Roma
Il pensiero politico machiavelliano è, in essenza, un confronto razionale fra la storia antica di cui R. fu protagonista e il mondo moderno. A M. l’antica R. offriva un esempio supremo di virtù politica, ossia di «buone leggi», «buone armi» e cittadini «animosi» – una virtù comprovata, al di là di ogni polemica obiezione, dalla lunga durata di quella libertà repubblicana e dalla straordinaria estensione delle sue conquiste. Con drammatica efficacia, proprio l’analisi dell’esempio romano metteva allo scoperto la difettività degli ordini politici moderni e, soprattutto, quella degli Stati italiani contemporanei – repubbliche o principati che fossero. Modalità ed esiti del raffronto sono già evidenti nei primi testi del Segretario (in un colloquio svoltosi a Torcy il 21 novembre 1500, e riferito per lettera ai Dieci, M. raccomandava a Georges d’Amboise, e per tramite suo al re di Francia, di «seguire l’ordine di coloro che hanno per lo adrieto volsuto possedere una provincia esterna», LCSG, 1° t., p. 525), e del tutto espliciti nel discorso del 1503 sul Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati. Imprescindibile nel Principe (iii 29: «e’ romani, vedendo discosto gli inconvenienti, vi rimediorno sempre»; ecc.), come poi nell’Arte della guerra, il riferimento ai Romani ha il suo pieno sviluppo nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Qui lo studio dell’antico «esempio» si fa autentica e penetrante meditazione storiografica, in una prospettiva politico-istituzionale che, del tutto priva di precedenti nella cultura umanistica, trova riscontro direttamente nei grandi storici greci e latini: in Polibio e in Sallustio, oltre che in Livio o Erodiano – per citare solo le presenze macroscopiche. Così che il commento alla prima deca Ab Urbe condita si espande, per aggiunta di specifiche analisi, fino a delineare compiutamente una storia della Repubblica romana: della sua genesi costituzionale (dal prologo nell’età regia fino al dispiegarsi di quella «disunione» fra senato e plebe che, grazie all’ideazione del tribunato, fece «libera e potente» la città), del suo trionfo (la conquista dell’Italia e del mondo) e poi della corruzione (esplosa negli «scandoli» partoriti dalla legge agraria e nelle successive guerre civili) onde l’impero repubblicano si mutò in principato (predestinato però alla rovina): nella visione machiavelliana, lo Stato di Augusto e dei suoi successori non trova autentica positività, e la storia della sua caduta (cfr. Principe xiii 25; Discorsi II xxx 15) appare una storia tutto sommato ‘minore’, a paragone del grandioso dramma consumatosi tra l’avventura dei Gracchi e quella di Cesare.
Per approfondimenti su temi e figure dell’antica storia romana si rinvia alle specifiche voci, tra cui: antichi e moderni; corruzione; costituzione mista; disunione; grandi e popolo; Romolo e i re di Roma; Numa Pompilio; Bruto e la nascita della Repubblica romana; Appio Claudio e il decemvirato romano; Scipione Africano, Publio Cornelio; Gracchi; guerre civili; imperatori romani fino a Marco Aurelio; Settimio Severo e gli altri imperatori dopo Marco.
Pesano sul giudizio e sul racconto di R. medievale la centralità e l’esemplarità nel pensiero politico di M. della vicenda storica e istituzionale di R. antica. Nel I libro delle Istorie fiorentine (di qui in poi abbreviato Ist. fior.), che ha appunto inizio con la caduta dell’impero d’Occidente, R. resta in qualche modo protagonista della narrazione dei fatti occorsi in Italia, protagonista per la sua assenza nel governo della penisola. I grandi e devastanti – anche dal punto di vista simbolico – saccheggi di R., compiuti o solo minacciati (Alarico, gli Unni fermati da papa Leone I, poi i Saraceni respinti dai Romani, Roberto il Guiscardo), insieme al trasferimento della capitale a Ravenna e alla nuova centralità di Costantinopoli, annunciano e sanciscono la fine di un’era. Un passaggio epocale che M. lucidamente individua, per R. e per l’Occidente, nel declino delle autorità civili che si risolse a tutto favore della Chiesa: «lo Imperio romano rovinò più presto e la Chiesa romana più presto crebbe» (Ist. fior. I ix 2); mentre in ambito cittadino, «rimasa Roma sanza principe, i Romani avevono cagione, per loro refugio, di prestare più ubbidienza al papa» (§ 4).
