Roberto Ardigò
Agli inizi del Novecento Roberto Ardigò era ancora considerato, nell’ambito del positivismo italiano, l’autore di una sintesi in grado di superare gli opposti punti di vista del materialismo e dell’idealismo, ma la rapida trasformazione dei paradigmi epistemologici delle scienze e i mutamenti del quadro filosofico ne annunciavano il tramonto. Influenza più duratura, almeno fino all’affermazione dell’egemonia neoidealistica, ebbe la sua opera etico-politica: per il legame con il Risorgimento e il ripensamento dei fondamenti della morale e della società, essa aveva stimolato un ampio dibattito, lungo un trentennio, tra le correnti interessate a una prassi riformatrice e all’evoluzione democratica del nuovo Stato.
Ardigò nacque a Casteldidone (Cremona) il 28 gennaio 1828. Trasferitosi con i familiari a Mantova nel 1836 per le gravi difficoltà economiche del padre, poté frequentare il seminario, dal 1845, solo grazie a un sussidio. Ordinato sacerdote (1851), fu ospite fino al 1860 di monsignor Luigi Martini, rettore del seminario e ‘confortatore’ dei martiri di Belfiore, che ne seguì l’educazione; nel 1863 fu nominato canonico della cattedrale; divenne quindi docente nel ginnasio e, con l’abilitazione ottenuta nel 1866, nel liceo.
Gli studi lo condussero alla svolta della sua vita, maturata in una crisi religiosa e nell’apostasia. Le premesse di questa scelta risultarono evidenti nel discorso su Pietro Pomponazzi letto nel marzo 1869 presso il liceo mantovano: l’audacia delle posizioni ivi espresse provocò, insieme a vivaci polemiche da parte clericale, la sospensione a divinis e la messa all’Indice della pubblicazione. Falliti i tentativi di dimostrare la compatibilità delle opinioni scientifiche con la condizione ecclesiastica, la successiva dichiarazione contro l’infallibilità del papa e la pubblicazione di La psicologia come scienza positiva (1870) resero la sua posizione insostenibile: da qui la decisione di svestire l’abito. La condizione laicale e l’improvvisa notorietà favorirono le relazioni con gli esponenti del nascente movimento positivistico, in particolare con Pasquale Villari. Mentre attendeva alla stesura delle sue opere principali, partecipò anche marginalmente alla vita politica locale, entrando in rapporto con l’area repubblicano-radicale e fu membro del circolo democratico “Benedetto Cairoli” di Padova. Nel 1881, dopo aver subito la censura del segretario generale della Pubblica istruzione (che giudicava il suo insegnamento, improntato al naturalismo positivistico, offensivo per le credenze delle famiglie), il nuovo ministro Guido Baccelli lo promosse alla cattedra di storia della filosofia dell’Università di Padova. Si ritirò dalla vita attiva nel 1909, dopo aver stampato le sue opere in undici volumi. Di se stesso, scrittore prolifico e instancabile, e del suo austero carattere, aveva scritto:
Lavoreremo finché avremo fiato. Anche a morir di fame. Anche se tutti sono contro di noi. E faremo vedere a quella gente grassa, che dice sé morale e tutti gli altri immorali, che possano i repubblicani positivisti (lettera del 20 febbraio 1879, in Lettere edite ed inedite, a cura di W. Büttemeyer, 1° vol., 1990, p. 191).
I suoi settanta e ottant’anni furono celebrati solennemente da uno stuolo di allievi, ricevette onori pubblici, compresa la nomina a senatore (1913), come un decano della cultura italiana e un maestro del positivismo. Sopravvisse alla Prima guerra mondiale, lucidamente, anche se in condizioni psicofisiche penose, che lo condussero a due tentativi di suicidio negli ultimi anni della sua esistenza. Morì a Mantova il 15 settembre 1920.
Nella drammatica lettera con cui comunicò al suo mentore, monsignor Martini, la decisione di abbandonare la Chiesa, Ardigò rivendicò la coerenza etica del suo gesto – gesto non d’impulso, ma traumatico, perché compiuto a quarantatré anni, con la rinuncia a un’intera vita di consuetudini e di affetti: svestiva l’abito – scriveva – ma non mutava «la vita e i costumi; che in ciò non ci potrà essere nulla mai che possa farmi cambiare da quello che sono sempre stato» (lettera del 7 aprile 1871, in Lettere edite ed inedite, cit., 1° vol., p. 98).
Se i motivi contingenti che portarono a questo epilogo sono documentati, più complesso è l’itinerario percorso: Ardigò lo dipingerà come un’evoluzione intellettuale, culminata, attorno al 1868, in una sorta di ‘illuminazione’, che gli avrebbe fatto constatare l’inconsistenza delle sue credenze religiose. A prescindere dalla verosimiglianza di questa nota autobiografica, la scarsità delle fonti e la reticenza a parlare dell’esperienza giovanile non consentono di ricostruire puntualmente la sua vicenda intellettuale. Ciò che appare chiaro, attraverso i nuovi documenti via via emersi, è che la crisi non avvenne repentinamente.
