Rivoluzione
di Roger Garaudy
Rivoluzione
sommario: 1. Introduzione. 2. La rivoluzione non si definisce per i mezzi che impiega: a) la rivoluzione non si definisce per la violenza; b) la rivoluzione non si definisce per la rapidità del mutamento storico; c) la rivoluzione non scaturisce né da un determinismo meccanico né da un volontarismo arbitrario. 3. La genesi della rivoluzione in Europa. 4. La rivoluzione si definisce per i suoi obiettivi. 5. Cosa può essere una rivoluzione oggi?: a) il cambiamento delle strutture; b) il cambiamento delle coscienze; c) la rivoluzione culturale. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nelle scienze naturali il termine ‛rivoluzione' stava a indicare, in origine, un movimento circolare: in astronomia, ad esempio, il ritorno periodico di un astro in un punto della sua orbita; in geometria, la rotazione completa di un corpo mobile intorno al suo asse.
Quando tale termine fa la sua comparsa, verso la metà del XVI secolo, nelle discipline storiche, la natura e il senso di questo movimento non sono definiti in modo chiaro: con ‛rivoluzione' si intende ogni mutamento brusco e rilevante degli ordinamenti morali e sociali. Un dizionario apparso di recente riporta ancora, come sinonimo, ‛sconvolgimento'!
Saranno necessari quattro secoli di esperienze ‛rivoluzionarie' perché il termine assuma finalmente un significato preciso e venga a indicare un movimento storico orientato verso una meta determinata, che si sviluppa a partire da condizioni sociali determinate e che corrisponde a un momento determinato dell'inesauribile processo di creazione dell'uomo da parte dell'uomo stesso.
Intendiamo mostrare come la rivoluzione non venga definita dai mezzi che usa, ma dai fini che persegue, dunque non solamente dalla sua storia, ma dal suo avvenire e dalle sue prospettive.
Cercheremo di capire infine che cosa potrebbe e dovrebbe significare una rivoluzione oggi.
2. La rivoluzione non si definisce per i mezzi che impiega
a) La rivoluzione non si definisce per la violenza
Studiando il ‟ruolo della violenza nella storia", Engels sottolinea che la violenza non è mai un fenomeno sociale primario: l'uso ‛politico' della violenza è sempre la conseguenza di una situazione economica anteriore. Talvolta la violenza è utilizzata per mantenere a ogni costo forme di proprietà o privilegi incompatibili con l'evoluzione economica e, in questo caso, quando cioè la violenza impiegata dallo Stato entra in contrasto con l'evoluzione economica, la lotta si conclude col rovesciamento del potere politico (per esempio nella Rivoluzione francese).
Ma la violenza svolge nella storia anche un altro ruolo, un ruolo rivoluzionario; secondo le parole di Marx, è la levatrice di ogni vecchia società che ne porta in seno una nuova, è lo strumento grazie al quale il movimento sociale riesce a prevalere e a frantumare forme politiche ormai superate.
Dunque la violenza non è affatto un attributo necessario della rivoluzione. Al contrario è, in primo luogo, la conseguenza necessaria della subordinazione economica di una classe e del mantenimento della sua oppressione.
La violenza prima è quella dell'oppressione: quando gli oppressi si ribellano, non sono essi a introdurre nel mondo la violenza. Condannare la violenza dello schiavo che si ribella significa rendersi complici della violenza continua di chi tiene lo schiavo in ceppi.
Numerosi cristiani denunciano oggi l'ipocrisia di opporre l'amore cristiano ai mezzi rivoluzionari della violenza. Richiamarsi a tale opposizione non vuol dire elevarsi al livello della trascendenza divina, ma, al contrario, cedere a un vecchio condizionamento umano favorito da una Chiesa troppo a lungo solidale con l'‛ordine costituito' (qualunque esso sia, anche dispotico o violento) e, per questo motivo, più sensibile alla violenza che scuote l'ordine che alla violenza che lo difende.
Per questa via non si condannano, in realtà, i mezzi della rivoluzione, la sua ‛violenza', ma i suoi ‛fini'. Non è vero che si condanni la violenza ‛in sé', poiché mai, da Costantino in poi, la Chiesa ha preconizzato l'obiezione di coscienza: se si autorizza un cristiano a essere soldato o perfino a partecipare a una spedizione coloniale e, al contrario, gli si proibisce di partecipare a una rivoluzione, ciò significa che la condanna non riguarda ‛i mezzi', poiché si accetta che egli sia strumento di violenza nel primo caso e non nel secondo; la sostanza è che, in realtà, si accettano i fini della guerra o del colonialismo ma non quelli della rivoluzione.
Monsignor Helder Camara, arcivescovo brasiliano e testimone della violenza permanente esercitata sui popoli dell'America Latina dallo sfruttamento e dall'oppressione, distingue chiaramente tre tipi di violenza: quella istituzionale, quella insurrezionale (che costituisce semplicemente una resistenza alla violenza precedente) e, infine, quella repressiva che tenta di soffocare la seconda, cioè la resistenza all'oppressione. Condannare soltanto la seconda, vuol dire rendersi complici della prima e della terza.
Non abbiamo scelta tra violenza e non violenza, tra male e bene. La violenza è nelle cose e la lotta di classe non è un invenzione dei rivoluzionari, ma una realtà quotidiana e innegabile: vi sono uomini che possono licenziare un operaio dall'oggi al domani, mantenendo in tal modo altri uomini nell'angoscia quotidiana di perdere il pane per sé e per i propri figli. Questa contrapposizione costituisce una violenza permanente e fondamentale, una legge strutturale dell'ordine costituito. ‟Violento non è chi contesta il sistema fondato sulla violenza, ma chi l'accetta e lo difende", scrive G. Girardi nel suo libro Amore cristiano e violenza rivoluzionaria.
Del resto la dittatura del proletariato di cui parla Marx è semplicemente la forma che assume una democrazia socialista di fronte alle aggressioni della controrivoluzione esterna e interna. Analogamente la democrazia rivoluzionaria della Costituzione francese del 1793 si è trasformata in dittatura giacobina di fronte alle aggressioni degli emigrati di Coblenza, della controrivoluzione della Vandea e delle forze dell'Europa feudale; allo stesso modo quella che in origine era la democrazia operaia della Comune di Parigi è divenuta dittatura del proletariato dovendo fronteggiare Versailles e Bismarck; la medesima cosa è avvenuta per le concezioni di Lenin sul controllo operaio e le cooperative contadine, sull'autonomia dei sindacati e l'iniziativa dei soviet: si sono trasformate nella dittatura autoritaria e centralizzata di un partito unico per la necessità di fronteggiare la controrivoluzione armata, l'intervento straniero e anche il sottosviluppo dell'economia, il blocco e le minacce dell'accerchiamento capitalistico.
Ricapitolando, la violenza non è elemento costitutivo nella definizione della rivoluzione, la quale è sempre resistenza e rivolta contro una violenza antecedente (quella dello sfruttamento e dell'oppressione) o risposta ai tentativi di restaurazione controrivoluzionaria degli antichi privilegi e delle antiche oppressioni.
La violenza è innanzitutto un tratto che distingue conservazione e reazione; diventa forma di un movimento rivoluzionario solo in funzione di quella violenza originaria.
b) La rivoluzione non si definisce per la rapidità del mutamento storico
Se la rivoluzione non viene definita dalla violenza del mutamento, non lo è neppure, a maggior ragione, dalla rapidità di questo. Fustel de Coulanges scriveva: ‟Chiamo rivoluzione non quegli avvenimenti clamorosi, violenti, che spesso non approdano a nulla, bensì un cambiamento reale, efficace, durevole".
In verità, fino al XIX secolo, la parola rivoluzione indicava ogni brusco cambiamento politico. Essa non si distingueva affatto dal ‛colpo di Stato', semplice trasferimento del potere da un gruppo di dirigenti a un altro senza cambiamenti profondi nella società. Tale confusione è evidente quando Montesquieu, ad esempio, scrive in L'esprit des lois (Libro V, cap. 11): ‟Tutta la nostra storia è piena di guerre civili senza rivoluzioni; quella degli Stati dispotici è piena di rivoluzioni senza guerre civili". Furono necessarie le esperienze storiche della fine del sec. XVIII, del XIX e del XX, per non confondere una rivoluzione con l'atto della presa della Bastiglia nel 1789 o dell'assalto al Palazzo d'inverno nel 1917.
Una lunga maturazione di una crisi storica precede queste esplosioni: per quanto riguarda, per esempio, la Rivoluzione francese, già nel 1771 Diderot, in una lettera alla principessa Dashkoff, analizzando la situazione politica della Francia, escludeva la possibilità dello statu quo: o una reazione violenta dell'oppressione o una rivoluzione della libertà. ‟Una volta che gli uomini hanno osato dare, in un modo o nell'altro, l'assalto alla diga della religione [...], è impossibile fermarli. Volti i loro sguardi minacciosi contro la maestà del cielo, essi non mancheranno, subito dopo, di rivolgerli contro le maestà della terra [...]. Tale è il nostro stato presente [...]. Siamo alle soglie di una crisi che può solo sfociare nella schiavitù o nella libertà". Dieci anni prima Rousseau scriveva nell'Émile (L. III): ‟Ci avviciniamo a uno stato di crisi e al secolo delle rivoluzioni", aggiungendo in nota: ‟Ritengo impossibile che le grandi monarchie d'Europa possano durare ancora a lungo".
Insistere sulla continuità dello sviluppo storico e non definire la rivoluzione soltanto per i momenti di crisi acuta, non vuol dire affatto confondere la rivoluzione con una somma di riforme. La rivoluzione si distingue in modo sostanziale dal riformismo. Essa mette in discussione il principio stesso di un sistema economico e sociale. Il riformismo tende soltanto a migliorarlo. Vi è una differenza radicale tra lo schiavo che lotta per migliorare la propria condizione di schiavo e quello che lotta per l'abolizione della schiavitù.
Questa opposizione ha, del resto, un carattere dialettico: la lotta per le riforme non è necessariamente riformista. Essa lo diventa soltanto se, come fa Bernstein, si nega l'importanza dell'‛obiettivo finale' (‟L'obiettivo finale non è nulla, egli diceva, il movimento è tutto"). In questo caso, le riforme non sono più considerate come un mezzo per raggiungere l'obiettivo rivoluzionario, bensì come un fine in sé.
La lotta sindacale non può, da sola, ridurre progressivamente lo sfruttamento capitalistico, fino ad annullarlo, così come la battaglia elettorale e parlamentare non può, da sola, ridurre progressivamente, fino ad annullarlo, il dominio dello Stato borghese. Ma l'azione sindacale e parlamentare è comunque importante: essa infatti permette di prendere coscienza dell'unità del ‛blocco storico' e degli ostacoli cui tale unità va incontro e contribuisce a creare l'organizzazione delle forze rivoluzionarie, senza la quale non si avrebbero altro che utopie speculative e convulsioni anarchiche; inoltre essa permette di prendere coscienza dell'efficacia di queste lotte e insieme dei loro limiti. Scriveva Rosa Luxemburg: ‟Non si può costruire una catena continua di riforme sociali che conducano dal regime capitalista a quello socialista". La catena si rompe ad ogni momento perché la classe dominante, finché tiene in mano l'apparato statale, può recuperare immediatamente ciò che ha dovuto cedere sotto la pressione delle masse. Svalutazione, licenziamenti, utilizzazione delle imprese nazionalizzate, fuga di capitali: sono esperienze che la classe operaia e i suoi alleati hanno fatto dopo ogni vittoria.
