Lhasa, rivolte di
Moti avvenuti nel 1959 e nel 1987-89 (e nuovamente nel 2008) nella capitale tibetana. Il 10 marzo 1959, a nove anni dall’occupazione cinese del Tibet e dopo tre anni dall’inizio di una guerriglia anticinese nella parte orientale del Paese, diffusasi la voce di un progetto di rapimento del dalai lama, si verificò una prima rivolta popolare. Il 12 i manifestanti proclamarono l’indipendenza del Tibet, ma furono duramente repressi dalle autorità, mentre il dalai lama espatriava in India. La tornò ad acutizzarsi nel 1987, in seguito a un discorso del dalai lama al Comitato per i diritti umani del Congresso degli Stati Uniti, che annunciava un «piano di pace in 5 punti», denunciando violazioni umanitarie in Tibet da parte cinese, prima fra tutte la fortissima emigrazione han, che rischiava di rendere i tibetani una minoranza nel loro stesso Paese. A una prima manifestazione per l’indipendenza (27 sett.) a opera di una ventina di monaci del monastero di Drepung, seguì una seconda (1° ott.) a cui parteciparono anche molti civili, che assaltarono il comando di polizia. La dura reazione della polizia causò disordini, di cui furono testimoni molti turisti. Le autorità cinesi non poterono nascondere il sostegno popolare ai monaci buddhisti, visti come detentori dell’identità nazionale tibetana, e le ripetute manifestazioni, che partivano sempre da luoghi di culto. La nomina da parte del Comitato centrale di Hu Jindao come nuovo segretario del partito in Tibet (1989) e la proclamazione della legge marziale esplicitarono la volontà cinese di riprendere il totale controllo sulla Regione autonoma del Tibet (RAT) e di ristabilire l’ordine. Nel marzo 2008, sempre a L., si è verificata una nuova rivolta dei monaci buddhisti, anch’essa repressa dalle autorità.