VANTINI, Rodolfo.
– Nacque a Brescia il 17 gennaio 1792, secondogenito di Domenico, impresario edile e pittore di fama locale, e di Olivia Leonesio; la sorella maggiore, Carolina, era nata nel 1786. Nulla si sa della sua casa natale, mentre è noto il luogo ove la famiglia Vantini si trasferì a partire dal 1797, in Contrada S. Pace (oggi via Tosio), al civico 800.
Iniziato dal padre all’arte del disegno artistico e architettonico, nel 1808 Rodolfo s’iscrisse all’Università di Pavia per studiare ingegneria e architettura avendo tra i docenti Giuseppe Marchesi: si laureò il 5 giugno 1810, nonostante una grave malattia polmonare lo colpisse alla vigilia della conclusione degli studi, costringendolo a letto per circa due mesi.
Grazie agli uffici di Marchesi, dopo la laurea entrò in un importante studio ingegneristico di Milano, città nella quale visse più o meno continuativamente per due anni, stringendo a ogni livello amicizie importanti che coltivò poi per tutta la vita. Nel 1812 fece tuttavia ritorno a Brescia e alla casa d’infanzia, rimasta per sempre sua residenza e dalla quale, soleva confidare agli amici, si allontanava con riluttanza: un sentimento che tuttavia non gli impedì di operare entro un ampio raggio geografico comprendente larga parte di Lombardia, Veneto e Trentino, regioni in cui si contano numerose sue realizzazioni, e di intraprendere due viaggi, uno a Roma nel 1823, e l’altro a Napoli nel 1845. In questa casa, ove nel corso della vita risiedette insieme ai genitori, all’affezionatissima sorella e alle sue due consorti (tranne un breve periodo di permanenza in casa della prima moglie), Vantini operò molteplici riassetti e ampliamenti, e vi installò il proprio studio allestendovi anche una selezionata quadreria, apprezzata in città, aperta agli artisti e citata dalle coeve guide cittadine di Paolo Brognoli e Alessandro Sala.
Rientrato a Brescia, nell’aprile del 1813 conseguì l’abilitazione professionale all’architettura e all’ingegneria civile, e gli furono assegnate, appena ventenne, le cattedre di disegno e di matematica presso il ginnasio e il liceo locali; detenne tali incarichi fino al 1818, allorquando, per reggerle, dovette partecipare a un concorso appositamente indetto, del quale risultò vincitore, prestando giuramento per la cattedra di disegno il 26 maggio 1819.
La felice partecipazione al pubblico bando indetto dal Comune di Brescia nel 1814 per la realizzazione di un grande cimitero comunale rappresentò per lui la prima occasione di concreta affermazione professionale. Rilevato ufficialmente l’incarico nel 1815, ne seguì la realizzazione per tutta la vita, curando ogni dettaglio della progettazione, senza tuttavia poterne mai vedere la fine: morì infatti con il grande faro centrale incompiuto, concluso nel 1864 dall’allievo Giuseppe Cassa. Sebbene il cimitero di Brescia, presto soprannominato Vantiniano, non sia, come spesso viene affermato, il più antico cimitero Monumentale d’Italia, esso è senza dubbio il primo a essere stato costruito ex novo e non per adattamento di ambienti preesistenti (per lo più monasteri certosini extra moenia), godendo così di un grandioso e coerente respiro delle strutture che ne fanno un monumento in sé, modello per una nuova tipologia architettonica.
Per qualità e originalità della progettazione e per prestigio della commessa, il cimitero di Brescia divenne rapidamente la sua opera più nota, il suo capolavoro: donde la crescente richiesta a Vantini, da parte dei Comuni della provincia, di progettare più modesti, ma non per questo meno eleganti, cimiteri locali. Di quello di Pralboino (1839-44) non rimangono che quattro piloni angolari del campo originario e l’ordine dei colombari lungo le pareti perimetrali; meglio leggibili sono quelli di Provezze (1832-35), Travagliato (1832-35), Ovanego (1834) e Duomo di Rovato (1843), molto vicini per spirito e impianto a quello di Brescia, e di Rezzato, nonché la risistemazione di quello di Salò (dal 1844), ove più evidenti si fanno le inclinazioni romantiche tipiche della sua produzione degli anni più avanzati. Partecipò anche ai concorsi per il cimitero di Milano (1839) e per il nuovo camposanto di Venezia (1843), senza riceverne reali incarichi.