L’incoronazione imperiale di Carlo Magno a R. nell’800, che M. attribuisce sia a papa Leone III sia al popolo romano, fece rinascere l’impero occidentale, ma «cominciò lo imperadore nella elezione ad avere bisogno del papa, e veniva lo Imperio a perdere i gradi suoi e la Chiesa ad acquistargli» (Ist. fior. I xi 4). Quanto al diritto di elezione del papa, Niccolò II – e il riferimento è al Concilio Lateranense nel 1059 – lo sottrasse ai romani per darlo ai soli cardinali (Ist. fior. I xi 6). Il passaggio del diritto all’elezione dell’imperatore dal popolo romano ai principi tedeschi viene invece attribuito da M. alla cacciata di Gregorio V da R. nel 996 a seguito della rivolta capeggiata da Crescenzio, all’aiuto ottenuto da Ottone III per ristabilirlo sul trono pontificio, occupato da un antipapa, e alla volontà del papa di «vendicarsi con i Romani» (Ist. fior. I xiii 6).
I contrasti tra romani e pontefici segnano i secoli centrali del Medioevo e si intersecano con le lotte tra impero e papato. A margine delle vicende italiane di Federico Barbarossa, M. racconta la renovatio Senatus del 1143, ovvero la nascita del comune romano, avvenuta a seguito di una guerra contro Tivoli. Ma non si riferisce a questi fatti come a un’importante novità istituzionale. Insiste, invece, su quello che la storiografia recente (Miglio 1997) ha individuato come il peculiare rapporto di potere tra i romani e il papa, tale da rendere il comune di R. sempre più debole di altri comuni italiani e da spingerlo di tanto in tanto a cercare alleanze con gli imperatori.
I Romani, in questi tempi, per la assenza del papa e per li impedimenti che lo imperadore aveva in Lombardia, avevono ripreso in Roma alquanto di autorità, e andavano ricognoscendo la ubidienzia delle terre che solevono essere loro subiette (Ist. fior. I xviii 12).
Delle dispute sull’elezione dei consoli, subordinata al giuramento di fedeltà alla Chiesa, M. parla a seguito della morte del Barbarossa (Ist. fior. I xx 1). In realtà, fin dal 1143 la suprema magistratura comunale fu quella senatoria (citata in I xxi 1), mentre R. medievale non ebbe mai consoli. Il senatorato diventa l’anello che lega la politica cittadina alle più ampie dinamiche di potere internazionali. Così la carica di senatore, fortemente contesa e conferita a Carlo I d’Angiò nel 1263 (Ist. fior. I xxii 11), interessa ovviamente in primo luogo i rapporti tra i romani e il pontefice, ma le ragioni di questa nomina sono da ricercare nelle vicende della vittoriosa alleanza angioina dopo Montaperti.
Compaiono nelle Istorie, proprio intorno al problema della carica senatoria e alle contese che a tale riguardo contrapposero le famiglie della grande aristocrazia romana e gli interessi internazionali, nuovi protagonisti sulla scena cittadina e dello Stato della Chiesa: i baroni (Carocci 1993). M. sottolinea la creazione da parte dei pontefici di questi nuovi gruppi di potere: stirpi aristocratiche legate a ciascuno di essi da vincoli di parentela e dotate di poteri e patrimoni eccezionali. In particolare – in linea con la condanna di Dante (Inferno xix 70 e segg.) – egli racconta il nepotismo di Niccolò III Orsini (1277-80), che non rinnovò a Carlo d’Angiò la carica di senatore, la dette al proprio fratello, e decretò che tale carica non potesse più essere conferita a un re straniero. Il ritratto che M. lascia di Niccolò III non può non richiamare alla mente le sue riflessioni teoriche sul papato tra Quattro e Cinquecento e in particolare su Alessandro VI: l’Orsini
[...] fu il primo de’ papi che apertamente mostrasse la propria ambizione, e che disegnasse, sotto colore di fare grande la Chiesa, onorare e benificare i suoi. E come da questi tempi indietro non si è mai fatta menzione di nipoti o di parenti di alcuno pontefice, così per lo avvenire ne fia piena la istoria [...] (Ist. fior. I xxiii 11-12; su cui v. anche Cabrini 1985, p. 84).