La teologia scolastica e la dogmatica, che Ardigò era stato inviato a studiare a Vienna nel 1854, non lo avevano attratto particolarmente. Al tomismo che in quegli anni la Chiesa ripropose come antidoto alle tendenze razionalistiche di certa teologia contemporanea, Ardigò affiancò letture della tradizione platonica, da Agostino, Bonaventura da Bagnoregio, Nicolas de Malebranche, Hyacinthe-Sigismond Gerdil, fino ad autori contemporanei come Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, non ortodossi, che aspiravano per vie diverse alla conciliazione tra la dottrina cristiana e il pensiero moderno, e che ancora nel 1865, nel sostenere l’esame per l’insegnamento della religione, mostrava di frequentare assiduamente.
La lenta erosione delle certezze della fede non avvenne però sul piano teologico, bensì in seguito alle acquisizioni della letteratura filosofica e scientifica che Ardigò andava conducendo, per impulso interiore e per motivi legati alla sua carriera di insegnante: «Sono diventato positivista a poco a poco – scriverà – quasi a mia insaputa, e anzi mio malgrado» (lettera del 23 novembre 1873, in Lettere edite ed inedite, cit., 1° vol., p. 117). A partire dagli anni Sessanta, e con la fondazione – insieme ad alcuni esponenti del ceto laico colto – di un Gabinetto di lettura, con lo scopo di favorire l’istruzione popolare e la diffusione di ideali filantropici, Ardigò assimilò, attraverso letture sistematiche di testi e riviste internazionali, i metodi e i risultati più aggiornati delle scienze naturali, nella fase culminante di quella che si suole chiamare la ‘seconda rivoluzione scientifica’. All’esame di filosofia sostenuto negli anni 1865-66 tentò di innestare sullo sfondo delle idee di Gioberti la moderna «scienza sperimentale»; poco dopo, nel 1868, presentò un progetto di riordino dell’Accademia virgiliana di Mantova che non concedeva più nessuno spazio alla filosofia come disciplina autonoma, all’ontologia e alla morale in senso tradizionale, a vantaggio delle scienze naturali, giuridiche, economiche, statistiche e antropologiche. Con un tocco autobiografico letterariamente suggestivo, già nel discorso del 1869 Ardigò parve tracciare un parallelo tra la sua vicenda personale e quella di Pietro Pomponazzi: dipinse in questo modo la solitudine e il lavoro oscuro del filosofo, tra i dubbi che gl’insinua la ricerca e il «fremito» procuratogli dalle nuove certezze, coerente e leale nel professare le proprie convinzioni sul rapporto tra verità filosofiche e di fede (Pietro Pomponazzi, 1869, pp. 34-35).
Poco dopo l’apostasia compare l’accenno a un ulteriore elemento della sua formazione – quello politico-civile – con la rivendicazione degli «antichi sentimenti patriottici e liberali, non mai dissimulati» e il lavoro speso «per l’Italia, per la scienza, per la civiltà» (lettera del 17 maggio 1872, in Lettere edite ed inedite, cit., 1° vol., p. 109). Ardigò alludeva ai propri convincimenti politici e alla posizione da lui discretamente assunta in un contesto molto particolare come quello della diocesi di Mantova. Lì egli aveva convissuto per un quindicennio con il ricordo e i postumi della grave crisi e dell’evento tragico che l’aveva investita negli anni 1852-53: l’episodio della cospirazione antiaustriaca attuata da don Enrico Tazzoli, conclusasi con l’esecuzione dei patrioti nella valletta di Belfiore (fra essi Tazzoli e altri sacerdoti, tutti ridotti allo stato laicale) e con un seguito di altre condanne e intimidazioni.
Territorio di frontiera in senso geopolitico (fu annessa all’Italia solo nel 1866 in seguito alla Seconda guerra d’indipendenza) e in senso dottrinale, la diocesi mantovana si era segnalata per l’autonomia e i sentimenti liberali di parte del clero. Il fermento che condusse all’epilogo del 1852 si era a lungo alimentato – principalmente nell’opera del sacerdote Giuseppe Pezzarossa e dello stesso Tazzoli, docente al seminario negli anni in cui lo frequentava Ardigò – di una cultura aperta, legata all’Illuminismo lombardo, venata di reminiscenze giansenistiche e non aliena da aspirazioni a una riforma della Chiesa. La religione razionale che vi si praticava, aperta alla scienza e avversa al formalismo e alla superstizione, configurava un ‘cristianesimo civile’, operoso nella società e attento ai bisogni delle classi umili. Il tragico esito di Belfiore – con l’inutile tentativo del vescovo Giovanni Corti di salvare i condannati – aveva segnato i rapporti fra il clero illuminato e il governo austriaco e causato una frattura al suo interno, tra un’ala liberale e una conservatrice, che si trascinerà negli anni seguenti.
