GRAZIANI, Rodolfo
Nacque a Filettino l'11 ag. 1882 da Filippo, medico condotto, e da Adelia Clementi, figlia di un allevatore di bestiame.
Quarto di nove fratelli, il G. trascorse l'infanzia e la prima giovinezza ad Affile, dove il padre si era trasferito. In seguito frequentò il ginnasio nel seminario di Subiaco e il liceo Torquato Tasso a Roma. Ottenuta nel 1902 la licenza liceale, si iscrisse alla facoltà di legge per il biennio notarile, senza peraltro completare gli studi.
Prestissimo avvertì la vocazione per la carriera militare, ma i suoi genitori non avevano i mezzi per inviarlo nelle prestigiose accademie di Modena o della Nunziatella. Alla chiamata di leva fu quindi costretto a frequentare il corso allievi ufficiali di complemento al 94° reggimento di fanteria di Roma. Il 4 apr. 1903 fu promosso caporale, il 4 luglio sergente, il 1° maggio 1904 sottotenente. Assegnato al 92° fanteria, di stanza a Viterbo, due anni dopo vinse il concorso per diventare ufficiale in servizio permanente effettivo e, per la sua alta statura, fu destinato al 1° reggimento granatieri di Roma. Nell'ottobre 1906 si trasferì a Parma per compiervi il corso superiore presso la Scuola di applicazione di fanteria.
Rientrato dopo nove mesi a Roma, il G. trovò - come lui stesso confessa - "più dura la caserma pel mio temperamento di uomo d'azione e le mie magre finanze contrastanti con le seduzioni della Capitale" (Ho difeso la Patria, p. 12). Decise pertanto di presentare domanda per essere trasferito in Eritrea: in quell'Africa che lo aveva sempre affascinato, sin dall'infanzia, e dove sperava di far carriera più rapidamente. Accolta la domanda, nel dicembre 1908 raggiunse la colonia "primogenita" e venne assegnato al I battaglione indigeni di stanza ad Adi Ugri.
In quel remoto villaggio del Seraè, il G. compì il suo noviziato coloniale, che durò quattro anni e fu interrotto da due gravi incidenti: il morso a un dito di un rettile velenoso e un virulento attacco di malaria.
Ricoverato per alcuni mesi negli ospedali di Asmara e di Massaua, sul finire del 1912 poteva rientrare in patria sbarcando in barella nel porto di Napoli.
Tali disavventure gli impedirono di partecipare alla guerra di Libia (1911-12), ma in Libia ci andò comunque, nel febbraio 1914, e vi rimase sino allo scoppio della prima guerra mondiale. Entrato nel conflitto con il grado di capitano, ne uscì con quello di colonnello. Nel 1918, a 36 anni, era il più giovane colonnello dell'esercito italiano e uno fra i più decorati.
Ferito tre volte, intossicato dai gas asfissianti, si distinse soprattutto nella conquista del monte San Michele e nella battaglia al colle della Beretta, due azioni nelle quali si rivelò maestro nei colpi di mano.
Finita la guerra, il G. fu inviato in Macedonia al comando del 61° fanteria, che presidiava la regione fra Salonicco e Stramitza. La missione fu però di breve durata perché, già nell'agosto 1919, il reggimento fu rimpatriato e raggiunse la sua sede a Parma.
Il G. rientrava in un'Italia già sconvolta dalle contese politiche e dai primi scontri armati tra fascisti e antifascisti. "Dopo un anno di tensione - scriverà in un libro di memorie - allo spettacolo del valore disprezzato e rinnegato, cedetti anch'io alla crisi che colpì allora tanti ufficiali e chiesi di essere collocato in aspettativa per riduzione dei quadri, per due anni" (ibid., p. 24).
Abbandonata la carriera delle armi, il G. si trasferì nei Balcani e poi nel Levante nella speranza di trovarvi, nella ripresa dei traffici, un nuovo e redditizio campo di lavoro. Ma dopo aver vagabondato fra Atene e Costantinopoli ed essersi spinto anche oltre il Caucaso, rientrò in patria deluso e a mani vuote. Cedendo allora alle pressioni della moglie, Ines Chionetti, che aveva sposato nel 1913, accettò l'offerta del ministero della Guerra di raggiungere la Libia, che era quasi interamente da riconquistare dopo l'abbandono provocato da una lunga serie di errori e di sconfitte militari.