Sui baroni M. torna anche poco più avanti a proposito di Bonifacio VIII (1294-1303). Con uno sguardo proiettato verso il futuro (la prospettiva contemporanea serve anche in questo caso ad arricchire la comprensione del passato, e viceversa), egli osserva che
I cieli [...] accioché il papa, quando mancasse degli ostacoli oltramontani, non potessi né fermare né godere la potenzia sua, feciono crescere in Roma due potentissime famiglie, Colonnesi e Orsini, accioché, con la potenzia e propinquità loro, tenessero il pontificato infermo (Ist. fior. I xxv 3; su cui v. Cabrini 1985, p. 155).
Una situazione che appare solo ironicamente addebitata al destino, poiché poco prima – come si è visto – essa era stata correttamente imputata al nepotismo degli stessi pontefici. E la guerra che Bonifacio rivolse contro i Colonnesi, legata al conflitto con Filippo il Bello, si risolse soprattutto in un danno per la Chiesa e nel disonore del papa.
Il racconto di Roma nell’età del soggiorno avignonese dei papi (1309-77), a parte un breve cenno all’incoronazione imperiale in Laterano di Arrigo VII di Lussemburgo (1312), costretto ad allontanarsi subito dalla città per l’ostilità degli Orsini e del re di Napoli Roberto d’Angiò (Ist. fior. I xxvi), si anima con l’acclamazione di Cola di Rienzo come tribuno del popolo romano (20 maggio 1347):
[...] una cosa memorabile, che uno Niccolò di Lorenzo, cancellieri in Campidoglio, cacciò i senatori di Roma, e si fece, sotto titolo di tribuno, capo della republica romana; e quella nell’antica forma ridusse, con tanta riputazione di giustizia e di virtù, che non solamente le terre propinque, ma tutta Italia gli mandò ambasciadori; di modo che le antiche provincie, vedendo come Roma era rinata, sollevorono il capo, e alcune mosse da la paura, alcune dalla speranza, lo onoravano (Ist. fior. I xxxi 1).
Segue, dopo lo straordinario successo ottenuto all’inizio, la sua fuga da R., alla fine dello stesso anno, il soggiorno a Praga presso l’imperatore Carlo IV di Boemia, che lo mandò ad Avignone in stato di prigionia. Si accenna poi brevemente alla morte del tribuno a R. (1354) per mano dei Colonnesi. Mancano, tuttavia, nelle Istorie alcuni elementi importanti dell’azione politica di Cola di Rienzo nel 1347, pur presenti, per es., non soltanto nella Cronica dell’Anonimo romano (quasi certamente ignota a M.), ma anche nella cronaca di Giovanni Villani (Nuova cronica, XIII xc, a cura di G. Porta, 3° vol., 1991, pp. 495-98). Non si parla, infatti, dell’appoggio iniziale di papa Clemente VI, che consentì a Cola di ottenere il tribunato; né di questa carica come di una vera e propria signoria sulla città; né del carattere popolare e antimagnatizio del governo di Cola; né, infine, del suo progetto imperiale, esplicitato soprattutto attraverso il gesto provocatorio del bagno nella conca battesimale attribuita a Costantino e durante la cerimonia dell’addobbamento cavalleresco in Laterano (31 luglio-1° ag. 1347); progetto imperiale che allontanò dal tribuno il favore del papa. Ma su queste omissioni ha certamente pesato la scarsa e quasi assente circolazione, fino a metà Cinquecento, delle fonti trecentesche su R. e, soprattutto, dell’anonima Cronica (Miglio 1995). Quel che dunque colpisce di più M. è soprattutto l’incredibile risalita dell’importanza di R., onorata e perfino temuta, nonostante la lontananza del papa, da città e potenze di tutta Italia: quasi un recupero – pur di brevissima durata – dell’antica grandezza.
