Rivoluzione industriale
di Pat Hudson
L'espressione 'rivoluzione industriale', introdotta per la prima volta a quanto sembra da alcuni commentatori francesi alla fine del XVIII secolo, era ampiamente usata in Inghilterra negli anni quaranta dell'Ottocento, allorché Friedrich Engels descrisse gli effetti del capitalismo industriale sulle condizioni di vita delle masse. Verso la fine del secolo l'espressione acquistò un significato più preciso e specifico nell'opera di Arnold Toynbee, il primo storico dell'industrializzazione inglese. Egli mise in luce l'affermarsi di un'economia di mercato, l'incremento demografico e il relativo declino della forza lavoro rurale a seguito della recinzione delle terre comuni e dell'aumento della produttività agricola. La progressiva sostituzione dell'industria domestica con il sistema di fabbrica, il miglioramento delle comunicazioni, l'espansione del commercio e la concentrazione della ricchezza nelle mani di capitalisti e possidenti a spese dei lavoratori furono secondo Toynbee altri elementi essenziali della rivoluzione industriale inglese. L'elemento centrale nella cronologia proposta da Toynbee - ripreso in seguito da molti altri storici - è costituito dalle invenzioni.
Secondo tale cronologia, la rivoluzione industriale avrebbe avuto inizio intorno al 1760, con l'invenzione della macchina rotativa a vapore e di nuove tecnologie tessili e metallurgiche; seguì un periodo di industrializzazione intensiva, e il processo poteva dirsi concluso verso il 1850. Toynbee considerava la rivoluzione industriale un fenomeno improvviso e drammatico. Alcuni autori a lui contemporanei, come i coniugi Webb e i coniugi Hammond, particolarmente sensibili ai problemi sociali creati dall'industrializzazione, misero in rilievo, come già aveva fatto Marx in precedenza, sia la rapidità del mutamento socioeconomico sia il suo impatto deleterio sulla massa della popolazione. Povertà, malnutrizione, disoccupazione e criminalità vennero imputati da molti commentatori all'assenza di una regolamentazione pubblica e di controllo del nuovo sistema da parte dello Stato.
Un significativo cambiamento nell'interpretazione della rivoluzione industriale inglese si verificò negli anni trenta, allorché una serie di studi misero in luce l'estensione e la natura delle trasformazioni socioeconomiche intercorse prima del XVIII secolo, nonché il carattere irregolare e tutt'altro che omogeneo della diffusione delle nuove tecnologie e delle nuove forme di organizzazione del lavoro nell'industria britannica alla metà dell'Ottocento.
Questo mutamento di prospettiva si dovette soprattutto all'opera di J.H. Clapham, secondo il quale prima del 1830 nessuna industria aveva sperimentato una rivoluzione; nel Settecento avrebbero prevalso forme tradizionali di organizzazione industriale e stadi di transizione dello sviluppo. Nel 1850, nemmeno nei cotonifici le macchine avevano la prevalenza sul lavoro umano; la macchina a vapore non si diffuse se non dopo il 1830 e le dimensioni tipiche della fabbrica in tutti i settori industriali, compresi quello tessile e siderurgico, restavano piuttosto ridotte. Clapham mise inoltre in discussione le teorie precedenti sostenendo che, fatta eccezione per il declino di alcune industrie, come la tessitura con il telaio a mano, gli standard di vita delle masse conobbero un generale miglioramento all'inizio dell'Ottocento. Al pari di altri autori contemporanei, tra cui Heaton e Redford, Clapham evitò deliberatamente di usare l'espressione 'rivoluzione industriale'. Altri storici per contro attribuirono un carattere più radicale ai cambiamenti economici intervenuti dopo gli anni sessanta del Settecento, specialmente in considerazione delle trasformazioni sociali e culturali a essi associate. Nel suo classico studio del 1948 T.S. Ashton, pur riconoscendo l'importanza dei cambiamenti verificatisi prima del 1760, mise l'accento sul carattere radicale delle trasformazioni successive, che non furono solo di ordine economico, ma investirono anche la sfera sociale e culturale. In particolare, Ashton mise in rilievo il ruolo della riforma religiosa nella nascita di una imprenditoria dinamica, e focalizzò l'attenzione sui mutamenti nell'organizzazione del lavoro e negli standard di vita delle classi lavoratrici. Il ruolo di un'imprenditoria dinamica fu analizzato negli anni cinquanta e sessanta da altri autori sulla scia di Joseph Schumpeter, il quale per primo aveva messo in luce l'importanza degli imprenditori nel processo di industrializzazione.
Molti studi furono dedicati alla ricostruzione della storia di alcune tra le imprese più importanti e affermate. Il relativo ristagno della Gran Bretagna alla fine del XIX secolo venne imputato in larga misura ad un declino della qualità della classe imprenditoriale rispetto agli alti livelli raggiunti in precedenza, ma la ricerca più recente su imprese minori e più effimere e sui tassi di bancarotta negli anni della rivoluzione industriale ha dimostrato che l'eccezionale situazione favorevole creata da una ridotta pressione fiscale e da mercati protetti fu probabilmente assai più determinante di un presunto talento imprenditoriale specificamente britannico.Negli anni cinquanta e sessanta l'interesse di economisti, politici e storici si andò focalizzando sui problemi dello 'sviluppo del Terzo Mondo', e l'analisi dei meccanismi della modernizzazione industriale fu per un certo periodo al centro della storiografia dell'industrializzazione britannica. In quegli anni il processo di industrializzazione era considerato una sorta di percorso obbligato che tutti i paesi avrebbero dovuto intraprendere prima o poi, e il modello britannico era considerato potenzialmente istruttivo per i paesi arretrati. Al modello di crescita economica in cinque stadi elaborato da W.W. Rostow, basato sull'esperienza britannica, veniva attribuito un valore prescrittivo per il processo di sviluppo in Asia, nel Medio Oriente, nell'America Latina e in Africa. Secondo tale modello, alla "società primitiva" sarebbero subentrate le "precondizioni per la società industriale", cui avrebbe fatto seguito una fase di "decollo" (take off) verso la crescita "indipendente", poi la "maturità economica" e infine il raggiungimento della modernizzazione nell'"era dei consumi di massa". Nella teoria di Rostow il "decollo" (termine usato in sostituzione dell'espressione 'rivoluzione industriale') costituisce uno spartiacque: esso avrebbe avuto luogo in un periodo ben definito (1783-1802), dopo il quale la crescita sarebbe divenuta una condizione normale dell'economia. Il take off sarebbe stato caratterizzato da una crescita dell'indice di investimento superiore al 10% del reddito nazionale e dall'emergere di una successione di 'settori leader' che avrebbero costituito il motore della crescita economica.
Il modello di Rostow, in cui la rivoluzione industriale appare un punto di svolta fondamentale nello sviluppo economico, diede impulso a una messe di studi sui livelli di investimento, sull'impatto dei settori leader - in particolare quello tessile e ferroviario - e sulle precondizioni o cause del decollo.Il modello generale di Rostow cominciò a essere messo in discussione negli anni sessanta, quando P. Deane e W.A. Cole dimostrarono che prima dell'era delle ferrovie l'indice di investimento in Inghilterra fu assai inferiore al 10%, e che prima del 1760 vi era stata una significativa crescita economica; ma a mettere definitivamente in crisi la teoria rostowiana fu il persistere del sottosviluppo in altri paesi negli anni cinquanta e sessanta, nonostante gli apporti di capitale e gli aiuti stranieri. Negli anni sessanta cominciò ad apparire evidente che il divario tra paesi ricchi e paesi poveri in molti casi si andava ampliando, e che le ineguaglianze nello sviluppo non potevano essere spiegate facendo esclusivamente riferimento a fattori interni dei singoli paesi. Le teorie della dipendenza economica che predominarono nella letteratura sul sottosviluppo del ventennio successivo focalizzarono l'attenzione sui vantaggi internazionali che l'industrializzazione britannica aveva derivato dal militarismo e dall'imperialismo sia formale che informale.
A partire dagli anni cinquanta, con l'espansione dell'economia e delle politiche dello sviluppo, il dibattito sulle cause della rivoluzione industriale britannica divenne particolarmente acceso. Perché l'economia britannica subì una trasformazione così radicale in quell'epoca, e quali fattori favorirono la Gran Bretagna rispetto agli altri paesi dell'Europa occidentale in cui il processo di industrializzazione si verificò solo in un secondo tempo? Alcuni autori, sulla scia di Rostow, sottolinearono l'importanza di un più alto indice di formazione di capitale favorito da tassi di interesse piuttosto bassi o da profitti da inflazione. Altri attribuirono un'importanza determinante all'espansione del commercio mondiale, di cui l'Inghilterra si avvantaggiò più di tutti gli altri paesi per la sua decisa prosecuzione delle guerre commerciali contro Francesi e Olandesi. Secondo alcuni la tratta degli schiavi fu un fattore determinante in quanto agì da stimolo sul commercio transatlantico e creò profitti che poterono essere investiti nelle industrie britanniche.
La rivoluzione tecnologica e la politica del laissez-faire in ampie aree dell'economia furono anch'esse considerate, ovviamente, tra le principali cause di accelerazione della crescita. Riallacciandosi alle teorie di Weber e di R.H. Tawney, molti autori misero altresì in rilievo il ruolo del mutato atteggiamento nei confronti della creazione e dell'accumulazione della ricchezza e delle trasformazioni nel più ampio contesto culturale. Altrettanto importanti furono considerate le trasformazioni nel settore agricolo, che consentirono all'economia di sostenere l'espansione della forza lavoro non agricola, e la crescita demografica che determinò un aumento della domanda di beni e servizi e dell'offerta di manodopera a buon mercato per l'industria. Alla fine degli anni sessanta l'attenzione degli studiosi si andò focalizzando sul ruolo dei consumi. La rivoluzione industriale, secondo alcuni, sarebbe stata favorita anche da un aumento della propensione al consumo, associato alla nascita di nuove forme di vendita mirate a creare e ad intensificare la domanda.
