proprietà
Un diritto di possesso esclusivo
Tutte le società umane in ogni epoca storica hanno riconosciuto l’importanza della proprietà sui beni e sulle risorse economiche. Il possesso esclusivo di un bene – il riconoscimento del ‘mio’ e del ‘tuo’ – serve a garantire una razionale utilizzazione dei mezzi di produzione e delle risorse. Il diritto di proprietà si insinua in ogni angolo della nostra vita quotidiana, sia individuale sia collettiva e ha assunto nel tempo molteplici forme e caratteristiche, adattandosi alle diverse esigenze storico-sociali
In ogni epoca storica e in tutte le parti del mondo l’uomo, appena ha cominciato a vivere in società, ha dovuto ideare, regolamentare e tutelare il diritto di proprietà al fine di ottenere una società pacifica.
La proprietà non si è presentata dovunque allo stesso modo e con le stesse caratteristiche: anzi, il diritto di proprietà è un concetto duttile e flessibile, capace di adattarsi a svariate esigenze; tuttavia l’idea che qualcosa debba appartenere a una o a più persone, escludendo gli altri, è una presenza costante in tutte le culture.
Quando si parla di proprietà siamo abituati subito a pensare alla proprietà privata, ma la proprietà non è solo privata: vi è anche la proprietà collettiva e la proprietà pubblica; anzi, è bene sottolineare che storicamente la proprietà ha cominciato a manifestarsi proprio come proprietà collettiva e solo con lo sviluppo della civiltà è nata e si è diffusa la proprietà privata come la conosciamo oggi.
Pensiamo alle prime forme di civiltà umana, quando non esisteva ancora lo Stato, quando gli uomini vivevano in gruppi familiari allargati, in tribù, in società primitive formate da clan. Era la tribù, attraverso i propri capi, a controllare le attività più importanti, a stabilire i movimenti e le migrazioni, a decidere come utilizzare i mezzi di sussistenza. La proprietà era dunque collettivizzata.
Oggi ai nostri occhi la proprietà sembra così scontata che non riusciamo sempre a capirne il valore di collante sociale. Secondo un classico esempio di un importante filosofo del 17° secolo, Thomas Hobbes, possiamo cercare di immaginare un mondo preistorico in cui non esista alcun concetto di proprietà: gli uomini sarebbero perennemente in conflitto, perché ognuno vorrebbe impossessarsi di quello che desidera e, per farlo, muoverebbe guerra ad altri uomini, senza regole, senza alcun criterio.
Con la civiltà e la nascita della proprietà collettiva, invece, gli uomini hanno cercato di darsi delle regole per non vivere in un continuo conflitto e cercare di mantenere la pace proprio attraverso la creazione del diritto di proprietà. Un fine, quello della pace, che tuttavia non è mai stato raggiunto.
Con la nascita dello Stato si è verificata una rivoluzione anche nel concetto di proprietà. La società non era più formata da poche decine di individui riuniti in clan, ma vi erano centinaia e migliaia di persone che componevano una sola società, appartenevano a varie classi sociali, si dividevano il lavoro e la ricchezza prodotta: la semplice e primordiale società collettiva si era evoluta per dare vita al concetto di Stato.
La proprietà seguiva la stessa scia e da collettiva diventava pubblica: lo Stato dell’antichità poteva così diventare proprietario di appezzamenti di terreno coltivabile, di mezzi di produzione, di risorse naturali; soprattutto, lo Stato diveniva proprietario dello stesso territorio geografico su cui sorgeva.
Nello stesso tempo, però, nasceva anche la proprietà privata.
Con la nascita delle prime forme di Stato, si riscontra dunque una proprietà pubblica molto forte ma, al contempo, anche l’affermarsi della proprietà privata, necessaria soprattutto per stimolare la creazione di ricchezza e la diffusione degli scambi commerciali tra i paesi. Viene a sorgere, accanto ai potenti e ai servi, la classe mercantile.
Senza la proprietà, intesa soprattutto come proprietà privata, non vi potrebbe essere il commercio.