Il G. giunse in Libia il 1° ott. 1921. Vi rimase per tredici anni, servendo tre governi, quelli liberaldemocratici di I. Bonomi e di L. Facta e quello fascista di B. Mussolini, e tre governatori, G. Volpi, il generale E. De Bono e il maresciallo P. Badoglio. In colonia il G. manifestò doti eccezionali nella lunga e durissima lotta contro i patrioti libici, mettendo a frutto gli insegnamenti della guerra mondiale e utilizzando gli strumenti di guerra più moderni. Nello stesso tempo alimentò, con i suoi metodi brutali, la fama di uomo spietato, di "macellaio degli arabi".
Fin dall'inizio delle operazioni per la riconquista integrale della Libia, nell'aprile 1922, il G. si rivelò come il più audace, spregiudicato e brillante tra gli ufficiali superiori che agivano nella colonia. Inviato a Zuara come comandante del locale presidio, studiò a fondo la situazione, cercò di capire le motivazioni dei suoi avversari, analizzò i metodi di lotta, si fece disegnare il profilo dei più autorevoli capi della rivolta. Arricchito da queste informazioni, decise di battere i ribelli sul loro stesso terreno, preparando agguati e colpi di mano, muovendosi con snelle colonne mobili in grado di battere in velocità le "mehalle" arabe. Con questa tattica da controguerriglia il G. riconquistò in pochi mesi Zavia, el-Azizia, el-Giosc, Giado, Cabao e Nalùt.
In polemica con le "teorie retrograde e statiche" dei vecchi ufficiali coloniali (Pace romana in Libia, p. 32), mise a punto una strategia che mirava più a sterminare gli avversari che a occupare territorio. Una strategia che utilizzava tutti i mezzi più moderni, come la radio, gli autocarri, l'aviazione, e che contava non tanto sul numero degli uomini, ma sulla fulmineità delle azioni e sull'irruenza e instancabilità delle truppe eritree, oltretutto motivate, in quanto cristiano-copte, da un profondo odio religioso nei confronti dei ribelli musulmani.
L'avvento del fascismo impresse alle operazioni di riconquista un ritmo più accelerato. Il governatore Volpi decise infatti di non dare tregua ai ribelli e di procedere, dopo l'occupazione del massiccio del Garian, alla riconquista dei maggiori centri della ribellione, Tarhuna, Zlīten, Misurata e la regione degli Orfella. Anche in queste operazioni il G. si distinse per l'audacia e l'azione fulminea, tanto che il 23 dic. 1923, mentre stava per occupare Beni Ulid, roccaforte degli Orfella, e per costringere alla fuga uno dei suoi più accaniti avversari, 'Abd an-Nebi Belcher, ricevette contemporaneamente la promozione a generale di brigata e la tessera ad honorem del Partito nazionale fascista.
A ogni conquista si rinsaldava la fama del G., astro nascente nel firmamento coloniale libico. Una fama che il fascismo, in cerca di consensi e di nuovi miti, aveva tutto l'interesse a consolidare, anche se le penne compiacenti che già paragonavano il G. a Publio Cornelio Scipione l'Africano avevano chiaramente oltrepassato la misura. Lo stesso Mussolini teneva d'occhio il giovane generale, nel quale individuava quelle qualità di fierezza e di audacia che egli attribuiva all'italiano nuovo, rigenerato dal fascismo.
Tra il 1924 e il 1928, con De Bono come governatore, venivano rioccupati il Gebel tripolino fino a Gadames e l'intera Sirtica sino a Zella. Il G. continuava a imporsi con le sue colonne mobili e a Tagrift, il 25 febbr. 1928, conseguì, seppure a caro prezzo, un grande successo battendo duramente i fratelli Sef en-Nasser, che poi avrebbe implacabilmente braccato nelle successive operazioni per la rioccupazione del Fezzàn.
