemi di liquidità sono stati altresì acuiti sia dalla mancanza di trasparenza del mercato OTC (assenza di prezzi di riferimento e impossibilità di conoscere i soggetti esposti al rischio, e per quali importi), sia dall’inaridirsi (a causa dell’accresciuto rischio di controparte) del mercato interbancario dei fondi a breve termine.
Fondamentali nella spiegazione della crisi sono la complessità dei prodotti e le condizioni contrattuali di questi. In primo luogo, i crediti subprime venduti sul mercato erano suddivisi in blocchi di diversa qualità. Ciascun blocco, così, differiva nel rating di partenza. I vari blocchi, poi, erano venduti come componenti di un altro prodotto complesso (per es., un ABS o un CDO), che includeva crediti di altra specie e assistiti da garanzie diverse da quelle riguardanti i prestiti subprime. Infine, il CDO così composto poteva divenire parte di un CDO square, cioè di un nuovo CDO avente come componenti il CDO prima descritto e altre attività cartolarizzate. Si comprende pertanto che il prodotto finale immesso sul mercato avesse caratteristiche di rischio, liquidità, garanzie e condizioni di default risultanti da un inestricabile intreccio e sovrapposizione di caratteristiche elementari. In altri termini, il ‘segnale’ informativo circa la qualità del prestito subprime era sovrapposto e intrecciato con il ‘segnale’ informativo riguardante le altre componenti del prodotto finale. Ma teorie sull’aggregazione e la trasmissione dei segnali in queste condizioni non esistono.
La serie di inadempienze che ha innescato la crisi comprende anche il fatto che i prestiti subprime includevano clausole che forzavano il debitore a chiedere il rifinanziamento del prestito dopo 2 o 3 anni dalla stipula del contratto. Alla data di rinnovo, i contratti prevedevano un forte aumento dei tassi, che nella maggioranza dei casi non poteva essere sostenuto dai prenditori, generalmente persone a basso reddito. Il rinnovo, pertanto, poteva avvenire solo se i prezzi delle abitazioni fossero fortemente saliti, perché ciò avrebbe consentito ai debitori di ottenere guadagni in conto capitale e alle banche un aumento del valore dell’abitazione posta in garanzia. Tale meccanica contrattuale ha favorito la diffusione dei prestiti e la conseguente formazione della bolla speculativa dei prezzi delle case, ma ha operato in senso inverso quando questi ultimi hanno cominciato a scendere.
Per procurarsi i fondi necessari a dare continuità all’attività operativa, le banche, gli investitori istituzionali e gli hedge funds hanno dovuto pertanto ricorrere a vendite di titoli e azioni. La crisi si è estesa, in questo modo, a tutti i principali segmenti di mercato e ai Paesi più importanti (Dodd 2007). Al fine di contenere l’intensità della crisi e la sua diffusione geografica, le banche centrali hanno quindi deciso di aumentare fortemente la liquidità.
Ma tali interventi non sono stati sufficienti. La spirale involutiva dei mercati si è accentuata per i timori che le principali banche d’affari (security houses) degli Stati Uniti fossero fortemente sottocapitalizzate. Per attenuare tali timori, hanno avuto luogo diversi interventi su singole istituzioni. Nel settembre del 2008 le accentuate difficoltà d’approvvigionamento di fondi da parte delle due principali agenzie americane che operano nell’ambito del mercato immobiliare (Fanny Mae e Freddy Mac) hanno indotto le autorità statunitensi a metterle in amministrazione controllata nonché a fornire loro nuovo capitale. Nello stesso torno di tempo, a causa della forte sottocapitalizzazione, è fallita una delle security houses storiche, la Lehman Brothers. Come conseguenza si sono fatte più tese le condizioni sul mercato monetario, dove hanno avuto luogo forti disinvestimenti dai fondi monetari e si è bloccato quasi del tutto il flusso dei finanziamenti a breve; soprattutto, si è inaridito il mercato interbancario. Per evitare irrimediabili ripercussioni sul sistema finanziario internazionale, il governo americano è intervenuto a sostegno di un importante gruppo assicurativo (l’American International Group), che si era rivelato gravemente sottocapitalizzato a causa dell’eccessiva esposizione in titoli di finanza strutturata. Ma questi interventi non hanno arrestato le instabilità del mercato, che hanno coinvolto altre security houses. Merrill Lynch ha dovuto essere acquistata dalla Bank of America, e Wachovia da Wells Fargo. J.P. Morgan Chase, che in maggio aveva assorbito la banca d’affari Bear Sterns, ha acquistato la cassa di risparmio fallita Washington Mutual. Allo stesso tempo le autorità statunitensi hanno imposto a Goldman Sachs e a Morgan Stanley di trasformarsi in banche commerciali, affinché la Fed potesse esercitare su di loro una più stringente e costante vigilanza. Le due istituzioni hanno potuto così avere accesso a nuova liquidità presso la Fed stessa.
Inevitabilmente, la perturbazione finanziaria che aveva inizialmente colpito solo gli Stati Uniti si è generalizzata, interessando tutte le altre principali piazze finanziarie e numerosi Paesi emergenti, alcuni dei quali mostravano già da tempo significativi elementi di squilibrio macroeconomico (inflazione e disavanzi pubblici elevati) e fughe di capitali che generavano vistosi cali del tasso di cambio.
È divenuto così evidente che l’instabilità finanziaria richiedeva non più misure isolate a favore di singole istituzioni, ma piuttosto provvedimenti coordinati a livello internazionale, che coprissero i sistemi finanziari nel loro complesso.
Dapprima nel Regno Unito e poi in Europa e negli Stati Uniti, dove in precedenza era stata decisa la costituzione di un fondo per rilevare dalle banche parte degli attivi in sofferenza, sono state attuate misure che, pur mostrando diversità nell’ammontare delle risorse messe a disposizione e in taluni interventi di dettaglio necessari a fronteggiare situazioni specifiche, si sono basate su principi comuni, concertati a livello internazionale. In primo luogo i governi hanno preso l’impegno di fornire le risorse per la ricapitalizzazione di tutte quelle banche che ne avessero avuto bisogno. Gli interventi sono stati basati sull’emissione di azioni privilegiate da rimborsare entro un determinato periodo di tempo. Tali misure hanno il fine di attenuare il rischio di controparte e favorire la normalizzazione del flusso di fondi fra banche, imprese e famiglie. In secondo luogo sono state offerte garanzie pubbliche, anch’esse temporanee, sul debito di nuova emissione delle banche. Inoltre, le autorità hanno deciso di ampliare notevolmente sia i massimali dell’assicurazione dei depositi, sia le condizioni che assistono il credito di ultima istanza e l’uso delle anticipazioni a termine da parte delle banche centrali. Infatti, oltre all’ampliamento delle istituzioni che possono ricorrere al credito di ultima istanza, intervento già attuato negli Stati Uniti, le banche centrali hanno accresciuto la gamma degli strumenti finanziari che le istituzioni creditizie possono utilizzare come garanzia al momento della richiesta di liquidità dalla banca centrale. La Fed, poi, ha annunciato la creazione di un proprio SPV, finanziato da linee di credito della Fed stessa, per l’acquisizione di carta commerciale a tre mesi emessa da operatori statunitensi aventi rating non inferiore ad A1. Infine, le principali banche centrali hanno concordato l’uso di swaps in dollari assistiti da appropriate garanzie, per calmare le turbolenze sul mercato dei cambi.
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Si veda inoltre:
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