RITRATTO
. Antichità. - A noi moderni il ritratto si presenta come manifestazione individuale di vita; esso, come lo ha definito un critico francese, è l'isolamento non dell'uomo, ma di un uomo, che si afferma attraverso i segni caratteristici della sua fisionomia, è la liberazione dell'individuo dall'ambiente che lo circonda. Tale definizione però si può applicare soltanto parzialmente al ritratto antico; la "liberazione" dell'individuo, alla quale mira senza dubbio l'arte del ritratto nel suo pieno sviluppo, si effettuò assai lentamente nell'arte greca; anche nell'arte romana, che fu regina nel campo ritrattistico, questo concetto non appare pienamente realizzato se non in alcune determinate epoche.
Ai suoi inizî, il ritratto greco è una effigie priva di qualsiasi individuazione. In un tempo in cui pittori e scultori non sapevano ancora riprodurre con fedeltà le forme del corpo umano, la somiglianza fra effigie e soggetto non era neppure vagheggiata, e l'individuo veniva plasmato secondo un tipo prescelto di condottiero, sacerdote, atleta o altro. In tal modo la sua personalità, lungi dall'essere "liberata", era piuttosto obliterata da caratteristiche comuni a tutto un gruppo.
Alla menomazione della personalità, oltre l'imperizia degli artisti, contribuiva il concetto religioso che collegava ogni effigie alla divinità. La maggioranza dei ritratti dell'epoca arcaica era dedicata nei templi dalla famiglia o dal soggetto stesso del ritratto, e aveva quindi carattere votivo. Lo scopo era quello di prolungare per mezzo dell'immagine una presenza benefica, oppure di attirare sui dedicanti la protezione divina: sembrava quindi più necessario creare un'opera che fosse gradita agli dei, anziché una effigie più o meno somigliante al modello.
Una volta stabilito il concetto del tipo, l'arte ritrattistica greca non se ne liberò più: fu un perpetuo conflitto fra il tipo convenzionale e la spontaneità creatrice degli artefici. Differenza fondamentale fra il ritratto greco e quello romano è che nel primo viene eliminata ogni caratteristica individuale non consona al tipo stabilito, mentre nel ritratto romano è tradotto con cura ogni particolare - difetto o pregio che sia - atto a fissare la personalità del soggetto. È vero che anche i Greci si avviarono col tempo verso il realismo, ma fu un realismo temperato dalla nota idealistica, mentre per converso i Romani, anche trovandosi talvolta legati ad elementi tipici, sembrano sempre volersene liberare.
È del resto difficile valutare esattamente quello che nel ritratto si proponevano i Greci. Per noi moderni la testa, sede dell'intelletto e specchio dell'anima, costituisce la parte essenziale del ritratto per i Greci, preoccupati come erano di raggiungere una perfetta armonia del corpo umano, la testa era evidentemente in funzione del tutto.
Vero è che nelle arti minori - p. es., su monete e gemme - i Greci si applicarono a riprodurre la testa sola e l'adoperarono come protome e (almeno in tardissima epoca) come erma. Nondimeno nella grande scultura ritrattistica, che rappresenta una delle maggiori conquiste dell'arte greca, l'accento non è mai sulla testa a danno di tale o tal'altra parte del corpo, e può darsi che il busto - come lo concepirono i Romani - sarebbe sembrato loro stolta mutilazione del corpo umano, spezzamento violento dell'insieme armonico offertoci dalla natura. Per capire quello che fu il ritratto greco, bisogna seguirne dalle fonti il completo sviluppo.
Il ritratto greco. - Data la scarsità del materiale pervenutoci, è difficile stabilire se l'origine della ritrattistica greca sia da ricercare nelle arti del disegno o nella scultura. Può essere che la leggenda narrata da Plinio, secondo la quale una fanciulla innamorata profilò su una parete l'ombra del suo amante, e diede così origine al ritratto, contenga sotto forma puerile un fondo di verità, e che il ritratto sia nato appunto dalla skiagraphia o "pittura di ombre". Di una tale schiagrafia iconografica mancano veramente le tracce. Nondimeno preoccupazioni ritrattistiche vengono ad animare qualche disegno di stile corinzio, e non si può negare che la vivace immagine seduta di re Arcesilao (v.) di Cirene sulla celebre coppa, di fabbrica laconica, del Cabinet des Antiques miri in qualche modo a ricordare tratti individuali; e la stessa impressione fa il cosiddetto ritratto del medico Aineios (nome iscritto) su un disco marmoreo del Museo di Atene. La scultura greca primitiva, forse per la durezza del materiale, non offre nulla da paragonare con le vive effigie dei vasi dipinti.
Le numerosissime statue giovanili (cosiddetti κοῦροι), benché ricordi sepolcrali o votivi di individui, non possono essere chiamate ritratti, poiché nulla ci rivelano di uno studio della personalità. Lo stesso può dirsi delle κόραι dell'Acropoli, nonostante le notevoli diffetenze tra una figura e l'altra.
Un primo passo verso l'individuazione fu fatto nella Ionia asiatica, dove nella seconda metà del sec. VI a. C. i due grandi modelli orientali - il dio o monarca in trono con l'offerente in piedi - prestarono materia a sviluppi ritrattistici. Di quest'epoca sono le famose statue dei Branchidi nel British Museum, che rappresentano piccoli sovrani greco-asiatici e sacerdoti e sacerdotesse, seduti in posa frontale (vol. XXIII, p. 301). Fiancheggiavano l'ultimo tratto della Via Sacra che portava al Tempio di Apollo a Didima, e quindi la loro funzione architettonica richiedeva uniformità di tipo e di posa, ma ciascuna figura rivela qualche lieve differenziazione. La base di una delle statue maschili porta l'iscrizione: "Io sono Chares figlio di Kleisis, re di Teichioussa, ma la statua è di Apollo": orgogliosa affermazione di individualismo, temperato però dalla dedica, che doveva risparmiare al superbo Chares il rimprovero, tanto temuto dai Greci, di ὕβρις, o millanteria verso gli dei. Per lungo tempo l'effigie fu considerata appannaggio della sola divinità; la paura che venisse inflitto qualche castigo divino all'uomo che osasse elevarsi attraverso la propria immagine al disopra della sua comune umanità, ritardò sensibilmente lo sviluppo del ritratto in Grecia.
La statua trovata a Samo, che porta iscritto sulla base il nome di Aiake, quasi sicuramente il padre del famoso tiranno Policrate, è buon esempio del ritratto greco-ionico. Il tipo, che si riallaccia a tutta una schiera di effigie venute alla luce nelle isole e nelle regioni del Mediterraneo orientale, ebbe lunga durata: nel secolo V si ritrova nell'impressionante "Eraclito", indossante l'abito dei sacerdoti-re di Efeso (copia di epoca Antonina al Museo di Candia), e nel secolo IV influì sulla formazione del celebre Mausolo di Alicarnasso.
La soppressione di caratteristiche individuali si fece soprattutto sentire nel ritratto femminile, e qui neppure l'energico spirito innovatore degli Ioni riuscì a modificare la tradizione.
A Chares è concesso l'individuarsi, ma per le statue femminili tra i Branchidi basta che una, facendosi portavoce delle compagne, dichiari umilmente nell'iscrizione della base essere "tutte insieme dedicate" da un tale Hermesianax. Le statue arcaiche di donne rappresentavano tipi generici, e quando erano dedicate, secondo l'uso, a una divinità femminile (per es. la figura di Delo, ora ad Atene, innalzata ad Artemide da una Nicandra; vol. IV, p. 669), non è mai certo se l'effigie rappresentasse la dea stessa o la dedicante. Il tardo riconoscimento della donna come soggetto da ritratto, è un fatto tipico sia dell'arte sia del pensiero della Grecia. Solamente quando la donna acquistò importanza come moglie o madre di sovrani nelle monarchie dell'Oriente, e più tardi sotto l'impero romano, venne creata una ritrattistica femminile.
Ad Atene le figure sulle stele funerarie o votive della seconda metà del sec. VI e della prima metà del V sono individuate solo dalle iscrizioni (stele di Aristione, firmata dallo scultore Aristocle; vol. IV, p. 333), rappresentante il tipico guerriero in piedi; stele dipinta di Lysias, figurato come devoto di Dioniso col cantaro in mano (Atene); frammento dell'Acropoli, iscritto col nome del vasaio EU(phronios), ecc. La corrente ritrattistica si fece piuttosto sentire nel gruppo bronzeo innalzato ad Atene in onore dei tirannicidi, Armodio ed Aristogitone, del quale esiste un'eccellente copia marmorea a Napoli (vol. IV, p. 517). Più che nelle teste, nobili ma prive di ogni individuazione, le personalità si rivelano nel movimento dei due corpi, la cui mossa simultanea crea un unico ritmo, senza l'aiuto di qualsiasi contatto materiale tra essi. Anche l'Anacreonte della Ny-Carlsberg Glyptotek (copia della statua votiva che si vedeva sull'Acropoli), che ondeggia cantando, ebbro d'ispirazione, è caratterizzato dal movimento del corpo piuttosto che dall'espressione del volto.
Dopo il risveglio nazionale che fece seguito alla guerra persiana, nacque il desiderio di vedere riprodotto il sembiante di coloro che avevano contribuito all'egemonia di Atene.
Vero è che tra l'epoca di Armodio ed Aristogitone e quella di Conone non fu eretta nessuna statua onoraria dallo stato, almeno ad Atene (Demost., c. Lept., XX, 70); ma numerose furono le statue votive erette in segno di ringraziamento per le vittorie ottenute. A Delfi, secondo Pausania (X, 10, 1), il ritratto di Milziade si vedeva, fra gli dei e gli eroi attici, nel gruppo eretto con le spoglie di Maratona, e più tardi statue di Milziade e di Temistocle vennero poste nel Pritaneo (Pausania, I, 18, 3). Sono state ritrovate varie teste di strateghi attici, senza i corpi relativi, ma nessuna può considerarsi ritratto nel senso vero della parola e, come dimostra E. Pfuhl, il Milziade nell'affresco di Maratona del pittore Paneno (Plin., Nat. Hist., XXXV, 57) non sarà stato che il tipico guerriero dei vasi greci. La prima effigie di un condottiero militare, identificato dall'iscrizione, è quella di Pericle eseguita dallo scultore Cresila, ed eretta sull'Acropoli intorno al 437 a. C. La descrizione fattane da Plinio, dove dice che Cresila fece "l'Olimpio Pericle degno di tale appellativo", dimostra che questo era un ritratto idealizzato. Ciò che viene confermato dalle quattro repliche, comprese quelle eccellenti del Vaticano (R. Paribeni, Il ritratto nell'arte antica, XVIII) e del British Museum (vol. XI, pag. 842).
Oltre quelli di guerrieri o di atleti, pochi sono i ritratti dei grandi uomini che nel sec. V illustrarono Atene. I tre grandi poeti tragici furono raffigurati solo tre quarti di secolo dopo la morte di Sofocle e di Euripide (406 a. C.), in quanto a Fidia, egli non poté sottrarsi all'accusa di sacrilegio mossagli per avere osato introdurre il proprio ritratto nello scudo dell'Atena Parthenos. Benché l'aneddoto sia forse in parte apocrifo, dimostra che ancora nel sec. V il ritratto personale poteva essere considerato come atto di ὕβρις.
Altre creazioni del sec. V - tale l'Omero dagli occhi serenamente chiusi come indizio di cecità (già creduto Epimenide, vol. XIV, p. 95), o le nobili effigie di Alceo e Saffo su un vaso a figure rosse dell'Antiquarium di Monaco - hanno carattere puramente ideale, e appena rientrano nel campo ritrattistico. Di Esopo esiste l'effigie, ormai celebre, su una coppa del sec. V del Museo Gregoriano Etrusco, ma in essa predomina l'idea caricaturale, e la caricatura nell'antichità si basa piuttosto sull'esagerazione del tipo che sulla deformazione voluta di lineamenti personali. Che gli Ateniesi del sec. V si occupassero poco di individuazione o di ritratto lo dimostra il fregio del Partenone, ove dei e mortali sono foggiati sullo stesso modello. S'impone qui il confronto con i rilievi romani di epoca imperiale (ad es., sull'arco di Benevento) ove dei, personaggi imperiali e cittadini vengono chiaramente differenziati.
Nel sec. IV, in seguito al tramonto dell'imperialismo ateniese, si verificò un grande mutamento negli animi, attestato anche dall'arte ritrattistica. Le effigie di poeti, filosofi e letterati vennero allora a sostituire quelle dei grandi condottieri del secolo precedente.