Con la campagna del Fezzàn, della durata di tre mesi, il G. ripulì completamente il Sud della Libia da ogni presenza eversiva costringendo i fratelli Sef en-Nasser a riparare in Algeria con tutta la loro gente, che inseguì, bombardò e mitragliò anche al di là del confine. Con questa operazione, abilmente congegnata e realizzata alla perfezione, il generale raggiunse l'apice della notorietà, tanto da guadagnarsi il plauso della Camera, l'elogio caloroso di Mussolini e la nomina a vicegovernatore della Cirenaica. A meno di cinquant'anni era l'ufficiale più celebrato in Italia, godeva della protezione di De Bono, diventato nel frattempo ministro delle Colonie, ed era ora alle dirette dipendenze del maresciallo Badoglio, nuovo governatore della Libia.
L'intesa fra i due militari si rivelò perfetta. Persuasi entrambi che la sola politica da applicare in Libia fosse quella della repressione indiscriminata, elaborarono insieme un piano per rioccupare anche la Cirenaica che prevedeva la netta separazione fra i partigiani e le popolazioni sottomesse. Più in dettaglio, il piano contemplava il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei presidi italiani e, fatto ancora più grave, la deportazione di circa 100.000 Cirenaici dal Gebel Achdar e dalla Marmarica e il loro internamento in tredici campi di concentramento costruiti nelle regioni più inospitali della Sirtica. "Non mi nascondo - scriveva Badoglio al G. il 20 giugno 1930 - la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica" (Roma, Arch. centrale dello Stato, Fondo Graziani, b. 1, f. 2, sottofasc. 2).
Badoglio non poteva trovare un esecutore dei suoi ordini più zelante del G.; in pochi mesi egli portò a compimento la deportazione dei 100.000 Cirenaici, la metà dei quali morirono nei lager del deserto per malattie, maltrattamenti, scarsa alimentazione ed esecuzioni capitali. Operato il distacco tra le formazioni ribelli e le popolazioni indigene, espugnata il 19 genn. 1931 la città santa di Cufra, realizzato il reticolato fra Bardia e Giarabub che avrebbe bloccato i rifornimenti ai ribelli dall'Egitto, il G. lanciò l'ultima offensiva contro i patrioti che si concluse con la cattura dello stesso capo della ribellione, l'ikhwā´n 'Omar al-Mukhtār. Con la sua impiccagione, avvenuta il 16 sett. 1931 nel campo di concentramento di Soluch, alla presenza di 20.000 Libici, si concludeva la lunga e sfortunata lotta contro gli invasori italiani.
Dopo dieci anni interamente spesi a braccare e a sterminare i patrioti libici, il G. cominciò a raccogliere i frutti della sua frenetica attività. Badoglio lo additò, infatti, alla riconoscenza di tutti gli Italiani di Libia. De Bono lo citò alla Camera e al Senato come benemerito della patria. Il 2 febbr. 1932 il ministro della Guerra C. Gazzera lo promosse al grado di generale di corpo d'armata per meriti speciali. Ebbe una sola delusione: sperava di essere nominato governatore della Libia, ma quell'incarico andò a I. Balbo, la cui prima mossa fu quella di disfarsi del G., di cui non condivideva i metodi brutali.
Al suo rientro in patria, nel 1934, Mussolini lo compensò comunque affidandogli l'ambito comando del corpo d'armata di Udine. E, poco dopo, il G. veniva promosso generale designato d'armata, il più alto grado in tempo di pace.
Intanto Mussolini preparava l'invasione dell'Etiopia, e il G. non poteva non essere della partita. Il 20 febbr. 1935 il capo del fascismo gli comunicò, infatti, che lo aveva nominato governatore della Somalia e comandante in capo delle truppe. Due giorni dopo il G. si imbarcò a Napoli sul "Vulcania" con una prima aliquota della divisione "Peloritana".
In verità il G. si aspettava qualcosa di più del comando in Somalia, dove avrebbe dovuto limitarsi a stare sulla difensiva. Egli aspirava al comando sul fronte Nord, da dove sarebbe partita l'invasione e dove si sarebbero combattute le battaglie decisive.