Da questa esperienza storica derivano due insegnamenti fondamentali. Prima di tutto la necessità della lotta per le riforme come mezzo per raggiungere l'obiettivo rivoluzionario. La lotta per le riforme è una tappa essenziale nel periodo intercorrente fra due rivoluzioni, sia per portare a termine la prima, sia per preparare la seguente.
Nel Manifesto, Marx ricorda come, all'interno del sistema feudale, il servo sia diventato borghigiano e poi membro del comune, e come la borghesia abbia progressivamente eliminato, riforma dopo riforma, i privilegi feudali. E come tutto ciò abbia soltanto preparato la presa del potere politico da parte di questa borghesia.
La stessa cosa vale per la rivoluzione socialista: la lotta per le riforme accresce l'unità e la forza della classe in ascesa finché essa non diventa abbastanza forte per conquistare il potere politico. Il momento della presa del potere politico rappresenta il momento della rottura, del cambiamento qualitativo, rivoluzionario, preparato dall'accumulazione quantitativa delle riforme parziali.
Tra riforme e rivoluzione vi è dunque una differenza di natura e non soltanto di ritmo: le riforme non costituiscono una rivoluzione diluita nel tempo, così come la rivoluzione non è un insieme di riforme concentrato in un attimo folgorante. Le riforme modificano la vecchia società; la rivoluzione gliene sostituisce invece una nuova.
Quando la lotta per le riforme è separata dal suo obiettivo rivoluzionario finale, diventa uno strumento di integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico. Questo è il motivo per cui, come già sottolineava Lenin, la controrivoluzione assume sempre più la maschera del riformismo: ‟Le riforme contro la rivoluzione, l'aggiustamento parziale del regime pericolante nell'intento di dividere, di indebolire la classe operaia, al fine di mantenere il potere della borghesia contro il rovesciamento di questo potere attraverso la via rivoluzionaria".
La rivoluzione non è dunque una specie di Apocalisse, un giorno di fuoco: essa è una lotta quotidiana. Ma non è neppure una lotta alla giornata, senza una prospettiva e senza un programma rivoluzionario: la caratteristica specifica di un rivoluzionario è di legare ogni lotta parziale e quotidiana al suo progetto globale di trasformazione del mondo. Questo carattere di totalità della trasformazione rivoluzionaria, che implica sia un cambiamento radicale delle strutture economiche, sociali e politiche, sia un mutamento radicale della concezione del mondo e del senso stesso della vita umana, esclude la possibilità di usare il termine ‛rivoluzione', quando ci si trovi di fronte a un capovolgimento, sia pure profondo ma parziale, di un settore soltanto dell'attività umana.
Come non si può confondere una rivoluzione con un colpo di Stato (una ‛rivolta di palazzo') che cambi soltanto il gruppo dirigente o soltanto la forma politica del governo, così non è esatto parlare di rivoluzione scientifica, o anche di rivoluzione industriale. Il passaggio dalla pittura fondata sulla prospettiva classica al cubismo; il passaggio dalla fisica meccanica ed euclidea alla fisica dei quanti e alla relatività di Einstein; l'avvento della macchina a vapore, oppure, oggi, del calcolatore elettronico e dell'energia nucleare, non costituiscono delle ‛rivoluzioni', nel senso proprio del termine, ma dei mutamenti le cui conseguenze possono, a lunga scadenza, avere un ruolo attivo in una effettiva rivoluzione, cioè in un cambiamento globale, a tutti i livelli, della vita sociale. Ma nessuno di questi mutamenti, per importanti e profondi che siano, può realizzare da solo il cambiamento globale delle strutture, delle coscienze e della cultura, il quale soltanto costituisce un'autentica rivoluzione.
Una rivoluzione è, nella storia di un popolo, ciò che una ‛conversione' è nella vita di un individuo: un cambiamento dei valori e dei fini della vita e della storia.
c) La rivoluzione non scaturisce né da un determinismo meccanico né da un volontarismo arbitrario
Definire la rivoluzione come un fenomeno sociale globale implica che non si concepisca il suo scatenamento come risultato di una causalità meccanica: a generarla basterebbe una contraddizione economica fondamentale, indipendentemente dalla coscienza che gli uomini possano averne e dalla loro iniziativa storica. Questa concezione dogmatica (che fu ad esempio quella di Kautsky) conduce necessariamente all'opportunismo, poiché comporta l'attesa della piena maturazione dei processi economici dalla quale nascerebbe automaticamente il socialismo.
A coloro che, come Kautsky, obiettavano a Lenin che in Russia non vi erano le condizioni oggettive per una rivoluzione e quindi non si doveva farla, Lenin rispondeva che l'errore peggiore che può commettere un rivoluzionario è quello di concepire la rivoluzione soltanto sul modello delle rivoluzioni del passato. È vero che la Rivoluzione francese si era realizzata secondo uno schema che taluni avevano creduto immutabile: la classe in ascesa, la borghesia, già prima della rivoluzione controllava i settori più avanzati dell'economia (l'industria, il commercio, le banche); i suoi ideologi, gli Enciclopedisti e i materialisti del XVIII secolo, avevano preso coscienza della necessità storica della sua vittoria e vi avevano contribuito con la loro critica della religione dissacrando la monarchia ritenuta fino ad allora di diritto divino. Cosicché la rivoluzione propriamente detta consistette nell'armonizzare le istituzioni politiche e sociali con le esigenze fondamentali della nuova economia. Si doveva tuttavia dedurne che tutte le rivoluzioni si sarebbero sviluppate in futuro secondo tale schema?
Quando Lenin (in L'estremismo malattia infantile del comunismo) dà la definizione di una ‛situazione rivoluzionaria', lo fa partendo dalle specifiche condizioni storiche della Rivoluzione d'ottobre e non esita a rovesciare lo schema concepito da Marx sul modello della Rivoluzione francese. Per Marx la rivoluzione socialista era il superamento delle contraddizioni di una società capitalistica giunta alla sua piena maturità; la rivoluzione socialista del 1917 era stata realizzata, invece, in un paese arretrato sul piano tecnico ed economico dove, di conseguenza, il capitalismo non era giunto a tale maturità. La contraddizione principale tra capitale e lavoro non poteva dunque, da sola, creare le condizioni oggettive per una rivoluzione. (Nella Russia dell'ottobre 1917, la classe operaia rappresentava solo il 3% della popolazione attiva). Una rivoluzione era possibile solo attraverso il concorso di molteplici contraddizioni e in primo luogo quelle del regime agrario, in un paese in cui le masse contadine costituivano la schiacciante maggioranza. La guerra e poi la disfatta contribuirono a rivelare l'impotenza del regime nel suo insieme e fu questo a favorire la grande vampata del 1917. L'analisi concreta e l'audace strategia di Lenin hanno capovolto gli schemi del cosiddetto marxismo ‛classico', ‛ortodosso' e, in realtà, dogmatico. Con dei contadini che volevano soltanto ‛terra e libertà' (cioè una rivoluzione borghese), Lenin ha realizzato una rivoluzione proletaria orientata verso il socialismo. Perfettamente cosciente che in Russia non esistevano ancora le condizioni economiche per il socialismo, Lenin prese il potere politico per crearle.
Alle obiezioni di Kautsky, Lenin rispondeva: ‟La Russia non ha raggiunto il livello di sviluppo delle forme produttive sulla base del quale è possibile il socialismo. [...] Che fare se la situazione, assolutamente senza via d'uscita, decuplicava le forze degli operai e dei contadini e ci apriva più vaste possibilità di creare le premesse fondamentali della civiltà, su una via diversa da quella percorsa da tutti gli altri Stati dell'Europa occidentale? [...] Se per creare il socialismo occorre un certo grado di cultura [...] perché non dovremmo allora cominciare con la conquista, per via rivoluzionaria, delle premesse necessarie per questo certo grado, in modo da poter in seguito - sulla base del potere operaio e contadino e del regime sovietico - metterci in marcia per raggiungere gli altri popoli?" (Sulla nostra rivoluzione, 16 gennaio 1923, in Opere, XXXIII, p. 438).
Sarebbe errato concluderne, come fa Althusser, che ogni rivoluzione è necessariamente ‛congiunturale'. Lo schema di Lenin è diverso da quello di Marx, perché mentre egli cerca di definire le condizioni di una rivoluzione in Russia, Marx, analizzando le contraddizioni del paese più progredito del suo tempo, l'Inghilterra, concepiva per questo una soluzione secondo il modello francese. Quello di Althusser costituirebbe dunque un errore simmetrico - e derivante da un medesimo dogmatismo - a quello di Kautsky, che generalizza uno schema unico. Sarebbe egualmente errato opporre semplicemente a una causalità meccanica una causalità strutturale e parlare di ‛surdeterminazione' della rivoluzione, attenendosi, come fa Althusser, alle sole condizioni oggettive. Ciò che fa di Marx e di Lenin dei rivoluzionari e non dei dottrinari, è proprio il fatto che essi non sottovalutano nè le condizioni oggettive, nè le condizioni soggettive di una rivoluzione.
Marx non cessa di ricordare che ‟gli uomini fanno la loro storia", anche se non arbitrariamente ma in condizioni determinate. È questa l'idea fondamentale che egli ha della rivoluzione. Le circostanze fanno gli uomini, concede Marx ai materialisti francesi del XVIII secolo, ma aggiunge: sono gli uomini che fanno le circostanze. Questa dialettica dell'azione reciproca esprime la sua concezione della rivoluzione, che non è nè deterministica nè utopica. Non vi è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria. Ma non vi possono essere idee rivoluzionarie senza che esista, almeno in embrione, una realtà rivoluzionaria.
Ciò esclude il romanticismo utopico che vive nell'illusione che i nostri desideri di cambiamento possano realizzarsi in qualsiasi momento e in qualsiasi condizione, approdando quindi immancabilmente all'avventurismo politico; e ciò esclude, anche, la concezione deterministica che consiste nell'aspettare la rivoluzione da una somma meccanica di condizioni oggettive. Questo attendismo opportunistico conduce necessariamente a non iniziare mai la rivoluzione poiché le ‛condizioni' non saranno mai completamente realizzate: mancherà sempre quella condizione soggettiva che è insieme coscienza teorica delle condizioni oggettive e iniziativa storica per superarne le contraddizioni.
Nessuna contraddizione oggettiva può, da sola, generare una rivoluzione. Marx, e dopo di lui Lenin, hanno dimostrato che la miseria non crea automaticamente un movimento rivolto a sovvertire il sistema che genera la miseria: occorre un progetto rivoluzionario che dimostri come sia possibile instaurare un altro regime, rispondente ai desideri profondi delle masse.
Nessuna dimostrazione cosiddetta ‛scientifica' (ma in realtà positivistica) può stabilire se questa possibilità sia necessaria. Una simile dimostrazione prescinderebbe, infatti, dal momento ‛soggettivo' della rivoluzione, cioè dall'indispensabile ‛iniziativa storica' delle masse.
Nel rapporto di forze, l'importanza decisiva del ruolo della coscienza di un popolo, di ciò che Lenin chiamava il ‛fattore soggettivo', si è rivelata in modo particolarmente acuto nella rivoluzione iraniana, in cui, rispondendo all'appello di un religioso che rifiuta, in nome della fede islamica, il modello occidentale di sviluppo, un popolo disarmato ha fatto crollare uno degli eserciti più potentemente equipaggiati del mondo.