L'influenza che le scuole filosofiche ebbero sulla Grecia del sec. IV ed oltre è paragonabile a quella che esercitarono gli ordini religiosi nella vita europea del Medioevo e del Rinascimento, e artisti vennero chiamati a ritrarre il sembiante degli uomini che soccorsero l'umanità nell'ora del suo smarrimento. Dove mancavano gli elementi per creare il ritratto, l'artista si valeva di tradizioni letterarie od orali; ne risultava quello che R. Bianchi Bandinelli chiama "ritratto di ricostituzione". Significativo a questo riguardo è il passo ove Plinio, scrivendo della passione dei Romani per le effigie di uomini illustri, aggiunge che quando queste venivano a mancare, esse erano inventate liberamente: pariuntque desideria non traditos vultus, sicut in Homero evenit (Nat. Hist., XXXV, 9).
Innumerevoli sono i ritratti di filosofi greci, pervenuti a noi attraverso copie eseguite in epoca romana per adornare biblioteche pubbliche e private. In maggioranza sono ridotti a forma di busto o di erma, e le teste, così staccate dal corpo, perdono sicuramente parte dell'espressività che derivava loro dalla posa oppure dalla mossa della figura intera.
Come le teste però anche le statue presentavano caratteristiche determinate: lo scopo prefisso non era tanto quello di rappresentare tale o tal altro filosofo, ma il filosofo di professione, severo, ma sereno e calmo, come conviene a un uomo esperto della vita, con barba dignitosa, indossante la semplice veste, che era l'abito di rigore dei saggi. (Per questi tipi convenzionali, v. Paribeni, op. cit., L I a, LVII a, b).
Nel ritratto di Socrate (Paribeni, XIX) abbiamo forse un compromesso fra tradizione e ricostruzione. Nelle Nuvole del suo contemporaneo Aristofane il filosofo fu semplicemente caricaturato come sofista magro e consunto; nei ritratti a noi pervenuti egli diventa invece un ometto grasso e vivace, dal naso di Sileno e dall'espressione ironica ma bonaria, concetto derivante probabilmente da tratti personali interpretati dal discepolo Alcibiade (Platone, Convito, 215 B; 221 E). Il più bello dei suoi ritratti, al Museo Nazionale Romano, potrebbe essere copiato dall'originale attribuito a Lisippo. I numerosissimi busti di Platone (v. tav. LXXXV) - tutti forse da riferirsi all'originale dello scultore Silanione - mancano totalmente d'impronta personale: mentre la loro espressione severa e amara sembra creata per far contrasto con la fisonomia di Socrate, le linee un poco pesanti della parte inferiore del viso rivelano una voluta somiglianza tra i due filosofi, fenomeno dovuto alla tendenza di assimilazione tra i ritratti di maestri e discepoli. Una più forte assimilazione si nota fra Aristotele e Teofrasto (v. tav. LXXXV), fra Epicuro e gli scolari Metrodoro (Paribeni, op. cit., p. 7, fig. 8) ed Ermarco (Paribeni, p. 6, fig. 7), fra Diogene e Antistene; se non si ricercava la personalità dei filosofi, si tentava almeno di rilevare l'individualità delle varie scuole. Nel ritratto di Aristotele (v. IV, p. 347, figura) si constata un primo sforzo di interpretazione psicologica, che nel periodo seguente conduce a un ulteriore sviluppo dell'arte ritrattistica: le forme facciali ben delineate, l'occhio, che sembra vedere le cose come sono, ordinandole secondo un rigoroso sistema, illustrano meravigliosamente il pensiero filosofico di Aristotele. Ma nemmeno questo si può chiamare ritratto nel senso moderno: del resto, come potrebbe esserlo se lo stesso filosofo (Poetica, 1454, 8) sostenne che il buon ritrattista, mentre riproduce le fattezze peculiari del modello, è tenuto ad abbellirle, asserto di cui è semplice ripetizione l'elogio tributato da Plinio all'arte di Cresila?
Con il gruppo degli stoici siamo vicini all'epoca ellenistica, quando un nuovo interessamento per l'individuo risulta in una certa liberazione dai tipi convenzionali. Di Zenone esistono solamente ritratti di ricostruzione (Paribeni, p. 8, fig. 9); dei ritratti di Cleante, numerosi secondo Giovenale (Sat., II, 7), non si è potuta finora ritrovare una copia; il ritratto di Crisippo però (v. tav. LXXXV), ricostruito con l'aiuto di una statua del Louvre, impressiona per la sua sincerità; migliori versi0ni della testa rivelano uno studio, finora sconosciuto nel nostro repertorio di ritratti greci, di un vecchietto dallo sguardo penetrante, dal viso emaciato e ironico, che ricorda più che un'opera antica il Voltaire di Houdon. Il filosofo è rappresentato seduto, il corpo proteso in avanti e scarsamente coperto dal manto che lascia nudo il petto scarno, atteggiamento che dà nuova forza alla testa già così espressiva. Ma anche il ritratto di Crisippo quasi sembra privo di vita individuale, se confrontato con quello del grande stoico Posidonio nel suo busto di Napoli (Paribeni, LXVI), ove l'uomo stesso viene interpretato secondo il suo pensiero filosofico. Posidonio fu il filosofo prediletto dai Romani e, come ben nota la critica moderna, il suo ritratto è già pervaso da un nuovo soffio creatore, proveniente dall'influsso esercitato fin dal sec. II a. C. dalla ritrattistica romana.
Affini a quelli dei filosofi sono i ritratti dei poeti, ugualmente ricercati dai Greci e dai Romani. In primo luogo quelli dei tre grandi tragici: Eschilo, Sofocle ed Euripide, che godevano fama non solo di poeti, ma anche di profeti e di riformatori religiosi. Di essi l'oratore Licurgo nel 330 a. C. fece eseguire statue in bronzo nel teatro di Dioniso ad Atene: dell'Eschilo non si è ritrovata finora traccia sicura, ma nella celebre statua del Laterano abbiamo senza dubbio la copia del Sofocle del gruppo licurgeo (Paribeni, XXV). Il poeta, raffiggurato come gentiluomo elegante e raffinato, è il tipo del cittadino fortunato, che ha trascorso la sua vita tra la poesia e il servizio dello stato; la testa è nobile, ma forse, perché molto rifatta, è vuota di espressione, e la posa del corpo è la stessa della statua dell'oratore Eschine di Napoli (Hekler, Bildniskunst, 33).
La testa di Euripide, generalmente ritenuta quella della statua appartenente al gruppo di Licurgo, offre un voluto contrasto col Sofocle lateranense, raffigura Euripide secondo la tradizione, che ne fa un misantropo amareggiato e arcigno, in continuo conflitto con l'ordine delle cose (Hekler, 89). Un altro aspetto del poeta, che fu anche difensore dei deboli e paladino della donna, ci è dato però dalla bella testa di Napoli con le sue repliche (v. euripide, XIV, p. 574, fig.). Può darsi che questo tipo più mite abbia appartenuto a una statua seduta, imitata poi nel rilievo del Louvre, che porta iscritti i titoli delle tragedie del poeta.
La statua seduta (oggi alla Ny-Cafisberg Glyptotek, Copenaghen; cfr. Hekler, 109) di un poeta, che sembra ascolti rapito le proprie melodie, rivela un nuovo elemento e motivo, il quale giunse alla sua espressione suprema in quella testa di Omero - belle copie a Napoli (v. omero, XXV, pag. 330, figura) e a Boston (Hekler, 118 a) - ove il poeta, con gli occhi spenti al mondo sensibile, alza il suo sguardo verso una visione trascendentale: concetto della cecità che contrasta vivamente con quello dalle palpebre serenamente chiuse, ideato nel sec V. È ritratto di emozione esternata. All'Omero si riallaccia per lo stile la testa di un vecchio poeta dal volto sofferente e deluso, dal collo magro e grinzoso, dai capelli spioventi e dalla barba incolta, celeberrimo a giudicare dalle numerose copie del suo volto, ma non ancora identificato (Paribeni, XXXV).
Nel periodo ellenistico il tipo del poeta si staccò da quello del filosofo, e venne creata l'effige del poeta giovane e imberbe, quale lo vediamo nella testa coronata di edera, al British Museum (cat. 1852) e in quella del cosiddetto Menandro, ambedue pervase dal pathos ellenistico. Nell'affresco pompeiano - copia forse del ritratto dipinto nel Pompeion di Atene - lo stesso Menandro, rappresentato ancora più giovane, è seduto in posa di dolce torpore.
I ritratti degli uomini politici non hanno lasciato tracce così vive come quelli dei filosofi e poeti. Della posa convenzionale della statua dell'oratore Eschine si è già parlato. Per contro la statua di Demostene ideata dallo scultore Polieucto (v. demostene, XII, p. 205, fig.), rivela anche attraverso le copie motivi sicuramente osservati dal vero. L'oratore in piedi, pensieroso e con la testa inclinata, tiene le braccia stese dinnanzi a sé, con le mani strette in un gesto che raccoglie la vibrazione nervosa di tutto il corpo e impone alla composizione il suo pieno significato. Si potrebbe definirlo ritratto di emozione concentrata. Il labbro superiore sporgente accenna forse alla balbuzie del grande oratore; dato però che la statua fu eseguita più di quarant'anni dopo la morte di Demostene, non possiamo fidarci troppo di essa come ritratto autentico; la testa dimostra del resto stretta parentela con quelle contemporanee di poeti e filosofi, e quasi è replica della testa di una stele attica del museo Barracco. In quanto ai numerosi busti di storici e di altri letterati - tale la doppia erma di Tucidide ed Erodoto a Napoli (Hekler, 15), ed i varî ritratti dei Sette Saggi, ecc., - questi si riconoscono, per le loro affinità col gruppo dei filosofi e poeti, essere ritratti di ricostruzione, i migliori dei quali sono anche significativi studî di carattere, plasmati senza dubbio con l'aiuto di modelli viventi (ad es., la bella testa di Napoli, Hekler, 13 a).
La tendenza all'individualismo, che nel sec. IV si diffondeva per tutto il pensiero greco, doveva per forza influire sull'arte ed in particolar modo sulla ritrattistica; questo è confermato dalla tradizione letteraria.
In uno dei suoi "Caratteri" Teofrasto ci mostra l'adulatore (Caratt., II, 35), il quale nelle sue visite non manca mai di lodare la somiglianza parlante dei ritratti di famiglia. Luciano e Plinio criticano il realismo dei ritratti dello scultore Demetrio di Alopece, di cui diceva anche Quintiliano che egli alla bellezza preferiva la somiglianza: giudizio che fa riscontro all'elogio tributato da Plinio a Cresila per aver nobilitato gli uomini, e al detto aristotelico che nel ritratto si vuole l'abbellimento del modello.
Di Lisistrato fratello di Lisippo si racconta come, per ottenere ritratti somiglianti, solesse trarre maschere dal vero. Infatti un nuovo senso di realtà sembra animare qualche testa dell'epoca (ad es., quella creduta di Olimpiodoro vincitore nella battaglia di Elatea nel 305 a. C.: v. tav. LXXXV). Anche nella ritrattistica femminile si avverte verso la fine del sec. IV un primo bagliore di realismo: una testa di vecchia sacerdotessa (?) al British Museum (v. tav. LXXXVI), se non può ancora dirsi reale ritratto, è sempre un penetrante studio di donna in età avanzata: le borse gonfie sotto gli occhi portano tracce di vita dolorosa, e le linee amare della bocca esprimono il lungo travaglio di passioni ormai spente.
Nel sec. IV, nelle fiorenti monarchie alla periferia del mondo greco, la frequente richiesta di effigie non più del monarca soltanto, ma anche della consorte, dei figli e dei cortigiani, dovette estendere man mano lo scopo dell'arte ritrattistica.
Il ritratto di Mausolo, satrapo della Caria, è certo il più significativo pervenutoci dall'arte greca del sec. IV, essendo un originale di mano di un grande maestro, forse di Leocare, uno dei quattro scultori che collaborarono al mausoleo di Alicarnasso. Sembra rappresentare fedelmente il satrapo dal corpo pesante, dal viso non ellenico, dalla chioma ondeggiante che lascia libera la fronte bassa, tutto pervaso dall'espressione trasognata degli orientali. La statua di Artemisia, consorte-sorella di Mausolo, nonostante il viso interamente mutilato, fa nobile riscontro all'effigie del dinasta. Intorno a queste due figure centrali si trovava aggruppata tutta una galleria di ritratti: principi della casa reale, guardie del corpo e forse anche membri del parentado; vediamo qui anticipati gli aggruppamenti di personaggi imperiali dell'arte ritrattistica romana. Una corrente ancora più realistica, che non si arrestò nemmeno dinnanzi a fisionomie qualche volta brutali e quasi repugnanti, si fa sentire più tardi nelle monete disegnate da artisti greci per i re del Ponto, della Cappadocia, della Battriana, fatto che dimostra essere i Greci capaci di realismo, quando lavoravano al di fuori degli influssi religiosi e tradizionali che plasmarono l'arte greca.