Ardigò, sotto la guida paterna del Martini, fu in qualche modo l’erede di questo moto di idee e fu ritenuto il leader della corrente liberale del clero locale. Svolse una parte di primo piano nelle celebrazioni solenni nel 1867 dei martiri di Belfiore – con evidente imbarazzo della gerarchia ecclesiastica – e seguì da vicino la composizione del Confortatorio di Mantova, dello stesso Martini, commossa rievocazione dell’episodio. Nello stesso anno esordì con uno scritto sulla Confessione, dove non solo mostrava un attento approccio storico al dogma, ma anche una concezione critica del cristianesimo che lo portava a rifiutare come «assurda» la tesi dell’ingerenza politica della Chiesa e della sua supremazia sullo Stato e una «iniquità da aborrirsi» la persecuzione degli eretici. Vi comparivano anche velate riserve sull’infallibilità del pontefice, che tre anni dopo, prima della rinuncia ai voti e alla vigilia di Porta Pia, egli avrebbe apertamente definita – in una dichiarazione resa alla «Gazzetta di Mantova» il 2 settembre 1870 destinata a suscitare aspre polemiche – «una vera stoltezza» (La confessione [1867] e All’on. sig. direttore della «Gazzetta di Mantova» [1870], in Scritti vari, a cura di G. Marchesini, 1922, rispettivamente pp. 42-43, 137).
Di tutti questi motivi il discorso su Pietro Pomponazzi operò una sintesi per certi aspetti clamorosa. Il filosofo mantovano, con la ripresa di idee che erano state fra l’altro esposte da Pezzarossa un ventennio prima, è presentato – con il Rinascimento italiano, da Giordano Bruno, a Galileo Galilei, a Tommaso Campanella – come antecedente del moderno moto scientifico europeo e del positivismo: suo il concetto della «naturalità» dei fenomeni, della materia come forza, l’abbandono dell’idea dell’«anima» come sostanza separata, e soprattutto il principio metodico dell’esperimento e dell’osservazione come criterio della certezza, in opposizione alle astrazioni scolastiche e metafisiche e agli «ascetici aberramenti» del Medioevo. Ma non meno rilevante in questi giudizi è l’insistenza sulla scienza come medicina mentis contro la superstizione, il conformismo, i pregiudizi e il dominio delle «potenze sovrannaturali», e soprattutto la definitiva rinuncia al principio di autorità, con l’ammissione dell’autonomia della ragione rispetto alla fede e alla teologia. Su questa distinzione di campi Ardigò riteneva di poter rivendicare l’ortodossia del discorso: evidentemente suggerendo, come in Pomponazzi, una sorta di dottrina della ‘doppia verità’, o quanto meno una netta distinzione tra fede e scienza. Senonché, ciò che sorprende nel testo e ne costituisce il nerbo, è proprio il silenzio su questa distinzione e l’assenza di qualunque riferimento alla trascendenza, con la conseguente estensione della «naturalità», densa di implicazioni, ai fenomeni morali e storici.
Con un audace parallelo Ardigò – che cita disinvoltamente autori come Charles R. Darwin e il medico olandese Jakob Moleschott, capofila del materialismo ateo – paragona l’evoluzione della società e delle idee economiche, politiche, sociali e religiose all’evoluzione delle specie: come queste ultime, le società e i loro sistemi di idee mutano. La scienza rinascimentale è momento di una serie di trasformazioni, insieme alla Riforma, che «ridestò il sentimento della individualità personale, e lo sollevò contro le improvvide e innaturali pretese di un’assorbente autorità», e alla Rivoluzione francese, che «promulgò le nuove tavole dei diritti dell’uomo», conducendo alla «libertà civile e religiosa» e al rispetto della «moralità del lavoro»: «La mutata rappresentazione del mondo ha necessariamente determinato una corrispondente mutazione nelle abitudini e nei costumi». Pomponazzi, prima di Giambattista Vico, di Johann Gottfried von Herder e di Immanuel Kant è l’autore di una «fisica dell’umanità», ossia di un sistema secondo il quale l’arbitrio umano, pur con leggi sue proprie, si muove tuttavia all’interno di una catena di cause. Persino i rivolgimenti e le vicende delle religioni, attraverso la critica, si chiariscono «in relazione a tutti gli altri fatti della natura» (Pietro Pomponazzi, cit., pp. 10-17).
La radicalità di queste tesi, sorprendente in un uomo di Chiesa, chiarisce che il positivismo di Ardigò non intendeva solo proporre un’aggiornata sintesi cosmologica, ma ambiva a rappresentare – nel solco di Gian Domenico Romagnosi, di Carlo Cattaneo e di Pasquale Villari – una filosofia dell’incivilimento, sottratta ormai a ogni ipoteca trascendente e provvidenzialistica, e presupposto di un intervento riformatore sulla società mediante il ruolo decisivo attribuito alla scienza e alla tecnica.