Ma il G. non era uomo da arrendersi. Con la connivenza e l'appoggio determinante di Mussolini, che apprezzava questo generale aggressivo e spregiudicato, e con la complicità del sottosegretario alle Colonie A. Lessona, riuscì a ribaltare il ruolo assegnato al fronte Sud e a fare della Somalia una testa di ponte per l'attacco all'Etiopia, ponendosi addirittura come obiettivo finale la conquista di Harar, la seconda città per importanza dell'Impero etiopico.
Scavalcando i vertici dello stato maggiore, il G. acquistò sui mercati inglesi di Mombasa e di Dār es-Salā´m e poi negli Stati Uniti alcune migliaia di pesanti autocarri, di trattori cingolati, di rimorchi, per consentire al suo esercito di 55.000 uomini di muoversi rapidamente e su qualsiasi tipo di terreno.
Il 3 ott. 1935, mentre le armate del generale De Bono varcavano il Mareb sul fronte Nord dando inizio all'invasione dell'Etiopia, il G. era in grado di partecipare all'offensiva attaccando sull'intero fronte di 1100 km.
Durante i sette mesi del conflitto italo-etiopico il G. si palesò come il più dinamico fra i generali impegnati nel conflitto. Mentre De Bono sostava a Macallè e sembrava non avere più fiato per proseguire l'avanzata, tanto che Mussolini era costretto a sostituirlo con Badoglio, il 10 genn. 1936 il G. andava incontro all'armata di ras Destà Damtù, la sbaragliava e ne inseguiva i resti sin oltre Neghelli.
Maggiori difficoltà incontrò invece sul fronte dell'Ogaden, dove operava l'armata del giovane deggiac Nasibù Zemanuel, bene equipaggiata e particolarmente motivata. Per poter far avanzare le sue truppe autocarrate, il G. dovette risolvere problemi logistici estremamente ardui, come la costruzione di centinaia di chilometri di strade e il trasporto dei rifornimenti dai porti sull'Oceano Indiano, che distavano dal fronte più di 1000 km. Ma il 15 apr. 1936 era in grado di attaccare la "linea Hindenburg", ideata dal generale turco Wehib pascià. E in tre settimane, pur incontrando una forte resistenza, fece a pezzi l'armata di Nasibù e conquistò Giggiga e poi Harar negli stessi giorni in cui Badoglio si impadroniva di Addis Abeba.
Per conseguire queste vittorie, che gli fruttarono il bastone da maresciallo e il titolo nobiliare di marchese di Neghelli, il G. adottò i metodi più spietati.
Fu il primo a impiegare i gas per rallentare la marcia di ras Destà su Dolo. Non esitò, per logorare il morale degli avversari, a sottoporre le città di Harar, Giggiga e Dagabùr a bombardamenti a tappeto. Usò la divisione "Libia", costituita esclusivamente da soldati di fede musulmana e perciò nemici implacabili degli Etiopici di religione cristiana, come uno strumento per seminare panico e orrore, perché i Libici non facevano prigionieri. Autorizzò, inoltre, il bombardamento di un ospedale da campo svedese, provocando il disappunto dello stesso Mussolini, che si preoccupò per l'indignazione che l'episodio aveva suscitato a livello mondiale.
Oltre che il bastone da maresciallo, il G. trovò ad Addis Abeba l'ambitissimo incarico di viceré d'Etiopia, che Badoglio fu ben felice di trasmettergli ansioso com'era di ritornare in Italia a riscuotere premi e trionfi. Oltretutto Badoglio lasciava il G. in una situazione pressoché disastrosa: tre quarti dell'Impero etiopico erano ancora da conquistare.
Almeno 100.000 soldati del negus erano ancora in armi e la stessa Addis Abeba, appena conquistata, era in realtà assediata dai patrioti etiopici. Per finire, Mussolini esercitava pressioni perché l'Etiopia fosse integralmente occupata, dato che aveva annunciato al mondo che il fascismo aveva ridato a Roma il suo Impero immortale.