Con Alessandro Magno si apre una delle fasi più suggestive nella storia del ritratto. Il più bel ritratto di Alessandro a noi pervenuto pare sia quello della moneta (tetradramma) di Lisimaco, testa di carattere divino, cornuta come conviene al figlio di Zeus Ammone, le cui linee essenziali (naso fortemente aquilino, labbra arcuate, mento energico, grande occhio aperto, sguardo intenso, chioma leonina) serbano certamente la sembianza del modello. Perfetta liberazione qui da ogni tipo precedente. Gli stessi lineamenti si ritrovano nelle due belle teste del British Museum (cat. 1857; v. tav. LXXXVI) e di Atene (Hekler, 63), mentre i due ritratti oggi al Museo d'Instanbul (testa prov. da Pergamo, v. lisippo, XXI; statua prov. da Ma-. gnesia, Hekler, 64) sembrano pervasi da malinconia orientale che ricorda il Mausolo. Della statua eseguita da Lisippo, il quale condivise con il pittore Apelle e con l'incisore di gemme Pirgotele il diritto di essere i soli ritrattisti ufficiali del gran re, non si è finora ritrovata una copia. Della più celebre però, l'Alessandro poggiato alla lancia (l'erma del Louvre non è che miserrima versione della testa: v. alessandro, II, p. 330, fig.), lo schema generale sembra riprodotto nella grande statua bronzea del Museo Nazionale Romano di un Diadoco (per la testa, Paribeni, XXXVIII; v. bronzo, VII, tav. CCVII; v. anche l'imponente statua di Alessandro nudo trovata a Cirene, Paribeni, XXXII, v. cirene, X, tav. CXVIII, per la testa). Nel noto musaico di Pompei Alessandro è rappresentato a cavallo - la chioma al vento - esaltato dal tumulto della battaglia ed esultante nella vittoria, in contrasto con il re Dario, tragica figura questa, travolta dall'angoscia della sconfitta (v. alessandro, II, p. 333, fig.). Impressionanti sono due altre effigie di Alessandro cavalcante, sul più bello dei sarcofagi di Sidone (v. alessandro, II, p. 332, fig.). Tale fu il prestigio di Alessandro che i ritratti ufficiali dei "successori" furono foggiati sulla sua effigie: si vedano, ad es., nel Museo Nazionale di Napoli il Seleuco I Nicatore (Paribeni, XXXVII), il cosiddetto Pirro re d'Epiro (v. pirro, XXVII, p. 385, fig.) e la testa già creduta di Arato (Hekler, 73), che raffigura però un condottiero di epoca ellenistica, forse Lisimaco. Finalmente Mitridate VI, re del Ponto (120-63 a. C.), si fece rappresentare con i capelli ricciuti e svolazzanti nelle sembianze proprie di Alessandro, e più di un imperatore romano si mostrò ambizioso di qualche assimilazione al Macedone.
Fuori però di questa ritrattistica d'indole aulica, il periodo di Alessandro, che aprì al vecchio mondo ellenico orizzonti fin allora sconosciuti, suscitò un nuovo interessamento per genti barbare e figure non europee: Egiziani, Etiopi o negri dell'Africa vennero allora ad arricchire il vecchio repertorio. Già nei periodi precedenti negri avevano fatto apparizione sporadica nell'arte greca, ma piuttosto come figure umoristiche o come elementi decorativi; fu l'arte ellenistica che ne scoprì il carattere più intimo. Dal tempio di Apollo a Cirene proviene la testa bronzea di un Libico (British Museum, Paribeni, fig. 11), nella quale si osserva un profondo studio di caratteri razziali, unito però a una tendenza idealistica che vuol eliminare particolarità individuali. Dopo la conquista della Grecia nel 146 a. C. lo stile ellenistico va piegandosi lentamente all'ammaestramento romano, come, ad es., nella testa ultimamente trovata ad Atene o nelle statue di Delo che ricordano l'Arringatore di Firenze. Accanto però a questa ritrattistica, ove continua a dominare l'elemento greco, una più prettamente italico-romana si diffonde attraverso i paesi ellenici e tutto il retroterra greco-asiatico. Anche a Hadda nel lontano Afghānistān, ai confini delle regioni aperte da Alessandro alla cultura greca, si sono trovate teste di terracotta di carattere italico-romano del tempo della repubblica (v. tav. LXXXVI; J.-J. Barthoux, Fouilles de Hadda, 1930, p. 60).
Il ritratto italico preromano. - Il ritratto romano, come quello greco, ebbe un lunghissimo periodo di sviluppo. Se ne deve ricercare la genesi tra le antiche genti italiche, ove da principio dominava l'idea che l'esistenza dei morti nell'oltretomba dipendesse in gran parte dalla permanenza della loro immagine tra i viventi. A Chiusi, per es., sono stati ritrovati in grande quantità vasi sepolcrali di tipo villanoviano che dal sec. VII in poi tendono a trasformarsi in effigie umane. Dapprima sono adorni di una semplice maschera funeraria, forse plasmata sul viso del defunto, la quale però si va lentamente tramutando in testa, anzi tutta l'olla diventa qualche volta una specie di statua sepolcrale. Le teste di queste urne o canopi (v.) sono spesso impressionanti per l'accurata osservazione dei lineamenti personali. Ci troviamo agl'inizî del ritratto italico.
In altre parti dell'Etruria, dove albeggiò di buon'ora l'influsso greco, le figure sdraiate, a grandezza naturale, che sormontano i sarcofagi, richiamano modelli ionico-greci, trasformati però in rispondenza al gusto realistico degli Italici (sarcofagi da Caere al museo di Villa Giulia in Roma: v. etruschi, tav. LXXXIV in alto, e al Louvre). Dal sec. III in poi prese il sopravvento lo stile naturalistico italico, tanto nella ritrattistica sepolcrale (cosiddetto obesus Etruscus: v. etruschi, XIV, p. 533, fig.; Lartia Seianti a Firenze: v. cintura, X, p. 380, fig.), quanto in quella dei vivi (testa bronzea di ragazzo a Firenze, statue di fanciulli, e innumerevoli teste votive in terracotta studiate da G. Kaschnitz-Weinberg) fino a che si giunse circa al principio del sec. I a. C. all'Arringatore (v. etruschi, XIV, tav. LXXXVI), dove la nota realistica romana viene ad arricchire il naturalismo italico.
Quanta importanza ebbe la testa per gli Italici lo si vede da quelle strane urne cinerarie a foggia di piccolo sarcofago, trovate in gran numero a Volterra, ove il corpo, rimpiccolito e rannicchiato come su un letto di Procruste, è completato da un'enorme testa; concezione mostruosa della forma umana, ma che rappresenta il desiderio di dare alla testa il suo pieno valore. In qualche esempio non si esita a riprodurre con spietato acume difetti fisici e tare morali, come nella celebre coppia maritale (v. etruschi, XIV, p. 533, fig.) in cui un vecchio contadino mezzo rimbambito guarda con occhi ebeti la moglie astuta e pettegola. Realismo ad oltranza già dovuto forse ad influsso romano.
Lo stesso desiderio d'individuazione si ritrova in tutta l'arte dell'Italia centrale e meridionale: ad es., nella testa bronzea di uomo del sec. II trovata nel Sannio a Bovianum Vetus (oggi a Parigi, Cabinet des Antiques; v. tav. XCII), testa affine ai ritratti italo-etruschi contemporanei, malgrado l'elemento ellenistico nella capigliatura; mentre nelle due statue del sec. I a. C. provenienti dal Sannio (Museo Nazionale di Napoli) un rozzo naturalismo italico-provinciale è già venuto a fondersi con un realismo di espressione prettamente romana.
Il ritratto in Roma. - In Roma il culto dei morti influì sulla formazione del ritratto più che altrove. Da un remoto periodo, di cui non si può nemmeno fissare la data, si usavano plasmare maschere mortuarie sul volto dei defunti, le quali venivano poi lavorate con l'aggiunta dei dettagli obliterati dalla morte; gli occhi chiusi venivano riaperti e alle volte riempiti di pupille di smalto; le orecchie anche erano interamente da rifare, ciò che spiega forse il notevole distacco tra orecchie e cranio, solito nei ritratti romani. In tale processo di rianimazione era naturale voler migliorare un po' la natura esagerando la realtà fino ad arrivare al "verismo". Una volta elaborate, le maschere, comunemente dette imagines (v. immagine: Le immagini degli antenati), avevano un determinato scopo religioso. Si custodivano nell'atrio dentro armaria (cfr. la stele di Petronio al Museo Nazionale Romano), e secondo Polibio si usava farle portare nei cortei funebri da manichini indossanti l'abito dei defunti (consoli, trionfatori, ecc.). Dovendo alle volte fungere in questi cortei anche antenati leggendarî, quali Enea, Romolo o i re di Alba, le loro imagines si plasmavano senza dubbio in conformità con le altre.
Dall'imago ebbe origine il busto (v.) romano, sul quale influì pure il canopo (v.) chiusino; e forse l'imago, come era ricostruita per i cortei funebri, fornì spesso il modello per le numerosissime statue di personaggi, sia mitici sia storici, delle quali ci dànno notizia le fonti. Importantissima derivazione dalle imagines nei loro armaria sono le pietre tombali, ove uno o più busti o mezze figure vengono disposti dentro edicole. Il tipo, che perdura fino al secolo II d. C., ebbe grande diffusione nelle provincie dal tempo di Augusto in poi, e ci offre un prezioso repertorio ritrattistico non ancora abbastanza sfruttato. Altra forma di ritratto sepolcrale era l'imago clipeata, la quale da semplice maschera mortuaria affissa ad uno scudo si trasforma col tempo in ritratto, sia dipinto sia modellato, entro una cornice circolare (v. tav. LXXXVII). Immagini incorniciate da medaglioni sono talvolta allineate, come sulla pietra tombale trovata nel 1932 nei Mercati Traianei (Paribeni, LXXXII). Come l'edicola rettangolare, così il clipeo ed il medaglione con le loro variazioni, trovarono lungamente favore, e dai sarcofagi del tardo impero passarono nell'arte cristiana. I segni della maschera mortuaria si riconoscono dal naso piegato alla punta, dalle guance incavate, che si notano nei ritratti sepolcrali (stele di Petronio al Museo Nazionale Romano, di Settimio alla Ny-Carlsberg Glyptotek), ed anche in qualche ritratto a tutto tondo (Paribeni, pp. 88, 93, 85). Ma nemmeno la ritrattistica poteva rimanere legata ad un concetto così materiale e macabro della fisionomia umana, e col tempo venne modificata dalle correnti naturalistiche che dal sec. II in poi presero il sopravvento nell'arte romana.
Primo notevole esempio di tale compenetrazione tra realismo e individualismo lo abbiamo nel cosiddetto Bruto del Palazzo dei Conservatori (v. etruschi, XIV, p. 534), stupenda creazione che contiene in sé ogni qualità essenziale del ritratto romano. Le effigie tombali forniscono esempî delle varie fasi della ritrattistica repubblicana, nella quale s'infiltrarono anche elementi ellenistici: stele di via Statilia al Palazzo dei Conservatori, stele del panettiere Virgilio Eurisace al Museo Nazionale Romano; pietra tombale dei Furî al Laterano (Paribeni, LXXXII); mezze figure a tutto tondo di due liberti, già detti "Porzia e Catone" al Vaticano (vedi busto, VIII, tav. XXIII, in alto, ecc.). Nei circoli aristocratici però, ove da lungo tempo dominava il filellenismo, gli alti personaggi bramavano essere effigiati da artisti greci. Di una certa Iaia (v.), nativa di Cizico, pittrice molto di moda a Roma durante la giovinezza di Varrone, narra Plinio che essa dipingeva ritratti - preferibilmente di donne - col pennello ed anche con il cestro su avorio. Questi ultimi erano probabilmente "miniature" nel medesimo stile delle effigie inserite da Varrone e da Pomponio Attico nelle loro raccolte di imagines illustrium virorum. I ritratti di Pompeo Magno (Ny-Carlsberg Glyptotek; v. pompeo, XXVII, p. 838, fig.), di Cicerone (Paribeni, CII, CIII) e forse anche di Cesare (del quale però non esiste sicura effigie contemporanea all'infuori delle monete) possono dirsi opere quasi di stile ellenico, ispirate però a un concetto realistico e tutto romano dell'individuo.