In ogni rivoluzione coesistono, dunque, una necessità che nasce dalla storia in gestazione, una spinta esterna dovuta alla miseria e all'oppressione e, allo stesso tempo, un progetto umano attraverso il quale il rivoluzionario prende le distanze dallo sviluppo storico, rompe con esso e formula la sua esperienza sotto forma di una possibilità che trascende sempre il reale e che tuttavia lo genera. Cinque secoli di esperienza storica della rivoluzione in Europa confermano queste tesi.
3. La genesi della rivoluzione in Europa
In Europa le prime rivoluzioni sono caratterizzate da due componenti essenziali: un'ondata di lotte popolari antifeudali e una speranza messianica nell'instaurazione del Regno di Dio. I due termini sono intimamente legati, giacché la promessa del Regno aiuta gli insorti a prendere coscienza della loro miseria e, contemporaneamente, la lotta contro la miseria e l'oppressione è animata da uno scopo che la trascende: la realizzazione del Regno di Dio.
È precisamente in questo che i movimenti rivoluzionari si distinguono dalle jacqueries: non si tratta di una semplice rivolta contro gli abusi del feudalesimo; ma sono i suoi stessi principi che vengono messi in discussione in nome di un ideale di eguaglianza mistica e della promessa di un'età dell'oro. Nel 1381, in Inghilterra, la rivolta diretta da Wat Tyler, che marcia su Londra con 60.000 contadini armati, secondo la narrazione di Froissart, era stata provocata dalla predicazione di un prete, John Ball, che proclamava: noi discendiamo tutti da Adamo ed Eva e coloro che ci fanno lavorare per riservarsi il privilegio di spendere il denaro non hanno alcun diritto di chiamarsi nostri padroni. Questo primo tentativo venne schiacciato perché i rivoltosi avevano la tendenza a lasciare che Dio agisse in vece loro, piuttosto che agire essi in suo nome, come farà più tardi Cromwell. La rivolta supera tuttavia, per i suoi intenti, gli analoghi movimenti antifeudali che nel XIV secolo si susseguono attraverso tutta l'Europa: quello dei Ciompi a Firenze, dei Jacques in Francia, quelli delle Fiandre, della Germania e della Svizzera.
La prima grande rivoluzione europea è quella degli Ussiti, in Boemia, che all'inizio del XV secolo, del 1419 al 1437, inflisse al regime feudale colpi assai duri. I contadini si unirono alla borghesia cittadina contro il nemico comune: i feudatari e la Chiesa, che era allora il più potente e il più ricco di questi. Giovanni Hus, decano e poi rettore dell'Università di Praga, fin dal 1402, nelle sue prediche nella cappella di Betlemme, richiamandosi, contro le estorsioni dei feudatari e della Chiesa, alla promessa biblica del Regno di Dio, animava nel popolo una fiducia senza limiti nella giustizia della sua causa e nell'appoggio di Dio.
Quando, il 6 luglio 1415, Giovanni Hus fu bruciato sul rogo a Costanza, il suo martirio fu il segnale di un'immensa insurrezione. Un predicatore discepolo di Giovanni Hus, Giovanni Zeliv, muovendo nelle sue prediche dall'Apocalisse di san Giovanni, annunciava l'avvicinarsi della lotta contro l'Anticristo, rappresentato dai prelati, dai signori e dai patrizi. Migliaia di popolani si radunarono sulla collina di Tabor, nella Boemia meridionale, e vi crearono una comunità nella quale tutti i beni venivano messi in comune e tutte le cariche - sia militari, che civili o religiose - erano elettive, così da preparare un mondo degno del ritorno del Cristo, il cui Regno doveva durare poi mille anni. Questo insegnamento profetico del ‛millenarismo' conquistò rapidamente città e campagne, e nel 1420, sotto il comando di Giovanni Žižka, venne intrapresa la lotta armata contro i feudatari. I rivoluzionari si impadronirono di Praga e vi proclamarono i ‛quattro articoli di Praga': libertà di predicare il verbo divino; comunione impartita ai fedeli sotto le due specie del pane e del vino (annullando cosi la differenza tra preti e fedeli); punizione dei peccati capitali che esprimevano l'oppressione e la degenerazione della classe dominante feudale; infine, ritorno della Chiesa alla povertà primitiva e secolarizzazione dei beni feudali della Chiesa stessa.
Il Papa organizzò una crociata contro gli Ussiti, ma questi, confidando nella loro missione di ‛soldati di Dio', sotto il comando prima di Giovanni Žižka, poi del predicatore Procopio, vinsero gli eserciti dei crociati, fecero adepti in Germania, in Inghilterra, in Austria, in Ungheria, e sconfissero prima Federico di Hohenzollern e poi l'imperatore Sigismondo. Furono sconfitti soltanto nel 1434 dalla coalizione dei feudatari nella battaglia di Lipany; ebbe allora inizio una repressione selvaggia: i prigionieri ussiti furono bruciati vivi, i loro capi torturati e poi impiccati.
Il secondo momento dell'elaborazione del progetto rivoluzionario, dopo la vampata ussita, fu quello della cosiddetta eresia umanistica. Sebbene questo movimento sia stato essenzialmente intellettuale e i suoi rappresentanti più prestigiosi siano stati degli individui senza legami con le masse popolari, le loro esigenze di libertà intellettuale, le loro affermazioni della grandezza dell'uomo, le loro polemiche contro gli antichi dualismi dell'agostinismo, costituiranno parte integrante delle successive teorie rivoluzionarie.
Il grande ‛dialogo' di Petrarca con sant'Agostino fa vacillare i fondamenti della teologia tradizionale in nome di una concezione umanistica del mondo e della vita e mette l'accento sull'‛io' e sul valore della percezione sensibile; l'esaltazione che Marsilio Ficino fa della conoscenza, non più come concupiscenza sospetta ma, al contrario, come unione divina con le cose; la fiera proclamazione, in Pico della Mirandola, della dignità e della grandezza dell'uomo, messo al centro dell'universo per conoscerlo e dominarlo; l'audacia di Michelangelo che nel 1506 tiene testa a Giulio II e formula una visione nuova dell'universo a esaltazione della potenza dell'uomo; la sfida di Machiavelli a tutta la tradizione cristiana, quando laicizza la politica e osa dichiarare che Dio e il caso governano solo una parte delle nostre azioni; l'ironia con cui Erasmo colpisce opinioni e tradizioni ritenute sovranamente venerabili, fino ad allora; il disegno della prima grande ‛utopia' tracciato da Tommaso Moro; questo complesso intreccio di avvenimenti apre la strada, sul piano intellettuale, a tutte le future audacie dei rivoluzionari.
La Riforma protestante, per altra via, metterà in discussione, così come aveva fatto l'umanesimo, tutte le forme tradizionali di vita in Europa e riattizzerà nello stesso tempo l'incendio nato in Boemia.
Il grande capovolgimento dei valori iniziava già nel momento in cui un domenicano, il mistico maestro Eckhart, affermava: ‟La verità è una cosa così nobile che se Dio se ne allontanasse, io mi atterrei alla verità e abbandonerei Dio"; o ancora: ‟Se è vero che Dio si è fatto uomo, è anche vero che l'uomo si fa Dio, e così dunque voi non dovete nulla a Dio poiché egli è voi stessi. [...] Affinché un'opera dell'uomo viva, essa deve scaturire dal profondo dell'uomo stesso non da fonti esterne ed estranee, ma dal di dentro [...] poiché l'uomo vive in Dio, e Dio in lui, Dio è nato in lui e lui in Dio".
Quando Lutero afferma dopo Giovanni Hus, del quale ha meditato le opere, che per la nostra salvezza non è necessario credere nella Chiesa, è l'istituzione stessa su cui poggiava tutto l'ordine medievale che viene messa in discussione. Lutero rappresenta in tal modo un momento della coscienza rivoluzionaria dell'umanità.
Era ormai matura la prima ‛teologia della rivoluzione' di Thomas Münzer, nuova sintesi di lotta di classe e speranza cristiana. Il programma di Thomas Münzer prevedeva la realizzazione del Regno di Dio sulla terra, e il Regno di Dio era una società senza classi, senza proprietà privata e senza Stato. La ‛guerra dei contadini', capeggiata da Münzer, scoppiò nel 1523 e durò fino al 1525, anno in cui fu soffocata nel sangue dai principi, dalle chiese e dalla borghesia. Thomas Münzer venne torturato e decapitato.
Era nata una nuova corrente del cristianesimo, la teologia della rivoluzione: l'uomo testimonia della sua fede non attraverso la propria rassegnazione, ma attraverso la lotta; Dio non si rivela nell'ordine, ma nella rivolta dell'uomo.
Questo atteggiamento caratterizzerà le rivoluzioni inglesi del XVII secolo. Attraverso la rivoluzione borghese di Cromwell il Parlamento, da strumento della monarchia, diventa un'arma contro di essa, e la lotta della borghesia contro il feudalesimo porta all'abolizione della monarchia e della Camera dei Lords. Milton è il poeta della rivoluzione: nell'Areopagitica, rivolta al Parlamento, egli compone la più bella arringa in difesa della libertà: ‟Colui che uccide un uomo egli scrive uccide l'immagine di Dio; ma colui che vieta un buon libro, uccide la ragione stessa, che è immagine di Dio". Di qui l'esaltazione di Wycliff, primo apostolo e martire di tutte le riforme successive: quelle di Giovanni Hus, di Lutero e di Calvino, pionieri della lotta per la libertà.
Come la Riforma di Lutero, che affondava le sue radici in un popolo oppresso, diventa poi la rivoluzione di Münzer, così la rivoluzione borghese di Cromwell dà vita a un movimento più avanzato: quello dei levellers che, dal 1646 al 1650, con i suoi tre maggiori rappresentanti, Lilburne, Overton e Walwyn, puritani di tendenze radicali, si orienta verso una forma di comunismo. La ‛protesta' di Overton, nel 1646, è diretta contro la monarchia, la nobiltà e il clero. Essa non riconosce altra sovranità che quella del popolo. Walwyn denuncia il colonialismo e preconizza ‟l'eguaglianza dei beni e delle terre". Lilburne insegna che Dio non ha dato a nessuno il potere di opprimere o di sfruttare altri uomini: ‟I più autentici servitori di Cristo scrive sono sempre stati i più grandi nemici della tirannide e dell'oppressione". Uno dei levellers, Winstanley, creando nel 1649 una comunità agricola, proclama che Dio ha fatto della terra ‟un bene comune" e non ha mai sancito il dominio dell'uomo sull'uomo. ‟L'Inghilterra non sarà mai un paese libero finché il povero non avrà terra da coltivare": il suo obiettivo è valorizzare la terra e le foreste, dandone ai poveri l'accesso contro l'accaparramento dei ricchi.
In un secolo la scienza, da Copernico a Galilei, aveva sovvertito la vecchia concezione del mondo su cui si fondavano l'insegnamento della Chiesa e l'ordine degli Stati: la terra non era più il centro dell'universo, teatro degli avvenimenti della Creazione, la Caduta e la Redenzione, e la speculazione scolastica fondata sulla Rivelazione e sui principi degli antichi veniva soppiantata dalla conoscenza sperimentale. Partendo da questa nuova concezione del mondo, Tommaso Campanella nella Città del sole, da lui scritta in prigione nel 1623, delinea un comunismo utopico fondato sull'uguaglianza politica ed economica degli uomini. Dopo un'acuta critica del nascente capitalismo, egli mostra come una società liberata dalla proprietà privata, dallo sfruttamento e dall'oppressione che ne derivano, creerebbe le condizioni per uno sviluppo senza precedenti della scienza, della tecnica e delle arti.