Finita la stagione delle piogge, il G. ruppe l'assedio che soffocava Addis Abeba, rese agibili le strade e la ferrovia da Gibuti che assicuravano i rifornimenti alla capitale, coordinò una serie di operazioni di polizia coloniale per stroncare i reparti etiopici ancora in armi, guidati da ras Destà, da ras Immirū e dai tre figli di ras Cassa.
Anche in queste operazioni, che si conclusero nel febbraio 1937 con il completo annientamento degli Etiopici, il G. adottò la politica del pugno di ferro. Non riconoscendo ai suoi avversari il diritto di battersi in difesa della loro patria, fece impiccare ras Destà e fucilare i fratelli Cassa. La stessa sorte toccò all'abuna Petros che cadde ucciso mentre benediceva con la croce copta gli otto carabinieri del plotone di esecuzione.
Tanta crudeltà non poteva non generare sdegno, rancori e desideri di vendetta. Il 19 febbr. 1937, mentre il G. assisteva a una cerimonia all'interno del recinto del "Piccolo Ghebì", due eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciarono sul gruppo delle autorità italiane alcune bombe che causarono la morte di sette persone e il ferimento di altre cinquanta, tra le quali il viceré, il cui corpo recava i segni di 350 schegge. Dall'ospedale, dove fu prontamente ricoverato, il G. ordinò di mettere in stato d'assedio la città lasciando al federale fascista G. Cortese il compito di organizzare la rappresaglia, che fu selvaggia e indiscriminata.
Per tre interi giorni squadre di militari e di civili italiani e di ascari libici percorsero le vie della capitale incendiando le abitazioni degli indigeni e massacrando tutti gli Etiopici che giungevano a tiro. Un preciso bilancio della strage non fu mai fatto, e anche se appare esagerata la cifra di 30.000 morti, avanzata nel dopoguerra dalle autorità etiopiche, è certo che le vittime della repressione non furono meno di 4000.
Ma non era che l'inizio. Stimolato da Mussolini, che esigeva si desse inizio nell'Impero a un "radicale repulisti" (Arch. centr. dello Stato, Fondo Graziani, b. 33), il viceré, non riuscendo a mettere le mani sui veri esecutori dell'attentato, si vendicò ordinando la liquidazione dell'intera intellighenzia etiopica, dei cadetti dell'Accademia militare di Olettà e persino di migliaia di indovini e cantastorie, la cui sola colpa era quella di aver diffuso profezie sull'imminente crollo in Etiopia del dominio italiano.
Alla fine di agosto, i soli carabinieri avevano passato per le armi 2509 indigeni; senza contare altre migliaia di Etiopici tradotti nei campi di concentramento di Nocra e di Danane, mentre i notabili non collaborazionisti erano stati inviati in esilio in Italia. Essendo infine emersa l'ipotesi che a ispirare gli attentatori fosse stato il clero copto della città conventuale di Debra Libanòs, il G., pur non disponendo che di vaghi indizi, ordinò al generale P. Maletti di passare per le armi tutti i monaci e i diaconi della città santa e di confermare l'esito delle operazioni con le parole "liquidazione completa". Già ufficiale subalterno del G. in Libia, avvezzo a eseguire gli ordini nella maniera più tassativa, Maletti portò a termine la sua missione tra il 21 e il 27 maggio 1937, prima rastrellando tutti i religiosi di Debrà Libanòs e successivamente sopprimendoli con raffiche di mitragliatrice nelle località di Laga Wolde e di Engecha. Dai telegrammi inviati dal viceré a Mussolini risulta che le vittime delle stragi furono 449. Ma da indagini compiute sul campo negli anni Novanta, le dimensioni delle stragi appaiono ben più rilevanti, tanto che si è ipotizzata una cifra che oscilla tra i 1400 e i 2000 morti (I.L. Campbell - D. Gabre-Tsadik, La repressione fascista in Etiopia: la ricostruzione del massacro di Debra Libanòs, in Studi piacentini, 1997, n. 21, pp. 70-128).
A differenza di altri massacri - dei quali in seguito il G. cercò di scaricare la colpa su Mussolini e Lessona, o su alcuni suoi subalterni -, quello di Debra Libanòs non lo inquietò affatto, tanto che se ne assunse l'intera responsabilità e anzi se ne fece persino un titolo di merito.