La ricerca dei decenni successivi, pur confermando l'impossibilità di isolare un singolo fattore come causa determinante, fu dominata da un intenso dibattito sulla peculiarità della struttura della classe agraria inglese rispetto a quella di molte aree dell'Europa continentale, e in particolare della Francia. Secondo alcuni studiosi, in Inghilterra l'assenza di un ceto contadino paragonabile a quello presente nel resto d'Europa determinò una offerta di manodopera mobile più libera e creò un mercato interno più dinamico rispetto agli altri paesi, fatta eccezione per l'Olanda.Le cause della rivoluzione industriale tendevano ad essere distinte in fattori favorevoli a lungo termine e cause di impatto più immediato, e il grado di sviluppo dell'economia inglese prima del 1750 divenne oggetto di intensi dibattiti. Il livello di urbanizzazione e il grado di sviluppo dell'agricoltura commerciale, nonché la presenza di industrie minerarie, metallurgiche e tessili avevano reso l'economia inglese tutt'altro che sottosviluppata ben prima della rivoluzione industriale. Tuttavia la Francia si trovava in una situazione per molti versi analoga, e per gran parte del XVIII secolo il ritmo di crescita del reddito nazionale nei due paesi fu assai simile. Secondo alcuni autori la struttura sociale e la presenza di un ampio ceto contadino (protetto dallo Stato in quanto fonte di introiti fiscali) avrebbero ostacolato in Francia lo sviluppo di un mercato interno; gli atteggiamenti sociali nei confronti delle attività imprenditoriali, la disponibilità di risorse e la natura dei rapporti commerciali con l'estero dal canto loro avrebbero reso l'economia francese potenzialmente meno dinamica. Tuttavia il fatto che lo slancio iniziale della crescita favorisse la Gran Bretagna potrebbe essere stato puramente casuale o fortuito, in quanto una volta consolidatasi una supremazia tecnologica e produttiva, divenne difficile per i concorrenti emulare immediatamente i successi del paese pioniere.
3. La storia sociale: gli approcci tradizionali
In un primo tempo la storia sociale della rivoluzione industriale fu dominata dal dibattito sugli standard di vita, di cui furono precursori, nell'Ottocento, Marx ed Engels nonché altri autori che sulla loro scia focalizzarono l'attenzione sugli aspetti sociali dell'industrializzazione. Il dibattito assunse toni particolarmente aspri negli anni cinquanta e sessanta, con una contrapposizione frontale tra interpretazioni pessimistiche e interpretazioni ottimistiche. Uno dei punti più controversi riguardava gli indicatori del cambiamento cui far riferimento: secondo alcuni si dovevano utilizzare indicatori quantitativi quale l'andamento dei redditi reali, mentre per altri occorreva tener conto di fattori qualitativi come il deterioramento degli standard di vita.Anche adottando una definizione ristretta di standard di vita in termini di salario reale, si dimostrò difficile fornire indici attendibili e rappresentativi dell'andamento dei salari monetari e dei prezzi al dettaglio. Tener conto di fattori quali la crescente disoccupazione ciclica, la disoccupazione strutturale, i pagamenti in natura anziché in denaro, e valutare gli effetti dei mutamenti intervenuti nei modelli e nelle abitudini di consumo, nonché nella qualità dei beni e dei servizi, era e continua a essere problematico.
Non vi è dubbio che le classi lavoratrici risultarono svantaggiate rispetto ad altri gruppi sociali: l'eccesso di manodopera, la debolezza delle organizzazioni sindacali, una tassazione regressiva, la disoccupazione sia ciclica che strutturale furono tutti fattori che contribuirono a questo stato di cose. Come ha osservato giustamente Hobsbawm, la questione se la classe operaia percepisse salari reali inferiori o superiori di per sé non ha molta importanza a fronte dell'impatto di ineguaglianze sociali sempre più vistose e della trasformazione radicale della società in ogni suo aspetto sotto il capitalismo.Negli anni sessanta e settanta l'attenzione degli storici si andò focalizzando sui più ampi mutamenti sociali e sociopolitici che segnarono i decenni della rivoluzione industriale.
L'esito più rappresentativo di questo nuovo orientamento della ricerca fu l'opera di E.P.T. Thompson, The making of the English working class, che resta una pietra miliare nella storiografia. Thompson sottolinea l'esigenza di usare in modo nuovo le fonti storiche al fine di trarne informazioni sulla vita e sugli atteggiamenti della gente comune. Questo approccio della 'storia dal basso' divenne assai influente e diede avvio a un ricco filone di ricerca dedicato in larga misura alla nascita di un nuovo tipo di formazione di classe, all'emergere di una coscienza di classe e di movimenti radicali di opposizione nel corso della rivoluzione industriale. Secondo Thompson e altri autori, il periodo compreso tra gli anni novanta del XVIII secolo e gli anni trenta del secolo successivo vide la formazione della classe operaia: una crescente identità di interessi tra gruppi diversi di lavoratori (contrapposti agli interessi di altre classi) che trovò espressione nella nascita di istituzioni e di movimenti della classe operaia caratterizzati da una base forte e da un elevato grado di autocoscienza. Secondo la ricostruzione di Thompson, durante il periodo delle guerre napoleoniche le organizzazioni sindacali furono costrette alla clandestinità dalle proibizioni legislative, e si unirono alle attività insurrezionali di massa (distruzione delle macchine industriali e altre forme di agitazione) che caratterizzarono quegli anni.
La ricerca sulle masse e sulle rivolte popolari ha messo in luce la razionalità, la politica di opposizione e la critica all'economia politica espresse in tali azioni. Gli studi sugli sviluppi della classe operaia negli anni trenta e quaranta dell'Ottocento inoltre hanno evidenziato le sovrapposizioni tra il vasto movimento cartista (che invocava una riforma del diritto di voto) e i movimenti in favore di una riforma del sistema di fabbrica e contro l'imposizione della nuova, repressiva Poor law del 1834. Vi è chi ha sostenuto che proprio il decennio 1830-1840 vide l'emergere di una coscienza di classe rivoluzionaria nelle aree dell'industria tessile. In generale, sino ad anni recenti ha prevalso l'idea che l'epoca della rivoluzione industriale fu contrassegnata da un acuirsi della rivolta politica, dal conflitto di classe e dall'instabilità sociale.
4. Le attuali teorie macroeconomiche
Le teorie più recenti sulla rivoluzione industriale in Gran Bretagna si caratterizzano per interpretazioni assai più gradualistiche del mutamento sia economico che sociale. Gli storici dell'economia hanno concentrato i loro sforzi sul tentativo di valutare vari indicatori macroeconomici della crescita e del mutamento, quali il reddito nazionale, l'aumento della produzione industriale e della produttività. Secondo le stime di Dean e Cole, la crescita dopo lo slancio iniziale degli anni quaranta del Settecento fu assai più graduale di quanto si ritenesse in passato. L'analisi di Dean e Cole è stata criticata da Harley (1982), il quale ha affermato che essa sopravvaluterebbe la crescita economica avvenuta negli anni della rivoluzione industriale classica, dando un peso eccessivo alle esportazioni.
Utilizzando i dati relativi alle importazioni quali indicatori della crescita (impiego di materie prime, dazi e imposte) Harley dimostra che il settore industriale all'inizio del XVIII secolo era più esteso di quanto si ritenesse in passato, e che di conseguenza la crescita successiva non ebbe caratteri di eccezionalità. Tutte le stime dell'aumento della produzione complessiva implicano assunti relativi alla distribuzione dell'occupazione tra i vari settori economici. I primi studi sull'argomento facevano riferimento alle stime contemporanee di tale distribuzione, ma negli anni ottanta Lindert e Williamson, basandosi sui registri delle sepolture e su una serie di dati relativi ai salari, dimostrarono che le stime dei contemporanei tendevano a sopravvalutare l'occupazione nel settore agricolo. Il lavoro di Lindert e Williamson aprì la strada alle stime di Crafts, dalle quali è emerso un quadro della crescita economica nel XVIII secolo assai più pessimistico dei precedenti. Secondo tali stime, sino al 1830 la produzione reale non raggiunse il 3% annuo di crescita (mentre secondo le stime di Dean e Cole questo risultato era stato raggiunto già nel 1780). Secondo Crafts, la crescita del reddito reale pro capite fu notevolmente inferiore nel corso del secolo sino al 1830 perché la crescita della produttività industriale rimase piuttosto bassa.
Nella prima rivoluzione industriale, dunque, l'agricoltura avrebbe contribuito alla crescita della produttività in misura assai maggiore dell'industria stessa. Circa il 50% di tutti gli incrementi di produttività nella manifattura si dovettero all'industria tessile - un settore atipico e di dimensioni ridotte che costituiva una sorta di isola in un mare di tradizione; il settore tradizionale fu il peso morto che ostacolò la crescita della produttività e del reddito. Crafts imputa il rallentamento della crescita in Gran Bretagna ai problemi tipici di una nazione pioniere. Il principale problema sarebbe da individuarsi sul lato dell'offerta: l'economia inizialmente non avrebbe avuto sufficienti opportunità di investimento ad alto rendimento, poiché l'industrializzazione si andava realizzando su un fronte troppo ristretto.Una spiegazione diversa del rallentamento della crescita è stata proposta da Williamson, il quale attribuisce una notevole importanza alle disfunzioni dei mercati di capitale e del lavoro. Le differenze salariali tra il settore urbano e quello rurale indicherebbero la mancanza di un mercato del lavoro integrato e un'offerta di manodopera inelastica nelle città.
Ciò avrebbe contribuito a rallentare il tasso di industrializzazione e potrebbe essere costato intorno al 3% del prodotto nazionale lordo, specialmente negli anni trenta e quaranta dell'Ottocento. Le disfunzioni del mercato dei capitali furono secondo Williamson ancora più marcate e importanti, soprattutto durante le guerre napoleoniche. Lo spiazzamento dell'accumulazione privata da parte degli investimenti bellici potrebbe essere costato all'economia intorno all'8% del prodotto nazionale lordo. Il rallentamento della crescita potrebbe non essere stato determinato dai limiti dell'offerta, come ipotizzato da Crafts, bensì da una scarsa formazione di capitale e dall'assenza di cambiamenti nel rapporto tra capitale e lavoro. Ne consegue che gli incrementi della produttività furono dovuti non al risparmio bensì al talento individuale - non agli investimenti di capitale bensì all'innovazione e al perfezionamento delle tecniche e dei processi esistenti. Diversamente da quanto riteneva Crafts, infatti, secondo Williamson la rivoluzione industriale fu un'epoca di innovazioni e di cambiamenti generalizzati, sebbene l'impatto di tali cambiamenti fosse limitato a causa degli effetti di spiazzamento determinati dalle emissioni di debito e da carenze localizzate di manodopera.