Immediatamente dopo il discorso su Pomponazzi, Ardigò pubblicò quella che sarebbe rimasta una delle sue opere più importanti, la Psicologia come scienza positiva. Nel 1877 seguì la Formazione naturale nel fatto del sistema solare e nel 1879 la Morale dei positivisti (apparsa dapprima sulla «Rivista repubblicana» di Arcangelo Ghisleri e Alberto Mario: il giovane Filippo Turati ne corresse le bozze), la cui ultima parte comprendeva una Sociologia, che in seguito, nel 1885, fu ripubblicata a sé: il sistema filosofico positivo nelle componenti classiche – logica, cosmologia, etica – era dunque compiuto.
La Psicologia è insieme una teoria della conoscenza e un compendio dei risultati della più recente sperimentazione europea, che rompe con l’assetto spiritualistico e razionalistico della disciplina e – naturalmente – con l’idea metafisico-religiosa dell’anima. Le funzioni superiori, l’Io, la coscienza, la volontà non sono le premesse dell’attività psichica, conoscitiva e morale, ma – al contrario – il risultato, complesso e derivato, del processo neurofisiologico. La libertà, infine, nel senso del libero arbitrio o di autodeterminazione del soggetto umano, si rivela un’illusione: esiste solo una libertà relativa, graduale acquisizione della possibilità di selezionare e orientare gli impulsi fisici, pur sempre all’interno di una rigida catena causale.
Su queste premesse la Morale dei positivisti ingaggia una sfida decisiva con la morale nel senso corrente del termine: dimostrare, contro i detrattori, che è possibile un’etica positiva, ancorata ai risultati delle scienze biologiche e psicologiche, rigorosamente fondata sui fatti ma non esclusivamente descrittiva, e sottratta, insieme, alla tutela teologico-religiosa e alla definizione di norme astoriche e universalmente astratte propria del pensiero razionalistico. Un’etica dunque relativistica, laica, estranea a ogni idea di comando trascendente, sobriamente conscia della limitatezza dell’agire umano.
L’etica nuova è innanzi tutto per Ardigò, come ogni altro fenomeno del cosmo, del quale il volume del 1877 offre lo schema sintetico, una «formazione naturale», sottomessa ai principi che reggono la natura fisica, a un rigido determinismo causale e all’evoluzione. Come la nascita dell’universo fisico dalla nebulosa primitiva, come l’evoluzione biologica e la stessa psiche umana che si forma a partire dalle sensazioni, la società umana è un processo di progressiva distinzione e specificazione. I Principles of biology (1864-67) di Herbert Spencer e The descent of man and selection in relation to sex (1871) di Darwin avevano ridotto la distanza tra uomo e animale, concependo la società umana come lo sviluppo di quella animale: anche per Ardigò il comportamento umano è un modello di adattamento all’ambiente come l’istinto animale, e come questo sottoposto alle leggi della selezione e dell’eredità. Senonché, trasportati nella società, questi principi non implicano un omologo della ‘lotta per l’esistenza’ – il conflitto degli individui tra loro – e dunque un modello edonistico, egoistico e concorrenziale dei rapporti tra gli uomini. Darwin aveva osservato che l’emergere di istinti di simpatia e di solidarietà, in alcune specie animali superiori, imprimeva una direzione diversa all’evoluzione. Con la formazione del gruppo si andava sostituendo alla lotta per l’esistenza un principio di carattere altruistico, con una cesura che non sospende, certo, ma modifica i rigidi meccanismi selettivi (il debole, per es., non soccombe, ma viene protetto e ne viene assicurata in parte la riproduzione). Per Ardigò la nascita della società sostituisce istinti sociali altruistici e antiegoistici alla «prepotenza dell’egoismo originario dell’arbitrio individuale» (La morale dei positivisti, 1879, p. 687). Gli istinti altruistici isolati dalla selezione naturale ed eretti a norma del gruppo non sono più solo un prolungamento delle tecniche di adattamento all’ambiente in funzione dei bisogni individuali, ma producono quelle che Ardigò chiama le «idealità sociali antiegoistiche» – la categoria centrale del suo sistema – alle quali l’individuo è portato a conformarsi, avvertendo su di sé la pressione della sanzione contro i comportamenti asociali e sviluppando il senso della propria responsabilità.