"Non è millanteria la mia - scrisse poi in un documento - quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell'Etiopia con la chiusura del convento di Debra Libanòs, che da tutti era ritenuto invulnerabile, e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei monaci, a seguito delle risultanze emerse a loro carico" (Fondo Graziani, I primi venti mesi dell'Impero, b. 56).
Il ripetersi delle stragi provocò, nell'estate del 1937, una ribellione che, dal Lasta, si estese presto a quasi tutte le regioni dell'Etiopia, mettendo in serio pericolo molti presidi italiani. Il G. fu costretto a chiedere rinforzi in patria, che Mussolini concesse non risparmiando però al viceré rimproveri venati di sarcasmo. Pur avendo sfruttato a lungo la durezza e la crudeltà del G., Mussolini si rese finalmente conto che era giunto il momento di sostituirlo con un personaggio meno discusso. La scelta cadde su Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, il quale, sulla scia di Balbo, chiese e ottenne da Mussolini che il G., il quale si era offerto come comandante delle truppe in Etiopia, venisse subito richiamato in Italia.
Rimosso dal suo incarico, il G. lasciò Addis Abeba il 10 genn. 1938. A Roma, comunque, a consolarlo, ci fu il pubblico abbraccio di Mussolini, il quale, però, con G. Ciano così si espresse: "Ha combattuto bene, ma ha governato male" (G. Ciano, Diario, 1937-1938, Bologna 1948, p. 122). Posto in disparte temporaneamente dal regime, il G. si ritirò nella sua casa di Arcinazzo Romano, dove scrisse due relazioni, rimaste inedite, con le quali cercò di dimostrare che tutti i torti erano degli altri e tutti i meriti suoi.
L'emarginazione del G. non durò, però, a lungo. Il 3 nov. 1939, ascoltando il giornale radio delle 13, apprese di essere stato nominato capo di stato maggiore dell'esercito, un incarico di grande rilevanza, ma che poco si addiceva - fu lui stesso a riconoscerlo - a un uomo d'azione. Ancora una volta il G. si trovò alle dipendenze di Badoglio, che ricopriva la carica di capo di stato maggiore generale. Se in Libia l'intesa fra i due era stata perfetta, e in Etiopia era emersa soltanto una comprensibile rivalità, a Roma, fra i due marescialli, si aprì subito un conflitto insanabile. Non soltanto il G. accusava Badoglio di nascondere a Mussolini l'assoluta impreparazione dell'esercito, ma quando, all'inizio della seconda guerra mondiale, fu mandato in Libia a sostituire Balbo, che era stato abbattuto con il suo aereo nel cielo di Tobruk, accusò il suo superiore di averlo mandato allo sbaraglio negandogli i rinforzi necessari, soprattutto camion, carri armati e artiglierie moderne, per poter invadere l'Egitto e puntare su Alessandria, come Mussolini esigeva con impazienza.
Pungolato dal duce con ripetuti e astiosi telegrammi, il G. si decise finalmente, il 13 sett. 1940, a varcare la frontiera egiziana. In pochi giorni si impossessò di es-Sollùm e di Sīdī al-Barrāni, ma poi si rifiutò di proseguire per Marsa Matrū´ḥ fintantoché Badoglio non gli avesse inviato i rinforzi promessi. Mentre il G. indugiava a Sīdī al-Barrāni, il suo avversario, il generale A.P. Wavell, dopo aver potenziato il proprio esercito con i rinforzi giuntigli dall'Inghilterra e dall'Impero britannico, il 9 dicembre lanciava la controffensiva, che in soli tre giorni polverizzava cinque divisioni italiane. A questo punto il G. perse la testa.
"Dopo questi ultimi avvenimenti - telegrafò al comando supremo - riterrei mio dovere, anziché sacrificare la mia persona sul posto, portarmi a Tripoli, se mi riuscirà, per mantenere almeno alta su quel Castello la bandiera d'Italia, attendendo che la Madrepatria mi metta in condizioni di continuare ad operare" (Stato maggiore dell'Esercito, La prima offensiva britannica…, p. 119). Ce n'era abbastanza per rimuoverlo dal comando, subito, sul campo, ma Mussolini indugiò, perché non riusciva a credere che il conquistatore di Neghelli e di Harar, il fulmine di guerra elogiato persino dal conquistatore del Marocco, il maresciallo di Francia H. Lyautey, potesse crollare così all'improvviso.