Nonostante le difficoltà di stimare con precisione gli indicatori macroeconomici, senza dubbio sono stati compiuti notevoli progressi in questa direzione, e non è più possibile tornare all'idea puramente impressionistica che tali indicatori nel loro complesso debbano necessariamente mostrare una accelerazione della crescita durante la rivoluzione industriale. Il fatto che i livelli di crescita a livello nazionale rimanessero stabili non autorizza peraltro ad escludere l'esistenza di una fondamentale discontinuità economica. Così come è possibile una crescita senza un cambiamento radicale, si può avere un cambiamento radicale con una crescita ridotta. Di fatto esiste un paradosso della produttività: il rapido mutamento strutturale e tecnologico richiede in genere un ingente impiego di capitali e di forza lavoro, determinando nel breve periodo una crescita piuttosto lenta. Inoltre, la rivoluzione industriale britannica fu un fenomeno regionale. Alcune regioni divennero sempre più legate ai settori che sperimentarono per primi la rivoluzione tecnologica - l'industria tessile (lana e cotone) e metallurgica e, in seguito, la siderurgia, l'industria estrattiva, le costruzioni navali e ferroviarie. La concentrazione settoriale per regione creò numerose economie di agglomerazione e lo sviluppo di infrastrutture specializzate, che avvantaggiarono notevolmente le imprese di queste regioni industriali rispetto a quelle concorrenti localizzate in altre aree. Altre regioni si specializzarono nell'agricoltura commerciale o subirono un processo di deindustrializzazione entrando in una fase di stagnazione. Gli indici macroeconomici nazionali non rivelano questi fondamentali cambiamenti regionali che si svolgono al di sotto della superficie delle statistiche globali. In realtà, la rivoluzione industriale fu un fenomeno fondamentalmente discontinuo, irriducibile a una semplice somma delle sue parti.
5. Il ruolo dell'agricoltura
Ancora nel 1800 il settore agricolo produceva i due terzi del capitale nazionale, un terzo del reddito nazionale e assorbiva circa un terzo dell'occupazione totale (sebbene la quota di forza lavoro impiegata nell'agricoltura avesse subito un declino alla fine del XVII secolo). I contemporanei, in particolare gli economisti classici Ricardo e Mill, consideravano questo importante settore come una potenziale fonte di impoverimento per l'economia. Ma sino ad anni recenti, gli storici hanno attribuito un ruolo altamente positivo all'agricoltura nel processo di industrializzazione. Secondo le interpretazioni dominanti, le innovazioni, il dinamismo e l'aumento della produttività di questo settore avrebbero consentito all'economia di sostenere la crescita costante della popolazione non agricola. Il calo dei prezzi dei generi alimentari stimolò il mercato interno dei prodotti industriali, mentre l'incremento dei redditi agricoli contribuì a espandere la domanda. Secondo alcuni autori inoltre il capitale fondiario avrebbe favorito l'industria sia indirettamente attraverso la domanda di attrezzature e materiali edili, sia direttamente attraverso l'investimento dei proprietari terrieri in vari settori industriali, principalmente estrattivo e tessile, nonché nella costruzione di canali, ferrovie e infrastrutture urbane e nello sviluppo del settore terziario, in particolare del sistema finanziario - compresi i servizi bancari e il settore legale.
A fondamento della rivoluzione industriale, secondo questa interpretazione, vi sarebbe stata una precedente rivoluzione agricola, che vide l'introduzione di nuove colture, l'adozione del sistema della rotazione, l'impiego intensivo di animali da tiro, la nascita della grande azienda agricola in molte aree, e un aumento della produttività superiore a quello registrato in Francia nel XVIII secolo. Nelle campagne inglesi si era andata affermando una struttura tripartita della proprietà terriera formata dai grandi proprietari, dagli affittuari e dai lavoratori salariati senza terra, che avrebbe contribuito in modo decisivo alla mobilità dei capitali, delle imprese e della forza lavoro necessaria per l'innovazione agricola, per l'aumento della produttività e per l'afflusso di manodopera e di capitali verso l'industria.
Un ruolo centrale nella rivoluzione agricola e nella nascita del capitalismo è stato attribuito alle enclosures. Sebbene il processo di recinzione delle terre fosse iniziato già nei secoli precedenti, vi furono due grandi ondate coincidenti con la rivoluzione industriale: gli anni sessanta del Settecento e il periodo delle guerre napoleoniche. La prima ondata consistette prevalentemente nella recinzione delle terre di uso comune ancora esistenti nell'Inghilterra centrale, che determinò una conversione di terreni arabili in pascoli e creò un massiccio contingente di manodopera disoccupata. La seconda ondata fu caratterizzata dal miglioramento della produttività dei terreni meno fertili delle regioni sudorientali, e dalla messa a coltura di molte terre marginali di brughiera. La recinzione delle terre fu osteggiata da molti contemporanei, preoccupati dai suoi effetti di spopolamento e di impoverimento. Secondo Marx, ad esempio, attraverso le enclosures i lavoratori vennero espropriati della terra e si trasformarono in manodopera salariata nelle fabbriche o furono ridotti all'indigenza. Secondo gli storici successivi, tuttavia, il processo di proletarizzazione alla fine del XVIII secolo fu determinato in misura assai maggiore dall'incremento demografico e dall'accresciuta produttività che non dalle recinzioni, le quali anzi furono un processo a uso intensivo di lavoro.
Si discute tuttora se la nascita del proletariato sia da considerarsi un fenomeno 'naturale' oppure sociale: un prodotto della crescita economica e dell'espansione demografica, oppure della lotta per il potere tra differenti gruppi sociali e ideologie confliggenti. Ciò che si può affermare con certezza è che nel periodo della rivoluzione industriale in molte aree dell'agricoltura commerciale le dimensioni medie delle aziende agricole aumentarono, passando da 30-60 acri a oltre 100 acri. Le enclosures contribuirono a questo processo rendendo difficile la sopravvivenza per i piccoli agricoltori, che non potevano affrontare i costi della recinzione e/o avevano perduto gli antichi diritti di pascolo e di raccolta nei campi comuni. La conduzione familiare era inadeguata alle grandi aziende agricole, che richiedevano l'impiego di manodopera salariata. L'aumento dei prezzi dei generi alimentari inoltre rendeva più economico servirsi di braccianti a giornata o a settimana, piuttosto che assumere lavoranti a tutto servizio. Lo sviluppo di grandi imprese agricole contribuì dunque ad accelerare il processo di proletarizzazione.
La recinzione delle terre comuni privò gran parte della popolazione rurale, in particolare i contadini senza terra, dei tradizionali diritti di pascolo, caccia, pesca e raccolta essenziali alla loro sopravvivenza. Ancora più importante fu la perdita dei redditi e delle attività di sussistenza tipicamente femminili, in particolare l'allevamento delle mucche da latte e del pollame. Una mucca da latte poteva fornire l'equivalente di un terzo del salario di un membro maschile della famiglia. La recinzione delle terre contribuì in misura notevole alla diminuzione delle opportunità di lavoro per le donne nelle campagne. Il processo di proletarizzazione in molte regioni dell'Inghilterra avvenne prima e più rapidamente per le donne che non per gli uomini, nonostante il lavoro agricolo femminile sopravvivesse nelle aree di orticoltura attorno ai centri abitati, nelle piccole aziende agricole delle regioni pastorali come il Galles e la Regione dei Laghi, e nelle aree industriali in cui la domanda di manodopera maschile nelle fabbriche faceva sì che i principali lavori agricoli fossero affidati alle donne.Il ruolo positivo dell'agricoltura nella rivoluzione industriale è stato messo recentemente in discussione da alcuni studiosi, secondo i quali nel periodo in questione questo settore avrebbe costituito in realtà un ostacolo alla crescita economica.
È indubbio che l'agricoltura fu un fattore di sviluppo economico nella prima metà del XVIII secolo, grazie all'aumento della produttività, ai prezzi agricoli bassi e al significativo contributo che le esportazioni di grano davano alla bilancia dei pagamenti. Tuttavia dopo il 1760 la crescita della produttività subì un rallentamento, e i prezzi agricoli aumentarono in misura considerevole rispetto a quelli industriali in quanto la pressione demografica fece lievitare il costo dei generi alimentari. Ciò ridusse il livello del reddito discrezionale di cui disponevano i lavoratori salariati, e rese assai dure le condizioni di vita dei poveri proletarizzati. I proprietari terrieri e gli agricoltori spesso beneficiarono di questa situazione, e il loro aumentato potere d'acquisto potrebbe aver compensato in parte le riduzioni dei consumi registrate altrove, ma sembra poco plausibile considerare l'agricoltura come la principale causa di un aumento del potere d'acquisto per i prodotti manifatturieri. Il rendimento dell'agricoltura fu appena sufficiente a evitare una crisi di mortalità. Nello stesso tempo gli alti prezzi agricoli, specialmente durante le guerre napoleoniche, attirarono gli investimenti nell'agricoltura anziché nell'industria, proprio quando le innovazioni e l'espansione della domanda richiedevano una formazione di capitale addizionale nel settore manifatturiero. Inoltre gli industriali in genere aspiravano ad acquisire lo status e ad adottare lo stile di vita dei proprietari terrieri, e di conseguenza in molti casi i profitti realizzati con la manifattura venivano investiti in proprietà fondiarie. C'è da considerare inoltre che la manodopera disoccupata o sottoccupata nelle campagne non venne assorbita in modo indolore o efficiente nell'industria.