La morale in questo quadro consiste nell’adeguamento alle norme collettive e in un progressivo venire meno, antropologicamente e storicamente verificabile, degli istinti antisociali primitivi. Il dovere dell’individuo non è più correlato a un comando esterno – di natura trascendente, o fondato su un’astratta coscienza morale – ma scaturisce dalla interiorizzazione dei valori collettivi. La virtù del singolo è un istinto evoluto e irriflesso, basato essenzialmente – come per Aristotele, cui Ardigò si richiama in maniera esplicita – sull’‘abitudine’: una disposizione atta a produrre, una volta formata e all’«insaputa dell’individuo», la conciliazione tra il suo bene e quello della società (lettera del 29 agosto 1884, in Lettere edite ed inedite, cit., 1° vol., p. 263). La morale perde così il carattere dell’eteronomia, ma anche quello dell’interiorità e dell’intenzione, e con ciò l’appello – lacerante e angoscioso – alla coscienza diventa l’assunzione di un comportamento automatico, via via attuato «senza sforzo» in vista dell’utile collettivo. Essa confluisce così in una teoria sociologica della «giustizia» e del progresso, che vince il «regno del fato» imperante nella natura, tenendo a freno l’egoismo dell’individuo (etichetta sotto la quale Ardigò rubrica indifferentemente la violenza delle società primitive e barbariche, l’ingenua prepotenza infantile, la grettezza dei ceti non educati, la devianza, l’egoismo di classe aristocratico e la dottrina dell’utilitarismo classico). Diversamente che in Spencer, per il quale l’altruismo non è affatto funzionale alla società, anzi è addirittura dannoso, per Ardigò esso ne consente il funzionamento e tende a realizzarne la forma perfetta:
l’ideale assoluto della operosità intelligente e virtuosa, e dell’agiatezza di tutti […] cioè la democrazia, intesa in questo senso che la ricchezza, la cultura, il potere, nella società, non siano il privilegio della aristocrazia, sia del sangue, sia della ricchezza oziosa, sia della violenza, sia del caso, ma si estendano in ragione del lavoro e del merito (La morale dei positivisti, cit., p. 160).
In questa teoria rimane una dose di ambiguità: l’adesione alla norme del gruppo è sì un principio di benevolenza verso gli altri membri della società, ma corre il rischio – cui Ardigò cercherà come vedremo di ovviare – di trasformarsi in un adeguamento passivo alle norme di ‘giustizia’ valide in una determinata comunità, dunque in un esito legalistico e conformistico rispetto alla morale dominante. Se l’evoluzione della società è demandata a processi oggettivi di lungo periodo, a una formazione naturale, solo impropriamente si può parlare di autonomia morale e l’attività dell’individuo (modellata dall’eredità, dall’educazione, soggetta alla sanzione della società, cioè a un’estensione della lotta per l’esistenza sotto il principio-guida della salus patriae) perde consistenza e sembra ridursi a un pallido riflesso di leggi esterne, quasi fosse – così si esprime immaginosamente Ardigò – un «pulviscolo nella nube di polvere sollevata dal vento» (lettera del 2 agosto 1887, in Lettere edite ed inedite, cit., 1° vol., p. 299).
Con il trasferimento all’Università di Padova, fonte di nuove polemiche (qualcuno parlò di una governativa «glorificazione dell’ateismo»), Ardigò abbandonò la partecipazione alla politica attiva, rinunciando anche a una candidatura alla Camera. Da allora si dedicò solo all’insegnamento, oltre che al completamento e al chiarimento della sua opera teorica.
Il positivismo italiano si era affermato negli anni Sessanta con una spiccata vocazione metodologica, rivolta in primo luogo ad ammodernare le scienze umane, nel tentativo di sottrarle all’egemonia delle filosofie di scuola, introducendovi i criteri di rigore e chiarezza propri delle scienze della natura, e di farne l’asse della cultura del nuovo Stato: i punti di riferimento nel positivismo europeo erano John Stuart Mill e la scuola comtiana francese. Nel decennio successivo, tuttavia, con il successo della teoria di Darwin e soprattutto della versione sistematica dell’evoluzionismo divulgata da Spencer, l’orizzonte teorico mutò: si andò affermando la certezza che i grandi risultati della ricerca scientifica autorizzassero una sintesi definitiva di tutto il sapere sul fondamento delle scienze fisiche e biologiche. Questa tendenza operò in Italia principalmente fuori del mondo accademico, promovendo peraltro uno svecchiamento dei quadri disciplinari tradizionali e aggregando attorno a idee condivise e a battagliere riviste e gruppi di tendenza, l’ambiente della ricerca scientifica e delle professioni (medici, giuristi, tecnici ecc.).