Commerciare, infatti, significa poter vendere e acquistare beni, cioè scambiare il diritto di proprietà su un bene in cambio di moneta – in caso di compravendita – o in cambio del diritto di proprietà su altri beni – in caso di baratto: comunque, in entrambi i casi, quello che viene fatto è il passaggio della proprietà da un soggetto a un altro.
La proprietà privata è stata quindi essenziale per venire incontro alle esigenze del commercio e degli scambi della vita quotidiana: quando è venuta meno la società tribale in cui il gruppo si prendeva cura dell’individuo e ogni essere umano si è trovato solo all’interno della società statale, la proprietà privata è servita a permettere a ogni persona di accumulare la ricchezza sufficiente per fare fronte ai bisogni della vita.
Tutti, quindi, ne hanno tratto vantaggio: dal singolo individuo, il quale si è visto riconosciuto il diritto di proprietà esclusiva sui suoi possedimenti terrieri e sulle sue ricchezze, ai mercanti, pronti a scambiare beni con altri beni.
Senza la proprietà privata non esisterebbe nemmeno l’economia di mercato come la conosciamo oggi.
L’economia di mercato si basa sull’imprenditorialità, sull’impresa privata, ossia sulla proprietà privata dei mezzi di produzione: l’imprenditore privato, proprietario dei mezzi di produzione, assumendo lavoratori salariati produce beni-merce da vendere sul mercato nazionale e internazionale, ricavando un profitto da utilizzare per il proprio sostentamento e per il rifinanziamento della sua impresa.
Tuttavia non si deve pensare che senza proprietà privata non vi sarebbe l’economia: non potrebbe esserci l’economia di mercato, ma esisterebbe comunque l’economia collettivizzata, come è successo nei paesi comunisti (pianificazione).
La differenza fondamentale tra economia di mercato – fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione – ed economia non di mercato – fondata sulla esclusiva proprietà pubblica degli stessi mezzi di produzione – consiste nel fatto che nel primo tipo di economia l’iniziativa economica privata è libera, nel secondo caso invece l’economia è soggetta alla preventiva pianificazione dello Stato: dato che è lo Stato il solo proprietario di tutte le risorse economiche e di tutte le industrie, è sempre e solo lo Stato a decidere cosa produrre e quanto produrre.
Con il fiorire della ricerca scientifica, della rivoluzione industriale e della conseguente società industriale, si è sentita infine la necessità di allargare il concetto di proprietà, per includervi non solo i beni fisici e tangibili ma anche le opere letterarie, le scoperte e le invenzioni scientifiche e industriali, compreso il marchio con cui le industrie presentano i loro prodotti al pubblico. A quest’ultimo proposito come ognuno di noi è ‘proprietario’ del proprio nome, così i prodotti che compriamo hanno un nome, chiamato marchio, essenziale per garantire una corretta e trasparente concorrenza tra le imprese.
È un’importante conquista che tutte le manifestazioni del pensiero umano siano tutelate e che ognuno sia proprietario delle cose che crea, dai beni fisici alle opere letterarie, artistiche e musicali, dalle scoperte scientifiche alle invenzioni industriali: nella società moderna ogni aspetto della creatività umana è protetto, garantendo allo scrittore, al musicista, al poeta la proprietà intellettuale sulla propria opera (chiamata diritto d’autore) e allo scienziato la proprietà intellettuale sulle sue scoperte scientifiche o industriali (chiamata brevetto). Sia i diritti d’autore sia i brevetti, tuttavia, scadono dopo un certo tempo: si tratta quindi di una proprietà limitata.
Sul tema della proprietà privata, nel pensiero politico occidentale si possono individuare due tradizioni: quella che ne fa la causa principale dei conflitti umani e ne propone l’abolizione (o un forte ridimensionamento); e quella che vede in essa un’istituzione da difendere, perché garantisce la libertà e favorisce lo sviluppo economico.