L'affermarsi della grande impresa agricola, la preferenza per la manodopera salariata, la recinzione dei campi comuni e delle terre incolte furono tutti fenomeni che contribuirono alla proletarizzazione, ma che si verificarono in misura preponderante nelle aree geograficamente distanti dai principali centri manifatturieri. Nelle campagne parte della manodopera in eccedenza fu assorbita da vari tipi di industrie domestiche rurali (protoindustria), ma la maggior parte della forza lavoro rimase relativamente immobile e disoccupata, o si riversò nei centri urbani vicini dove, ancora una volta, alimentò il problema del pauperismo. Intanto le industrie - in particolare quelle situate in centri distanti dalle fonti di energia idraulica e quelle che richiedevano manodopera specializzata o con esperienza nella manifattura - spesso restavano a corto di forza lavoro. Sembra dunque lecito concludere che l'agricoltura non ebbe nel processo di industrializzazione quel ruolo positivo attribuitole dai primi storici.
6. La protoindustrializzazione
Secondo una teoria avanzata all'inizio degli anni settanta, la rivoluzione industriale vera e propria, caratterizzata dalla produzione meccanizzata e accentrata nelle fabbriche, fu preceduta e preparata da una fase di protoindustrializzazione. Questa fase fu caratterizzata da un'espansione dell'industria domestica, perlopiù rurale, che si dimostrò talmente dinamica sul piano economico e sociale da determinare il passaggio dell'economia alla seconda fase, quella propriamente industriale. La protoindustria si sviluppò nelle aree meno adatte all'agricoltura commerciale, in cui la pressione demografica aveva creato una scarsità di risorse e in cui l'alto tasso di disoccupazione e di sottoccupazione (soprattutto della manodopera femminile e minorile) metteva a disposizione forza lavoro a buon mercato. Allorché intere regioni si specializzarono in misura crescente in determinate produzioni industriali (tessile, metallurgica, ecc.) importarono la maggior parte delle derrate alimentari dalle regioni vicine relativamente più avvantaggiate nella produzione agricola. Si avviò così un processo di specializzazione regionale che creò aree industriali e regioni di agricoltura commerciale, le quali sostennero l'espansione dei centri urbani nel periodo della rivoluzione industriale.
La fase protoindustriale fu caratterizzata inoltre da una significativa accumulazione di capitale, che poté essere investito nelle nuove tecnologie e nei sistemi di fabbrica subentrati in seguito. La protoindustria era potenzialmente molto redditizia; i mercanti che investivano nelle attività manifatturiere infatti avevano poche spese generali e costi salariali spesso molto ridotti, in quanto la forza lavoro era efficacemente sussidiata dai redditi agricoli o dalle attività di sussistenza rurali. La protoindustria creò inoltre una forza lavoro addestrata e disciplinata, e aprì la strada alla creazione di mercati e di attività mercantili mai prima sfruttate, specialmente nei territori del Nordamerica. Secondo alcuni autori, la protoindustria avrebbe contribuito anche ad accelerare il processo di proletarizzazione. Grazie ad essa, infatti, i giovani erano in condizione di sposarsi e di costituire una nuova famiglia contando solo sui redditi derivati dalle attività manifatturiere, senza dover aspettare di ereditare la terra (in conseguenza di questi sviluppi, secondo alcuni autori, nelle aree protoindustriali si sarebbe affermata l'eredità divisibile). Il numero crescente di individui privi di proprietà terriere e la precoce indipendenza economica causati dalla protoindustrializzazione ebbero anche importanti conseguenze demografiche e sociali. I giovani che contavano sui guadagni derivati dalla manifattura erano in condizione di sposarsi prima e quindi di avere un maggior numero di figli. L'indipendenza economica comportava anche una maggiore libertà dal controllo dei genitori (e per le donne una maggiore indipendenza dai mariti e dai padri). Ciò potrebbe aver favorito un allentamento dei controlli sessuali e sociali, un maggior individualismo e un incremento delle nascite illegittime.
Il caso dell'Inghilterra si rivela il più adatto per verificare la validità della teoria della protoindustrializzazione, in primo luogo perché questo paese sperimentò la rivoluzione industriale, ovvero la seconda fase, nel settore tessile anziché in quello delle costruzioni ferroviarie o dell'industria pesante, i quali non ebbero alcuna connessione diretta con una precedente fase protoindustriale. Inoltre, la dinamica protoindustriale poté operare senza l'ostacolo della concorrenza delle industrie straniere, in quanto la Gran Bretagna fu il paese pioniere dell'industrializzazione. Ciononostante, su dieci regioni protoindustriali inglesi solo quattro riuscirono ad approdare alla seconda fase dell'industrializzazione. La presenza di miniere di carbone sembra sia stata assai più importante dell'esistenza di una protoindustria nel determinare tale passaggio nelle singole regioni. Il trasferimento di capitali e capacità imprenditoriali dalla protoindustria alla seconda fase dell'industrializzazione non fu sempre automatico.
Molti imprenditori protoindustriali erano riluttanti a investire nei sistemi di produzione meccanizzata accentrati nelle fabbriche che non avevano una resa immediata, e si attennero ai sistemi tradizionali fino a che non vennero soppiantati da quanti avevano optato per le innovazioni. Spesso, inoltre, la produzione meccanizzata richiedeva competenze e specializzazioni molto diverse da quelle sviluppate dalla manodopera protoindustriale. Infine, i lavoratori erano riluttanti a passare al nuovo sistema di fabbrica, e ciò vale in particolare per il ceto artigiano, che aveva un'antica tradizione di organizzazione corporativa e di tutela dei propri diritti e delle proprie abilità professionali. Per questo motivo la forza lavoro nelle prime fabbriche era costituita quasi sempre in misura preponderante da donne e minori, nonché da apprendisti poveri privi di esperienza nella manifattura.Poiché l'abbassamento dell'età al matrimonio e la diminuzione dei tassi di celibi/nubili non furono fenomeni limitati alle regioni protoindustriali, è ovvio che in Inghilterra e nelle economie dell'Europa occidentale dell'epoca agivano anche altri fattori demografici. Inoltre la proletarizzazione e i mutamenti nel sistema di successione ereditaria non possono essere considerati esclusivamente una conseguenza della protoindustrializzazione, e lo stesso vale per l'accresciuta autonomia intergenerazionale, che probabilmente è da ricollegarsi alla migrazione e all'urbanizzazione più che alla protoindustria.
L'interpretazione della rivoluzione industriale come un processo lineare articolato in due stadi risulta poco convincente per molte ragioni. Per quanto riguarda l'Inghilterra, in particolare, essa trascura il grande dinamismo apportato all'economia dall'espansione dei centri urbani, in particolare delle città portuali, e l'impatto economico, sociale e demografico delle masse di manodopera salariata che già nella prima metà del Settecento lavoravano in industrie accentrate, ad esempio nel settore estrattivo e in quello delle costruzioni navali. Non sembra corretto inoltre affermare che le tradizionali forme domestiche e artigianali di manifattura furono inevitabilmente soppiantate dalla produzione in fabbrica più efficiente, in quanto sistemi a uso intensivo di lavoro - dall'artigianato di lusso agli opifici basati sullo sfruttamento della manodopera - sopravvissero ben oltre l'epoca della rivoluzione industriale.Il processo di industrializzazione non si configurò quindi come un passaggio lineare dalle manifatture tradizionali alla produzione accentrata nelle fabbriche, così come viene presentato dalla teoria delle due fasi, ma fu piuttosto caratterizzato dall'irregolarità e dalla coesistenza di vari stadi di sviluppo. Tuttavia la teoria della protoindustrializzazione ha avuto il merito di evidenziare i rapporti tra la rivoluzione industriale e le trasformazioni nel mondo rurale, le condizioni demografiche e l'evoluzione delle strutture familiari.
7. Il mutamento demografico
Un problema sul quale si è incentrato l'interesse degli studiosi è l'esatta connessione tra mutamento economico ed espansione demografica. In particolare, si tratta di stabilire se la crescita demografica abbia favorito la rivoluzione industriale e in che misura l'aumento della popolazione fosse il risultato di sviluppi economici precedenti. Alla metà del XVIII secolo si verificò una transizione demografica: la crescita della popolazione registrò una netta accelerazione, dopodiché continuò a ritmo sostenuto. I tassi di crescita raggiunsero i livelli più alti nella prima decade dell'Ottocento, in cui per la prima volta l'espansione demografica non fu accompagnata da un aumento dei prezzi alimentari. L'espansione demografica va considerata un fenomeno strettamente legato alla rivoluzione industriale, come sua causa o effetto o entrambe le cose. Gli studi di Wrigley e Schofield hanno dimostrato che negli anni quaranta del Settecento ebbe inizio una crescita demografica accelerata, e che i livelli di fecondità contribuirono all'espansione demografica in misura assai maggiore dell'aumento delle aspettative di vita.
Tra il 1680 e il 1810 l'aspettativa media di vita alla nascita passò da 32,4 anni a 38,7, e tale progresso si verificò per la maggior parte a partire dal 1730. Tuttavia l'età media al matrimonio si abbassò da 26 a 23 anni, e la percentuale di donne nubili scese dal 15% al 7,5% circa. Furono questi a quanto sembra i principali fattori che determinarono l'incremento dei tassi di natalità verificatosi nel XVIII secolo, con un aumento delle nascite illegittime che contribuì alla dinamica della fecondità. Se al principio del secolo i figli nati al di fuori del matrimonio rappresentavano il 2% delle nascite totali, alla fine del Settecento tale percentuale era salita al 6%. Al principio del secolo i figli illegittimi rappresentavano meno dell'1% di tutte le nascite primogenite. Nel 1800 la metà delle nascite primogenite avveniva al di fuori del matrimonio (di queste un quarto erano nascite illegittime, e un quarto concepimenti prenuziali).
