rivoluzione industriale
La nascita dell’era delle macchine e della velocità
La rivoluzione industriale, che ha avuto le sue origini in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, ha rappresentato uno dei maggiori rivolgimenti della storia universale. Ha separato in maniera profonda la società industriale da quelle precedenti e ha dotato l’uomo di un enorme potere di manipolazione delle risorse materiali e della capacità di produrre una quantità di beni senza precedenti. I suoi effetti culturali e sociali hanno dato luogo a una nuova modernità
L’incubazione della rivoluzione e la maturità iniziale di quella che si può definire la società industriale sono collocabili in Inghilterra tra gli ultimi decenni del 18° e la prima metà del 19° secolo.
Lo sviluppo di quella che si suole definire prima rivoluzione industriale fu reso possibile dalla combinazione di una serie di precondizioni: istituzioni che favorivano l’iniziativa individuale, una ricerca scientifica avanzata che stimolava le scoperte tecnologiche, un vasto settore di agricoltura capitalistica nelle mani di grandi e medi proprietari aperti all’innovazione e dotati di elevate capacità di investimento, un’industria manifatturiera ed estrattiva dinamica e in grado di liberare capitali, un’eccellente rete di trasporti, un tasso di urbanizzazione che non aveva riscontro in alcun altro paese, un prospero commercio interno e internazionale all’interno di un impero coloniale, come quello britannico, ricco di risorse. Tutti fattori che nel loro insieme davano vita a un mercato pronto ad assorbire sempre nuovi prodotti.
La rivoluzione industriale ebbe propriamente inizio allorché agli elementi sopra riportati si unì una serie di invenzioni che nel giro di un ventennio, tra il 1760 e il 1780, rinnovarono la tecnologia delle industrie imprimendole uno straordinario salto di qualità.
Nel 1764 il tessitore James Hargreaves costruì una filatrice multipla capace di consentire a un solo operaio di azionare 8 fusi per volta (che nel giro di pochi anni arrivarono a 80); nel 1768 Richard Arkwright mise a punto un telaio meccanico idraulico. Ma la scoperta più importante di tutte avvenne a opera di James Watt, che tra il 1765 e il 1781 inventò e perfezionò la macchina a vapore. Questa ebbe l’effetto di aumentare enormemente la disponibilità di energia, grazie anzitutto a un imponente incremento dell’estrazione di carbone nelle miniere: questa forma di energia soppiantò man mano quella idraulica, umana e animale. La sua utilizzazione nell’industria, nell’agricoltura, nei trasporti rese possibili la produzione e lo scambio di beni su una scala in precedenza impensabile.
La meccanizzazione investì massicciamente le aziende a conduzione capitalistica. Fecero la loro comparsa nuovi tipi di aratri che permisero di scavare più in profondità il terreno, macchine per la semina, zappe e trebbiatrici meccaniche, e così via. L’innovazione mutò radicalmente il settore dei trasporti. Nel 1807 l’americano Robert Fulton costruì un vaporetto e nel 1819 si ebbe la prima traversata dell’Atlantico di una nave a vapore. Dopo esperimenti di locomozione condotti in Francia fin dal 1776, la strada ferrata (ferrovia) si impose a partire dal momento in cui l’inglese George Stephenson costruì nel 1814 una locomotiva, i cui successivi miglioramenti consentirono di inaugurare in Inghilterra nel 1825 la prima linea ferroviaria. Altra fondamentale invenzione fu il telegrafo, il quale consentì di comunicare messaggi a distanza; realizzato dapprima in Francia nel 1793, esso venne successivamente perfezionato in Inghilterra e negli Stati Uniti; nel 1844 l’americano Samuel Morse creò un apparecchio che venne universalmente utilizzato. A essere investito per primo dalla meccanizzazione fu il settore tessile, quindi quelli minerario, siderurgico e meccanico.