Tra i gruppi più vivaci si segnalò la ‘scuola criminologica’ sorta attorno a Cesare Lombroso, che ebbe straordinaria notorietà: la sua celebre tesi, che individua nella costituzione organica atavica la causa dei comportamenti delittuosi, parve in grado, spingendo verso una sistematica biologizzazione del mondo umano, di riplasmare tutto il settore delle scienze sociali. Il successo di questo programma, se da un lato portò alla luce l’arretratezza del sistema giuridico italiano, dall’altro attenuò considerevolmente la carica emancipatrice del positivismo, favorendo la convinzione che la soluzione dei gravi problemi del Paese (malattie endemiche, devianza, turbolenze politico-sociali, disoccupazione ecc.) potesse derivare, più che da un’opera di riforme – ritenuta in contrasto con l’evoluzione –, da pratiche di controllo della pericolosità sociale attuabili mediante tecniche igienistiche e di repressione penale. Paradossalmente, l’idea che i mutamenti sociali siano soggetti ai ritmi e alle leggi dell’evoluzione naturale fu comune alla sociologia liberal-conservatrice, a gran parte del primo socialismo italiano e – presto – agli ideologi dell’imperialismo ‘social-darwiniano’ più aggressivo.
In questo quadro la Morale dei positivisti di Ardigò esercitò un influsso ambivalente. Riconosciuta, per i suoi fondamenti deterministici e per l’importanza concessa al tema dell’integrazione dell’individuo nella società e alla repressione degli atteggiamenti antisociali, come un’opera anticipatrice, era però in parte estranea alla sensibilità della nuova scuola sociologica. Ad Ardigò preferirono richiamarsi piuttosto ideologi democratico-radicali (Arcangelo Ghisleri, Alberto Mario) e protosocialisti (Camillo Prampolini, Leonida Bissolati, Napoleone Colajanni, Filippo Turati), con molti dei quali egli fu in costante rapporto – alcuni erano suoi allievi –, che, in dissenso con la scuola criminologica, ponevano in primo piano, come causa del comportamento deviante, le disuguaglianze economiche e sociali. Presso costoro il riferimento alla morale di Ardigò e alla sua teoria delle idealità morali e della giustizia fu sempre presente: esse fornivano il presupposto per contrastare la riduzione biologistica della società e contemporaneamente la fondazione altruistica e solidaristica della visione di un nuovo ordine sociale e di una pratica politica riformatrice.
Ardigò per parte sua tenne una via intermedia. Non condivise l’esito conservatore della concezione organicistica della società: respinse in parte la teoria penale della scuola lombrosiana, ponendo, accanto all’esigenza della difesa della società, quella della mitezza delle pene, del recupero del reo, e dunque, prima che della repressione, dell’opera moralizzatrice dello Stato in ordine alla prevenzione e alla rimozione delle condizioni del delitto. Non aderì tuttavia a un’ipotesi di trasformazione della società in direzione del socialismo, che considerava una teoria livellatrice e fondata a sua volta su una forma di egoismo di classe: riteneva del resto il marxismo, riguardo al quale ebbe un’informazione superficiale, una teoria grettamente economicistica. Allo stesso tempo, aborrendo la violenza come forma di lotta politica (polemizzò, per es., ripetutamente con gli anarchici), respinse qualsiasi prospettiva rivoluzionaria che andasse a turbare la marcia lenta ma sicura del progresso.
Coerentemente con i suoi principi, Ardigò fu sempre sostenitore di un’alternativa liberale-democratica. Se è vero che le «idealità morali» sono relative a un dato sito e a un dato tempo, tendenzialmente stabili, sì che il progresso appare un movimento lento e impercettibile, egli non vi scorgeva affatto l’«acquetamento» a un determinato ordine sociale e giuridico; riteneva anzi che il diritto positivo fosse sempre «in arretrato» rispetto alle idealità sociali più progredite già sviluppatesi nella coscienza comune (La morale dei positivisti, cit., p. 616). La possibilità del progresso era definita a partire da un circolo virtuoso tra società e individuo. Come in natura, l’individuo è soggetto a un processo di selezione: il suo grado di elevatezza morale e di responsabilità dipende da una catena di disposizioni che affondano le radici nell’eredità fisica e psichica, plasmata e modificata dalla società e dall’educazione. La selezione – naturale e sociale a un tempo – opera sugli individui isolando quei caratteri che più si adeguano alle idealità morali e se ne fanno portatori: in altri termini, che sono utili al progresso della specie. La morale individuale è un prodotto di quella sociale, ma reagisce su quella e la modifica: l’individuo risulta così sociologicamente un fattore dinamico di progresso, in quanto è in grado di valutare il potere pubblico, commisurandolo «al principio di giustizia della propria coscienza» e a nuovi ideali (La morale dei positivisti, cit., p. 509).