In che modo l'abbassamento dell'età al matrimonio e l'aumento dei tassi di nuzialità erano collegati al mutamento economico? Alcuni autori hanno sostenuto che l'abbassamento dell'età alle nozze fu favorito dal declino del lavoro a servizio e dell'apprendistato che avevano determinato una nuzialità tardiva, e dalla protoindustrializzazione che rese il matrimonio più precoce e universale. L'impatto della migrazione della popolazione soprattutto giovanile potrebbe inoltre aver creato un mercato matrimoniale particolarmente attivo nei centri urbani. Secondo Wrigley e Schofield i tassi di nuzialità erano determinati da un ben radicato sistema di controllo preventivo: la diminuzione dei livelli di reddito induceva a ritardare il matrimonio. I due autori, tuttavia, non sono in grado di dimostrare una connessione statistica tra salari reali e nuzialità senza introdurre un intervallo di 30 anni nelle serie relative ai tassi di nuzialità. Essi, inoltre, non considerano le differenze di motivazione tra i due sessi nelle decisioni matrimoniali, distinzione che invece si rivela importante soprattutto se si considera che per le donne il matrimonio rappresentava spesso l'unica alternativa alla miseria in tempi di ristrettezze economiche. Nel periodo della rivoluzione industriale classica i livelli salariali sembrano aver influito in misura minore, se non del tutto marginale, sull'età al matrimonio o sui tassi di natalità.Il comportamento demografico fu influenzato in misura ben più significativa dal processo di proletarizzazione - sia nelle regioni agricole sia in quelle protoindustriali -, che favorì un maggior individualismo nelle decisioni matrimoniali e determinò flussi migratori i quali stimolarono spesso il mercato matrimoniale. Secondo Seccombe il XVIII secolo e il periodo della rivoluzione industriale furono caratterizzati da almeno tre diversi modelli di formazione della famiglia - contadino, protoindustriale e proletario - variamente combinati nel tempo e nello spazio a seconda della fase di sviluppo economico e dei rapporti sociali ad essa associati.
Le pressioni economiche determinavano modelli nuziali differenti nei diversi gruppi sociali, e le decisioni relative al matrimonio e alla famiglia di uomini e donne a loro volta influenzarono il cambiamento economico. Levine ha avanzato l'ipotesi che le diverse classi sociali e i diversi gruppi occupazionali interpretassero in modi differenti lo stesso patrimonio culturale e lo stesso sistema demografico ispirato a criteri prudenziali. Proprio perché le interpretazioni dei contadini e dei proletari erano profondamente diverse, poté verificarsi un radicale cambiamento dei comportamenti demografici senza che intervenisse un cambiamento nel regime demografico, ma semplicemente a seguito di una ristrutturazione della forza lavoro. Mentre una popolazione contadina aveva impiegato due secoli per raddoppiare, una popolazione proletaria fu in grado di raggiungere lo stesso risultato in un quarto del tempo.In quest'epoca si registrò anche un aumento delle aspettative di vita. Un progresso in questo senso sembra si fosse verificato già negli anni trenta del Settecento, probabilmente dovuto a un declino delle malattie epidemiche e/o a un innalzamento degli standard di vita consentito da una migliore nutrizione e dalla diminuzione dei prezzi alimentari. Ciò ebbe delle ripercussioni sui regimi di fertilità, in quanto determinò una maggiore durata dei matrimoni e un declino della mortalità infantile.
Le aspettative di vita continuarono a crescere nel corso del XVIII secolo, probabilmente grazie a una migliore distribuzione e all'incremento delle vendite di generi alimentari e di carbone per uso domestico, nonché alla maggiore disponibilità di tessuti lavabili e di sapone a buon mercato; il vaccino contro il vaiolo ebbe anch'esso un ruolo importante. Nel loro studio sull'espansione demografica Wrigley e Schofield danno alla mortalità un rilievo molto inferiore rispetto alla fertilità, ma ciò potrebbe essere un errore. In primo luogo l'aumento delle aspettative di vita dovrebbe essere considerato uno dei principali fattori che incise sui livelli di fecondità; in secondo luogo occorre tener conto che alla fine del XVIII secolo si verificò una redistribuzione demografica in favore dei centri urbani (che avevano tassi di mortalità assai più elevati rispetto alle campagne). Il fatto che in queste circostanze le aspettative di vita aumentassero sensibilmente a livello nazionale indica che durante la rivoluzione industriale vi fu una netta diminuzione della mortalità sia nelle campagne che nelle città.L'espansione demografica ebbe senza dubbio un ruolo importante nella crescita economica, in quanto contribuì all'offerta di manodopera a basso costo per l'industria e ad ampliare il mercato interno dei beni e dei servizi.
Tuttavia potrebbe anche aver ritardato la crescita, ostacolando l'introduzione di tecnologie mirate a risparmiare lavoro e l'accumulazione di capitale, che contrastava con i bisogni di una popolazione in espansione. Il dibattito è ancora aperto, ma attualmente l'opinione dominante è che l'espansione demografica ebbe conseguenze sostanzialmente negative per l'economia, determinando un aumento del pauperismo, degli interventi assistenziali e dei prezzi alimentari. Tranne che per i generi di prima necessità, la domanda interna ne risultò scarsamente influenzata. Le regioni in cui ebbe luogo l'industrializzazione spesso erano distanti dalle principali zone di disoccupazione, e solo in rari casi l'afflusso di manodopera verso aree e settori in cui vi era domanda di forza lavoro si verificò senza problemi. Probabilmente l'economia in via di industrializzazione riuscì appena a evitare una crisi malthusiana di mortalità.
8. L'urbanizzazione
Un altro, importante aspetto del mutamento economico associato alla rivoluzione industriale e all'espansione demografica fu la rapida urbanizzazione. Tra il 1600 e il 1800 l'ammontare della popolazione residente nei centri urbani quadruplicò in Inghilterra, mentre nel resto dell'Europa nordoccidentale non si ebbero mutamenti di rilievo. Nel XVIII secolo dunque l'Inghilterra era il paese con la più alta percentuale di popolazione urbana d'Europa (fatta eccezione per l'Olanda) e con la maggiore quota di popolazione rurale non agricola (che costituiva ben oltre il 30% nella seconda metà del secolo, mentre la popolazione urbana ammontava al 25% ed era in rapida crescita. In Francia le percentuali corrispondenti erano rispettivamente il 30% e l'11%). Tra il 1801 e il 1911 la quota della popolazione urbana in Inghilterra e nel Galles salì da un terzo ai quattro quinti della popolazione complessiva. Dati i tassi estremamente elevati di espansione demografica, ciò significava un enorme incremento dei residenti urbani, che passarono da 3,5 a 32 milioni. Nel 1845 la popolazione residente in città nell'Inghilterra e nel Galles costituiva la maggioranza della popolazione. Questa alta concentrazione demografica nelle città costituì una caratteristica distintiva dell'industrializzazione in Inghilterra, distinguendola dall'esperienza dell'Europa continentale. L'urbanesimo ebbe un impatto significativo sulla storia sociale del periodo e influenzò il corso della stessa crescita economica.
La crescita urbana nel XVIII secolo fu accompagnata da importanti cambiamenti nei rapporti gerarchici tra le dimensioni delle città, dovuti alla rapida espansione dei centri commerciali e delle città portuali. Nella prima metà del XIX secolo un'estensione dei centri urbani del 30% nel giro di dieci anni costituiva un fenomeno tutt'altro che infrequente, e in alcuni decenni alcune città sperimentarono una crescita superiore al 60%. Ciò creò enormi problemi sociali, in quanto all'espansione delle città non corrispose un adeguato sviluppo delle infrastrutture urbane e dei servizi sociali, e la massa dei nuovi immigrati era perlopiù priva di tradizioni urbane. La crescita avvenne senza alcuna regolamentazione da parte del governo, e sino al 1875 non venne esercitata alcuna pressione sulle autorità affinché fissassero degli standard per l'edilizia abitativa o prendessero provvedimenti per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.
Lo scarso sviluppo e i costi elevati dei mezzi di trasporto, la proliferazione di occupazioni occasionali e i problemi di approvvigionamento aggravarono le condizioni della popolazione urbana, e la terra sottratta all'edilizia urbana per la costruzione delle linee ferroviarie in un primo tempo contribuì al problema del sovraffollamento nei centri delle città.L'impatto sociale dell'urbanizzazione fu immenso.
La povertà, la disoccupazione e gli alti tassi di criminalità nelle città acuirono le paure del ceto medio accrescendone la diffidenza nei confronti degli strati inferiori, considerati socialmente pericolosi. Le differenze di classe furono accentuate dalla segregazione sociale dei quartieri e dall'esperienza di diversi tassi di morbilità e di mortalità. Non meno sentiti dei conflitti di classe erano quelli etnici, ulteriormente acuiti dalle ricorrenti crisi recessive nelle città e dalla crescente competizione per il lavoro tra operai delle fabbriche e lavoranti a domicilio, immigrati e locali, irlandesi e inglesi, uomini e donne. Secondo un'opinione corrente l'immigrazione urbana spezzava i legami della famiglia estesa contribuendo al crescente isolamento della famiglia nucleare. Tuttavia la maggior parte degli spostamenti della popolazione era a breve raggio o avveniva in modo graduale, e la famiglia ebbe un importante ruolo di sostegno nell'immigrazione. Le famiglie e i gruppi familiari spesso si reinsediavano rapidamente nelle città, e le donne sposate che lavoravano potevano affidare la cura dei figli ai nonni o ad altri parenti coresidenti.Le città ebbero inoltre un importante ruolo economico nella rivoluzione industriale. Già nella fase della protoindustrializzazione la lavorazione dei prodotti finiti, la vendita e le operazioni bancarie e finanziarie erano concentrate nelle città. Quando il vapore cominciò a sostituire l'energia idrica, i centri urbani divennero ancora una volta le principali sedi della manifattura, specialmente quelli delle aree carbonifere, mentre le città portuali con le loro infrastrutture commerciali e finanziarie fornirono i mezzi necessari per attuare la rapida espansione del commercio d'oltremare e la fondazione di imperi coloniali. La domanda di generi alimentari e di materie prime nelle aree urbane influì in misura significativa sulla specializzazione agricola.
Nelle aree attorno ai centri abitati si svilupparono l'orticoltura, l'allevamento dei polli e l'industria casearia, ma vi fu anche una specializzazione a livello regionale: così ad esempio il bestiame allevato e posto all'ingrasso in Scozia veniva inviato a Londra, che importava altresì dall'Irlanda sego e carne di manzo. Le città furono anche importanti centri per lo sviluppo dei consumi voluttuari e di nuove tecniche di vendita al pubblico basate sull'esposizione e sulla reclamizzazione delle merci. Infine, l'elevata mortalità nei centri urbani potrebbe aver avuto un influsso positivo sulla crescita economica, evitando un incremento eccessivamente rapido della popolazione.