È difficile rintracciare la formazione del ritratto femminile romano: di maschere mortuarie di donne non si sa nulla, benché le figure femminili di qualche stele sembrino portarne traccia (pietra tombale di Vibius al Vaticano). Nell'ultimo secolo della repubblica, quantunque la moda imponesse alle donne vestiti e atteggiamenti ellenistici, il viso femminile incomincia a risentirsi del circondante naturalismo. Importante il gruppo di busti di stile naturalistico ultimamente studiato da R. Bianchi Bandinelli: tra questi si notano tre deliziosi ritratti di ragazze dalla semplice pettinatura repubblicana, dai lineamenti ben individuati, dallo sguardo chiaro e tranquillo (musei di Berlino, Parma e Museo Torlonia), gruppo al quale sembra si ricolleghi l'interessante testa di donna anziana della Ny-Carlsberg Glyptotek (Hekler, 201). La serie si chiude con il ritratto di Ottavia (Paribeni, 121), sorella di Augusto e moglie di Antonio, ove la semplice treccia che nasconde la scriminatura nella testa parmense si trasforma in un nodo sulla fronte, segno distintivo delle signore del periodo del secondo triumvirato: testa di basalto di Ottavia al Louvre (Paribeni, LXX), testa di donna grassa e attempata della Ny-Carlsberg Glyptotek (Hekler, 208), ritratti di Livia giovane, imitati poi nel bronzo di Neuilly-le-Réal (Paribeni, fig. 23).
La concezione sovrana del ritratto romano si realizzò in quello dell'imperatore. Tutte le correnti italiche, romane e greche si fusero in un supremo sforzo creativo allo scopo di foggiare non un essere quasi divino come Alessandro, ma un ritratto che rialzasse alla loro massima potenza le caratteristiche del principe. Magnifico esempio di questo ci offre l'Augusto di Prima Porta, una delle più grandiose creazioni dell'arte ritrattistica (v. augusto, V, tavola LXXXIV, a destra). L'imperatore, la cui espressione calma e serena nulla ha dell'emozione o del pathos ellenistico, sta davanti alle sue truppe, non parlando loro (la bocca è chiusa), ma piuttosto nel momento precedente l'allocuzione. La linea del cranio studiata dal vero, è alquanto irregolare, la fronte è ampia, l'ossatura del volto possente, il naso arcuato (eminens, dice Svetonio), le belle curve energiche della bocca e del mento modellate con squisita perizia. È un capolavoro originale, formula compiuta di un nuovo concetto di significato imperiale. L'imperatore riveste sopra la corta tunica una corazza adorna di rilievi ricordanti il suo primo grande successo diplomatico, il riscatto cioè delle insegne romane conquistate dai Parti, avvenuto nel 19 a. C., data verso la quale si crede eseguita la statua (v. armi, IV, p. 481, fig.). Ugualmente impressionante è la magnifica testa di Ancona (Paribeni, CXIII), rappresentante l'imperatore come pontifex maximus, nell'atteggiamento della nota statua scoperta a Roma nella Via Labicana, ora al Museo Nazionale Romano (v. augusto, V, p. 349).
Certo non tutti i ritratti di Augusto furono foggiati allo stesso modello, anzi le loro varietà stilistiche sono sorprendenti: la bella testa di Chiusi (v. tav. LXXXVII) e quella bronzea della Biblioteca Vaticana, tutte e due lavori originali, accusano parentela con opere italiche. Per contro, la testa bronzea, proveniente da Meroe nel Sudan, pare opera greca, nella quale la linea irregolare del cranio e la forte ossatura del volto sono temperate da un desiderio di tradizionale simmetria; solo i grandi occhi luminosi di onice riproducono lo sguardo intenso, del quale, ci dice Svetonio, si vantava Augusto (Paribeni, tav. CXI). In una terza testa bronzea, trovata insieme con una di Livia a Neuilly-le-Réal, ora al Louvre - opera di qualche officina gallica - i tratti dell'imperatore sono alterati dall'alquanto rozzo stile provinciale (Paribeni, p. 21, fig. 23).
Come già le effigie di Alessandro, quelle di Augusto influirono sui ritratti dei contemporanei, dei congiunti e dei successori, senza però che tale assimilazione togliesse loro l'individualità personale. Il carattere risoluto e intellettuale di Agrippa (testa di Butrinto; testa del Louvre, Paribeni, CXIX), la grazia di Tiberio adolescente (testa a Boston) e la sua amarezza in età più avanzata, la bellezza un po' pazzesca di Caligola (Ny-Carlsberg, cat. 637ª), la saggia fisionomia di Claudio (Leptis Magna) non vengono seriamente inceppate dall'evidente impronta augustea. L'interesse si concentra nel volto: il corpo, sia la statua togata o loricata, ha poco movimento e serve piuttosto di sostegno alla testa; quando la statua è nuda o mezzo drappeggiata, generalmente non è altro che la ripetizione convenzionale di qualche statua greca, e le statue imperiali, come quelle dei principi ellenistici, potevano assumere proporzioni colossali.
Una più libera interpretazione dell'individuo si ritrova nei ritratti di privati: ad es., il bel ritratto di epoca augustea a New York; l'attore Norbanus Sorex (da non confondere con l'attore Sorix, amico di Silla) da Pompei, di epoca tiberiana (Paribeni, XCVIII); il banchiere Cecilio Giocondo da Pompei (Paribeni, CLXVII), meravigliosa interpretazione di uomo volgare, ma astuto, di epoca neroniana.
Meno interessante della ritrattistica maschile è quella delle donne; le effigie delle dame imperiali, con le loro parrucche ondulate alla greca e le arie convenzionali imposte dalla vita di corte, hanno perduto qualcosa della robusta freschezza dei ritratti repubblicani. Attraverso l'artificialità del concetto artistico però, traspare nei migliori ritratti - quali la Livia della Ny-Carlsberg Glyptotek l'Agrippina seniore di Cirene (Paribeni, XXXVI), l'Agrippina minore dell'Antiquario Romano -, una fine osservazione del carattere, mentre la Minazia Polla del Museo Nazionale Romano (Paribeni, CXXVIII) o la giovinetta rappresentata sotto le vesti di Diana dello stesso museo (Paribeni, CXXXI) sono attraenti interpretazioni d'ingenua giovinezza.
Bellissima in questo periodo è la ritrattistica dei bambini la quale, iniziata dagli Etruschi, dovette ricevere un forte impulso dal doppio affetto di Augusto per i fanciulli imperiali, speranza della dinastia e per la proles italica, pegno di prosperità nazionale (v. i bambini dell'Ara Pacis nell'annessa figura e in ara pacis, III, tav. CCVII).
I raggruppamenti ancora poco studiati di personaggi imperiali o di grandi famiglie erano allora in gran moda; tra i più noti sono il gruppo trovato a Formia (Museo di Napoli); quello proveniente da Velleia, di epoca tiberiana (Museo di Parma); quello da Cerveteri, di epoca claudia (Laterano). Altri esempî si ritrovano in Grecia: a Corinto, a Olimpia e a Candia. La disposizione di tali raggruppamenti si lascia indovinare dal rilievo di Ravenna di epoca claudia (v. augusto, V, p. 352). Le statue venivano semplicemente giustapposte senza alcun tentativo di composizione organica. Per contro i grandi gruppi imperiali sui cammei, quali quelli di Vienna (vedi cammeo, VIII, tavola CIX in basso) e il "Grand Camée" della Biblioteca Nazionale di Parigi (v. apoteosi, III, tav. a colori), sono composti con senso quasi pittorico, essendo forse imitati da pitture trionfali dell'epoca.
Della pittura ritrattistica del periodo augusteo-giulio-claudio, oggi quasi perduta, ci offrono saggi qualche affresco pompeiano, come la celebre coppia di Terenzio Neo (già Paquio Proculo) e sua moglie al Museo Nazionale di Napoli (Paribeni, CLXX), e il Virgilio del musaico di Sousse, in Africa, ora al Museo del Bardo, che sembra riproduca un'effigie coeva del poeta, e nel quale la severità italica dei lineamenti e dell'atteggiamento non va dispersa per essere Virgilio raffiggurato seduto alla greca, col rotulo in mano, come, p. es., il Menandro pompeiano della casa che da lui prende nome.
Plinio riferisce (Nat. Hist., XXXV, 93) che in due quadri di Apelle esposti nel Foro di Augusto e rappresentanti Alessandro, le teste vennero sostituite per ordine di Claudio con quella di Augusto, e secondo lo stesso autore (Nat. hist., XXV, 51) Nerone si fece dipingere su una tela (in linteo) alta 120 piedi. Di ritratti dipinti però di personaggi imperiali non esiste traccia, benché ne dànno forse un riflesso le effigie su cammei che, come si è detto, sembrano riallacciarsi a uno stile pittorico piuttosto che alla scultura (Augusto Blacas; Claudio di Windsor; Messalina con i suoi due bambini del Cabinet des Antiques, e altri).
Il canone classico derivante dai ritratti di Augusto avrebbe potuto degenerare in un freddo accademismo, se un cambiamento di dinastia non avesse effettuato un ritorno al naturalismo italico. La reazione, che già si era fatta sentire sotto Nerone, fu compiuta al tempo dei Flavî. Come rileva C. Anti, la testa già creduta di Vitellio (bell'esempio a Venezia, tavola LXXXVII) pare discendere in linea retta dall'obesus etruscus, e qualche testa di Vespasiano (Paribeni, CLXXVIII), di espressione intelligente ed arguta, potrebbe essere attribuita all'epoca repubblicana, se non fosse per l'illusionismo della tecnica contemporanea, che le infonde nuovi contrasti di luci e di ombre. Squisiti i ritratti femminili delle donne flavie, dal volto inquadrato in una graziosa pettinatura di riccioli aggiustati a piramide (ritratto di Giulia figlia di Tito, di Domizia, della giovane "elegante" del celebre busto del Museo Capitolino; Paribeni, CLXXXIV). Dopo la caduta della dinastia flavia, "lo stile cambia come la moda dopo una catastrofe politica" (Delbrück), e sotto Traiano, spagnolo di stirpe italiana, la ritrattistica riprende severe tradizioni stilistiche, come dimostrano le innumerevoli statue e teste dell'imperatore (bellissimo ritratto ad Ostia, Paribeni, CCVI). Nelle effigie delle donne dell'epoca (v. tav. LXXXVIII), la durezza dei tratti viene rialzata dalle fantastiche parrucche, ove i riccioli piramidali delle donne flavie sono trasformati in architetture monumentali (Paribeni, CCVIII; CCIX; CCXVIII; CCXIX). Nuovi tipi di barbari o di provinciali venivano intanto continuamente ad arricchire la ritrattistica, come si vede dai rilievi della colonna Traiana e dell'arco di Benevento (v. VI, tav. CLIX). Adriano, detto dai suoi biografi filelleno appassionato, non riuscì - ammettendo che egli lo avesse voluto - a cambiare sensibilmente la ritrattistica romana. Invece egli, al contrario dei suoi predecessori, tutti imberbi, ebbe la barba, senza dubbio per darsi l'aria di filosofo, pretesa che molto più tardi fu pure condivisa dall'imperatore Giuliano. Ma ciò è questione di moda, e la barba adrianea non nasconde il realismo del viso, le fini linee della bocca ironica e il movimento dell'iride e delle pupille incise (innovazione sculturaria del II sec. d. C.) che animano lo sguardo obliquo. Come la barba di Adriano, la pettinatura alla greca della moglie, Sabina, è pure questione di moda, che non nuova all'espressione individuale del bel volto triste e rassegnato (Paribeni, CCXXXIV; CCXXXV). Vero è che l'Antinoo pare composto di elementi greci, scelti evidentemente allo scopo di creare un'effigie divina (creazione della quale l'arte romana si mostrò sempre incapace) piuttosto che umana, benché una nota di realismo s'impose anche qui nel pesante volto orientale e nel possente torso dalle spalle d'insolita larghezza (vedi antinoo, III, p. 504).