Questo moto ascendente è per Ardigò evidente nel progresso antropologico e storico: nel primo, secondo una gradazione che si manifesta nell’età, nel sesso, nell’educazione, nella divisione del lavoro, nella gerarchia delle classi sociali; nel secondo, con il passaggio dalla barbarie alla civiltà. Ardigò si mostra indubbiamente passivo nei confronti delle idee della sua epoca: nella sua dottrina «intrinsecamente borghese» (Büttemeyer 1989, p. 31), l’evoluzione morale sembra culminare nell’uomo «maschio europeo, adulto, civilizzato e possibilmente agiato» (Landucci 1990, p. 83). Ma ciò che conta è la sua convinzione della possibilità del progresso a partire dal costituirsi, con il meccanismo dell’evoluzione, di una minoranza attiva di individui. Con ciò egli proponeva al positivismo democratico una teoria dell’élite riformatrice, che rappresentava la vittoria del vero soggetto rivoluzionario, il «Sapiente», e per esso dell’«intelligenza» sulla «forza», che avrebbe lentamente trasformato l’ordinamento sociale. La proposta ardigoiana di un ceto speciale, una nuova «nobiltà» del merito illuminata (La morale dei positivisti, cit., p. 270) fu accolta dal repubblicanesimo democratico e influì anche sul socialismo nascente, che conserva l’idea dello sviluppo onnilaterale dell’individuo in armonia con la società.
Era rigorosamente in questa visuale e con questi strumenti che Ardigò riteneva percorribile una terza via tra il «nihilismo del diritto individuale» e il «socialismo materialistico» (La morale dei positivisti, cit., p. 618). Stilando un bilancio dei problemi aperti dall’unificazione nazionale, scorse tra gli obiettivi realizzati dall’Unità il superamento delle residue tentazioni regionalistiche e l’organizzazione di una moderna macchina statale, ma non si nascose, invocando «rimedi radicali», che rimaneva tutta da svolgere un’opera di redenzione sociale delle classi subalterne:
Nulla è ancora l’indipendenza dallo straniero, la libertà e l’uguaglianza di ogni cittadino nel proprio paese, l’impero incontrastato della ragione sulle coscienze, se ad ogni onesto non è assicurato il pane quotidiano, nella giusta ragione di un lavoro né ignobile né eccessivo, che non gli sia dato per elemosina, ma per diritto di essere un uomo (Giuseppe Garibaldi [1882], in Scritti vari, cit., pp. 178-79).
Come gran parte degli uomini della corrente democratica, da cui lentamente il socialismo italiano si venne distaccando, Ardigò si limitò a suggerire elementi di metodo, aspirando a rintracciare un problematico punto di equilibrio: dell’associazionismo operaio e del sindacalismo, per es., nel 1907 scriveva che erano un fatto importante, ma che «nella società sono in giuoco altre forze operanti, oltre quelle delle classi operaje come sono ora, e altri motivi impellenti, oltre l’economico» (lettera del 14 febbraio 1907, in Lettere edite ed inedite, a cura di W. Büttemeyer, 2° vol., 2000, pp. 279-80). La partita sembra giocarsi tuttavia per Ardigò non sul piano delle strutture economiche o dei concreti rapporti sociali, ma su quello della percezione soggettiva della propria condizione, dei sentimenti e degli impulsi, delle sensazioni e delle idee originate dall’ambiente e dall’educazione, al punto che possono perfino prevalere «i sentimenti che sono diversi da quelli della fame, fino a farli tacere affatto» (Il materialismo storico, in Scritti vari, cit., pp. 271-72). Da qui il suo insistere non solo sulla necessità di un sistema di beneficenza, ma come tutto il positivismo della prima generazione, da Villari, ad Aristide Gabelli, ad Andrea Angiulli, sul problema dell’educazione. La costruzione di un apparato educativo era
l’opera più difficile e più colossale: e alla quale si dovrà la trasformazione addirittura del nostro paese, non uscito veramente di minorità fino a quando rimarranno nelle coscienze le traccie della superstizione, che toglie all’uomo ogni vigoria di carattere, ogni nobiltà di aspirazione (Discorso di commemorazione [1883], in Scritti vari, cit., p. 195).
Per questi caratteri e accenti, a differenza del positivismo evoluzionista e del socialismo, pur condividendo l’aspirazione alla direzione ‘scientifica’ della società, Ardigò rimane essenzialmente un uomo del Risorgimento e la sua una ideologia dello Stato unitario dominata dal problema della costruzione di un ethos pubblico, che investiva le classi sociali e il ceto dirigente. Per questo egli è costantemente preoccupato, più che di tecniche di governo, dell’armonia d’intenti in politica, non perdendo occasione per riaffermarla – utopicamente e con una riflessione non approfondita sulle dinamiche politiche postunitarie – come valore primario. Si oppose così, in nome del principio patriottico dell’unità, con atteggiamenti che gli furono variamente rinfacciati da parte di esponenti e gruppi dello stesso schieramento nel quale si riconosceva, alla contestazione da parte democratica e radicale della politica di Francesco Crispi; ribadì il suo lealismo alla dinastia che aveva compiuto il Risorgimento; sostenne infine – negli ultimi suoi tormentati anni –, a dispetto dei suoi ideali umanitari, internazionalisti e pacifisti e nell’ottica dell’interventismo democratico, la necessità della partecipazione dell’Italia alla guerra mondiale, come un doloroso, ma inevitabile dovere civile e storico (cfr. Scritti vari, cit., pp. 250, 254-55; lettera del 2 luglio 1915, in Lettere edite ed inedite, cit., 2° vol., pp. 397-98).