In Francia, nel XVIII secolo, gli eredi materialisti del razionalismo di Cartesio creano nuove premesse intellettuali per la rivoluzione: per la prima volta la Chiesa e la religione non vengono criticate in nome del profetismo biblico ed evangelico, ma in nome della ragione, dell'esperienza sensibile, del materialismo filosofico. Le loro idee sulla bontà originaria dell'uomo, sull'onnipotenza dell'esperienza sensibile, sull'influenza delle circostanze esterne sull'uomo, avevano delle dirette conseguenze rivoluzionarie. Marx, tessendo il loro elogio nella Sacra famiglia, mette in risalto questo tema principale: ‟Se l'uomo viene plasmato dalle circostanze, bisogna plasmare umanamente le circostanze". Questo umanesimo sarà il punto di partenza dell'utopia di Fourier, di Dézamy o di Owen, come anche del comunismo di Babeuf.
La Rivoluzione francese, che divenne per l'intera Europa la rivoluzione esemplare, quella che Fichte paragonava alla grande rivoluzione filosofica di Kant perché fondava qualsiasi ordine sociale sull'autonomia del soggetto, è in effetti il coronamento della lunga lotta della borghesia contro il feudalesimo, contro la monarchia di diritto divino e contro la Chiesa che aveva sacralizzato il vecchio regime. Secondo il principio enunciato da Rousseau, essa riconosceva a ogni cittadino il diritto di obbedire solo alle leggi che egli si è dato da sé. Ma il carattere di classe di questa rivoluzione le impone dei limiti: ‟Solo il proprietario è cittadino" affermavano già d'Holbach e Diderot. Le prime costituzioni repubblicane consacrarono questo carattere di classe contrapponendo ai principi ‛universali' dei diritti dell'uomo e del cittadino leggi elettorali basate sul censo, che escludevano da questi diritti coloro che non erano proprietari.
Così ben presto si scontrarono due concezioni della rivoluzione: quella della borghesia, che aveva da poco sostituito i privilegi della ricchezza ai privilegi del sangue e che chiamava libertà la vittoria dei suoi interessi di classe; e quella dei non possidenti che denunciavano questo carattere di classe. A Robespierre che nel dicembre del 1793 proclama: ‟La rivoluzione è la guerra della libertà contro i suoi nemici", si oppone la definizione di Babeuf: ‟Cos'è in generale una rivoluzione politica? E in particolare cos'è la Rivoluzione francese? È una guerra dichiarata tra patrizi e plebei, tra ricchi e poveri. [...] Se lo scopo della rivoluzione è quello di tornare al fine ultimo della società, da cui ci si è allontanati, esso è allora il bene comune" (‟Le tribun du peuple", n. 34).
Tuttavia, anche se tutti quelli che avevano partecipato alla semina non erano ammessi alla mietitura, era nata una grande esperienza, e la parola stessa ‛rivoluzione' era ormai pregna di significati nuovi e di inesauribili promesse. Come osserva F. Brunot nella sua Histoire de la langue franåaise, si tratta ormai di una parola ‛trasfigurata': nel 1789, egli scrive, ‟dalle sfere del sogno e della speculazione, la parola ‛rivoluzione' entrava nella vita. Inoltre tutto un popolo, fino a quel momento curvo sulla sua quotidiana fatica, la ripeteva, se ne saziava [...] ma attenzione, da allora essa è incarnata; dio o demone, è una persona, ha conservato un'anima".
Nel XIX secolo - fuori della Francia - il progetto rivoluzionario si congiungerà con l'idea nazionale e, dalla Germania all'Italia, il romanticismo stesso gli trasmetterà il suo afflato epico, il suo senso della grandezza: quella per esempio di Garibaldi, che guida alla lotta di liberazione facendo appello solo alla dignità dell'uomo e non all'interesse personale. ‟Non vi prometto né paga, né onori - egli afferma - e neppure cure se sarete feriti. Vi prometto soltanto marce forzate, fame, combattimento e morte". In realtà lo spirito rivoluzionario non è soltanto un riflesso delle esigenze della miseria e dell'oppressione, ma, contro le alienazioni specifiche di ogni epoca, è anche il progetto che nasce dalla contraddizione tra l'uomo, quale si definisce in ogni momento attraverso le possibilità proprie della sua epoca, e l'uso che si fa dell'uomo in tale società. Come scriverà Jaurès, senza essere infedele al pensiero di Marx - il quale ha sempre ricordato che le spinte economiche non si esprimono se non attraverso gli uomini - ‟non è solo in virtù della forza delle cose che si realizzerà la Rivoluzione; ma è anche con la forza degli uomini, con l'energia delle coscienze e delle volontà".
L'ultima grande rivoluzione del XIX secolo, la Comune di Parigi, è la prima rivoluzione proletaria; nello spirito proudhoniano che ispirava la maggior parte dei suoi dirigenti, essa istituisce un governo ‟per il popolo e diretto dal popolo", senza la mediazione di un parlamento né di un partito. Essa presenta tre caratteri originali: 1) democrazia diretta, quindi non per trasferimento, ma per distribuzione del potere; 2) autogestione delle imprese abbandonate dai proprietari; 3) federalismo politico. Partendo da questa esperienza, Marx e poi Lenin elaboreranno la teoria dello Stato socialista.
Con la Rivoluzione russa dell'ottobre 1917, la prima rivoluzione socialista trionfava non in un paese capitalistico che aveva raggiunto il suo massimo grado di sviluppo e che aveva maturato tutte le sue contraddizioni, bensì in un paese economicamente, tecnicamente e politicamente arretrato. Vi fu quindi una interferenza costante tra i problemi della costruzione del socialismo e i problemi della lotta al sottosviluppo. Tale lotta - insieme a quella contro l'intervento straniero e il conseguente blocco economico - esigeva un'estrema concentrazione delle risorse e del potere. La necessità di raggiungere in un periodo di tempo molto breve il livello industriale dei paesi capitalistici, con il rischio - in caso contrario - di essere schiacciati da essi, impose, come priorità assoluta, una crescita economica accelerata; le sovrastrutture politiche e culturali del sistema furono subordinate a questo obiettivo: in simili condizioni, non poteva svilupparsi una vera democrazia socialista, che non è la negazione della democrazia borghese, bensì il superamento dei suoi limiti. Anche i problemi della cultura, subordinati agli imperativi di crescita economica e di potenza nazionale, furono affrontati con spirito utilitaristico di corto respiro.
La prodigiosa avanzata del movimento rivoluzionario iniziata con la Rivoluzione d'ottobre è stata in seguito interrotta in quanto, malgrado l'insegnamento di Lenin che negli avvenimenti della Rivoluzione russa distingueva l'essenziale dal contingente, i partiti comunisti di tutto il mondo, e in primo luogo il partito comunista sovietico, considerarono la Rivoluzione del 1917 come l'unico modello possibile del processo rivoluzionario e del socialismo. L'ostinazione nell'imporre questo modello attraverso la scomunica della Iugoslavia nel 1 948, il boicottaggio della Cina nel 1958, l'intervento militare in Cecoslovacchia nel 1968, inferse un colpo irreparabile al prestigio dell'Unione Sovietica e indebolì l'intero movimento rivoluzionario.
La Rivoluzione cinese, prima rivoluzione socialista vittoriosa in un paese non occidentale, si sforzò, malgrado il pesante fardello del sottosviluppo, di restaurare il progetto rivoluzionario nella sua interezza mostrando, con la rivoluzione culturale, che una rivoluzione autentica si sviluppa anche a livello delle sovrastrutture: l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione è una condizione necessaria ma non sufficiente per il socialismo.
L'esaltazione dello spirito rivoluzionario come motore della storia e prima ancora dell'economia, in contrapposizione agli ‛stimoli materiali' che generano l'illusione di poter creare una società socialista basandosi sui principi e sui metodi della società capitalistica, non è affatto in contraddizione con lo spirito di Marx e di Lenin, che non hanno mai sottovalutato il momento ‛soggettivo' della rivoluzione.
Infine la volontà di spezzare con la rivoluzione culturale la burocrazia rinascente nell'apparato politico, e ricominciare questa rivoluzione tante volte quante saranno necessarie per impedire nuove sclerosi e possibili ricadute, attua uno degli aspetti più importanti del progetto rivoluzionario: una rivoluzione non può essere realizzata una volta per tutte. Diceva Berthold Brecht: ‟Cambiare la società, poi cambiare la società cambiata".
L'apporto storico fondamentale di Mao Tse-tung consiste nell'aver respinto sia il modello occidentale di crescita sia il modello occidentale di rivoluzione.
Ciò che hanno in comune tutti i movimenti propriamente rivoluzionari - come dimostra l'esperienza storica di cinque secoli - è che essi implicano due componenti essenziali: una rivendicazione e una visione, una spinta economica e un progetto umano.
4. La rivoluzione si definisce per i suoi obiettivi
La rivoluzione non è né determinismo né utopia; non è possibile separare questi due momenti e neppure ridurre l'uno all'altro o giustapporli.
Marx ha analizzato per primo la dialettica storica delle rivoluzioni, mettendo l'accento soprattutto sui fondamenti oggettivi che i suoi avversari romantici o idealisti negavano. ‟A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale" (prefazione a Per la critica dell'economia politica).
Il conflitto tra le nuove forze produttive e i vecchi rapporti di produzione, che è, per Marx, il fondamento oggettivo di ogni situazione rivoluzionaria, si esprime attraverso gli uomini, cioè soggettivamente, in un'aspra lotta tra forze progressiste e forze reazionarie.
Come sottolinea con vigore nella stessa opera, Marx raccoglieva dunque in modo perfettamente cosciente l'eredità di Hegel che, egli dice, ‟fu il primo a cercare di dimostrare che vi è uno sviluppo nella storia, una concatenazione interna [...]; il carattere grandioso di questa importante concezione è a tutt'oggi degno di ammirazione se lo si paragona ai suoi predecessori. [...] Questa concezione della storia, che fece epoca, fu la premessa teorica diretta del nuovo punto di vista materialista." Concezione materialista che consiste, scrive ancora Marx, nello ‟spiegare la coscienza attraverso le contraddizioni della vita materiale, attraverso il conflitto tra le forze produttive sociali e i rapporti di produzione".
I ‟predecessori di Hegel, tanto inferiori a Hegel", come sottolinea Marx, erano i materialisti francesi del XVIII secolo. La loro concezione meccanicistica del processo storico li portava a confondere causalità e necessità, sicché, nell'intreccio senza fine delle azioni e reazioni reciproche, ogni condizione del fenomeno entrava come una componente meccanica nella determinazione del risultato finale. Tutte le condizioni, tutte le cause venivano messe così sullo stesso piano, poiché influivano in egual misura sullo svolgersi degli avvenimenti. Secondo questa impostazione, il caso più insignificante veniva elevato al rango della necessità e, per ciò stesso, la necessità veniva abbassata al livello dell'accidentale. D'Holbach ha messo in evidenza questo tipo di concatenazione portando ad esempio la cattiva digestione di un monarca che provoca una guerra e modifica lo sviluppo storico di molti secoli. Questo determinismo meccanicistico, con l'ambizione di darci un quadro esatto dell'ordine della natura e della storia, ci pone in realtà di fronte al caos.