La barba conveniva all'epoca filosofica dominata da Marco Aurelio (epoca alla quale si deve forse attribuire la maggioranza delle copie di ritratti di filosofi greci), e fu adottata dall'africano Settimio Severo, bramoso di farsi accettare come appartenente alla dinastia degli Antonini. Nei due gruppi di Settimio Severo con la consorte Giulia Domna sull'arco di Leptis Magna e sull'Arco degli Argentarî a Roma, la maestà imperiale viene rialzata dalla posa frontale, che fu più tardi adottata per tutta la ritrattistica imperiale.
Bellissimo è il ritratto femminile dell'epoca antonina-severiana: Giulia Domna di Monaco (per le monete di lei e delle dame di sua famiglia, v. giulia, XVII, p. 267); magnifica statua sepolcrale di donna velata al Museo Nazionale Romano (Paribeni, CCLXXX); gruppo di due signore pettinate alla moda severiana, con un giovane principe, del "vetro dorato" incastonato nella croce di Brescia (Paribeni, CCCLVII); bella testa di vecchia signora diademata, cioè di rango imperiale (Louvre), che gareggia con i migliori ritratti di donne anziane del Rinascimento e dei tempi moderni (Paribeni, CCCXLII).
Grazie alla prosperità dell'impero sotto gli Antonini e alla lunga pax romana l'arte ritrattistica ebbe grande sviluppo nelle provincie: si vedano, ad es., i grandiosi tondi sepolcrali trovati nella Pannonia e nella Tracia, che continuano le migliori tradizioni della vecchia arte romana. A questi si ricollegano le stele palmirene (Paribeni, CCCXXXVI) che, dal 9 a. C. alla caduta di Palmira nel 273, presentano un'interessante fusione di elementi romani e orientali. Da paragonarsi alle pietre tombali sono le effigie romano-egiziane dipinte su tela o su legno, per coprire il volto delle mummie, ricca miniera di tipi di borghesi levantini, dove si uniscono elementi romani, egizî, greci, ecc. (per le effigie provenienti dal Fayyūm, v. Paribeni, 248-250-252; per quelle da Alessandria, v. alessandria, II, tavole a colori).
I tumulti politici del sec. III e i rapidi cambiamenti di imperatori, scelti in parti opposte dell'impero, non permettevano più la formazione di tipi dinastici. L'arte si avvantaggiò di questa nuova libertà per raffigurare ciascun imperatore secondo la propria indole, creando in questo modo effigie che per profondità d'interpretazione spirituale furono raramente uguagliate in tutta la storia del ritratto europeo. È merito di R. Delbrück e di H. P. L'Orange di aver indovinato il doppio valore storico ed estetico della ritrattistica che perdura dalla metà del sec. III fino al V, e di averne spiegato le fluttuazioni stilistiche.
Finita la ritrattistica antonina-severiana con la possente effigie di Caracalla (v. VIII, p. 925, fig.), si affermò dopo Alessandro Severo un libero realismo, che si fa sentire nei busti di Pupieno (238) del Museo Capitolino (Hekler, 291 b), di Filippo l'Arabo (244-249) al Vaticano (Paribeni, CCCXXXII), e nella testa della colossale statua bronzea di Treboniano Gallo a New York. Tutti hanno una mobilità di espressione che richiama lo stile flavio, mentre, come si disse, il rapido succedersi di regnanti senza nessun legame tra loro spiega ampiamente la perfetta individualità di ciascun ritratto. Una reazione contro lo stile "barocco" dell'epoca Antonina ricompare nella ritrattistica di Gallieno (Paribeni, CCCXXIV).
Di qualità ancora più espressiva, perché forse più intima, sono i ritratti di privati del sec. III: testa proveniente dalla Via dell'Impero, al Museo Mussolini, testa di giovane, nella Villa Doria-Pamphili; tra i più belli sono quelli dei sarcofagi, incorniciati da medaglioni o da conchiglie. Dopo si osserva un ritorno verso un realismo essenzialmente romano che nella stupenda testa di Berlino, creduta ritratto di Costanzo Cloro, assurge fino alla deformazione di tratti individuali. Più "classiche" però sono le teste colossali di Probo (276-282) al Museo Capitolino (Paribeni, CCCXLIII) e di Carino (283-285) al Museo dei Conservatori. Con l'avvento di Diocleziano (284-305), un forte elemento orientale fa la sua apparizione nei due gruppi dei "tetrarchi" di San Marco a Venezia (v. armi, IV, tav. XC) e della Biblioteca Vaticana. Entrambi sono scolpiti in porfido e rappresentano due coppie d'imperatori (i due Augusti Diocleziano e Massimiano e i due Cesari Galerio e Costantino) in atto di abbracciarsi. Per dare maggior risalto alla figura dei sovrani, secondo il concetto orientale, i movimenti sono rigidi, e le teste hanno forma pesante e quasi brutale, stile che si ritrova in una serie di ritratti dell'epoca, studiati dal L'Orange. Un felice ritorno a un più sano concetto della dignità imperiale si effettua sotto Costantino (306-337), allorché l'elemento maestoso si unisce al desiderio di somiglianza con i grandi predecessori; dopo la conquista dell'Italia, lo stesso Costantino viene effigiato come sovrano esperto, il cui volto reca i segni di saggia riflessione e di matura esperienza, a sembianza del primo Augusto (testa del Metropolitan Museum of Fine Arts a New York; statua nel portico della chiesa S. Giovanni in Laterano: Paribeni, CCCXLV; grandioso colosso del Palazzo dei Conservatori). Nella testa bronzea di suo figlio Costanzo II (Paribeni, CCCXLVI) già appartenente a una statua, si fa sentire un concetto più impersonale del personaggio imperiale, che assurge fino ad esprimere un'impassibile maestà (Palazzo dei Conservatori). Impossibile indugiarsi qui nella tarda ritrattistica romana, fino a pochi anni or sono misconosciuta e negletta, come se appartenesse a un'epoca di decadenza. Né le esigenze politiche, né il richiamo a somiglianze lontane con ascendenti, poterono sopraffare la vera personalità dei soggetti, e nel colosso bronzeo di Barletta, ritratto di qualche gran condottiero imperiale (creduto già Eraclio, o Valentiniano, e ora Marciano) vediamo ancora nel sec. V una vigorosa individualità fondersi con quei tratti caratteristici che furono la base del ritratto imperiale.
Dei gruppi imperiali di epoca tarda abbiamo importanti esempî nei rilievi del basamento dell'obelisco di Teodosio a Istanbul, ove si vede un imperatore (Valentiniano o Teodosio) circondato dai figli e dalla corte, e nel celebre missorio dell'anno 388, ora a Madrid, con Teodosio troneggiante sotto un baldacchino tra il collega Valentiniano II e il figlio Arcadio, schema che viene ripetuto sul missorio del console Flavio Ardabur Aspar dell'anno 434, a Firenze (v. argento, IV, tav. LII). Sul disco di Ginevra si vede Onorio, figlio minore di Teodosio, fra i suoi ufficiali; il bel gruppo dello stesso Onorio con la consorte Maria sul cammeo Roberto de Rothschild a Parigi (v. glittica, XVII, tav. XCV), dove la giovane imperatrice imita la pettinatura delle donne giulio-claudie, ripete, in materiale prezioso, lo schema della coppia maritale dentro medaglione o conchiglia. Un vetro dell'Antiquario Romano rappresenta un imperatore (Diocleziano) con ufficiali della sua corte, tutti in posa frontale. Gli ultimi gruppi imperiali che, per l'individuazione delle teste, possono dirsi ancora romani, sono quelli dei musaici di S. Vitale a Ravenna, rappresentanti Giustiniano e Teodora in mezzo alle loro rispettive corti (Paribeni, CCCLXII-CCCLXIV). Nel musaico ravennate (Paribeni, CCCLXIII) le finezze del volto di Teodora sono rese con una penetrante osservazione, pure rivelata nel suo ritratto al Castello Sforzesco di Milano (Paribeni, CCCLXI). Un ultimo sforzo di liberazione attraverso il ritratto lo abbiamo nelle tre meravigliose teste, forse raffiguranti la stessa imperatrice, creduta Arianna, rispettivamente al Palazzo dei Conservatori, al Laterano e al Louvre, che, malgrado la rigida simmetria del viso, dimostrano nei grandi occhi espressivi, nelle sottili linee della bocca e nel naturalismo del doppio mento, una reale ricerca di somiglianza personale.
Un grande contributo alla conoscenza della tarda ritrattistica romana è fornito dalla serie di dittici consolari di avorio, la quale, cominciando verso il 406, è perseguibile attraverso tutto il sec. V. Tra i più importanti come ritratti sono da notare quelli di Anicio Probo dell'anno 406 con doppio ritratto di Onorio (Aosta, v. avorio, V, p. 664), del cosiddetto Stilicone con la moglie e col figlio (Monza, V, p. 664), del console Felice dell'anno 428 (Cabinet des Antiques), di Ruffico Probiano a Berlino (data incerta), di Fabricio a Novara. Nel celebre avorio di Boezio (Brescia) dell'anno 487 le forme goffe del viso, e la posa irrigidita fino all'immobilità, segnano una piena decadenza dello stile romano. Nel sec. VI l'arte degli avorî consolari passa definitivamente a Bisanzio, e sotto il nuovo influsso perde ogni forza ritrattistica: le effigie dei consoli, che appena differiscono l'una dall'altra, si presentano in piena posa frontale, inquadrate da figure di sostegno e da elementi architettonici. È magnifica arte di decorazione, dalla quale però viene bandita ogni idea ritrattistica. Con i dittici bizantini il ritratto greco e romano ha compiuto la sua parabola e ritorna al tipico puro.
Nell'epoca romana molti ritratti si ritrovano nei prodotti delle arti minori: per le monete, v. moneta, XXIII, p. 639; per i grandi medaglioni, v. medaglione, XXII, tav. CXLV-VI; per la serie di ritratti imperiali su contorniati, v. contorniati, XI, tav. XXI; per i ritratti incorniciati dentro piatti d'argento a guisa di medaglioni, v. argento, IV, tav. LI; si è creduto riconoscere ritratti anche su qualche musaico e su tessuti, ma questi sono difficili da identificare.
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IV. Ritratto romano: A. Alföldi, Die Vorherrschaft der Pannonier im Römerreiche und die Reaktion des Hellenentums unter Gallienus, in Fünfundzwanzig Jahre röm.-german. Kommission, 1930; J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie, voll. 3, Stoccarda 1882-94; M. Bieber, Maske, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV, 2; C. Blümel, Röm. Bildnisse (Staatl. Museen zu Berlin), Berlino 1933; E. Böhringer, Der Caesar von Acireale, Stoccarda 1933; O. Brendel, Iconographie des Kaisers Augustus, Norimberga 1931; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompejis, Lipsia 1929 (p. ritratto, v. p. 376 segg.); id., Physiognomik des römischen Porträts, in Die Antike, VII; id., Ikonographische Beiträge zum Porträt der römischen Republik u. der julisch-claud. Familie, in Röm. Mitt., 1932-34; R. Delbrück, Porträts byzantinischer Kaiserinnen, in Röm. Mitt., 1913; id., Spätant. Kaiserporträts, Berlino 1933; id., Antike Porphyrwerke, Berlino 1932; Th. Graf, Die griech.-ägypt. Mumienbildnisse der Sammlung Graf, Vienna 1922; Ingholt Harald, Studier over Palmyrensk Skulptur, Copenaghen 1928; H. Koch, Römische Kunst, Breslavia 1925; K. Lehmann-Hartleben e K. Kluge, Die antiken Grossbronzen, Berlino e Lipsia 1927; H. P. L'Orange, Studien zur Geschichte des spätantiken Porträts, Oslo 1933; F. Poulsen, Mellem Glyptotekets Portraetter, Copenaghen 1929; id., Römische Porträts in der Ny Carlsberg Glyptothek, in Röm. Mitt., XXIX (1914), p. 38 segg.; K. Schneider e H. Meyer, Imagines Maiorum, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IX, i, p. 1097 segg.; R. West, Römische Porträsplastik, Monaco 1933; A. Zadoks-Jitta, Ancestral Portraiture in Rome (Archaeogisch-historische Bydragen Allard Pierson Stichting), Amsterdam 1932.
Medioevo ed età moderna.