Il successo ottenuto con il Vantiniano garantì dunque all’architetto un’istantanea preminenza sulla piazza artistica di Brescia e dei territori limitrofi, consentendogli presto di affacciarsi con successo anche a Milano. Ne sono diretta conseguenza la commissione per la perduta porta Pile a Brescia (1818, demolita nel 1865) e i due successi milanesi nei concorsi del 1818 per il nuovo liceo di Brescia e dell’estate 1826 per la barriera di porta Orientale (oggi porta Venezia), costruita su suo disegno tra il 1827 e il 1828 ma conclusa, nelle decorazioni scultoree da lui stesso pianificate insieme alla commissione d’Ornato, solo nel 1833.
Pensando a un casello daziario monumentale ma non enfaticamente retorico, che risultasse classico e moderno al contempo e che non ostruisse la vista da dentro città del bel viale alberato che costituiva allora l’odierno corso Buenos Aires, Vantini optò per lo scorporo in due distinti edifici gemelli a base quadrangolare con una torretta (aggiunta su esplicita richiesta della commissione), un elegante bugnato isodomo, una loggia dorica colonnata sulle facciate interna ed esterna alla città, e lesene sugli altri due fianchi. Il risultato fu di sobria autorevolezza e ancora una volta di immediata fortuna: così come l’alto faro del cimitero bresciano sarebbe stato riproposto da Heinrich Strack nella celebre Siegessäule (1864-73) di Berlino, nel 1848 i caselli di porta Orientale sarebbero stati replicati in forma ridotta da Filippo Antolini nella barriera Gregoriana (oggi porta S. Stefano) a Bologna.
L’opera di Vantini, numerosa e diversificata, può essere efficacemente tripartita tra commesse pubbliche, private e di natura ecclesiastica. Queste ultime, distribuite nel corso dell’intera sua vita professionale, annoverano l’erezione di chiese parrocchiali e singoli altari, per lo più concentrati nel territorio bresciano.
Dei moltissimi esempi ci si limita a ricordare i più significativi: la ristrutturazione e nuova decorazione interna della pieve di S. Andrea a Iseo (1832-39), dei Ss. Gervasio e Protasio a Cologne (1845), di S. Rocco a Calcinate Bergamasco (1836-40 circa), di S. Martino a Gargnano (1837-39) e, succedendo al defunto architetto Pietro Antonio Cetti, di S. Vincenzo a Calcinato (1831-46), di cui progettò e costruì anche una nuova sagrestia (1839) annessa alla chiesa, di vaga memoria brunelleschiana; l’altare maggiore di S. Michele Arcangelo a Calmasino Veronese (1839); l’altare di S. Giuseppe nella parrocchiale di S. Maria Assunta a Montichiari (1840-42 circa); il pulpito di S. Maria dei Miracoli a Brescia (1841-42); l’altare del SS. Sacramento in S. Maria Immacolata a Nave (1842-43); l’altare maggiore di S. Andrea Apostolo a Pralboino (1844); le bussole ai Ss. Pietro e Paolo a Gottolengo (1841-42); infine i molteplici interventi nel duomo nuovo di Brescia, tra cui l’erezione della grande cupola (su disegno di Luigi Cagnola), il pavimento marmoreo (1834) e l’altare del SS. Sacramento (1842-46). A tutte queste opere debbono essere aggiunte cappelle cimiteriali (a partire da S. Michele al Vantiniano) e private, tra cui quelle di palazzo Tosio a Brescia (1833-34) e palazzo Thun a Trento (1833-34), e la cappella Bevilacqua entro l’omonimo castello in provincia di Verona (1841-45).
Tra le commesse pubbliche, oltre ai cimiteri si annoverano molteplici edifici istituzionali, quali la nuova pretura di Iseo (1826-33), in un curioso stile a metà tra il neoclassicismo e il manierismo veneto-lombardo; la ricostruzione della torre civica, l’erezione delle scuole elementari e l’ampliamento degli uffici comunali di Montichiari, tutti eseguiti tra il 1837 e il 1842; la Scuola di disegno per tagliapietre (1839-58) di Rezzato, oggi palazzo comunale, donata dall’architetto alla comunità; la piazza del Mercato (1840 circa) di Rovato; i nuovi coronamenti per le torri civiche di Manerbio (1843-44) e Leno e il rialzamento del campanile di Caino (1843); infine la fontana di via Dolzani oggi via F.lli Porcellaga (1855-56), ultima opera pubblica bresciana di Vantini. Come nel caso dei cimiteri, un filone autonomo della sua produzione è poi rappresentato dagli ospedali civili, a cominciare dalla risistemazione di quello di Brescia (1831), cui si aggiungono quelli di Travagliato (1823-38) e Chiari (1840-45). Nel 1844 Vantini espresse anche un parere determinante nella definizione del tragitto della linea Chiari-Brescia lungo l’erigenda strada ferrata Ferdinandea tra Milano e Venezia.