L’applicazione delle nuove tecnologie alla produzione, la fabbrica meccanizzata e l’organizzazione del lavoro sotto il controllo dei capitalisti, la concentrazione di masse operaie in grandi unità produttive, l’espansione di mezzi di trasporto a vapore costituirono le basi principali della rivoluzione economica e del capitalismo della nuova era: questi fattori fecero dell’Inghilterra il paese che per circa cento anni avrebbe tenuto nel mondo un indiscusso primato industriale. La marcia dell’industrializzazione fu segnata da varie fasi. Quella iniziale vide l’ondata di modernizzazione estendersi, intorno alla prima metà dell’Ottocento, dall’Inghilterra al Belgio, a parte della Francia e ad alcune regioni della Germania.
Se la macchina a vapore costituì il più importante fondamento tecnologico della rivoluzione industriale, la sua maggiore espressione in termini di organizzazione fu il sistema di fabbrica. Questo riguardava i modi di produzione: da un lato i rapporti tra i padroni – proprietari del capitale necessario agli investimenti in macchine e al pagamento dei salari degli addetti al loro funzionamento –, e dall’altro gli operai che vendevano ai primi la loro forza lavoro. L’utilizzazione delle macchine per la produzione su vasta scala portò sempre più a concentrare masse di lavoratori in fabbriche organizzate secondo criteri razionali con funzioni, orari, ritmi definiti in base alle esigenze della divisione del lavoro. Il tutto era finalizzato al profitto dei capitalisti, i quali, in relazione alle condizioni del mercato, allargavano o contraevano la produzione, assumevano o licenziavano operai, acceleravano o rallentavano l’innovazione tecnologica. La logica della concorrenza rendeva vincenti i produttori in grado di immettere nel mercato beni migliori al minor prezzo.
L’avvento delle nuove macchine e il sistema di fabbrica portarono a un aumento senza precedenti della produttività, con la conseguenza di eliminare o di porre in condizioni di crescente precarietà gli appartenenti a interi settori legati alle vecchie tecniche di produzione – piccoli proprietari, artigiani, lavoratori manuali –riducendoli all’emarginazione. La rivoluzione industriale mutò quindi profondamente i profili delle professioni (mestieri e professioni), creando nuove opportunità di lavoro ma distruggendone altre. Numerosi furono gli emarginati e i senza lavoro. Da questa situazione ebbero origine manifestazioni estreme di protesta, anche violenta. Tipico a questo proposito fu il cosiddetto luddismo (da Ned Ludd, un operaio inglese), una forma di reazione al sistema di fabbrica che durò alcuni decenni e che fu violentemente repressa dalle autorità; la reazione luddista spinse gruppi di disperati, privati dei mezzi di sopravvivenza, a distruggere le nuove macchine, considerate la ragione prima e intollerabile della loro miseria e degradazione.
La rivoluzione industriale provocò complessivamente un impressionante aumento della ricchezza, ma questa andò principalmente a favore delle classi alte, anzitutto della borghesia capitalistica. Gli operai dal canto loro ricevevano bassi salari, e le donne e i bambini – impiegati su vasta scala – retribuzioni ancora inferiori; i lavoratori in generale non potevano fare affidamento su un impiego stabile poiché ogni fase sfavorevole del ciclo produttivo causava ondate di disoccupazione senza che essi potessero contare su alcuna forma di protezione sociale. Gli orari di lavoro erano mediamente da 13 a 15 ore giornaliere. I ragazzi superiori ai 6 anni erano impiegati in larga misura in fabbrica; e con essi persino bambini di 5 o addirittura di 4 anni. La malnutrizione era la regola; le abitazioni degli operai erano generalmente miserabili e malsane; numerosi minatori dormivano nelle stesse miniere. Intorno al 1850 il numero degli operai nelle nuove industrie raggiunse in Inghilterra circa 3 milioni. In Francia e Germania esso era di circa 1 milione e negli Stati Uniti sui 2 milioni. In Italia, un paese di ancor assai scarsa industrializzazione, gli operai delle fabbriche moderne ammontavano a poche decine di migliaia.