Il problema se il ritratto debba considerarsi come genere artistico a sé o vada ricondotto sotto il concetto generale dell'arte è stato risolto in quest'ultimo senso dall'estetica moderna. Cade dunque il principale argomento di distinzione, cioè l'esigenza pratica della somiglianza, poiché l'oggetto vale solo in quanto artisticamente espresso; onde "l'artista ritrae sempre il proprio sentimento e non mai il modello" (Croce); allo stesso modo è infondato il principio dell'idealizzamento del modello; anzi spesso il ritratto fu motivo di reazione al gusto della bellezza astratta. Se tuttavia il criterio della somiglianza non può valere come motivo di giudizio della qualità artistica di un ritratto, non è inutile trattare in modo generale del ritratto riguardandolo come un'occasione, più o meno seguita, più o meno evitata dall'artista per costringersi a osservare con voluta oggettività.
Se nei ritratti su vetro dei sec. III e IV, destinati a evocare nelle patere funerarie e nei medaglioni l'immagine dei defunti, è dato ritrovare una traccia della tradizione ritrattistica classica, nel Medioevo tale tradizione tende a dissolversi. Nelle rappresentazioni dei papi e imperatori inscritte nelle grandi composizioni pittoriche e musive, ogni caratteristica fisonomica è livellata dall'unità figurativa e dall'intento piuttosto celebrativo che evocativo. Non altrimenti accade dei ritratti di personaggi civili ed ecclesiastici, posti a ornamento dei codici miniati (v. miniatura), sebbene un maggior desiderio d'individuazione si ritrovi, evidentemente, nelle monete e nelle bullae, tanto che da queste si fa derivare un singolare esempio di ritratto: la statuetta equestre di Carlomagno già nel duomo di Metz (v. carlomagno, IX, p. 71).
La sensibilità lineare gotica ritrova accenti di determinatezza ritrattistica nella miniatura e più nella scultura francese del sec. XIII e del XIV, conducendo a capolavori quali, ad es., i ritratti di Carlo V, di Giovanna di Borbone, di Isabella di Baviera, ecc. In Italia la tradizione ritrattistica classica riaffiora nei busti di Capua (es., il Pier della Vigna, Museo Campano). Rari sono i ritratti della pittura italiana del sec. XIII, sebbene la larga iconografia francescana, fiorita subito dopo la morte del Santo; sia spesso piuttosto commossa evocazione che mistica esaltazione: come nel ritratto che del Santo frescò Cimabue nella Chiesa inferiore di S. Francesco ad Assisi.
Nel sec. XIV i motivi ritrattistici, più che nella assorta pittura giottesca, sono frequenti in quella piena di gotico linearismo di Simone Martini, che il Petrarca esaltò per un ritratto di Laura e che lasciò ritratti nel Guidoriccio da Fogliano e nel S. Ludovico che incorona Roberto d'Angiò.
Il gusto del ritratto rifiorisce con l'ideale eroico del primo Rinascimento: ma, com'era inevitabile, da ogni grande artista è ricondotto al proprio modo di vedere e di ideare, sì che i ritratti del Pisanello, di Masaccio, di Andrea del Castagno, del Pollaiuolo, del Botticelli, come quelli di tutti gli altri grandi, sono pure espressioni delle qualità e dell'arte di ciascun maestro. Se, nel Botticelli, le figure ricevono dal contorno un valore di distacco psicologico, attraverso l'esperienza verrocchiesca l'arte fiorentina giunge a più consapevole descrittivismo con il Ghirlandaio e Piero di Cosimo, sul quale agiscono influenze fiamminghe.
Nell'Italia settentrionale, il ritratto si orienta intorno ai divergenti esempî del Mantegna e di Antonello da Messina. Il primo, nei ritratti isolati come in quelli della Camera degli sposi (Mantova, castello), cerca ideali di classica grandezza morale nella plasticità architettonica delle figure; il secondo, nei numerosi ritratti che costituiscono il nucleo essenziale della sua opera, isola in una calda atmosfera le pure forme plastiche delle figure, ne volge in pittoricità il plastico rigore e accorda questa sottile deformazione pittorica alla caratteristica psicologica, che pertanto è un dato essenziale della sua arte.
Si comprende perciò come dai modi di Antonello si sviluppi il ritratto veneto, tutto fondato sull'intimo raccordo della figura e dell'ambiente. Così dai ritratti pieni di minute indicazioni lineari di Gentile Bellini si procede a maggior larghezza coloristica e formale con Alvise Vivaripi, devoto antonellesco, e con Giovanni Bellini, che accoglie e potenzia, come anche Bartolomeo Veneto, l'annotazione psicologica nella solida struttura dei valori pittorici. Se nella scultura del sec. XIV, il ritratto per lo più evocava il defunto sulle tombe e rare sono le statue celebrative (ad esempio il Carlo d'Angiò di Arnolfo di Cambio), Donatello inaugura la statuaria celebrativa (es., il Gattamelata, Padova) e in alcuni busti, dall'emozione diretta del modello, accentuandone le caratteristiche, trae motivo di nuovi e intensi risultati pittorici.
Se l'esperienza ritrattistica donatelliana si continua nel realismo pittorico dei busti di Mino da Fiesole, del Rossellino, di Benedetto da Maiano, il Pollaiolo accentua i caratteri fisionomici nel segno interrotto, aspro, pieno di energia, mentre il Verrocchio svolge questo linearismo fino alla delicatezza della Dama del Bargello.
Fuori d'Italia, il descrittivismo gotico è superato nell'accordo di determinatezza lineare e coloristica dei ritratti dei Van Eyck, che risolvono in lirica intimità e in suprema compostezza lo scrupolo oggettivistico. Il ritratto fiammingo, al quale ogni artista porta il contributo della sua particolare personalità, ma che mantiene il suo valore di intimità psicologica sia nel linearismo sottile di R. Van der Weiden, se nella maggiore pienezza formale di un Memlinc, agisce anche in Francia, specialmente sui ritratti pieni di vita spirituale e di intima religiosità di Jean Fouquet e del maestro di Moulins, iniziatori della tradizione ritrattistica francese.
Il ritratto italiano del '500 ha le sue basi in Leonardo; acuto studioso dell'espressione psicologica, che talora spinge fino all'aridità polemica della caricatura, ma che nei ritratti si risolve nel sottile rapporto tra figura e paese e nell'avvolgimento pieno di intima calma delle forme nello sfumato atmosferico. Anche più viva a Firenze, l'influenza di Leonardo, sia pure in accordo con i modi raffaelleschi, induce a cercare nel ritratto accordi tra figura e paese (Ridolfo Ghirlandaio, Michele di Ridolfo, Franciabigio, Bachiacca) e si risolve in nuova pienezza di forme nei ritratti di Andrea del Sarto. Ai ritratti di Leonardo si collegano quelli di Raffaello del periodo fiorentino, più monumentali, tuttavia per i ritmi di curve, che raccordano figura e orizzonte; più tardi, a Roma, accogliendo da Sebastiano del Piombo riflessi veneti, Raffaello avvolge le figure di luce dorata (ritratto di B. Castiglione) o precisa fortemente la figura nel preciso contrasto di ombre e di luci. Più che nelle grandi composizioni, il manierismo fiorentino isola nei limiti del ritratto i suoi problemi formali; se nei ritratti il Pontormo trova più frequenti e sereni appagamenti, nella cristallina purezza dei ritratti del Bronzino le caratteristiche fisionomiche non sono più risolte nel rapporto con il fondo paesistico, ma accentuate ed imposte da rigidi fondi neutri e da riprese formali e coloristiche di drappi e di architetture. Nella seconda metà del '900 la tradizione ritrattistica si volge a più preciso oggettivismo, sempre più attenuando il proprio rigore figurativo (F. Salviati, T. Ligozzi, Santi di Tito, Chimenti da Empoli, ecc.).
A Venezia, Giorgione compone le sue figure come miracolosi episodî di luce sull'ombra calda dei fondi, in una ricerca di intimità espressiva, che poi si continuerà nella tradizione ritrattistica veneta, nel Cariani e nel Torbido e, con più immediata sensualità coloristica, in Iacopo Palma il Vecchio, in Sebastiano del Piombo, che fin dalle sue opere del periodo veneto rivela quella maggior energia formale di luce e di ombra che poi lo preparerà ad accogliere, nei ritratti romani, l'influenza di Michelangelo.
Il ritratto giorgionesco è svolto per altre vie da Tiziano, che pur seguendone da principio gl'ideali di fusione tonale accentua, con i caratteri psicologici, la vicenda drammatica della luce e dell'ombra. La figura, colpita più che avvolta dalla luce, è rivelata per brevi accenti di ombra, che implicano quella maggior vivacità psicologica che anima già l'Uomo del guanto (Louvre); il Mosti (Pitti), il Medico Parma (Vienna), e che attraverso la pienezza cromatica della Bella e dell'Aretino (Pitti) e del Francesco I (Louvre), giunge al luminismo delle opere tarde.
Il ritratto giorgionesco e tizianesco ha largo sviluppo, coi Dossi a Ferrara, nel Bresciano e nel Bergamasco col Savoldo e più con Lorenzo Lotto, che accoppia al colorismo veneto sottili formalismi raffaelleschi; onde la tradizione ritrattistica che attraverso il Moretto giunge a G. B. Moroni, ritrattista fecondissimo, non meno rigoroso nella ricerca della oggettivazione fisionomica che nella determinazione dei valori costruttivi di luce e di ombra.
Il Tintoretto riprende la concezione ritrattistica tizianesca svolgendola in senso drammatico e luministico, sottolineando con guizzi di ombra tra la luce gli accenti costruttivi della figura; mentre nel Veronese la luce esalta la figura, accentuata con intensi tocchi di colore puro.
In Emilia, più che nel Correggio, il ritratto si sviluppa dalle interpretazioni manieristiche del correggismo; così il Parmigianino si vale dell'imprevisto formale del ritratto per cristallizzare in una fine tessitura lineare preziosità di colore e di luce, sebbene poi la tradizione parmigianinesca s'impoverisca negli scrupoli realistici del Passerotti.
A Roma, Federico Zuccari tenta di estendere al ritratto, anche in sede teorica, la tradizione classicistica, d'accordo con Iacopino del Conte: un allievo del quale, S. Pulzone, sotto influenze nordiche, riduce il ritratto a un oggettivismo spesso freddo e particolaristico. Nella scultura, il ritratto del '500 ha la sua più alta espressione in Alessandro Vittoria, i cui busti sono spesso così coloristicamente realizzati da far pensare al Veronese.
Al contrario di quanto accadeva in Italia, in Francia si formò una corrente ritrattistica indipendente, tutta diretta alla documentazione precisa della corte del tempo. Ne fu iniziatore Jean Clouet (circa 1516) al quale si attribuisce un gruppo di disegni (Chantilly) di evidente fedeltà realistica. Molti sono i disegni tradotti poi in pittura, anche da altri artisti (ad es., Corneille de Lyon), sempre con lo stesso scrupolo dì precisione oggettiva. Il figlio del Clouet, François, detto Janet, sensibile anche a inńluenze italiane, lasciò molti ritratti disegnati e dipinti di personaggi della mrte francese tra il 1530 e il 1572. Nella seconda metà del '500, furono largamente attivi in Francia pittori fiamminghi, il più notevole dei quali è F. Pourbus. Nella scultura il ritratto francese del '500 ha il suo massimo rappresentante in Germain Pilon.
Nei ritratti tedeschi del secolo XVI la linea è spinta ad acute precisioni, sebbene poi ogni accento particolaristico si svolga in ancor gotica eleganza di arabeschi; così il Cranach coi numerosi seguaci. Osservatore più intenso e spesso drammatico nel segno più rigoroso è il Dürer; ma il più tipico rappresentante del ritratto tedesco è Hans Holbein, acutissimo nell'oggettivazione fisionomica e psicologica; anzi, questa, come nei ritratti di Erasmo, prevale sulla prima sostituendo l'efficacia del suggerimento all'indifferenza descrittiva. Da Holbein, che soggiornò due volte in Inghilterra, ha origine il ritratto inglese.
Nel '600 il ritratto è un argine alla retorica delle grandi composizioni. A Bologna, la tradizione ritrattistica fiorente è continuata dai Carracci e dai loro seguaci, che nel ritratto risentono specialmente elementi veneti; i quali, aggiunti all'impegno dell'osservazione oggettiva, distraggono gli artisti dalla vacuità delle composizioni accademiche e permettono ad alcuni di essi, come il Reni e C. Cignani, di ritrovare qualche concretezza pittorica e persino qualche istante di commossa intimità. Il Guercino accende il realismo dei suoi ritratti di una superficiale vitalità pittorica, che si attenua nella più pacata ma più intima precisione di P. F. Cittadini e nella più sottile pittoricità di P. F. Mola. Pur nel ritratto è rinnovatore G. M. Crespi, che evita schemi compositivi tradizionali e inquadra il ritratto in composizioni luministiche.