Invece in Egitto il maresciallo aveva semplicemente rivelato i suoi limiti. Un conto era battersi con formazioni indigene male armate e un altro era misurarsi con un esercito regolare, che metteva in campo le migliori truppe dell'Impero mondiale britannico. Quando, l'8 febbr. 1941, dopo aver perso l'intera Cirenaica e parte della Sirtica, il G. si decise infine a chiedere a Mussolini di essere esonerato da ogni incarico, il duce non ebbe più esitazioni, lo richiamò in patria e aprì un'inchiesta sul suo operato.
Posto per la seconda volta in disparte dal regime, accusato, fra l'altro, di codardia, per aver diretto le operazioni da una tomba tolemaica di Cirene, profonda trenta metri e lontana dal fronte alcune centinaia di chilometri, il G. si rifugiò presso Arcinazzo, dove scrisse l'ennesimo memoriale difensivo. Sembrava un uomo finito, uscito definitivamente dalla scena.
Ma era destino che tornasse di nuovo alla ribalta e che a riabilitarlo, affidandogli il ministero della Guerra, fosse proprio Mussolini, che pure non aveva nascosto il suo disprezzo per lui. Ciò accadde dopo il crollo del fascismo e la costituzione del governo fantoccio di Salò.
Difficile spiegare la scelta del maresciallo. I suoi accusatori la motivarono con la sfrenata ambizione, il desiderio di rivincita, il rancore nei confronti dell'eterno rivale Badoglio, che aveva scelto il campo opposto. Il G., in un suo memoriale, replicò sostenendo che aveva accettato "coscientemente la suprema missione che il destino mi segnava, firmando da quel momento il mio sacrificio per il bene della Patria" (Ho difeso la Patria, p. 369).
Anche durante il processo che gli venne intentato nel 1948, il maresciallo giustificò la sua scelta con l'amor di patria, il senso dell'onore, lo spirito di sacrificio, e si attribuì il merito di avere attenuato, con il suo operato, i rigori dell'occupazione nazista. Le cose, in realtà, andarono diversamente. Il G., come Mussolini, fu soltanto un burattino nelle mani dei Tedeschi. In effetti, nella Repubblica sociale italiana, al G. toccò soltanto di esercitare la funzione amministrativa mentre quella operativa dipendeva totalmente dalle autorità germaniche.
Nominalmente il G. era a capo dell'armata "Liguria", ma in realtà, a comandare, erano i generali Schlemmer e Jahn. Quanto alle quattro divisioni italiane istruite in Germania, esse non si batterono per riscattare l'onore dell'Italia come il G. sperava e predicava; di fatto furono quasi esclusivamente impiegate nella caccia ai partigiani. Il G. fu inoltre l'uomo che firmò i famigerati bandi che chiamavano alle armi i giovani delle classi 1924 e 1925 e che minacciavano la pena di morte ai renitenti. Non sorprende, quindi, che egli fosse in cima alla lista dei personaggi da abbattere compilata dai partigiani alla vigilia dell'insurrezione.
Ma il maresciallo, a differenza di Mussolini e di altri gerarchi responsabili di venti mesi di stragi, riuscì a sottrarsi alla giustizia popolare. Posto in salvo dal capitano italo-americano E. Daddario, con il consenso del generale R. Cadorna, il G. fu trasferito il 29 apr. 1945 al comando del IV corpo d'armata corazzato americano di stanza a Ghedi. In seguito, dopo un breve soggiorno a Roma, fu condotto in Algeria dove diventò semplicemente il "prisoner of war" n. AA/253402. Il 16 febbr. 1946 gli Alleati lo consegnarono alla giustizia italiana e l'indomani egli fece il suo ingresso nel carcere di Procida, dove diventò il detenuto n. 220. Sul finire del 1946 fu trasferito da Procida a Roma, nel carcere di forte Boccea, poi, essendosi aggravate le sue condizioni di salute, nell'ospedale militare del Celio.