È, al contrario, l'idealismo hegeliano, fondato sul primato dello Spirito, che permette a Marx e a Engels di trovare nella storia ‟una concatenazione interna"; ma in Hegel questa logica della storia, come tutta la sua logica del resto, si fonda sulla preesistenza dello Spirito e di un suo disegno prestabilito. Solo a questa condizione ‟la determinazione esterna si trasforma in autodeterminazione" (Logica, II). Quindi, non è possibile invertire semplicemente i termini e dire ‛materia' là dove Hegel dice ‟Spirito", perché questo significherebbe attribuire alla materia tutti gli attributi dello Spirito, questa ‛autodeterminazione' e questa preesistenza del disegno finale in funzione del quale si ordinerebbe tutto lo sviluppo ascendente della storia, e che porterebbe l'uomo infallibilmente alla rivoluzione, alla società senza classi, alla liberazione finale da ogni alienazione.
Questa interpretazione positivistica si trova nella Grande Enciclopedia Sovietica, dove la rivoluzione viene così definita: ‟Cambiamento qualitativo radicale, salto da uno stadio qualitativo a un altro, nuovo, come risultato di un'accumulazione di cambiamenti quantitativi impercettibili e continui; una delle leggi più importanti della dialettica nello sviluppo della natura, della società e del pensiero". In tal modo le rivoluzioni della storia vengono a essere solo dei casi particolari di una legge più generale del passaggio dalla quantità alla qualità, che regnerebbe già nella natura, prima dell'uomo e senza di lui. È difficile non vedere in tale concezione una teologia laicizzata o un hegelismo ridotto a positivismo.
La stessa rivoluzione sociale viene dunque definita senza alcun riferimento all'iniziativa storica degli uomini: ‟Rivoluzione sociale: tappa decisiva dello sviluppo sociale, svolta radicale nello sviluppo storico delle forze produttive e dei rapporti di produzione. Periodo di rottura nella vita sociale, caratterizzato dal capovolgimento violento di un regime superato, e dall'introduzione di un regime sociale progressista, dalla conquista del potere da parte di una classe di avanguardia, che orienta l'ulteriore sviluppo della società verso una trasformazione rivoluzionaria". Tutto vi si svolge come se gli uomini fossero soltanto ‟burattini azionati dalle strutture", secondo l'espressione dello strutturalismo astratto e dottrinario di Althusser e dei suoi allievi.
Ora, per Marx il problema si poneva in termini piu complessi: la rivoluzione del 1 848 lo costrinse a interrompere l'elaborazione teorica del metodo, nel momento in cui egli era ancora legato a formule del tutto hegeliane come: ‟Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza" (prefazione a Per la critica dell'economia politica). Formulazione dogmatica della dialettica, questa, di cui si impadronirà Kautsky per obiettare a Lenin che le condizioni oggettive non si erano ancora realizzate in Russia e che quindi non si doveva fare la rivoluzione.
Oppure a formule ancora in parte hegeliane (‟lo spirito del tempo", che ordina tutte le forme dell'attività dello spirito in ogni momento della storia), e in parte ispirate a un materialismo meccanicistico (per cui le idee e i sentimenti non sarebbero altro che riflessi passivi della situazione materiale) come, per es., quelle dell'Ideologia tedesca: ‟La morale, la religione, la metafisica e tutto il resto dell'ideologia, così come le forme della coscienza che corrispondono loro, perdono immediatamente ogni parvenza di autonomia. Esse non hanno storia", o perlomeno non hanno una storia propria, giacché la loro storia ‟non è altro che [...] quella dello sviluppo economico e sociale di cui esse sono il semplice riflesso". O ancora alle formule puramente meccanicistiche de La miseria della filosofia: ‟Il mulino a mano vi darà la società col signore feudale; il mulino a vapore, la società con il capitalismo industriale", formulazione che farebbe sparire, come in un gioco di prestigio, l'intervento umano da ogni rivoluzione.
Marx ed Engels hanno respinto molto esplicitamente queste esemplificazioni deterministiche che facevano dire a Marx, alla fine della sua vita: se questo è il marxismo, allora io non sono marxista! Combattendo durante la loro giovinezza contro i romantici che credevano nell'autonomia assoluta delle idee, essi hanno messo esattamente l'accento sull'elemento essenziale: il condizionamento sociale della coscienza e la necessità di non giudicare né gli uomini né le società soltanto per ciò che pensano di se stessi. ‟Marx e io stesso, in parte - scrive Engels a Joseph Bloch il 21 settembre 1890 - dobbiamo assumerci la responsabilità del fatto che i giovani, talvolta, danno all'aspetto economico più peso di quanto non sia necessario. Contro i nostri avversari noi eravamo costretti a sottolineare il principio essenziale che essi negavano, e non avevamo sempre il tempo, lo spazio e l'opportunità di dare il giusto posto agli altri fattori che partecipano all'azione reciproca. Ma non appena si trattava di presentare uno scorcio di storia, di passare cioè all'applicazione pratica, la cosa cambiava e non vi era possibilità d'errore".
In effetti, nella sua principale opera storica, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx fin dalla prima pagina afferma: ‟Gli uomini fanno la loro storia", anche se non la fanno arbitrariamente, ma sempre in condizioni determinate. Anche nel Capitale Marx sottolinea, facendo riferimento a Vico, come ‟la storia dell'uomo si distingue da quella della natura per il fatto che l'una è opera nostra e l'altra no". Sempre nel Capitale, Marx definisce il lavoro, nella sua forma specificamente umana, in questo modo: ‟Il risultato cui porta il lavoro è già presente idealmente nell'immaginazione del lavoratore. Egli non cambia soltanto la forma dei materiali naturali; vi realizza al tempo stesso il proprio fine, di cui ha coscienza, che determina come legge la maniera del suo agire, e al quale deve subordinare la propria volontà".
Siamo qui molto lontani da forme di materialismo volgare, per cui l'attività dell'uomo sarebbe soltanto un prolungamento degli impulsi della natura e il suo pensiero un semplice riflesso passivo ditale natura e di tali impulsi. Ciò che caratterizza l'uomo, in rapporto a tutte le altre specie animali e alla storia della natura, è l'emergere del progetto. Nell'evoluzione della natura non esistono né il progetto, nè la sua alienazione. Il progetto, la sua alienazione (ciò che Marx nel Capitale chiama una ‟inversione dei rapporti fra soggetto e oggetto") e il superamento di questa alienazione, questa nuova inversione, questa ‟negazione della negazione", ecco ciò che caratterizza la rivoluzione come fenomeno specificamente umano.
La rivoluzione non può nascere in modo deterministico dalla miseria, giacché la coscienza stessa della miseria e della possibilità di combatterla esige che l'uomo si faccia un'immagine, seppure confusa, seppure falsa, di un'altra vita, che diventa allora uno scopo, un progetto, l'anima della più elementare rivolta.
Quando Marx in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel definisce la religione come ‟oppio dei popoli", egli non l'interpreta come un semplice ‛riflesso' della reale miseria umana, ma come una ‛protesta' contro tale miseria. Questo è il motivo per cui, come abbiamo visto ricordando le tappe più importanti del movimento rivoluzionario, la speranza cristiana ha così spesso fornito l'immagine non soltanto di un ‛altro mondo' ma di un ‛mondo altro', diverso, e il ‛Regno di Dio' ha fornito quel fine, quel progetto, senza di cui non vi è movimento rivoluzionario.
Sarebbe errato ritornare ancora una volta al vecchio materialismo o al vecchio positivismo riduzionista, per vedere in quelle ideologie null'altro che la veste esteriore e illusoria della spinta economica. Senza alcun dubbio, in ogni epoca, la fede assume necessariamente la forma di un'ideologia, ma non si riduce a ciò.
Ciò è tanto vero che quando un'ideologia religiosa è del tutto superata, come è avvenuto nel XVIII secolo, un'altra ideologia, razionalista e atea, la sostituisce per dare un obiettivo alla lotta: l'uomo non combatte più in nome di Dio, ma in nome della Ragione, addirittura divinizzata e oggetto di culto durante la Rivoluzione francese.
Così come questa Ragione astratta viene in seguito giustamente rifiutata come ideologia borghese o come utopia, anche lo stesso materialismo storico viene poi a sua volta declassato a ideologia, sia ad opera del determinismo storico di Kautsky o di Lafargue, sia ad opera del dogmatismo filosofico di Stalin, che torna a fare della dialettica della storia umana un caso particolare della dialettica in quanto ‟scienza delle leggi più generali dello sviluppo della natura, della storia e del pensiero". Queste posizioni sono ovviamente contrarie allo spirito del marxismo; in questo modo, infatti, il destino degli uomini e la vittoria della loro rivoluzione sarebbero già scritti prima di loro e senza loro, in quel destino generale dell'universo cui già Engels irrideva nella Dialettica della natura: ‟Con una tale ineluttabilità non usciremo mai dalla concezione teologica della natura. Poco importa alla scienza, se noi la definiamo, come sant'Agostino, il decreto eterno della Provvidenza, o come i Turchi il Kismet, o ancora se la chiamiamo necessità". Il solo modo di superare queste concezioni alienate legate a un progetto che preesisterebbe fin dall'eternità allo sviluppo della natura e della storia, è prendere coscienza della vera natura di questo progetto, che è sempre ed essenzialmente storica: dal suo primo nascere con il lavoro umano fino ai più ambiziosi progetti rivoluzionari.
Il volontarismo idealistico e il materialismo meccanicistico distruggono entrambi la dialettica: l'uno in nome dell'esclusivismo dello spirito che decide di tutto in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione, l'altro in nome dell'esclusivismo della materia, le cui leggi determinerebbero, esse sole, il divenire sia della storia che della natura, riducendole a meri riflessi passivi.
Il merito maggiore del pensiero di Marx sta precisamente nel non aver ceduto a questo dualismo che, attraverso una tradizione cristiana ellenizzata e platonizzante prolungatasi per quindici secoli, opponeva il corpo all'anima, la materia allo spirito. Il marxismo, come del resto il profetismo biblico, è completamente estraneo a questo dualismo; questo è il motivo per cui esso riconosce all'uomo la piena responsabilità della sua storia. Per l'avvenire delle nostre società nulla ci viene promesso. Nessuno ci aspetta. Non esiste un piano divino esterno e superiore all'uomo, che imponga dal di fuori un fine trascendente alla storia. Non esistono neanche leggi eterne della natura, della storia e del pensiero, grazie alle quali la vittoria dell'uomo sarebbe già scritta, come in un libro del destino.
L'avvenire non è un copione già scritto, nel quale non ci resterebbe che recitare il ruolo che ci è stato assegnato. L'avvenire non è da scoprire, ma da inventare. Per fare un esempio concreto: con le scorte di bombe termonucleari di cui già si dispone è possibile distruggere ogni traccia di vita sulla terra. La vicenda umana, iniziata due o tre milioni di anni fa, potrebbe così concludersi con una distruzione tale da privare la storia di ogni significato. Lenin stesso ammetteva l'eventualità che una situazione storica ‛marcisse'. Ciò significa che noi non siamo spinti da alcuna necessità: se siamo tanto ciechi da non aver coscienza nè tener conto delle necessità oggettive, o tanto vigliacchi da non combattere per superarle, una volta che ne abbiamo presa coscienza, non è escluso che la nostra storia finisca in un vicolo cieco.
In ogni rivoluzione ritroviamo quindi tre momenti: il momento scientifico della necessità storica; il momento profetico che consiste nel prendere le distanze dal modello attuale di sviluppo (momento questo di trascendenza, per cui l'uomo si afferma come ‛altro' rispetto all'insieme delle condizioni che lo hanno generato e superiore a esse); infine il momento utopico, attraverso il quale si definisce il progetto globale di trasformazione della società a tutti i livelli: economico, politico e spirituale.
Non vi è vera rivoluzione senza questi tre momenti essenziali.