A Roma ebbe larga diffusione il gusto ritrattistico bolognese, sebbene maggior ricchezza pittorica portino in questo campo Pietro da Cortona e, più, il Maratta, con le sue solide costruzioni luminose, mentre è un capolavoro il ritratto del Dal Borro, per gran tempo attribuito al Velázquez e ora al Sacchi. Spinto dal Bernini allo studio del Velázquez, G. B. Gaulli detto il Baciccio portò nel ritratto vitalità di atteggiamenti e immediatezza pittorica. Nel '700 al gusto marattesco (A. Masucci, P. Batoni) succede il neoclassicismo del Mengs, tuttavia meno frigido nel ritratto che nelle composizioni.
A Firenze, il gusto ritrattistico, con V. Casini, M. Rosselli, il Dolci, Santi di Tito, Tiberio Titi, continua più o meno blandamente nel '600 i modi della seconda metà del '500; ma è rinnovato da G. Sustermans, che innesta una fittizia larghezza rubensiana all'oggettività imparata dal Pourbus, dando ai suoi ritratti un'evidente aderenza al soggetto e un'apparenza di dignitosa grandezza.
Anche a Venezia, nel ritratto, si continua la tradizione cinquecentesca (il Padovanino, P. Liberi) con qualche più minuta oggettività in Leandro Bassano, T. Tinelli, S. Bombelli; e solo Domenico Feti e Bernardo Strozzi, rinnovati dall'influenza del Rubens, porteranno a Venezia nuova vita anche nel ritratto. Anzi se a Genova l'influenza del Rubens e del Van Dyck si esaurisce nelle imitazioni di G. B. Carbone, nel superficiale caratterismo di G. Benedetto Castiglione e poi, nel '700, nelle leziose figure del Mulinaretto, la tradizione ritrattistica veneta così rinnovata toccherà altezze maggiori nel '700. Influenze di moda e parzialmente di stile francesi agiscono su Rosalba Carriera, che a sua volta trasmise al ritratto francese il suo fare tutto grazie e sfumature, ma senza reale vitalità pittorica. Alessandro Longhi è il massimo ritrattista dell'epoca: pronto al suggerimento fisionomico e psicologico attraverso l'intensità pittorica del tocco luminoso e cromatico; adeguati ai modi stilistici delle grandi composizioni, altrettanto pittoricamente intensi, sono i ritratti del Piazzetta e del Tiepolo, pieni di solidità di luce e ombra, i primi, tutti realizzati per guizzi di luce nel colore i secondi.
A Bergamo la tradizione del ritratto si conserva nell'arte solida, piena di carattere, di C. Ceresa e culmina in Vittore Ghislandi, ch'ebbe contatti col Bombelli a Venezia e con l'Adler a Milano, ma presto raggiunse una forma originalissima sia nella composizione sia nel caratterizzare le figure con intensità di tocchi cromatici.
Larga fu l'influenza di ritrattisti italiani all'estero, specialmente in Polonia e in Russia: così G. Lampi, M. Bacciarelli, D. Del Frate, G. Grassi, ecc.
In Francia, l'influenza del Van Dyck si fa sentire nei ritratti di Filippo di Champagne e di R. Nanteuil, ma è subito ricondotta nei modi classicheggianti del Poussin, di R. Bourdon, di J. Jouvenet, di Ch. Lebrun. Dominatori del ritratto francese furono tuttavia H. Rigaud, intensamente pittorico e ricercatore di atteggiamenti grandiosi, F. De Troy, più oggettivo osservatore, N. De Largillière, che trae dai suoi ritratti larghezze pittoriche nuove. La grazia leziosa del '700 ha interpreti vivaci nei Nattier e in N. Lancret e trova piena espressione pittorica nei ritratti del Watteau, di F. Boucher e poi del Fragonard; Q. de La Tour, sempre più divulgando la moda del ritratto a pastello, è sagace interprete fisionomico, come pure il Peronneau; se a questi si contrappongono i ritratti borghesi, più profondi pittoricamente e psicologicamente, di J.-B.-S. Chardin e di J.-A.-J. Aved, il gusto ritrattistico settecentesco si esaurisce presto nell'arcadia di J.-B. Greuze e della Vigée-Lebrun.
In Spagna il gusto ritrattistico del sec. XVI, sotto l'influenza dell'olandese A. Mor, si mantiene nei limiti del ritratto di corte con Sánchez Coello e Panto) a de la Cruz, ma si rinnova col Greco, anche nel ritratto pieno d'intensità espressiva nella tragica deformazione delle figure. Nel '600 è ritrattista altissimo il Velȧzquez, che nello sfaldarsi della forma nella luce rivela con rapidi accenti il carattere psicologico delle figure. Nel '700 il Goya contrappone all'accademico gusto ritrattistico del Mengs, i suoi ritratti penetranti e pieni di sottintesi psicologici.
In Fiandra, la tradizione cinquecentesca è rinnovata dal Rubens; ma dal fastoso colorismo rubensiano il Van Dyck trae con più raccolti accordi cromatici una più sottile possibilità di caratterizzazione. In Olanda, le particolari esigenze del ritratto offrono al Rembrandt vivi pretesti di accentuare nelle indicazioni fisionomiche il giuoco della luce e dell'ombra; a Franz Hals la possibilità di suggerire sommariamente le figure con rapidi accenti di colore e di luce; a J. Vermeer de Delft l'occasione di intimi raccoglimenti e di sottili meditazioni coloristiche e luminose.
In Inghilterra, all'esperienza del Holbein segue quella del Van Dyck, dalla quale muovono le cadenze languide, psicologicamente sottili, di G. Romney, di W. Hogarth, di Th. Gainsbourough e quelle più fragili di Th. Lawrence.
Nel campo della scultura, il ritratto barocco ha le sue manifestazioni più caratteristiche nei busti, di larga e dinamica impostazione, di G. L. Bernini e in quelli più freddamente realistici di A. Algardi, mentre nel '700 il primato passa alla Francia, dove J.-A. Houdon, crea verso la fine del secolo, una serie di busti mirabili in cui il gusto per le sottigliezze psicologiche, proprio del ritratto settecentesco, frequentemente si sposa ad una fermezza plastica classicheggiante.
Nel periodo neoclassico l'interesse alla singola figura umana, non circoscritta entro gli schemi di un astratto ideale di bellezza formale, ma anzi concretamente determinata dalla notazione dei caratteri psicologici, è un pretesto per evadere dalle formule accademiche e per ritrovare talora qualche più vivo e pittorico accento della tradizione settecentesca. Così nei ritratti modellati dal Canova o dipinti dall'Appiani e dal Bossi ricorre un intento di interessata oggettività, che si risolve in una maggiore nervosità di contorni, in una più intensa costruzione chiaroscurale, e talvolta in veri accenti pittorici. Allo stesso modo F. Agricola, G. Bezzuoli, A. Malatesta e tanti altri trovano nei loro numerosi ritratti valori d'intimità, nei quali le qualità pittoriche dell'artista possono esprimersi al di là di ogni programma; A. Puccinelli, nella compostezza delle forme, entro le quali si inscrivono i colori locali, ha talora la sottigliezza di un Ingres.
Questo intimo rapporto di forma e di colore caratterizza i ritratti dei pittori neoclassici francesi, pur tanto accademici nelle grandi composizioni; così dai ritratti del David, del Gros, del Gérard, del Prud'hon, si giunge ai ritratti dell'Ingres, nei quali il ritmico accordo di forma e colore si sostituisce a ogni legge di struttura prospettica.
Se nel neoclassicismo il ritratto era evasione da schemi scolastici, nel romanticismo esprime preferenze artistiche più dirette. In esso la figura non vale per l'estrinseca bellezza formale, ma per la rappresentazione della sua vita interiore; la ricerca dell'espressione fugace del sentimento sostituisce la ricerca della bellezza classica, l'interesse per quanto è nella figura di particolare e di inconfondibile prende il posto dell'interesse per un astratto ideale di bellezza formale. Se ciò, da un lato, giustifica, la preferenza romantica per la caricatura (oggetto persino di un saggio critico del Baudelaire), in quanto appunto la caricatura sopprime ogni interesse figurativo per esaltare i motivi psicologici fino al dramma (H. Daumier) o fino al ridicolo (N. Charlet, Gavarni), dall'altro spiega come il ritratto sia stato per i romantici un argomento della polemica contro il bello classico e un pretesto all'opposizione di valori pittorici ai valori plastici della tradizione accademica.
La reazione romantica al neoclassicismo non fu così recisa in Italia; tuttavia se Francesco Hayez, caposcuola dei romantici, ag giunge soltanto alla composizione accademica qualche calore di colorismo veneto e qualche più oggettivistica ricerca disegnativa, più profondo è il rinnovamento nell'arte di G. B. Carnevali detto il Piccio, che porta anche nel ritratto il suo amore per la forma disfatta nella luce e solo sottolineata da qualche più intenso accento di ombra e di luce; sulle sue tracce, i maestri della rinnovata scuola lombarda (L. Galli, T. Cremona, D. Ranzoni, M. Bianchi, E. Gola) vanno sempre più cercando nel disfacimento della forma languori di sentimento, accenti di appassionato mistero, sfumature e mobilità di espressione inesprimibili attraverso il disegno, ch'era pur sempre, per loro, il disegno accademico, e solo raramente raggiungono, attraverso quelle dissolvenze di colore nello sfumato, concrete emozioni pittoriche.
A questa opposizione polemica di ritratto neoclassico, tutto inteso a ricerche di bellezza oggettiva, e di ritratto romantico, preoccupato soltanto dell'espressione del mondo interiore, si cercò una soluzione, come in ogni altro campo dell'arte, nel realismo, che, se ebbe a massimi rappresentanti il Courbet e il Millet, legittimò anche la volgare oggettività dei ritrattisti di professione, dei quali non può certo interessarsi la storia dell'arte.
Ma la vera soluzione all'opposizione di neoclassicismo e di romanticismo è da cercarsi, in Francia, nell'opera degl'impressionisti, in Italia in quella dei macchiaioli. Questi per la prima voltȧ non distinguono la realtà figurativa della figura umana da quella di un paese o di una natura morta e ogni caratterizzazione psicologica riducono all'emozione figurativa, onde l'immediatezza di visione che si ritrova nei ritratti del Manet, del Degas, del Renoir e che già prelude alle complesse ricerche formali che immetteranno nel ritratto P. Cézanne, V. Van Gogh, H. Matisse. Così in Italia, Giovanni Fattori riduce i suoi ritratti a pure emozioni luminose e cromatiche, seguito in ciò da Vito d'Ancona e da T. Signorini, tuttavia più preoccupato dell'insistenza quasi caricaturale del segno. Se il ritratto impressionistico francese degenera nelle insignificanti reticenze formali del Carrière, la pittoricità dei macchiaioli si estingue presto nelle eleganze, talora spiritose, più spesso superficiali, di G. Boldini, e nel realismo solo attenuato da lusinghe di salotto di V. M. Corcos e di molti altri pittori del principio del sec. XX. Solo più tardi il ritratto ritroverà grandezza d'arte assoluta nelle figure dello Spadini, tutte costruite di colore e di luce, e nei sottili spiritualissimi accordi di linea e di colore di A. Modigliani.
In Inghilterra, il ritratto del primo Ottocento segue lungamente la tradizione del Romney, di H. Raeburn, di J. Opie, del Lawrence, ai quali appunto si collegano il Lonsdale, il Dyce, il Walton, il Jackson, il Pearson, il Gordon, ecc.; né efficaci sviluppi porta il preraffaellismo, nel ritratto freddamente realistico (Millais, Watts) o fiaccamente mistico (Rossetti); solo col Whistler, passato attraverso esperienze impressionistiche sia pur solo parzialmente intese, il ritratto inglese ritrova la via dell'arte.
In Germania, nella prima metà dell'Ottocento, continua a dominare il gusto dei miniaturisti della scuola viennese (H. Füger, M. Daffinger) e quindi quello del ritratto neoclassico, cui si collegano, sia pure correggendolo con ricerche di severità lineari dureriane e holbeiniane, i nazareni; l'influenza dell'impressionismo francese, cui si richiamano A. Feuerbach e H. v. Marées, A. von Menzel e il Liebermann, vale soprattutto a guidare il gusto tedesco del ritratto verso quello psicologismo che pervade poi tutta l'opera di F. von Lenbach.