Se per l’architetto gli anni Venti rappresentarono l’apogeo delle commesse pubbliche, a partire dagli anni Trenta egli fu letteralmente scoperto dalla più altolocata committenza privata bresciana e bergamasca (ma non solo), la quale gli affidò l’erezione, la ristrutturazione e l’ampliamento delle proprie residenze cittadine e delle prestigiose ville suburbane e di campagna.
Le prime in ordine di tempo sono le case Peroni e Valotti (1824) a Quinzano d’Oglio, casa Araldi a Rubiera (1828), casa Tommasi a Mantova (1829) e il porticciolo dell’Isola di Garda (1830-42), voluto da Luigi Lechi. Fanno seguito i suoi capolavori tra i palazzi privati, ovvero palazzo Tosio a Brescia (1824-40), quasi dirimpetto alla propria dimora, e palazzo Frizzoni a Bergamo (1836-44), oggi sede del Comune; sempre per i Frizzoni ristrutturò una villa a Bellagio (1844-47, poi villa Serbelloni). A questi si aggiungano, tra i ben più numerosi casi citabili, la nuova facciata e l’ampliamento di casa Barbisoni (ora Gramsci) a Brescia per i conti Bettoni e, nella medesima città, la cosiddetta casa alle Tre spade (1831-46) in piazzetta Legnano e il cortile di palazzo Bevilacqua (1832-48); le ristrutturazioni interne a palazzo Thunn (1832-36) a Trento, ora sede del Comune; i due palazzi Beschi a Castiglione delle Stiviere, entrambi eretti tra il 1835 e il 1840 l’uno per Luigi Beschi, l’altro (poi divenuto palazzo Costanza Fattori) per il figlio Francesco; la casa Maggi ora Benasaglio (1836-37) e palazzo Rossa (1832-41) a Brescia; l’oggi distrutta palazzina Martinengo Cesaresco (1838) entro l’omonimo palazzo di Brescia; gli interventi costruttivi e di riarredo entro palazzo Valotti ora Lechi (dal 1841) e palazzo Caprioli (dal 1842) a Brescia.
In merito a questi cantieri, conviene precisare come Vantini fosse un architetto a tutto tondo che, oltre agli edifici, progettava decorazioni e arredi, i disegni per i quali corredava con misure in tre diverse unità metriche (braccia bresciane, milanesi e viennesi). In più di un caso gli fu richiesto di disegnare la mobilia di spezierie e drogherie, come nel borgo di Castelli, oppure le spezierie Zadei a Brescia (le cui scaffalature sono oggi nei depositi dei Civici Musei di Brescia) e Pirlo a Salò (acquisita nel 2017 da F.M. Ricci e ricostruita nel Labirinto della Masone, Fontanellato, Parma). Per villa Brozzoni a Borghetto San Nazzaro a Brescia progettò, oltre all’edificio principale, le serre botaniche, un monumento ai caduti in forma di obelisco, finanche i giochi per il giardino, come documentato da una serie di disegni conservati a Brescia entro il Gabinetto disegni e stampe dei Civici Musei. Non sorprende dunque che, come spesso all’epoca, Vantini disegnasse svariati monumenti funerari (per il solo cimitero di Brescia si ricordino i monumenti Conter, De Pagave, Arici, Martinengo Villagana, Gussago, Raineri, Armanni, Longo e Noy), ma anche più umili lapidi, spingendosi talora a comporne perfino le epigrafi.
In tutte le sue realizzazioni Vantini ebbe sempre modo di dimostrare non solo la sobrietà e l’eleganza del proprio gusto, ma anche l’aggiornamento delle proprie competenze tecniche, come nel caso del celebre monumento Bonomini (1855) a San Fiorano (Brescia), più noto come Tomba del cane, nel quale unì alla pietra bianca e al mattone l’uso della ghisa, in quegli stessi anni alla ribalta nell’ingegneria civile europea.
La sua ampia cultura storico-architettonica lo indusse a volgersi a modelli stilistici di epoche differenti, sempre però meditati e risolti in soluzioni fortemente equilibrate e personali, ben lontane dal pastiche eclettico talora rimproveratogli dalla critica posteriore, aspetto non secondario – insieme all’orizzonte meramente regionale della sua opera – nella sua scarsa fortuna critica fuori del territorio patrio. In linea generale, comunque, nell’opera di Vantini possono rilevarsi tre distinti momenti stilistici, avvicendatisi in modo sfumato nel corso della sua carriera e non di rado alternati a seconda della tipologia della commissione: il gusto neoclassico delle sue prime opere – fortemente pervaso di archeologismo, ma anche di utopismo europeo – convive precocemente con uno stile neocinquecentesco (con particolare predilezione per l’architettura di Michele Sanmicheli), assai diffuso all’epoca e particolarmente evidente nei caselli di porta Orientale ma anche nei palazzi privati, nei quali tuttavia è costantemente temperato dall’esempio stilistico di maestri recenti come Giuseppe Piermarini; per terza la svolta neogotica degli ultimi anni, annunciata fin dai tardi anni Trenta e infine esplosa, dopo il breve viaggio sul Reno del 1847, nel monumento Bonomini, calibrato punto d’incontro tra Karl Friedrich Schinkel e le arche scaligere di Verona.