Con la sua popolazione di mezzo milione di abitanti nel 1700, e di quasi un milione nel 1800, Londra rappresentava la più grande città europea. Un decimo della popolazione dell'Inghilterra e del Galles era concentrato nella capitale, e si calcola che un sesto della popolazione avesse contatti diretti e regolari con Londra, attraverso il commercio, l'educazione, la vita sociale o i viaggi. La capitale era un centro di informazioni commerciali e di consumi voluttuari che influenzavano la moda e il gusto di tutto il paese. La domanda del mercato londinese creò inoltre una specializzazione regionale nella produzione di merci nel settore sia agricolo che industriale. Il flusso commerciale verso la capitale contribuì in misura notevole allo sviluppo del terziario - in particolare il settore dei trasporti interregionali e i servizi finanziari. Londra era anche il centro della finanza e del commercio internazionali oltreché la sede del governo, e aveva quindi tutto il potere e i privilegi, nonché l'aspetto e la cultura cosmopoliti connessi a questi ruoli. Una città di tali dimensioni in un paese relativamente piccolo non poteva che esercitare un'influenza significativa sull'intera economia e sulla natura e sul dinamismo della rivoluzione industriale.
9. Il ruolo dello Stato
Secondo l'interpretazione corrente del ruolo dello Stato nella rivoluzione industriale inglese, un intervento ridotto al minimo e la politica del laissez-faire crearono le condizioni favorevoli per il mutamento economico. La tradizione liberale britannica ha sempre messo in risalto l'effetto positivo sull'economia dell'assenza di un assolutismo conforme al modello europeo, e questa idea continua a riscuotere consensi nel clima politico attuale. Ma nel XVIII secolo la Gran Bretagna poté diventare un'importante potenza militare, fondando un vasto impero e acquistando il dominio di molti settori del commercio internazionale, grazie all'emergere di un nuovo tipo di Stato caratterizzato da un apparato fiscale e militare riorganizzato in modo efficiente, da un inasprimento della pressione fiscale e da una burocrazia professionale. Lo Stato divenne il più importante attore economico: la spesa pubblica aumentò sistematicamente, l'indebitamento a breve termine da parte dello Stato acquistò un ruolo di rilievo nei mercati finanziari e le imposizioni fiscali divennero più onerose che in qualsiasi altro paese europeo, fatta forse eccezione per l'Olanda. Nei periodi di guerra gli squilibri nel bilancio dettero luogo varie volte a crisi finanziarie.
Le interpretazioni liberiste e quelle interventiste del ruolo dello Stato nella rivoluzione industriale inglese possono essere in parte riconciliate, in quanto l'aumentata attività dello Stato nel XVIII secolo fu diretta quasi esclusivamente alla politica estera, mentre la maggior parte dei controlli e delle regolamentazioni interne fu smantellata in favore di un regime di libero mercato. Ma l'indebitamento e l'aumentata pressione fiscale determinati dell'espansionismo militare ebbero un notevole impatto sull'economia interna, in quanto crearono una significativa redistribuzione del reddito a sfavore dei lavoratori salariati, agirono da stimolo sull'industria e su altri settori dell'economia, e sostennero il mercato finanziario londinese e istituzioni analoghe, che ebbero un impatto a lungo termine sull'economia complessiva.Tra l'inizio del XVIII secolo e il 1815 la pressione tributaria passò dal 9% a oltre il 18% del reddito nazionale.
Durante le guerre napoleoniche lo Stato ricorse largamente all'indebitamento sul mercato finanziario londinese, soprattutto ai prestiti di investitori della metropoli e dell'Inghilterra meridionale. Si venne così a creare un gruppo di ricchi finanzieri interessati alla stabilità del governo. In tempo di pace gli interessi sul debito pubblico assorbivano il 40-50% delle entrate fiscali, determinando un'importante redistribuzione del reddito in favore dei banchieri e a scapito dei contribuenti. L'aumento del reddito nazionale probabilmente facilitò l'accettazione di un aggravio delle imposte, ma le tasse aumentarono a un ritmo tre o quattro volte superiore rispetto a quello del reddito nazionale. La reazione nel complesso positiva dei cittadini fu senza dubbio favorita da un'amministrazione sempre più efficiente e professionale che non ammetteva esenzioni per singoli individui, ma la cittadinanza accettò senza eccessive resistenze l'aumento delle tasse principalmente perché il grosso del prelievo fiscale (oltre il 50% negli anni 1750-1785, e oltre un terzo nel periodo successivo) era costituito da imposte indirette sui beni di largo consumo. Spesso queste erano saggiamente graduate in base a un sistema di scala mobile, per cui i beni di prima necessità erano tassati in modo più lieve rispetto ai generi di lusso, ma in ogni caso le imposte gravavano in misura sproporzionata sulla categoria dei lavoratori salariati.
Non esisteva una vera e propria tassa sulla ricchezza, in quanto non si procedette ad alcuna revisione dell'imposta fondiaria e i proprietari terrieri potevano scaricare gli aumenti delle imposte sugli affittuari e sui lavoratori salariati. Sino al periodo delle guerre napoleoniche, quando all'imposta fondiaria si aggiunse una tassa sul reddito (e dopo la sua abrogazione sino al 1816), le classi superiori pagarono le stesse imposte che pagavano alla fine del XVIII secolo. Quanti si erano arricchiti con il commercio e con i trasporti marittimi eludevano facilmente le tasse, in parte perché i tentativi di ricavare entrate fiscali con l'imposizione di dazi doganali entravano spesso in conflitto con la politica commerciale o con gli interessi di lobbies influenti. Sempre per l'azione delle lobbies, le imposte indirette colpivano con aliquote molto lievi importanti settori industriali, e gli industriali stessi pagavano poche tasse. Fu un sistema di tassazione indiretta regressiva che consentì alla Gran Bretagna di conquistare la supremazia mercantile internazionale, in quanto sostenne il finanziamento delle guerre e risparmiò altresì in larga misura le classi investitrici.
10. Le guerre e il commercio d'oltremare
Per 75 anni, tra il 1692 e il 1802, la Gran Bretagna fu impegnata in importanti operazioni militari sia nei territori d'oltreoceano che nel continente europeo. Nonostante alcuni effetti di spiazzamento della spesa privata, le guerre nel complesso sostennero la crescita economica attraverso la creazione di una domanda di beni capitali e forniture militari. Le industrie metallurgiche, estrattiva e navale, nonché la produzione di grano e di generi alimentari, di cordame per le navi, di cannoni e di armi furono stimolate dalla domanda, dagli investimenti e dal mutamento tecnologico indotti dallo sforzo bellico. Incrementando la domanda di metalli, rendendone più difficile l'importazione e facendo lievitare il prezzo del legname, le guerre determinarono dei mutamenti nei costi e nei profitti che stimolarono l'innovazione tecnologica. Durante la guerra di successione austriaca vennero perfezionati dei metodi per la fusione del coke metallurgico; le tecniche di puddellaggio e di laminazione inventate da Cort furono migliorate nell'ultimo decennio del Settecento a seguito di un notevole aumento della domanda indotto dalla guerra.
Per molte industrie di beni di consumo i tassi di crescita probabilmente furono assai più rapidi in tempi di pace, ma alcuni settori - industria tessile del cotone, della seta e del lino, fabbriche di ferramenta - risentirono positivamente degli effetti della guerra. Alcune industrie furono avvantaggiate dall'assenza della concorrenza di merci straniere, altre dalla domanda sia interna che proveniente dalle terre coloniali di uniformi e forniture, e su altre ancora agì positivamente l'aumento dell'occupazione interna e del potere d'acquisto dei consumatori. Non è un caso che l'introduzione della navetta volante nei cotonifici avvenisse nel corso della guerra dei Sette anni: in un periodo di scarsa domanda di manodopera l'innovazione avrebbe forse suscitato maggiori resistenze.Nella maggior parte dei casi le guerre furono accompagnate da un calo iniziale delle esportazioni, seguito da una fase di crescita costante, da un boom postbellico e infine da una stabilizzazione su livelli superiori rispetto a quelli prebellici. I profitti più consistenti e duraturi furono conseguiti in particolare a spese della Francia. Il monopolio britannico dei commerci di riesportazione garantiva l'accesso ai mercati d'oltreoceano e a quelli europei, e sostenne la notevole espansione dei trasporti marittimi e dell'industria navale. Verso la fine del XVIII secolo la marina mercantile britannica era di gran lunga superiore a quella francese, sua diretta rivale.
L'impatto delle guerre napoleoniche è oggetto di dibattito tra gli studiosi. In particolare, si discute se e in che misura esse determinarono effetti di spiazzamento della spesa privata. A differenza di quanto era avvenuto nelle guerre precedenti, in questo periodo ben il 60% delle entrate pubbliche addizionali derivava dall'imposizione fiscale, cosicché la riduzione degli investimenti produttivi potrebbe essere stata meno significativa, ma indubbiamente si ebbe un drastico calo dei livelli dei consumi passati dall'83% della spesa pubblica del periodo 1788-1792 al 64% nel corso degli ultimi anni della guerra. Durante il periodo delle guerre napoleoniche migliorò notevolmente l'efficienza delle reti bancarie londinesi e provinciali e delle loro interconnessioni nel gestire gli investimenti sia pubblici che privati, e a ciò contribuì anche una politica monetaria espansiva. L'intero sistema finanziario ne risultò quindi avvantaggiato, e sebbene in questo periodo i tassi di bancarotta fossero abbastanza elevati, la guerra favorì la nascita di nuove generazioni di cacciatori di fortuna e di nuovi tipi di organizzazioni commerciali. L'insediamento di commissionari esteri nei centri industriali provinciali fu una conseguenza diretta delle guerre con la Francia, al pari della creazione di magazzini all'ingrosso di cui si servivano gli esportatori. Tutti questi fattori, assieme al ruolo sempre più importante dell'istituzione finanziaria delle case di accettazione, possono essere considerati conseguenze positive più a lungo termine dei fallimenti commerciali delle guerre con la Francia. Le nuove strutture finanziarie fornirono un significativo sostegno all'espansione del commercio e della navigazione britannici nel XVIII secolo.