Nell'arte contemporanea, anche nella coscienza degli artisti, per influsso diretto o indiretto dell'estetica idealistica, è scomparso ogni arbitrario limite di genere artistico anche nei riguardi del ritratto, il quale non può raggiungere l'arte se non quando l'emozione figurativa abbia realmente superato ogni altro interesse psicologico o realistico.
All'affermarsi dell'arte ritrattistica offre naturalmente largo campo la medaglia, lo sviluppo artistico della quale ha una storia a sé. V. medaglia.
Bibl.: Oltre alle opere di carattere generale: P. G. Hamerton, Man in Art, Londra 1902; E. Schaeffer, Das florentiner Bildniss, Monaco 1904; J. Maier Graefe, Die grossen Engländer, Monaco 1908; L. Dumont Wilden, Le portrait en France, Bruxelles 1909; J. Alazard, Le portrait florentin de Botticelli à Bronzino, Parigi 1924; Il ritratto italiano dal Caravaggio al Tiepolo, a cura di U. Ojetti, Bergamo 1927; P. E. Schramm, Die deutschen Kaiser und Könige in Bildern ihrer Zeit (751-1152), Lipsia 1928; J. Prochno, Das Schreiber- und Dedikationsbild (800-1100), I, Lipsia 1929; S. H. Steinberg, Die Bildnisse geistlicher und weltlicher Fürsten und Herrn (950-1200), Lipsia 1931; S. H. Steinberg, Bibliographie zur Geschichte des deutschen Porträts, Amburgo 1934.
Arte orientale.
Egitto. - Fin dai primordî gli artisti egiziani si sono preoccupati di rendere con fedeltà le fisionomie e le forme degl'individui ritratti. I più antichi esempî sono le due statue del faraone Ḫa‛śêḫem (metà della II dinastia) poste nel tempio di Ieracompoli: la faccia delicata, l'espressione nobile, sono chiaro preannuncio della somma arte che fiorì soprattutto nella IV e V dinastia. Vengono per lo più dalle tombe. Si suole asserire che esse fossero là per servire di appoggio alle anime, quando i corpi si distruggevano; ma allora dovremmo trovarle sotterra, meglio protette e di materia più solida del legno e del calcare. Invece sopra terra indicavano la presenza dei trapassati in quelle loro dimore e il punto dove si dovevano deporre le offerte e compiere le liturgie funerarie. Anche allora dai compiacenti artisti erano nascoste le deficienze dei clienti. Appena uno, affetto da paralisi infantile, si è fatto ritrarre sulla sua stele col piede contratto (Ny-Carlsberg Glyptotek, A. 724). L'uso della maschera, ricavata dal volto dei morti, è attestato dalla VI dinastia. Nella XVIII nei laboratorî si trova il busto (capo e parte del petto), che serviva come modello ai ritratti dei sovrani. A volte il volto di un re o di una regina era prestato a un dio o a una dea. Nell'età tolemaica ad Ermopoli le casse delle mummie si ornavano di plastiche facce in gesso dipinto in quella romana, nel Fayyūm, di ritratti su tela o legno.
Nell'arte delle altre grandi civiltà dell'Oriente antico, la babilonese-assira e la persiana, il ritratto individuale non sembra raggiungere propria autonomia, fermato com'è dalla stilizzazione che predomina nella scultura di Mesopotamia e di Persia. I sovrani dei rilievi e delle statue assiro-babilonesi (tra queste ricordiamo la famosa di Assurnazirpal al British Museum, una delle più eminenti artisticamente) e di quelle achemenidi si somigliano per verità tutti, e difficilissimo riesce distinguere con una certa fondatezza la presenza di caratteri personali volutamente espressi dall'artista. Altrettanto è a dirsi, per la Persia, dell'arte sassanidica; il ricco materiale di rilievi, di monete e di gemme in cui sono effigiati re e dignitarî non permette nemmeno qui, salvo qualche caso affatto sporadico, la ricostruzione d'una prosopografia iconografica. Interessanti saggi di ritratto abbiamo invece in qualche altro territorio orientale più da vicino compenetrato di influssi del mondo greco, come nella serie di sarcofagi con raffigurata sul coperchio l'immagine del defunto, provenienti da Sidone e ora al museo di Istanbul (sec. V a C.?). La civiltà musulmana, avversissima teoricamente per motivi religiosi alle arti plastiche, e in particolare al ritratto, eluse in pratica questo divieto, come mostra tutto il corso della sua arte, ma assai di rado osò provarsi alla diretta raffigurazione realistica del volto umano. Solo nella miniatura e nella pittura persiana dall'epoca mongola in poi possiamo ritenere di avere dinnanzi qualche saggio in cui) a stilizzazione fantastica cede a veri intenti iconografici, per sovrani, dignitari e qualche poeta. Presso i Tīmūridi (sec. XV) e i Ṣafawidi (secoli XVI-XVIII) l'arte del ritratto ebbe un notevole sviluppo, per quanto relativamente scarsi sono gli esemplari giunti a noi e identificabili con sicurezza. L'arte ritrattistica musulmana d'India dal sec. XVII in poi, e quella di Persia nel XVIII e XIX, per non parlare di altri paesi islamici, sono già sotto netto influsso occidentale.
Dall'India all'Asia Centrale e Orientale. - Nel meraviglioso ciclo di affreschi delle caverne di Ajanta, i più antichi dei quali sono anteriori all'era volgare, mentre la maggior parte risale ai secoli VI e VII d. C. (vedi india, XIX, p. 76) appaiono evidenti l'alto grado di perfezione e la forza di espressione, raggiunti dall'arte del ritratto. Sono gruppi di re, regine, principi, cortigiani, monaci buddhisti, i quali manifestano nell'atteggiamento, nei volti, nella posizione delle mani e delle braccia, la vita dei modelli di cui essi sono una fedele rappresentazione.
L'arte del ritratto in India ha certamente per origine l'arte religiosa buddhista. Ma i contatti con la Persia e con la Cina lasciano vedere chiaramente come l'arte indiana, che fu in un primo tempo maestra e iniziatrice nell'Asia Centrale e nell'Estremo Oriente, abbia a sua volta subito l'influenza cinese. Ciò appare dalle miniature persiane e dalle serie di ritratti del periodo dei Mogul, in cui sultani, guerrieri, principi, sono raffigurati su sfondi stilizzati di giardini e di architetture, che ricordano quelli della pittura cinese.
In Cina i più antichi ritratti che si conoscano sono quelli dei graffiti su pietra della dinastia Han (dal secolo II a. C. al II d. C.). I primi ritratti che rappresentano certamente con fedeltà i personaggi raffigurati, sono le lunghe serie di donatori e di donatrici nelle grandi pitture buddhistiche. I trattati di pittura cinese dal sec. XIII al XV hanno suddiviso l'arte del ritratto in tre categorie: gli uomini illustri, i santi del buddhismo e del taoismo, le donne celebri per la loro bellezza, la loro cultura e la loro virtù. Nelle ricche collezioni di pitture, negli album di famiglia, si trovano documenti iconografici sicuri. Le teorie degli antichi pittori cinesi insegnavano che nel ritratto non bisogna tanto cercare la somiglianza fisica, quanto l'espressione ideale dell'anima e il carattere. A questa scuola idealistica, che diventa spesso artificiosa, subentra la scuola realistica, che sorge sotto i Sung e raggiunge il suo punto culminante durante le due ultime dinastie. Caratteristici i ritratti funerarî, i quali raggiungono talvolta la forza e la vivacità di quelli dei grandi pittori europei del Rinascimento.
Tra i ritrattisti più celebri è Liu Shan, della dinastia T'ang, il quale ha lasciato un ritratto del famoso generale Kuo Tsu-i (697-781). Questi è raffigurato nelle vesti di un religioso taoista, con l'abito grossolano ma con un atteggiamento dignitoso che dimostra la solida e risoluta figura del personaggio. Un sacerdote buddhista in contemplazione, dovuto al pittore Wen Hsün (1050 d. C.), su fondo oscuro, contro il quale spicca l'abito chiaro della figura, dagli occhi lucenti, manifesta un'armonia e una vitalità che anche noi possiamo apprezzare. È famoso il ritratto di Liang Ch'ieh, del sec. XIII, che rappresenta il poeta Li Tai-po. Tra i migliori ritratti sono quelli dei religiosi buddhisti, che si conservano nei conventi. Tanto nelle pitture dei religiosi buddhisti e taoisti quanto in quelle dei laici, è nella fisionomia soprattutto che appaiono la vita e l'espressione del carattere. Le pieghe del volto, le forme caratteristiche del naso e degli occhi, il colore e la consistenza delle carni, concentrano l'attenzione di chi guarda, assai più delle vesti, degli ornamenti del capo e della persona, nei quali la precisione dei particolari è spesso rigida e raggiunge soltanto nelle pitture dei grandi maestri un certo valore. I collezionisti europei hanno cominciato al principio del sec. XX a valutare l'importanza del ritratto cinese, di cui si trovano buoni esemplari nelle grandi collezioni d'Europa e d'America.
Nel Giappone già nel ritratto di Shotoku Taishi, il grande principe del sec. VII d. C., e dei suoi due figli, dovuto al principe coreano Asa, appare la grande importanza che aveva assunto l'arte del ritratto. Durante il periodo feudale sono famosi i ritratti di Takanobu (1146-1205), alcuni gruppi dei quali si conservano ancora nei conventi buddhisti. Sono pure famosi i ritratti dei trentasei poeti, di Fujiwara Nobuzane (morto nel 1265).
Nella scultura cinese, già durante la dinastia Sui il ritratto assume forme espressive, come, ad es., nel monaco che tiene in mano un bocciolo di loto (Museo di Filadelfia, in O. Sirén, La scultura e la pittura cinese, Firenze 1935, fig. 33) e si sviluppa nella successiva dinastia T'ang. In Giappone si vide presto come la scultura potesse raffigurare il ritratto con maggiore fedeltà della pittura; Unkei e Tankei, scultori giapponesi dei secoli XII e XIII, sono stati paragonati, per i loro ritratti, a Donatello.
Tanto in Cina, quanto in Giappone, i ritratti hanno una grande importanza nei libri figurati e nelle stampe. In Giappone specialmente, nelle stampe colorate, sono caratteristici i ritratti di belle donne, di geishe, tra cui famose quelle di Utamaro, i ritratti di grandi attori, di cui è data spesso soltanto la testa, ovvero la figura intera, nelle vesti di personaggi di famose tragedie.
Già nelle antiche edizioni cinesi e giapponesi, e fino ai nostri giorni, numerosi ritratti illustrano le opere complete dei grandi scrittori.
Naturalmente i ritratti dei più antichi personaggi celebri della Cina sono soltanto riproduzioni di antiche raffigurazioni che non hanno base storica sicura, come ad es. il ritratto di Confucio (v. XI, pag. 127); si conservano però ritratti, certamente dipinti dal vero, i quali manifestano, nell'espressione realistica, l'immagine fedele dei grandi imperatori mongoli, come quelli di Genghīz Khān, Ogodai, Qubilāy, Tīmūr, i quali oggi si conservano nel museo del Palazzo imperiale di Pechino.
Nella Cina e nel Giappone i contatti con l'arte europea che ebbero già luogo una prima volta nel sec. XVII, durante le missioni dei gesuiti, nel sec. XX hanno ripreso nuovo impulso, soprattutto per opera di studiosi orientali, che hanno frequentato le scuole europee. L'arte del ritratto si mantiene nell'Estremo Oriente molto vitale.
Bibl.: Oltre alle bibliografie delle voci india; cina; giappone; v. per il ritratto in Cina, R. Petrucci, in Gaz. des beaux-arts, 1917, pp. 324-332; E. F. Fenollosa, Epochs of Chinese and Japanese Art, Londra 1913, I, pp. 177, 197; A. Mostaert, À propos de quelques portraits d'Empereurs Mongols, in Asia Major, IV, i, Lipsia 1924; numerose riproduzioni di ritratti di donatori e donatrici nelle pitture delle grotte di Tun-huang, riprodotte nelle opere di A. Stein (riassunte nel volume: A. Stein, On ancient Central Asian Tracks, Londra 1933), di P. Pelliot, ecc. Si veda altresì: O. Sirén, La scultura e la pittura cinesi, Roma 1935. Molte riproduzioni di ritratti di arte indiana in: E. Kühnel, Mniaturmalerei im islamischen Orient (coll. Die Kunst des Ostens, VII), Berlino 1923.
V. tavv. LXXXV-CIV e tavv. a colori.