Vantini fu un entusiasta cultore d’arte, amico di artisti e mecenati, fine collezionista, colto letterato (con una particolare predilezione per la Commedia dantesca), praticante a sua volta, sebbene saltuariamente, la pittura (soprattutto ad acquerello) e il disegno artistico, confezionando anche elegantissimi progetti architettonici (realizzati e non) che venivano a loro volta collezionati. Socio di spicco dell’Ateneo di scienze lettere ed arti di Brescia, la sua cultura e l’eloquio spigliato gli garantirono, uniti al talento, accessi altolocati e universale apprezzamento: tra gli amici più stretti si possono annoverare Paolo Tosio, Luigi Lechi e Leopoldo Cicognara; i pittori Francesco Hayez, Giovanni Migliara, Michele Bisi e Luigi Basiletti; gli scultori Democrito Gandolfi, Giovanni Emanueli e Giovanni Seleroni; architetti e ingegneri come Giuseppe Marchesi, Antonio Tagliaferri e Pietro Paleocapa; letterati e scienziati come Cesare Arici, Camillo e Filippo Ugoni e Camillo Brozzoni.
A Vantini furono concesse molteplici onorificenze da parte di alcune delle principali istituzioni artistiche e culturali della penisola (Costanza Fattori, 1963, p. 7 nota 1): socio della classe degli attivi dell’Ateneo di Brescia (6 giugno 1819); socio corrispondente della I. R. Accademia di belle arti di Milano (3 agosto 1822); socio onorario della Reale Accademia di belle arti di Venezia (1° luglio 1827); socio corrispondente della classe di architettura dell’Accademia di belle arti della Società Reale Borbonica di Napoli (1° luglio 1841); socio d’onore della Pontificia Accademia di belle arti di Bologna (31 gennaio 1842); membro onorario e corrispondente del Royal Institute of British Architects (1° agosto 1850).
La vita privata di Vantini non fu tuttavia delle più felici. Nel 1824 fu sospettato di aver avuto una qualche parte, durante il 1821, nei progetti sovversivi dei cosiddetti Apostoli di Brescia, gruppo di federati bresciani ostili al dominio austriaco, ai quali era legato da rapporti di amicizia; l’accusa presto decadde, ma la sua figura rimase sospetta alle autorità, procurandogli diverse noie. Sfortunata, poi, la sua storia sentimentale, a cominciare dalla prematura scomparsa della coniuge, Elena Lera, sposata nel 1816 e defunta già nel 1820. A questo primo lutto fecero seguito quello del padre Domenico nel 1821; della madre Olivia, cui era legatissimo, nel 1835; e infine dell’affezionata sorella Carolina nel 1839. I modi garbati e un’intelligenza brillante garantirono tuttavia a Vantini un discreto ascendente: dopo la sfortunata morte della prima moglie, tra la seconda metà degli anni Venti e gli anni Trenta intrattenne relazioni con la celebre attrice Carlotta Marchionni, con Cecilia Bucchia (nipote di Paleocapa) e con Camilla Fè, colta dama bresciana, risposandosi infine nel 1844 con la ventiquattrenne Caterina Amistani, che lo assistette devotamente fino alla fine.
Vantini si spense a Brescia, nella casa di contrada Santa Pace, il 17 novembre 1856, e fu sepolto nel cimitero che porta il suo nome, sotto al grande faro.
La sua fisionomia è tramandata dal S. Alessandro, busto in terracotta di Democrito Gandolfi che ne riproduce le fattezze giovanili, posto nella cappella di S. Michele Arcangelo nello stesso cimitero; in un ritratto giovanile realizzato dal padre, oggi in collezione privata; e da un ritratto a olio eseguito nel 1879 da Giuseppe Arassi e conservato presso l’Ateneo di Brescia insieme a un busto in marmo (1857) di Giovanni Seleroni per il quale lo stesso Vantini aveva disegnato il basamento; Seleroni fu anche autore, nel 1858, della statua a figura intera posta entro l’atrio del faro del cimitero.
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