Ai fini di una valutazione oggettiva, i costi a breve termine delle guerre con la Francia devono essere controbilanciati con effetti positivi quali la conquista dei mercati dei trasporti, l'unificazione con l'Irlanda, l'apertura del mercato dell'America Latina e la sottrazione di possedimenti coloniali al nemico. Le guerre assicurarono per decenni alla Gran Bretagna una supremazia che non avrebbe potuto raggiungere altrimenti.
Se alla metà del XVIII secolo le esportazioni rappresentavano una quota pari al 10-12% circa del prodotto nazionale lordo, nel 1800 tale quota arrivò al 18%, e subì poi un calo nel 1851, quando risultò attestata sul 14%. Per quanto modesto, questo contributo ebbe un effetto di vasta portata sulla rivoluzione industriale, in quanto le esportazioni erano costituite prevalentemente da prodotti manifatturieri, molti dei quali avevano le potenzialità di una produzione in serie. In nessun'altra economia europea i prodotti industriali rappresentarono una quota altrettanto rilevante delle esportazioni così precocemente e in una situazione caratterizzata da un livello globale delle esportazioni relativamente basso. In certi periodi nel corso del XVIII secolo la Gran Bretagna esportava ben il 35% della produzione industriale. Negli anni settanta del secolo l'industria laniera dello Yorkshire esportava circa il 70% della sua produzione, e lo stesso vale per le fabbriche di ferramenta di Birmingham e di Wolverhamton. In quegli anni veniva esportato il 42% del ferro paddellato, e circa il 40% della produzione delle industrie del rame e dell'ottone.
Le esportazioni costituivano dunque una componente vitale di una domanda concentrata per la produzione di particolari regioni industriali.Il volume delle importazioni e delle esportazioni quintuplicò nel corso del XVIII secolo, mentre le riesportazioni aumentarono di nove volte, arrivando a costituire nel momento della loro massima espansione - gli anni settanta del secolo - un terzo delle esportazioni complessive. Le riesportazioni consistevano perlopiù in beni di consumo coloniali quali zucchero, tabacco, tè, caffè, rum e spezie. Queste merci venivano spedite per mare in Europa, consentendo all'Inghilterra di comprare tessuti in lino, legname, forniture navali e altri prodotti. Il notevole volume del commercio di riesportazione, unito a una crescente domanda interna per i prodotti coloniali, incluso il cotone grezzo, sostenne il potere d'acquisto in Nordamerica e nelle Indie Occidentali per i prodotti industriali inglesi e conferì all'economia transatlantica un ruolo chiave nella prima rivoluzione industriale. Le esportazioni inglesi in Nordamerica e nelle Indie Occidentali aumentarono complessivamente del 2.300% nel XVIII secolo, in un'epoca in cui il protezionismo in Europa imponeva restrizioni all'espansione delle esportazioni.
La politica statale, il militarismo, l'espansione coloniale e la diplomazia contribuirono a creare per la Gran Bretagna l'area di libero commercio più estesa e in più rapida espansione del mondo. Un ruolo importante ebbero a questo riguardo la conquista dell'India (la chiave per l'accesso all'Asia e per il commercio dell'oppio nel XIX secolo) e la distruzione della sua industria tessile mediante tariffe discriminatorie.
Il ruolo della tratta degli schiavi nella rivoluzione industriale ha suscitato accesi dibattiti, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1944 del libro di Williams Capitalism and slavery. Alla fine del XVIII secolo la Gran Bretagna aveva una posizione di predominio nella tratta degli schiavi e controllava circa la metà delle esportazioni annue. Secondo Williams i profitti derivati dal commercio degli schiavi e dalle piantagioni costituirono la base degli investimenti inglesi nell'industria, ma questa tesi si è dimostrata erronea. I profitti derivati da tale commercio in sé non erano elevati, né erano investiti principalmente nell'industria (anche se la pirateria associata alla tratta degli schiavi era estremamente lucrosa e costituisce un fattore di cui occorre tener conto). In generale, tuttavia, si può affermare che lo schiavismo e la tratta degli schiavi sostennero l'economia atlantica, ed ebbero significative conseguenze sui trasferimenti creditizi e finanziari sia interni che internazionali, sull'industria navale, sui servizi di navigazione e sulle assicurazioni marittime, nonché su altre branche del commercio legate alla tratta degli schiavi.
Sebbene studi recenti abbiano minimizzato il ruolo del commercio estero nella rivoluzione industriale britannica, non è possibile comprendere l'evoluzione dell'economia nazionale e di quei settori e regioni che furono all'avanguardia del mutamento senza tener conto dell'impatto diretto del commercio e dei suoi effetti indiretti quali lo sviluppo delle attività bancarie, del sistema assicurativo e delle istituzioni mercantili, e l'impiego di capitali e di credito derivati dal commercio d'oltremare in altri settori dell'economia. Il monopolio britannico di gran parte dei servizi marittimi mondiali alla fine del XVIII secolo e i progressi nell'assicurazione marittima, nel credito e nelle reti cambiarie multilaterali e multinazionali, contribuirono a creare un sistema efficiente di flussi commerciali e di investimento esteri in tutto il mondo.
11. Una rivoluzione dei consumi?
Generalmente gli studi sulla rivoluzione industriale tendono a considerare esclusivamente il lato dell'offerta nell'economia. Ma come rilevava Gilboy negli anni trenta, la produzione industriale in serie non avrebbe potuto affermarsi senza una corrispondente espansione della domanda tra i consumatori. In anni più recenti alcune interpretazioni hanno attribuito un ruolo centrale alla domanda. Nel Settecento si sarebbe verificata una rivoluzione dei consumi che, secondo alcuni, avrebbe addirittura provocato la rivoluzione industriale, diventando il motore della crescita economica. La capacità del mercato interno di assorbire una quantità e una varietà maggiori di manufatti industriali, generi alimentari, birra e prodotti coloniali tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del secolo successivo ha posto numerosi interrogativi agli storici. Quali strati della popolazione acquistavano questi beni, e come riconciliare l'aumento dei consumi con la stagnazione o il declino dei salari reali verificatosi sino agli anni venti dell'Ottocento?
Secondo la tesi avanzata da McKendrick, fu l'incremento del lavoro salariato femminile e minorile a determinare una rivoluzione dei consumi a partire dall'ultimo ventennio del Settecento. Questo contributo ai redditi familiari avrebbe più che compensato la stagnazione e le incertezze della capacità di reddito maschile. I salari guadagnati da donne e bambini, secondo McKendrick, avrebbero dato loro più potere nelle decisioni di consumo all'interno della famiglia. Come conseguenza, si sarebbero venduti più prodotti conformi ai gusti femminili e infantili - capi d'abbigliamento, tende, tessuti, vasellame, coltellame, mobili, rami e ottoni, bottoni, accessori di moda e giocattoli. Ad alimentare il boom dei consumi avrebbe contribuito l'emulazione sociale, in quanto ciascun gruppo si sarebbe sforzato di imitare le abitudini di consumo di quelli immediatamente superiori in una scala sociale assai articolata. A questo riguardo, una particolare importanza viene attribuita da McKendrick alla tendenza delle persone di servizio, in particolare le domestiche, a imitare il tenore di vita delle famiglie presso cui erano impiegate, in quanto la servitù costituiva una categoria sociale assai mobile, capace di diffondere nuove idee e nuove abitudini nelle proprie cerchie familiari e nelle periferie dei centri urbani. All'espansione della domanda, secondo McKendrick, avrebbe contribuito anche in misura significativa lo sviluppo di nuove tecniche di vendita e di pubblicità, capaci di creare e di espandere il mercato per i beni di consumo.Tuttavia la tesi di una rivoluzione generalizzata dei consumi postulata da McKendrick sembra difficilmente sostenibile.
Alcuni studi sugli inventari dei beni nei testamenti omologati dell'inizio del XVIII secolo, in particolare le ricerche di Weatherhill, pur confermando l'ipotesi di una precoce diffusione in tutto il paese di nuovi generi di beni di consumo, hanno però dimostrato che non si trattava affatto di un fenomeno generalizzato a tutti gli strati sociali. Al di sotto dei ranghi dei fittavoli e degli artigiani specializzati, solo poche famiglie potevano permettersi di partecipare ai nuovi consumi. Questa era la situazione all'inizio del Settecento e non sembra probabile che intervenissero mutamenti di rilievo alla fine del secolo. I salari reali erano in calo e aumentavano le ineguaglianze di reddito tra le élites e le masse; inoltre, come ha dimostrato la ricerca più recente, al di fuori dell'industria tessile il contributo femminile ai redditi familiari era poco consistente e in generale andava declinando. Specialmente nell'ultimo ventennio del secolo, sembra implausibile che la massa della manodopera salariata disponesse di un surplus per una spesa discrezionale che oltrepassasse il livello della spesa per i beni di prima necessità (vitto, alloggio, vestiario). L'evidente calo del consumo pro capite di tè, caffè e zucchero nel periodo in questione conferma l'ipotesi che i redditi dei lavoratori fossero appena sufficienti per la sussistenza, soprattutto nel periodo delle guerre napoleoniche in cui le imposte indirette erano estremamente elevate.
È probabile che la rivoluzione dei consumi fosse limitata alle classi superiori, ma la crescente proletarizzazione dei poveri ebbe un ruolo importante nell'espansione del mercato interno nel corso del XVIII secolo e oltre. Lo sviluppo della protoindustria, il lavoro a domicilio, gli opifici a uso intensivo di manodopera e l'industria domestica segnarono una massiccia riallocazione del tempo di lavoro, delle donne in particolare, dalla produzione domestica di beni di sussistenza per l'uso immediato alla produzione di merci per la vendita, compresi i prodotti industriali. Un numero crescente di donne era in grado di guadagnare e di spendere, e sebbene i loro redditi fossero generalmente bassi e tendessero alla stagnazione, esse ora acquistavano candele, vasellame in terracotta, birra, pane e tessuti anziché fabbricare candele di sego, piatti di giunco, spillare la birra, impastare e cuocere il pane, filare e tessere per i bisogni della famiglia. La maggior parte del tempo di lavoro femminile era dedicata a quella che de Vries ha definito "rivoluzione industriosa".