Le pesantissime condizioni delle masse operaie erano tali da far equiparare le fabbriche alle caserme e diedero luogo, in Inghilterra, anche a inchieste ufficiali. Nei paesi europei toccati dal processo di industrializzazione queste condizioni portarono da un lato intellettuali e politici progressisti di tendenze liberali o socialiste a denunciare questa situazione, dall’altro i lavoratori a organizzare movimenti di protesta: superate le forme estreme e disperate del luddismo, questi movimenti si espressero negli scioperi, nella costituzione di leghe di lavoratori, di società di mutuo soccorso e infine di sindacati e di partiti socialisti.
Dinnanzi alla gravità di quella che si configurava come una grande questione sociale, le classi dirigenti assunsero per molto tempo un atteggiamento di netta chiusura. La repressione violenta di ogni insubordinazione o ribellione degli operai da parte delle forze di polizia e, quando necessario dell’esercito, fu la risposta prevalente, anche se non mancarono capitalisti filantropi e politici riformatori decisi ad agire per migliorare la vita dei lavoratori. Le prime moderate riforme a opera dello Stato ebbero luogo in Inghilterra dopo il 1830. Nel 1831 la giornata lavorativa per i ragazzi sotto i 10 anni fu ridotta a 10 ore; nel 1833 venne limitato il lavoro notturno; nel 1847 fu stabilita la giornata lavorativa di 10 ore anche per le donne.
I riformatori liberali intendevano migliorare la situazione degli operai nel quadro del capitalismo, mentre i socialisti (socialismo) miravano a lottare per salari più alti avendo come finalità ultima, pur non concordando tra loro nell’uso dei mezzi, di abolire la proprietà privata e il capitalismo e di collettivizzare l’economia. Per arrivare alla società socialista occorreva prima opporre alla borghesia capitalistica, e allo Stato posto al suo servizio, la lotta di classe del proletariato moderno, quindi conquistare lo Stato, abbattere il dominio delle classi alte e realizzare l’eguaglianza nella società socialista.
Per circa un secolo la rivoluzione industriale rimase dunque circoscritta all’Inghilterra, al Belgio, a parte della Francia e a zone ristrette della Germania. Tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento l’industrializzazione non solo si estese e intensificò in Germania, nell’Italia settentrionale, in regioni dell’Impero austro-ungarico e di quello russo, in Giappone e negli Stati Uniti, ma rinnovò profondamente le sue basi energetiche e tecnologiche in un quadro che vide l’Inghilterra cedere progressivamente il primato.
All’energia fornita dal carbone, che pure fu lungi dal perdere la sua importanza, si affiancò quella idroelettrica; le scoperte scientifiche e le loro applicazioni resero possibile uno sviluppo straordinario specialmente dell’industria chimica; l’utilizzazione di potenti esplosivi come la dinamite ebbe conseguenze enormi per la rete dei trasporti terrestri e specie delle ferrovie; la siderurgia e la meccanica conobbero un incremento gigantesco. La marcia delle invenzioni e delle loro applicazioni per creare nuove macchine non conosceva tregua.
Negli anni Ottanta del 19° secolo l’applicazione dell’elettricità avviò un processo destinato a creare una nuova generazione di macchine, appunto le macchine elettriche, che servivano sia per la locomozione sia per la fabbricazione di nuove macchine e di una varietà di altri prodotti. Nel decennio seguente, l’invenzione del motore a combustione interna aprì altri enormi orizzonti con in primo piano la creazione delle macchine mobili, le automobili, per il trasporto di persone e di merci.