5. Cosa può essere una rivoluzione oggi?
Poiché oggi sono messi in discussione, universalmente, e soprattutto dai giovani, i fini stessi della nostra società e il sistema dualista (divisione tra governanti e governati) che li impone, la rivoluzione non può essere concepita soltanto come un cambiamento dei rapporti di proprietà e una redistribuzione del potere politico: essa implica anche un nuovo progetto di civiltà, vale a dire la definizione di nuovi fini.
Una rivoluzione, alla fine del XX secolo, implica allo stesso tempo un cambiamento delle strutture, delle coscienze e della cultura.
a) Il cambiamento delle strutture
Ciò che caratterizza il capitalismo è che si tratta di un sistema a economia di mercato in cui tutto, anche il lavoro dell'uomo, è divenuto merce. Così facendo, il capitalismo perpetua il dualismo caratteristico di ogni società fondata sull'opposizione fra due classi fondamentali: quella che possiede i mezzi di produzione e quella che, non possedendoli, è sottomessa alla prima.
Facendo del denaro una merce, si è giunti a queste conseguenze fondamentali: concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di un numero sempre più esiguo di uomini (secondo la tendenza attuale, entro 20 anni 300 compagnie internazionali controllerebbero la vita economica del mondo capitalistico); onnipotenza del denaro estesa a tutte le attività nazionali, trasformando così ogni ‛valore' umano in valore economico (‛valore' nel senso borsistico del termine).
Inoltre, facendo della terra una merce e della natura un oggetto di speculazione, è stato affidato alle cieche leggi del mercato l'insieme dell'ambiente vitale dell'uomo. Ecco l'origine dell'anarchia urbanistica, che rende impossibile la vita nelle città, del massacro dell'ambiente, della distruzione degli spazi verdi, dell'inquinamento delle acque e dell'aria, in una parola della degradazione dell'esistenza sotto tutti gli aspetti.
Dopo la crisi del 1929, per superare le conseguenze dell'anarchia nella produzione e nel mercato, in tutti i paesi capitalistici è intervenuto lo Stato per trovare una soluzione all'intasamento del mercato: alla ‛distruzione' delle merci (generalizzata tra il 1929 e il 1933), si è sostituita una produzione massiccia di ‛mezzi di distruzione', cioè di armamenti. Per giustificare la corsa agli armamenti, è stata necessaria sia una politica di espansione, sia la creazione dei miti necessari, nazionalisti o razzisti.
Così il capitalismo non è più soltanto un sistema economico: è anche una struttura politica e una forma di cultura, nella quale gli uomini sono modellati dalle esigenze del mercato, della concorrenza e del profitto, manipolati da coloro che detengono, con il capitale, la schiacciante maggioranza dei mezzi di espressione (stampa, editoria, cinema, radiotelevisione, pubblicità, ecc.).
Una siffatta società, retta dalle cieche leggi della concorrenza di tutti e del profitto di pochi, nella quale l'investimento non è una funzione sociale ma appartiene alla sola impresa privata, sfugge a qualsiasi controllo cosciente dei suoi obiettivi.
Avviene così, per esempio, che nella maggior parte dei paesi capitalistici, gli investimenti per i juke boxes sono superiori a quelli per la cultura, e che i bilanci per la produzione e la pubblicità degli alcolici e dei tabacchi superano di gran lunga quelli per la sanità pubblica. La nostra è la prima società nella storia che non sia fondata su alcun progetto di civiltà.
J. K. Galbraith ha espresso il carattere fondamentale di questa società in un'acuta battuta di spirito: tutto vi avviene, egli dice, come se san Pietro, quando riceve le anime in cielo per mandarle in paradiso o all'inferno, ponesse loro quest'unica domanda: cos'hai fatto sulla terra per aumentare il prodotto nazionale lordo? Un simile sistema non può evidentemente risolvere nessuno dei problemi che crea - né attraverso un'evoluzione interna, né attraverso una riforma del sistema stesso.
Il modello attuale di crescita dell'Occidente rende contemporaneamente lo status quo inaccettabile e la rivoluzione impossibile. Il Terzo Mondo potrà ‛svilupparsi' veramente soltanto se rifiuterà radicalmente il modello occidentale di crescita e il modello occidentale di rivoluzione.
1. Nessuna rivoluzione socialista è possibile se non viene riconosciuta la trascendenza dell'uomo rispetto alla natura, cioè la possibilità per l'uomo di rompere con i suoi determinismi, i suoi condizionamenti e le sue alienazioni; se non viene riconosciuta la trascendenza di Dio rispetto all'uomo, cioè la possibilità permanente di una sapienza che superi la scienza e l'ordini ai suoi fini, di un'emergenza imprevedibile e di una divina creazione che superino i confini ristretti del nostro ragionare tecnologico.
2. Nessuna rivoluzione socialista è possibile partendo dall'individualismo occidentale, per il quale la libertà dell'altro è il limite e non la condizione della propria libertà (poiché essa è - purtroppo - così definita nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Rivoluzione francese). Una rivoluzione socialista è possibile, invece, solo partendo dalla concezione profetica della persona umana, la quale - al contrario di quanto afferma l'individualismo - può essere definita soltanto nel suo rapporto comunitario e nella sua apertura all'altro, nella sua radicale differenza e nella sua libertà creatrice.
3. Nessuna rivoluzione socialista è possibile all'interno del modello occidentale di sviluppo, definito da un illimitato accrescimento della produzione e del consumo. La vera crescita non è quella dell'azienda e dei suoi profitti, della nazione e della sua potenza, ma quella dell'uomo, come centro della creazione e membro autonomo di una comunità. Questi problemi si possono risolvere soltanto mettendo in discussione i principi stessi del sistema, sottraendo cioè al mercato il lavoro, la terra e il denaro secondo la definizione del socialismo. Ma che tipo di socialismo?
Il socialismo non può essere concepito soltanto come un sistema economico. L'esperienza storica dell'Unione Sovietica ha dimostrato che se l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione era una condizione necessaria del socialismo, non ne era però la condizione sufficiente. Il fatto di prelevare il plusvalore non a livello delle imprese, ma a livello nazionale e attraverso lo Stato, non pone fine né al lavoro salariato, né all'alienazione fondamentale dei lavoratori. Il socialismo esige che le decisioni siano elaborate e poi adottate con la partecipazione di tutti. Senza queste premesse si perpetuano i vecchi dualismi fra dirigenti e diretti.
Infine il socialismo non può essere concepito soltanto come la soddisfazione dei bisogni che il capitalismo ha creato artificiosamente con il condizionamento, e ha esasperato con la frustrazione. Esso esige la creazione di un nuovo progetto di civiltà e quindi, per rispondere alle esigenze della nostra epoca, non può essere costruito secondo il modello sovietico attuale.
Ciò non porta affatto a condannare il socialismo, giacché esso ha assunto tale forma autoritaria per ragioni storiche: per il fatto di essere stato istituito prima in paesi sottosviluppati, di essere sempre stato assediato e minacciato dall'accerchiamento capitalista, e di essere stato quindi costretto a un'estrema concentrazione delle risorse e del potere. Questa doppia deformazione, l'assenza di finalità umane e il dualismo autoritario, è caratteristica del capitalismo nella sua essenza, e del socialismo soltanto nelle sue perversioni.
Resta il fatto che il socialismo, oggi, non può ricalcare i modelli del passato. Il suo modello è ancora da creare. Esso sarà all'altezza dei bisogni del nostro secolo soltanto se realizzerà l'autodeterminazione dei fini e l'autogestione di tutte le attività sociali da parte dei cittadini stessi. Il cambiamento delle strutture è dunque indissociabile da un cambiamento delle coscienze.
b) Il cambiamento delle coscienze
È la chiave di volta di ogni socialismo che tenda a realizzare l'autogestione a livello dell'economia, della politica, della cultura: l'interazione costante tra il funzionamento delle istituzioni e l'educazione degli individui attraverso la loro partecipazione reale a questo funzionamento.
Nessuna predica morale potrà mai determinare un cambiamento delle coscienze tale che ogni cittadino impari ad agire e a pensare come uomo di Stato, sentendosi personalmente responsabile del destino di tutti. Soltanto nella misura in cui, a livello di ogni unità di base (nelle fabbriche, nelle officine, nelle università, nei servizi sociali e nei quartieri, nelle cooperative agricole o nei centri di cultura), si istituirà una democrazia diretta in cui ogni singolo partecipi alle decisioni personalmente, e non tramite un delegato, comincerà a realizzarsi questo cambiamento preliminare nelle coscienze: il legame vivente tra interesse privato e interesse pubblico.
Non è possibile realizzare una democrazia riorganizzando semplicemente le istituzioni e il potere centrale, senza creare le condizioni che permettano a ognuno di prendervi parte attiva, e allo stesso tempo di divenire cosciente della propria indipendenza e della propria interdipendenza dagli altri, insomma della propria responsabilità.
Soltanto così si potrà uscire dal falso dilemma delle religioni e delle rivoluzioni: cambiate l'uomo e cambierete quindi le strutture; oppure: cambiate le strutture e vedrete nascere automaticamente un uomo nuovo.
La scelta non è tra una religione - che sarebbe in effetti un ‛oppio dei popoli', se ci orientasse verso un altro mondo e un'altra vita, svalutando così i problemi della nostra vita e le lotte della nostra storia - e un ateismo positivista. Il positivismo infatti non è soltanto il mondo senza Dio, è il mondo senza l'uomo. Restringendo il nostro sapere entro i limiti di ciò che è dato, esso riduce la nostra azione nell'ambito dell'ordine costituito, e trasforma il pensiero rivoluzionario in apologia di ciò che è già realizzato.
La reale alternativa a una religione oppio dei popoli non è dunque un ateismo positivista; è una fede militante e creativa in ciò che l'avvenire potrà diventare con i nostri sforzi. Forse allora risulterà che i postulati dell'azione rivoluzionaria sono dei postulati biblici.
Ogni autentica rivoluzione implica ormai un incontro inedito tra la politica e la fede: 1) poiché il problema dello sviluppo e il mettere in discussione il suo modello attuale (senza di che non potrebbe esserci una vera rivoluzione) non è solo un problema economico e un problema politico, ma è un problema ‛religioso', dato che riguarda i fini, il valore e il senso della nostra vita personale e della nostra storia collettiva; 2) poiché essa postula, per le persone e per i popoli, la possibilità permanente di una rottura con i loro determinismi, i loro condizionamenti, le loro alienazioni. Implica cioè una trascendenza dell'uomo rispetto alla natura - punto di inserzione della trascendenza divina in rapporto all'uomo - ossia la possibilità permanente dell'emergere di una forza non inclusa, né quindi prevedibile, nel gioco delle forze già esistenti, capace di produrre una rottura in quello che consideravamo un destino.
Questa doppia crisi, della coscienza religiosa e della coscienza rivoluzionaria - e il nuovo incontro che essa permette - è l'anima della nuova cultura.
c) La rivoluzione culturale
La rivoluzione culturale è, innanzitutto, l'affermazione del fatto che la rivoluzione non si realizza soltanto a livello delle strutture economiche e sociali, ma anche a livello delle sovrastrutture, che essa è insomma un nuovo progetto di civiltà.
Cosa può essere una cultura che abbia come compito non già di far accettare un ordine costituito, ma, al contrario, di preparare l'uomo al cambiamento sempre più rapido delle proprie condizioni di vita, di porre l'accento non già sull'assimilazione di un sapere e di una morale, ma sullo spirito critico e sulla creatività: una cultura che non sia più il privilegio di alcuni, ma alla quale abbiano accesso tutti, affinché ognuno abbia la formazione e l'informazione necessarie per partecipare coscientemente e in modo creativo alle iniziative e alle decisioni?