12. Classi e generi nella rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale fu segnata da movimenti di massa della classe lavoratrice che protestava vigorosamente contro la corruzione e i vizi del vecchio ordine politico, ma soprattutto contro le innovazioni nella tecnologia e nell'organizzazione della produzione e della distribuzione, che distruggevano gli antichi e consolidati legami sociali e comunitari e il vecchio ordine morale. Ma in anni recenti la storia sociale ha cominciato ad abbandonare l'idea che la rivoluzione industriale fosse segnata dalla nascita di nuove relazioni di potere basate sulla classe e di rapporti di classe improntati all'antagonismo. Lo studio di Thompson è stato criticato in quanto incentra l'attenzione esclusivamente sul ceto artigianale maschile e sulle sue istituzioni, trascurando le ideologie e le reazioni alquanto diverse della manodopera non specializzata, dei poveri e delle donne. Altri studi hanno contribuito ad una opportuna e importante revisione delle precedenti rappresentazioni idealizzate di una classe lavoratrice unita nella sua eroica opposizione al mutamento economico.
Secondo alcuni autori, le comunità tradizionali di mestiere e di villaggio ebbero un ruolo assai più vitale della classe quale fondamento sociale del radicalismo popolare nel corso della rivoluzione industriale. Le storiche femministe dal canto loro hanno sottolineato l'impossibilità di collocare il radicalismo femminile nella storia di classe quale viene rappresentata dalla letteratura tradizionale. Persino la teoria classica della formazione del ceto medio industriale è stata messa in discussione da alcuni autori, i quali hanno affermato che questo nuovo potere non arrivò mai a dominare la società o il governo così come si riteneva in passato. L'aristocrazia terriera e la grande finanza sarebbero rimaste il gruppo dominante nella politica e nella società inglese. L'Inghilterra avrebbe prodotto solo una rivoluzione industriale incompleta, con una forma di capitalismo aristocratico.
Si è dunque verificato un radicale cambiamento di prospettiva, che ha portato addirittura a dare un'importanza relativamente marginale alla nascita delle classi e allo sviluppo della coscienza di classe durante la rivoluzione industriale.Questo mutamento di prospettiva è in parte un riflesso dell'accettazione incondizionata della nuova interpretazione gradualistica della storia economica del periodo, ma è anche ricollegabile al declino del marxismo e al rifiuto di qualunque forma di riduzionismo economico. Il post-strutturalismo ha contribuito anch'esso all'emergere di una nuova interpretazione delle origini della coscienza sociale, riconoscendo i limiti posti da strutture linguistiche consolidate e dai sistemi cognitivi che ne derivano. Tuttavia adottare questo nuovo approccio non significa negare che la rivoluzione industriale fosse un'epoca di cambiamenti radicali nei rapporti sociali e nella coscienza sociale.
Numerosi studi sulle classi medie industriali e commerciali hanno dimostrato quanto fosse importante il loro ruolo nel governo a livello locale, se non nazionale, nella prima metà dell'Ottocento; come esse generarono i nuovi ideali di sobrietà, rispettabilità, parsimonia e laboriosità, e cercarono di imporli con le leggi e, se necessario, con la forza al resto della popolazione. Dal canto suo la classe lavoratrice, sebbene tutt'altro che omogenea e differenziata al suo interno in base alla provenienza, al settore occupazionale, al sesso, all'etnia e al livello di specializzazione, nondimeno aveva rivendicazioni comuni e organizzò un'azione unitaria su vasta scala come mai era accaduto in passato, dando vita a movimenti che espressero una critica radicale al nuovo ordine capitalistico. Molti studi sulla condizione femminile nel periodo della rivoluzione industriale hanno cercato di stabilire se questa segnasse un peggioramento o un miglioramento dello standard di vita delle donne. Si tratta di una questione cui è difficile dare risposta, in quanto la situazione delle donne mutava a seconda della provenienza geografica, del settore occupazionale, della fascia d'età e dello status coniugale. Nelle aree della protoindustria e delle industrie tessili le nuove opportunità occupazionali probabilmente comportarono per le donne un maggior grado di libertà e di autonomia, nonché un miglioramento degli standard di vita (sebbene il lavoro in fabbrica spesso costituisse un ulteriore aggravio, in quanto si aggiungeva anziché sostituirsi alle tradizionali mansioni femminili di governo della casa e di educazione dei figli).
In molte aree agricole probabilmente era vero il contrario. Nel lungo periodo, verso la metà dell'Ottocento, l'azione concertata delle organizzazioni sindacali maschili, dei datori di lavoro e dello Stato comportò una restrizione del lavoro femminile in molti settori occupazionali, rafforzando altresì l'ideale dell'uomo che guadagna il pane con il lavoro extradomestico e della donna dedita esclusivamente alla casa e alla famiglia. Ciò secondo alcuni storici ridusse in misura significativa l'autonomia di cui le donne potevano aver goduto in passato, rendendole più dipendenti da padri, mariti e fratelli. Altri autori hanno sostenuto addirittura che la rivoluzione industriale creò sì nuove libertà per il sesso femminile, ma nello stesso tempo pose i presupposti per una stigmatizzazione morale nei confronti delle donne che svolgevano un lavoro salariato extradomestico, da cui derivò una riaffermazione del patriarcato e un rafforzamento delle divisioni tra i ruoli maschili e femminili. Le donne acquistarono uno status più chiaramente subordinato sia nel lavoro che nel più ampio contesto della vita pubblica e sociale. Senza dubbio nell'epoca della rivoluzione industriale e in conseguenza dei suoi effetti determinate concezioni relative ai ruoli maschili e femminili vennero in certa misura ricostruite.
Verso la metà dell'Ottocento l'ideale maschile era incarnato dall'uomo forte, razionale, laborioso, esperto e in grado di mantenere una famiglia, mentre l'ideale femminile era rappresentato dalla donna virtuosa, fisicamente debole e moglie, madre, casalinga e padrona di casa esemplare. All'epoca destavano grandi preoccupazioni le influenze negative del cambiamento economico sulla famiglia e sulle donne, il deterioramento della qualità dell'educazione dei figli e l'aumento della criminalità giovanile. Tuttavia non va dimenticato che spesso l'istituzione di un salario maschile sufficiente a mantenere la famiglia fu sostenuta dalle donne al fine di difendere lo standard di vita delle famiglie operaie e di scongiurare il brutale sfruttamento della manodopera femminile e minorile. Molte donne della classe lavoratrice inoltre continuavano a essere impiegate negli stessi settori (come addette alle pulizie, lavandaie, infermiere, commercianti al minuto, domestiche, ecc.) in cui avevano sempre lavorato prima della rivoluzione industriale. Probabilmente furono soprattutto le donne della classe media a risentire degli effetti delle nuove concezioni del ruolo femminile e dell'ideale della donna casalinga.Tuttavia le donne non furono solo soggetti passivi del cambiamento, ma ebbero un ruolo attivo nell'industrializzazione, influenzandone l'andamento e la natura. È questo un tema poco esplorato dagli storici, i quali troppo spesso hanno ignorato che dallo studio della condizione femminile può emergere un quadro completamente diverso della storia. Proprio questo tipo di ricerche è in grado di gettare una nuova luce sulla fase protoindustriale, sulla nascita di una società dei consumi, sulle prime industrie (in cui la quota della manodopera femminile e minorile era nettamente prevalente rispetto a quella maschile), sugli sviluppi tecnologici e organizzativi dei processi produttivi (che spesso furono determinati dall'esistenza di una manodopera prevalentemente minorile e femminile).
Per quanto riguarda il mutamento nel settore agricolo, la ricerca ha dimostrato che per le donne il processo di proletarizzazione fu più rapido e precoce di quello maschile, ma la distribuzione intersettoriale della forza lavoro che ha determinato gran parte delle stime macroeconomiche sinora non ha tenuto nel debito conto questa circostanza. Anche la storia demografica di questo periodo ha trascurato le differenze tra i sessi in rapporto alla nuzialità, alla migrazione e alla mortalità. E la storia di classe non può considerarsi completa se non tiene conto dei legami di solidarietà, delle culture e dei movimenti di opposizione specificamente femminili, spesso molto diversi da quelli maschili. Integrando le interpretazioni tradizionali della rivoluzione industriale con gli esiti della ricerca sulla condizione femminile emergono nuove tematiche e nuovi aspetti quali oggetti legittimi di indagine, e gli orizzonti si ampliano includendo la sfera privata oltre che quella pubblica, la riproduzione oltre che la produzione, il vissuto personale oltre che la politica, la natura oltre che la cultura.
13. Conclusione
La rivoluzione industriale non va considerata alla stregua di un fenomeno puramente economico, misurabile quantitativamente attraverso stime della produzione nazionale o della crescita globale della produttività. Nel periodo in questione si verificarono significative innovazioni che investirono anche l'aspetto organizzativo oltreché quello finanziario dell'industria e del commercio; le specializzazioni e i processi lavorativi oltreché la tecnologia; l'urbanizzazione e il comportamento demografico oltreché la disciplina del lavoro. Il ruolo del governo al livello sia locale che nazionale risultò profondamente trasformato, e l'industria e il commercio si sostituirono all'agricoltura quali motori della crescita economica. Alcune regioni si industrializzarono rapidamente, altre si specializzarono nell'agricoltura commerciale o entrarono in una fase di stagnazione economica.
La rivoluzione industriale ebbe un profondo impatto anche sulla vita delle donne e dei bambini oltreché su quella degli uomini; segnò l'emergere di nuove idee relative ai ruoli di genere, all'etnicità e alle classi sociali; influenzò i consumi e il commercio oltreché l'industria, il tempo libero oltreché il lavoro, e trasformò motivazioni, aspirazioni, ideologie e concezioni estetiche, oltreché i processi lavorativi e i rapporti di produzione.
(V. anche Borghesia; Capitalismo; Economia; Industria; Industrializzazione; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Macchine; Modernizzazione; Operai; Rivoluzioni agricole; Sviluppo economico).
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