Rinviato a giudizio l'11 ott. 1948 dinanzi alla corte di assise di Roma e poi, avendo questa riconosciuto la propria incompetenza per materia, dinanzi al tribunale militare speciale di Roma, il G., il 2 maggio 1950, fu condannato a 19 anni di carcere per "collaborazionismo militare col tedesco"; ma, grazie ai vari condoni, quattro mesi dopo il verdetto poteva tornare in libertà.
Il governo imperiale etiopico chiese, in applicazione dell'art. 45 del trattato di pace, la sua estradizione per processarlo per i numerosi crimini di guerra, ma la richiesta di Addis Abeba cadde nel vuoto.
Trascorse gli ultimi anni fra la casa di Arcinazzo e quella romana ai Parioli. Non seppe resistere agli inviti dei neofascisti a rientrare in politica e finì per accettare, nel marzo 1953, la presidenza onoraria del Movimento sociale italiano. In precedenza aveva tentato, con il "patto di Cassino", di raggruppare le associazioni combattentistiche di destra, ma senza successo. Ricoverato d'urgenza per un'ulcera duodenale, fu operato da P. Valdoni, ma il suo fisico era già troppo debilitato per poter superare la prova.
Si spense a Roma l'11 genn. 1955.
Opere: Verso il Fezzan, Tripoli 1929; La situazione cirenaica, Bengasi 1931; Cirenaica pacificata, Milano 1932; La riconquista del Fezzan, ibid. 1934; Pace romana in Libia, ibid. 1937; Il Fronte Sud, ibid. 1938; Ho difeso la Patria, ibid. 1947; Africa settentrionale 1940-1941, Roma 1948; La Libia redenta. Trent'anni di passione italiana in Africa, Napoli 1948.
Fonti e Bibl.: L'Archivio centrale dello Stato di Roma conserva l'importante Fondo Graziani, che contiene, tra l'altro, due relazioni inedite del G.: I primi venti mesi dell'Impero (dattil. di 380 pagine) e Il II anno dell'Impero (850 pagine). Per la campagna in Etiopia del 1935-36, si veda: Comando delle forze armate della Somalia, La guerra italo-etiopica. Fronte Sud, I-IV, Addis Abeba 1937.
Si vedano inoltre: S. Volta, G. a Neghelli, Firenze 1936; La civilisation de l'Italie fasciste en Éthiopie, I-II, Addis Abeba 1945; Ministry of Justice, Documents of Italian war crimes, Addis Abeba 1950; A. Lessona, Memorie, Firenze 1958, passim; F.W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963, ad ind.; C. Poggiali, Diario AOI, Milano 1971, ad ind.; G. Rochat, Militari e politici nella preparazione della campagna d'Etiopia, Milano 1971, ad ind.; Stato maggiore dell'Esercito, Ufficio storico, La prima offensiva britannica in Africa settentrionale, Roma 1972; S. Bertoldi, Salò. Vita e morte della Repubblica sociale italiana, Milano 1976, ad ind.; G. Bocca, La repubblica di Mussolini, Roma-Bari 1977, ad ind.; E. Salerno, Genocidio in Libia, Milano 1979, ad ind.; A. Del Boca, Gli Italiani in Africa orientale, I-IV, Roma-Bari 1979-84, ad indices; E. Santarelli - G. Rochat - R. Rainero - L. Goglia, Omar al-Mukhtàr e la riconquista della Libia, Milano 1981, ad ind.; A. Del Boca, Gli Italiani in Libia, I-II, Roma-Bari 1986-88, ad indices; A. Cova, G. Un generale per il regime, Roma 1987; G. Mayda, G. l'Africano. Da Neghelli a Salò, Firenze 1992; G. Ottolenghi, Gli Italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, Milano 1997, ad ind.; A. Sbacchi, Legacy of bitterness. Ethiopia and fascist Italy, 1935-1941, Lawrenceville, NJ - Asmara 1997, ad indicem.