L'informazione può liberare la cultura da tutto ciò che è accumulazione di sapere, e, dispensando l'uomo dai compiti ripetitivi e meccanici del pensiero, può permettere il dispiegarsi in lui di ciò che è specificamente umano: la creazione e la scelta dei fini.
L'estetica, sollecitando i momenti creativi in cui l'uomo, con la ribellione o la preghiera, l'amore, l'eroismo o l'opera d'arte, varca una nuova soglia dell'umanità, è una iniziazione all'arte di inventare. Al giorno d'oggi, la prima virtù da coltivare è l'immaginazione, l'arte di inventare il possibile e di renderlo reale. L'estetica è l'etica dell'avvenire, quando la morale non consistera piu in una osservanza di regole, ma in una creazione continua dell'uomo attraverso l'uomo.
Lo studio del futuro e dei suoi sviluppi avrà un'importanza maggiore della storia, a condizione che si sfugga al positivismo della futurologia; tale studio può svolgere un ruolo educativo di primo piano, a condizione che non sia soltanto al servizio del marketing, della difesa nazionale o della pianificazione, ma sia una riflessione sui ‛fini' delle nostre società (e non una semplice previsione tecnologica dei ‛mezzi'). Questo tipo di ricerca può così diventare una metodologia dell'iniziativa storica, preparandoci alla scienza e all'arte di inventare, partendo dalle contraddizioni presenti, i possibili futuri capaci di superare queste contraddizioni.
I metodi di un'educazione di questo tipo derivano dai suoi obiettivi: una pedagogia che sia, secondo l'espressione di Paolo Freire, una ‟pratica della libertà", cioè che non tenda a integrare gli uomini nella logica del sistema vigente, ma, al contrario, li aiuti a prendere coscienza delle sue contraddizioni e dei mezzi per superarle. Una pedagogia di questo tipo non può portare il sapere ‛dal di fuori': può essere soltanto un dialogo, che tratti l'uomo non come oggetto dell'insegnamento, ma come soggetto, fatto non ‛per' lui; ma ‛con' lui e ‛da' lui.
Pedagogia e rivoluzione sono dunque tutt'uno: si tratta cioè di una pedagogia della rivoluzione e di una rivoluzione che si fonda su una pedagogia di tipo nuovo. Qualsiasi rivoluzione impreparata a questo dialogo permanente condurrebbe infatti di necessità a un nuovo dualismo tra il dirigente che decide e la massa che esegue, a una nuova alienazione, a una nuova schiavitù.
Le strutture del nuovo sistema educativo devono tendere innanzitutto a porre fine al dualismo di lavoro manuale e lavoro intellettuale. Si definisce in generale lavoro manuale quello che manipola le cose, e lavoro intellettuale quello che manipola gli uomini (o che manipola le cose attraverso la manipolazione degli uomini). La soppressione di questo dualismo esige una trasformazione radicale delle strutture sociali e universitarie. Innanzitutto perché, in ragione dei cambiamenti vertiginosi che si determinano nelle tecniche, la nozione di qualifica professionale acquisita una volta per tutte all'inizio della vita è superata: l'educazione deve essere permanente, durante tutto il corso della vita. La scuola non può essere quindi separata dalla vita e posta soltanto al suo inizio. Una parte cospicua delle sue funzioni deve essere distribuita tra le diverse attività sociali: imprese, laboratori, organismi di gestione, centri di ricerca. L'interscambio di lavoro pratico e lavoro teorico deve effettuarsi nei due sensi: agli operai deve essere accordato almeno un mese di aggiornamento culturale all'anno pagato dall'impresa, poiché ciò è condizione dell'espansione economica, e, di contro, tutti gli studenti devono essere lavoratori, a mezzo tempo.
Affinché questi periodi di studio per gli uni, e di lavoro per gli altri, non siano per il padronato soltanto un mezzo per preparare mano d'opera per le necessità a breve termine dell'impresa, e per mutilare in questo modo ancora una volta la cultura, è necessario che l'orientamento, la direzione e il funzionamento di questa formazione permanente, legata a ogni aspetto dell'attività nazionale, avvengano, sin dall'inizio, sotto il controllo dei lavoratori, dei datori di lavoro e degli organismi educativi. Questo controllo si eserciterà sul contenuto dell'insegnamento, e dovrà comportare dei riciclaggi tecnici, una formazione e un'informazione concernenti la gestione, e soprattutto una ‛cultura generale' (informatica, estetica, studio dei futuribili).
Ben inteso, ciò implica una modernizzazione dei metodi tale da unire insegnamento e informatica e utilizzare la televisione in forme (circuiti chiusi) che permettano all'alunno di intervenire attivamente.
Il rinnovamento non si attuerà, fondamentalmente, con la modernizzazione delle tecniche di insegnamento, ma, prima di tutto, attraverso il cambiamento delle strutture e dei contenuti. Il problema dei contenuti resta essenziale, ma è legato a un cambiamento politico profondo, e non potrebbe essere risolto senza questo cambiamento. Chi lo farà? Come farlo? Per che tipo di socialismo? Questi sono gli interrogativi ai quali è oggi necessario trovare risposta.
Per sapere chi lo farà bisogna porre il problema come lo ha posto Marx, quando ha insegnato a mettere in evidenza, nelle contraddizioni specifiche di un paese e di un'epoca, i possibili futuri capaci di superarle.
Le nostre società capitaliste, in particolare, presentano delle contraddizioni molto evidenti: la contraddizione tra le possibilità offerte dal progresso tecnico e lo spreco o addirittura la distruzione di queste possibilità da parte del sistema sociale attuale; la contraddizione tra la soddisfazione delle esigenze private dei privilegiati e l'insoddisfazione dei bisogni sociali; la contraddizione derivante dal fatto che la gestione effettiva delle imprese è sempre più separata dalla proprietà dei mezzi di produzione, mentre restano intatti i privilegi di questa proprietà; la contraddizione tra un progresso tecnico portato a esigere dal lavoratore una cultura e un'iniziativa sempre maggiori e contemporaneamente un'obbedienza incondizionata al proprietario individuale o collettivo dei mezzi di produzione.
Ma oggi la contraddizione più profonda risiede certamente nel ruolo della conoscenza: con il mutamento scientifico e tecnico il ‛sapere' rappresenta sempre più la forza produttiva decisiva ed è la risultante del lavoro e del genio dell'umanità in quanto specie, opera collettiva dell'insieme della società nel complesso della sua storia, di secoli di scoperte scientifiche e di lavoro umano; nello stesso tempo questo sapere è proprietà, a titolo privato, dei grandi monopoli. Ciò appare ancora più evidente se si pensa che oggi, secondo le valutazioni dell'UNESCO, è vivo e attivo il 90% degli studiosi e dei ricercatori vissuti fin dall'inizio della storia scritta (vale a dire nell'arco di 6 millenni).
La nozione stessa di sfruttamento viene quindi a essere modificata. Già Marx notava nel Capitale, in un'epoca in cui il fenomeno si era appena delineato, che lo sfruttamento non è soltanto quello degli operai che partecipano direttamente al lavoro, ma è quello di tutto il lavoro scientifico, di tutte le scoperte, di tutte le invenzioni, che contribuiscono a ciò che egli chiamava ‟la riproduzione allargata del capitale", e che corrisponde all'incirca a ciò che noi chiamiamo lo sviluppo.
Così, attraverso lo sviluppo stesso del capitalismo, lavoratori manuali e lavoratori intellettuali si trovano strettamente legati in un ‟nuovo blocco storico" (come lo chiamava Gramsci, anche se in senso abbastanza diverso). Il lavoro operaio richiederà una cultura sempre più vasta, e alla classe operaia si troveranno legati vasti strati di tecnici e di intellettuali che non fanno parte delle classi medie. Questa loro collocazione dipende da due ragioni fondamentali: anzitutto perché questi lavoratori, come la classe operaia, sono sempre più creatori di plusvalore e sono sottoposti allo stesso tipo di sfruttamento; in secondo luogo perché essi, con il progresso della tecnica, non diminuiscono di numero e d'importanza, come le classi medie tradizionali (contadini, commercianti e artigiani), ma, al contrario, aumentano. Non vengono generati dai rapporti di produzione capitalistici, ma dallo sviluppo delle forze produttive.
La classe operaia e questo ‛nuovo blocco storico' che si forma e cresce attorno a essa, man mano che il lavoro intellettuale assume un ruolo maggiore nel lavoro collettivo, sono i depositari dell'avvenire rivoluzionario nei paesi industrializzati.
Come fare questa rivoluzione? Il problema più difficile e più drammatico per un rivoluzionario consiste nel realizzare una rivoluzione, i cui mezzi non siano in contraddizione con i fini perseguiti. Sarebbe, per esempio, illusorio pensare di poter abolire il dualismo fondamentale tra dirigenti e diretti solo impossessandosi della macchina statale, che è l'espressione suprema di questo dualismo, o mantenendo le strutture e le gerarchie autoritarie delle imprese (e modificando quindi soltanto lo stato giuridico della proprietà: nazionalizzazione), oppure rimettendosi a una ‛minoranza attiva', che prendesse il potere con un colpo di mano per poi regalare la libertà ai lavoratori e ai cittadini.
Non esiste infatti libertà regalata, non esiste libertà che si possa ricevere dall'esterno come un dono. Non ci sarà mai l'autogestione socialista dell'economia e dello Stato, se fin dall'inizio non c'è stata l'autogestione delle lotte economiche e di quelle politiche. Partiti burocratici e centralizzati creerebbero soltanto una società burocratica e centralizzata. E una società burocratica e dispotica, anche se fondata sulla proprietà statale dei mezzi di produzione, non è socialismo.
Il problema è quello di assicurare la continuità fra i metodi di lotta del proletariato nella società capitalistica e i metodi di esercizio del potere nella futura società socialista. Questa coerenza tra i fini e i mezzi della rivoluzione esige che le forme di organizzazione della classe rivoluzionaria siano già una prefigurazione di quella democrazia socialista che nascerà dalla sua lotta. Gli organi della democrazia socialista devono forgiarsi nella lotta prima della rivoluzione socialista, altrimenti non nasceranno mai.
Per abolire i vecchi dualismi la prima condizione è di non separare la politica come funzione autonoma rispetto alla vita economica. Lo strumento reale della sovranità risiede nella produzione e nella ripartizione della ricchezza. Passando dal vecchio al nuovo ordine, non è dunque possibile lasciare intatto il centro stesso del dispotismo: l'impresa, con la sua razionalità capitalista, la sua organizzazione autoritaria, la sua parcellizzazione e la sua alienazione del lavoro. La separazione dell'economia dalla politica è un residuo del capitalismo liberale del XIX secolo. Come sottolineava già Hegel e dopo di lui Marx, la società borghese in quella fase si fondava sulla separazione tra la società civile (cioè l'insieme degli interessi economici) e la società politica (cioè la democrazia astratta e formale). Ora, la tradizionale suddivisione dei compiti tra i sindacati operai e i partiti della classe operaia riflette ancora, in larga misura, questo carattere strutturale della società borghese del XIX secolo. Tradizionalmente spettava ai sindacati operai difendere le rivendicazioni economiche dei lavoratori, combattere, cioè, per ottenere migliori condizioni di vendita della forza lavoro; ai partiti operai, invece, spettava portare avanti la lotta politica per abolire un regime in cui la forza lavoro era una merce.