Il capostipite della tradizione ‘critica’ è senz’altro Platone. Il filosofo greco era convinto che la proprietà privata fosse la massima espressione di quell’egoismo che è all’origine di tutti i mali umani: è la sete di guadagno e di appropriazione a far sorgere i conflitti tra gli uomini e a disgregare gli Stati. Platone propose quindi di edificare uno Stato in cui la proprietà privata fosse abolita del tutto per le classi dirigenti (governanti e guerrieri) e permessa entro limiti assai ristretti (e solo come usufrutto) per i contadini. Liberi da ogni interesse particolare, i cittadini avrebbero formato una comunità compatta e coesa, permettendo allo Stato di raggiungere una «perfetta unità».
Contro le teorie di Platone si levò Aristotele, il quale obiettò che la comunanza dei beni presenta un inconveniente di fondo, legato alla natura umana. Gli uomini, infatti, tendono a occuparsi con maggiore impegno di ciò che sentono come proprio rispetto a ciò che è di tutti: ne consegue che in un regime comunistico essi lavorerebbero con minore impegno e ciò condurrebbe all’impoverimento generale della società. Inoltre, una società senza proprietà privata – oltre a non consentire lo sviluppo di virtù come la generosità – sarebbe piatta e conformistica, perché verrebbero meno le differenze individuali: ma l’armonia sociale non scaturisce dall’abolizione delle differenze, bensì dalla loro compresenza, così come l’armonia musicale scaturisce dalla varietà degli accordi e dei toni.
La proprietà privata arreca dunque vantaggi economici, morali e sociali: e ciò perché le sue radici stanno nell’amore di sé, ossia in un sentimento naturale e positivo che non va in alcun modo confuso con l’egoismo.
La tesi platonica di fondo – l’interesse privato come origine di tutte le ‘patologie’ sociali – ispirerà le moderne utopie di Tommaso Moro e Tommaso Campanella e tornerà nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau e dei teorici sette-ottocenteschi del socialismo, primo fra tutti Karl Marx.
Mentre Rousseau, che pure è uno dei più feroci critici della proprietà privata, considera ormai impossibile la sua abolizione e vagheggia una società armonica di piccoli proprietari guidati soltanto dall’interesse generale, Marx elabora un’articolata teoria socioeconomica secondo la quale il capitalismo, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, è destinato a crollare sotto il peso delle sue contraddizioni, dando luogo a una società senza proprietà privata, senza classi e quindi senza conflitti.
Sull’altro versante, le ragioni a favore della proprietà privata – dopo essere state ribadite nell’antichità da Cicerone e nel Medioevo da Tommaso d’Aquino – troveranno la loro più articolata espressione nei teorici del liberalismo moderno, i quali vedranno in essa uno degli strumenti indispensabili per garantire la libertà individuale e il progresso economico.
Per alcuni (John Locke e Immanuel Kant) essa fa parte dei diritti dell’uomo naturali, mentre per altri (David Hume e Benjamin Constant) nasce da una convenzione sociale. La teoria più innovativa è quella di Locke, il quale per la prima volta fonda la proprietà sul lavoro. È vero, osserva il pensatore inglese, che Dio ha dato originariamente la terra e i suoi beni a tutti gli uomini; ma è anche vero che il corpo e la mente sono di proprietà rigorosamente individuale. Di conseguenza tutto ciò che un individuo riuscirà a procurarsi con l’opera del proprio corpo e della propria mente – cioè lavorando – diverrà suo. In un primo momento Locke pone dei limiti all’appropriazione dei beni, che poi vengono superati grazie all’introduzione della moneta.
Kant e Hume obietteranno però che un bene non appartiene necessariamente a chi vi ha dispensato il proprio lavoro. Kant vedrà nella proprietà non il rapporto uomo-cosa, ma un rapporto giuridico intersoggettivo (tra il proprietario e gli altri che si astengono da quel possesso), mentre Hume sosterrà che la proprietà si fonda sull’utilità: gli uomini, col tempo, avrebbero compreso che senza una limitazione del loro desiderio di possesso vi sarebbe stato un continuo conflitto per i beni; essi avrebbero inoltre capito che una società fondata sulla proprietà e sulla divisione del lavoro è in grado di produrre maggiore ricchezza. Del resto, già Locke aveva osservato che un piccolo pezzo di terra coltivato privatamente rende dieci, anzi cento volte di più di quanto renderebbe se lasciato in proprietà comune.