Si affermò sempre più il gigantismo industriale, con fabbriche di migliaia e anche decine di migliaia di addetti, un’organizzazione del lavoro sempre più efficiente e segnata da una rigida disciplina, da precise gerarchie di funzioni e di poteri, dall’incremento, accanto alle masse operaie, delle schiere di dirigenti, tecnici, impiegati con funzioni direttive e amministrative. Si formarono su scala nazionale e anche internazionale alleanze e combinazioni tra settori produttivi – i trust, i cartelli, le corporations – per ottenere maggiori rendimenti e controllare o addirittura dominare il mercato. Gli enti dotati di grandi patrimoni e in specie le banche strinsero legami organici con l’industria, così da indurre a parlare di avvento del capitalismo finanziario. Tutto ciò diede luogo a quella che è stata definita seconda rivoluzione industriale.
L’industria britannica dominò fino agli ultimi decenni del 19° secolo in maniera incontrastata. Gli Inglesi, in grado di produrre le merci migliori ai prezzi più convenienti, avevano alzato la bandiera del laissez faire, ossia del libero scambio (liberismo) a livello internazionale. Fino a che gli altri paesi non possedevano le risorse per costituire una loro adeguata base industriale, il liberismo rappresentava un indubbio vantaggio tanto per i produttori inglesi quanto per i consumatori esteri. La seconda rivoluzione industriale vide i paesi a industrializzazione ritardata impegnati per un verso nello sviluppo di una propria industria nazionale, per l’altro decisi a proteggere con barriere doganali le proprie merci dalla concorrenza estera, soprattutto inglese. Si entrò così in un’era di protezionismo. I paesi che in questa fase crebbero più in fretta furono la Germania e gli Stati Uniti.
Nel 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, la Germania aveva ormai superato l’Inghilterra avendo a disposizione una base industriale la quale dominava per efficienza in vari settori, anche grazie a una collaborazione senza pari tra ricerca scientifica e applicazioni tecnologiche alla produzione e alla qualità della forza lavoro. Gli Stati Uniti, dotati di risorse di ogni tipo, già agli inizi del nuovo secolo erano diventati la maggiore potenza economica mondiale. La seconda rivoluzione industriale mise robustamente piede anche in varie zone dell’Impero zarista, dalla Polonia alla Russia a ovest degli Urali. Assai rapidi e notevoli furono inoltre i progressi dell’industria in Giappone, che così poté presentarsi ai primi del Novecento come una grande potenza militare.
La legislazione protezionistica fu solo un aspetto dell’intervento dello Stato a sostegno dello sviluppo industriale. Se in Inghilterra l’industria si era sviluppata prevalentemente per iniziativa di imprenditori privati, nei paesi a industrializzazione ritardata come la Germania, l’Italia, la Russia e il Giappone ebbe un ruolo determinante il sostegno dello Stato in varie forme. Esso era rivolto a proteggere i prodotti nazionali, a favorirne l’esportazione, a regolare i rapporti fra capitalisti e operai, a rendere disponibili quegli armamenti moderni che soltanto l’industria era in grado di fornire, a investire propri capitali. Nell’Impero russo, dove molto debole era la borghesia capitalistica, lo sviluppo industriale fu in maniera essenziale frutto dell’appoggio dello Stato. L’età della seconda rivoluzione industriale fu altresì quella dell’imperialismo, culminata non a caso nella Prima guerra mondiale. Le rivalità politiche fecero tutt’uno con quelle economiche. Tutte le maggiori potenze tendevano ad assicurarsi materie prime e sbocchi commerciali mediante strategie espansionistiche, dapprima essenzialmente nei territori coloniali e poi, come si vide tra il 1914 e il 1918, anche direttamente nel continente europeo. Fu così che il processo di industrializzazione, iniziato in Inghilterra a opera della borghesia e di parte della nobiltà convertitasi alle iniziative imprenditoriali alla fine del Settecento, sfociò nei primi due decenni del Novecento in un capitalismo finanziario e industriale che si poneva in misura sempre più accentuata sotto le ali dello Stato.