Questa concezione è stata superata quando, a partire dalle crisi del 1929 e sotto l'influsso di Keynes, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, si è passati dalle vecchie concezioni liberali all'intervento sistematico dello Stato nell'economia.
Come, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, un primo mutamento del sistema capitalistico aveva portato al passaggio dal sindacato di mestiere al sindacalismo di classe, così oggi si manifesta la necessità di una forma di organizzazione rivoluzionaria plasmata sulle nuove condizioni della produzione economica e dello Stato.
In caso contrario il ritardo nelle forme di organizzazione del movimento rivoluzionario rispetto allo sviluppo del capitalismo finirà per indebolire i sindacati e i partiti operai.
Se i sindacati si limitano a negoziare le condizioni di vendita della forza lavoro, essi condurranno la loro lotta di classe all'interno del quadro istituzionale del sistema capitalistico senza metterne mai in discussione le basi: l'esempio più tipico di questa forma di integrazione ce lo forniscono i sindacati americani, inseriti nel meccanismo di uno Stato capitalistico che tende sempre a istituzionalizzare il conflitto. Il sindacato diventa così il pompiere del movimento rivoluzionario. I sindacati europei non sempre sono riusciti a evitare questa tendenza. È significativo il fatto che per una specie di riflesso difensivo nei confronti di questo pericolo, molti di essi abbiano recentemente sentito il bisogno di elaborare un proprio programma di passaggio al socialismo. Quale che sia il contenuto di questo programma, il fatto in sé assume un'importanza capitale: è indubbiamente un seguo dei tempi. Questa rottura con la concezione tradizionale puo' essere un tentativo per sfuggire al vecchio dilemma tra un'azione puramente economica ed economicistica di difesa settoriale e quantitativa degli interessi operai (all'interno quindi del sistema attraverso negoziati, pressioni o contratti) e una funzione politica subalterna del sindacato come cinghia di trasmissione dei partiti o gruppo di pressione sul parlamento e sul governo.
I partiti della classe operaia non hanno ancora iniziato questo tipo di mutamento: essi continuano a svolgere, sul piano parlamentare, il ruolo tradizionale dei partiti borghesi, continuano quindi a essere essenzialmente dei gruppi di pressione al servizio delle diverse componenti del capitale e a tradurre in sede parlamentare le azioni dei sindacati, condannandosi in questo modo all'integrazione nel sistema.
Il progetto dei consigli operai non è soltanto una reazione della pura spontaneità operaia contro questa doppia integrazione, economica e politica; e invece in primo luogo la presa di coscienza della necessità storica di nuove forme di organizzazione del movimento operaio e della lotta rivoluzionaria per il socialismo, in una fase nuova dello sviluppo capitalistico.
Il primo obiettivo dei consigli operai è quello di superare la separazione, che ormai non ha più senso, tra lotte economiche e lotte politiche; essi non sono diretti nè contro i sindacati, né contro i partiti: tendono solo a realizzare l'integrazione di queste due forme di lotta, rimaste finora separate. Il secondo obiettivo è quello di far avanzare l'unità operaia; durante gli scioperi non sono questo o quel sindacato o i suoi dirigenti che portano avanti la lotta, ma è un comitato di sciopero, espressione di tutti i lavoratori, sia di quelli iscritti ai vari sindacati sia di quelli non sindacalizzati. Purtroppo dopo gli scioperi si torna di nuovo al sistema della delega. Il consiglio operaio tende invece a mantenere, nelle lotte quotidiane, le forme di unità e di democrazia diretta che si sono realizzate soltanto nei periodi di crisi: in questo modo si prepara, alla base, l'autogestione delle lotte.
Il terzo obiettivo dei consigli operai è quello di evitare di confondere le funzioni rivendicative con quelle della gestione. Anche se il sindacato articola la sua attività con quella dei consigli operai, non deve confondersi con essi; questi ultimi hanno infatti l'obiettivo fondamentale di intervenire nella gestione dell'impresa, di esercitarvi il controllo e poi, in regime socialista, di assicurarne la gestione. Per questo motivo la partecipazione degli ingegneri e dei tecnici ai consigli operai è d'importanza decisiva.
Se il sindacato si assumesse questa funzione, ciò rappresenterebbe un grave pericolo: nell'immediato, il pericolo che il sindacato condivida le responsabilità di una gestione che resta nelle mani del padronato o dello Stato, facendosi così mallevadore delle loro azioni; nella prospettiva del socialismo, il pericolo di un'integrazione del sindacato nello Stato, giacché le rivendicazioni verrebbero allora a essere subordinate alle preoccupazioni della gestione, per cui i sindacati diverrebbero cinghie di trasmissione dello Stato.
Il compito principale dei consigli operai è quello di preparare, in stretto collegamento con i sindacati, il futuro ‛sciopero nazionale', di cui il movimento del 1968 non è stato che un tentativo fallito.
Uno sciopero di questo tipo sfugge alla falsa contrapposizione tra scioperi rivendicativi (per i salari, i ritmi di lavoro, ecc.) e scioperi politici: uno sciopero può essere politico pur essendo rivendicativo, nella misura in cui le sue rivendicazioni mettono in discussione le vecchie strutture autoritarie dell'impresa e dello Stato.
Il nuovo ‛sciopero nazionale' non si distingue dal vecchio ‛sciopero generale' (anch'esso politico) soltanto per il fatto che, oltre alla classe operaia, mobilita altri vasti strati sociali (funzionari, studenti, intellettuali, classi medie); esso si distingue soprattutto per il fatto che il suo obiettivo non è solo di dimostrare che è in grado di paralizzare la produzione e le altre attività nazionali, ma quello di far funzionare le imprese, le amministrazioni, le università, i centri di ricerca, i laboratori, secondo criteri diversi da quelli del padronato e dello Stato padronale. Questi ‛criteri' sono precisamente quelli dell'‛autogestione'. In questa sede ci limitiamo a definirne le esigenze fondamentali, che coincidono con quelle del socialismo stesso.
Cos'è anzitutto il socialismo fondato sull'autogestione? L'autogestione è il contrario del dualismo e dell'assenza di finalità umane: a) essa mette in discussione le basi del capitalismo: la proprietà privata dei mezzi di produzione e i poteri che derivano da questa forma di proprietà. Finché sussiste la proprietà privata dei mezzi di produzione, non può esservi autogestione; b) essa mette in discussione tutte le forme di burocrazia e di gerarchia autoritaria, sia quelle che derivano dal capitalismo, sia quelle che derivano da una concezione dispotica e centralizzata del socialismo; queste ultime si differenziano dal capitalismo solo per il fatto che il plusvalore non viene più prelevato a livello delle imprese, ma su scala nazionale e da parte dello Stato, senza tuttavia abolire per questo il lavoro salariato e l'alienazione del lavoratore; c) essa mette in discussione il principio della delega dei poteri, caratteristico sia della democrazia borghese formale di tipo parlamentare, sia del socialismo burocratico in cui il militante delega e aliena il proprio potere nelle mani di un dirigente che decide per lui.
Autogestione è la parola d'ordine di lotta contro tutte le forme di integrazione in un sistema imposto dall'esterno. Questo spiega perché essa rappresenti l'incubo sia del capitalismo in Occidente, sia delle tecnoburocrazie all'Est.
Autogestione significa esigenza di superare i limiti che la nera trinità dell'avere, del potere e del sapere impone al libero sviluppo dell'uomo e di tutta l'umanità: giacché chi detiene i mezzi di produzione, detiene le potenti leve dell'autorità e fa della cultura un privilegio e una giustificazione della propria ricchezza e della propria potenza. Un autentico socialismo non può esser fatto soltanto ‛per' il popolo, deve esser fatto ‛dal' popolo. La portata di una rivoluzione si misura dal grado di partecipazione delle masse alla costruzione del nuovo sistema.
Il sistema delle cooperative di produzione costituisce la preistoria dell'autogestione. Quando la Comune di Parigi generalizza questo sistema, Marx scrive: ‟Signori! Se la produzione cooperativa non deve essere una finzione e un tranello; se deve sostituire il sistema capitalistico; se delle associazioni di cooperative unite debbono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune mettendola così sotto il proprio controllo e ponendo fine alla costante anarchia e alle crisi periodiche che sono la fatalità della produzione capitalistica, cos'altro sarebbe tutto ciò, signori, se non del comunismo, sì, del possibilissimo comunismo?" (La guerra civile in Francia).
A dispetto dell'esegesi staliniana dei testi, l'autogestione è lo scopo fondamentale del marxismo. La Comune rappresentò storicamente il primo tentativo di raggiungerlo.
Al tempo di Lenin, i tentativi di controllo operaio e di cooperative contadine rappresentavano un primo passo verso l'autogestione. E l'‟Ordine Nuovo" di Gramsci ha sviluppato profondamente questa prospettiva. Se il sottosviluppo e le minacce dell'ambiente capitalistico hanno fatto fallire i progetti di autogestione e hanno portato al centralismo burocratico, è tuttavia significativo che l'aspirazione all'autogestione emerga dal movimento delle masse a ogni crisi dello stalinismo: nel 1948 in Iugoslavia; nel 1956 in Ungheria; nel 1968 in Cecoslovacchia; nel 1970 in Polonia; la parola d'ordine degli operai in lotta è invariabilmente: ‟consigli operai"! L'autogestione rappresenta oggi la meta di tutti coloro che combattono per il socialismo, in Oriente come in Occidente.
Autogestione di un'impresa significa partecipazione effettiva alle decisioni da parte di tutti coloro che vi lavorano; operai, tecnici e ingegneri, con l'esclusione invece degli elementi parassitari che attualmente prelevano il plusvalore, disponendone a loro piacimento.
Nella nostra epoca ciò non è soltanto un'esigenza democratica, è una necessità tecnica: nell'era del calcolatore elettronico, che richiede la decentralizzazione delle decisioni, in un momento in cui lo stesso padronato è costretto a rendersi conto del fatto che la parcellizzazione del lavoro e la robotizzazione del lavoratore, tutto l'insieme, insomma, del taylorismo è oggi superato, sia pure soltanto dal punto di vista della produttività, in una tale fase di sviluppo della scienza e della tecnica, sia a livello della produzione che della gestione, soltanto l'autogestione può sviluppare sino in fondo sia la logica dell'automazione, che le ricerche dell'ergonomia.
Senza alcun dubbio permane però un problema fondamentale: come articolare le esigenze scientifiche della pianificazione con le esigenze della democrazia? Ma tale problema non è risolto da alcun modello di organizzazione economica esistente: né dalla giungla capitalistica, il cui piano è la risultante di un rapporto di forze tra i grandi interessi privati, né dal modello meccanicistico della tecnoburocrazia staliniana, in cui tutto emana dal vertice e si ripercuote burocraticamente fino alla base.
Un socialismo di autogestione consente di concepire un modello cibernetico che non parta, come il capitalismo, dall'anarchia degli interessi privati, nè dalle decisioni di vertice della tecnoburocrazia staliniana, ma piuttosto dai grandi complessi che si autoregolano e si regolano a vicenda.
Questo cammino verso l'autogestione non esclude affatto la necessità di un'avanguardia cosciente, ma non confonde la coscienza con il comando. È per questo che soltanto una rivoluzione di questo tipo può realizzare il fondamentale obiettivo rivoluzionario che Marx nel Manifesto comunista definiva così: ‟Una società in cui il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti". (V. anche comunismo, democrazia, eguaglianza, libertà, marxismo, socialismo e utopia).
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