Ardigò verrà poi – talora acerbamente – accusato di non aver offerto altro che un’immagine irenica dello Stato uscito dal Risorgimento, disattenta ai contrasti drammatici che lo connotavano. E addirittura, ripetendo per lui il detto olim sacerdos (nella Morale dei positivisti, più volte si suggerisce che la nuova etica non è che la trasposizione laica, razionale e scientifica dei principi del cristianesimo), di essere il paladino di una sorta di «religione civile», espressa persino in toni sacramentali, residuo della sua formazione personale. In sostanza, di non essersi emancipato, nonostante l’abiura, da un’ottica teologizzante: la sua stessa cosmologia – opera certo di sintesi filosofica, non di scienza – non sarebbe che una riscrittura in forma moderna della filosofia romantica della natura e di un mito cosmogonico.
Queste critiche, in parte giustificate, non tengono conto dei notevoli spunti metodici dell’opera di Ardigò, spesso più consapevoli rispetto alla scarsa vocazione teorica del positivismo italiano, feticisticamente appiattito sulla pratica delle scienze e impreparato di fronte alla crisi epistemologica di fine secolo. In campo etico, non va sottovalutato il problema che Ardigò, come gli uomini del Risorgimento, si trovava di fronte: quello dell’integrazione delle masse nella vita del nuovo Stato, e dell’esigenza primaria di contrastare l’influenza della Chiesa su di esse. Sapeva che per la particolare storia del Paese, la presenza del papato, lo stato di arretratezza dell’istruzione, si giocava su quel terreno una sfida decisiva, e che il progetto di una riforma morale e intellettuale invadeva i sistemi delle credenze, dei valori, delle visioni del mondo.
Tutta l’ultima parte della Morale dei positivisti è dedicata a questo problema: Ardigò vi sostiene che non è la religione come tale la fonte della moralità, ma, al contrario, che le religioni attingono di volta in volta ai livelli di moralità raggiunti nel corso dell’evoluzione della società e li trasformano e assimilano a un sistema dogmatico di credenze. Per questo egli ritiene che si debba far leva sul risveglio cosciente delle ‘idealità sociali’, senza cedere alla tentazione di usare la religione come instrumentum regni e sistema di controllo delle agitazioni sociali, ma attraverso il miglioramento delle condizioni delle masse e – soprattutto – dell’educazione pubblica e popolare.
Si faceva probabilmente generose illusioni sull’efficacia di questo progetto, non esente da toni paternalistici: ma, con coerenza e franchezza, non credeva nella sostituzione ut sic di una sorta di religione positiva come visione del mondo alla religione confessionale, bensì nei mutamenti del costume favoriti da una virtuosa azione politica laica. Da qui l’opposizione alla «simulazione forzata» e all’ipocrisia della religione imposta «senza libertà» (La libertà del sentimento religioso [1895], in Scritti vari, cit., p. 217) dal sistema teocratico, ma anche alla massoneria: la quale, scriveva, «in uno stato libero è un non senso», giacché
a combattere l’oscurantismo è più efficace l’opera indefessa ed aperta di educazione e di elevazione civile che non l’opera tenebrosa e nascosta di una setta: e che coll’esistenza di questa la gran massa popolare non può che perdere la fiducia nella giustizia pubblica (Contro la massoneria [1903], in Scritti vari, cit., p. 164).
Da qui il compito dell’educazione da parte dello Stato, non per imporre un astratto catechismo laico, ma per creare «le attitudini di persona civile, di buon cittadino e di individuo fornito di speciali abilità utili, decorose, nobilitanti», che accrescano la dignità personale dell’individuo (La scienza dell’educazione, 19254, p. 12). Ne diede un esempio significativo a proposito del problema della sostituzione del personale religioso negli ospedali, dove auspicava, come in tutti gli uffici pubblici, un sistema di reclutamento di «persone probe, preparate opportunamente dagli elementi più adatti, informati del carattere civile della moralità positiva», atti a trasmettere l’idea di una missione nobile e a trasformare così la società in un organismo morale, non fondato su un meccanismo servile o volto a secondi fini (Le Ancelle della carità del Civico Spedale [1880], in Scritti vari, cit., p. 210).
Senza un programma di questo genere, Ardigò prevedeva inevitabili convulsioni sociali e soprattutto temeva che, contro il «fatale dominio del papa», l’opera dello Stato unitario sarebbe rimasta incompiuta. E che avrebbe allora risonato vanamente l’invettiva rivolta contro l’antico potere da un immaginario bersagliere mantovano dalla breccia di Porta Pia: un grido di liberazione «potente, ignobile e sconcio», ma «echeggiante come la parola terribilmente sublime dell’angelo della vendetta» (La breccia di Porta Pia [1902], in Scritti vari, cit., pp. 226-27).
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