Dopo il rientro dei papi da Avignone e lo scoppio dello scisma, dopo la coartazione dell’autonomia del comune romano da parte di Bonifacio IX (1398; cfr. Esch 1969), si assiste a una continua dialettica tra cittadini e pontefici sui temi delle libertà municipali. Suppliche, contrattazioni, capitoli con i cardinali prima di ogni elezione pontificia, ma anche episodi di duro scontro. Uno dei più importanti momenti di conflitto tra il popolo romano e il papato fu la cacciata di Eugenio IV da Roma nel 1434, alla quale M. accenna solo per introdurre i risvolti fiorentini e italiani della vicenda (Ist. fior. IV xxxii 1, V ii 5). Ancora nell’ambito dei rapporti tra le potenze italiane, e in particolare in riferimento alla sconfitta e all’allontanamento da Firenze di Rinaldo degli Albizzi, amico del potente cardinale Giovanni Vitelleschi patriarca di Alessandria e capo dell’esercito pontificio, si colloca la drammatica vicenda dell’arresto in Castel Sant’Angelo e della morte del cardinale (1440), divenuto oggetto dei sospetti di Eugenio IV e dei fiorentini (Ist. fior. V xxvii).
Del pontificato di Niccolò V (1447-55) M. ricorda brevemente l’incoronazione dell’imperatore Federico III nel 1452 (Ist. fior. VI xxxvii 1-3). Si sofferma invece a lungo sulla congiura che Stefano Porcari ordì contro il papa nel gennaio del 1453, che fu scoperta sul nascere e portò alla condanna capitale di Stefano e di diversi complici (Ist. fior. VI xxix). Ben informato dei fatti e certamente a conoscenza delle fonti sulla congiura (forse in particolare del De Porcaria coniuratione di Leon Battista Alberti, ma anche – per il racconto della cena offerta ai congiurati e per gli abiti di broccato d’oro indossati da Stefano – di una lettera di autore ignoto, conservata in copia in BNCF, Autografi palatini, CM, VI 6; su cui v. Modigliani 2013), M. definisce in poche parole quella che dal confronto tra le varie fonti appare la reale e più profonda motivazione di Stefano: «trarre la patria sua di mano de’ prelati e ridurla nello antico vivere» (VI xxix 3), un progetto repubblicano che sempre di più contrastava con la piena sottomissione di R. al governo papale. Il capitolo suggerisce anche che Porcari si sia ispirato alla profezia contenuta in “Spirto gentil” di Francesco Petrarca, identificandosi con il «cavalier, che Italia tutta onora» (cfr. Modigliani 2009). Il richiamo petrarchesco invita anche a un confronto con Principe xxvi e con le riflessioni politiche di M. sulla natura del principato ecclesiastico (Sasso 1995; Modigliani 1995). La contiguità tra il brano delle Istorie dedicato a Cola di Rienzo e quello dedicato a Porcari si deve al fatto che M. tende a proiettare su questo la vicenda e le ragioni ideali del tribuno, del quale, come si è detto, egli dà una lettura repubblicana e non imperiale.
Il racconto delle vicende romane fino alla fine delle Istorie (1492) è lo specchio dei comportamenti politici dei vari pontefici che si succedettero sul soglio di Pietro, in una dimensione italiana e non cittadina. Preso atto della piena sottomissione di Roma ai pontefici, M. non appare più interessato alla città se non come sede dell’autorità papale. Ribadisce il potere anomalo non soltanto dei Colonna e degli Orsini, ma anche di nuove famiglie cresciute anch’esse secondo una logica nepotistica, come i Riario, e racconta le loro alleanze indipendenti dalla volontà del papa, che li rendono protagonisti della politica italiana (Ist. fior. VIII xxiii, xxvii, xxviii). I romani, agli occhi di un fiorentino, non appaiono più visibili.
Bibliografia: Fonti: E. Dupré Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia (1252-1377), Bologna 1952; Anonimo romano, Cronica, ed. critica a cura di G. Porta, Milano 1979; G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, 3 voll., Parma 1990-1991.
Per gli studi critici si vedano: A. Esch, Bonifaz IX. und der Kirchenstaat, Tübingen 1969; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine del Machiavelli. Note sulle fonti del Secondo libro, Firenze 1985; S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma 1993; M. Miglio, La cronachistica tardomedioevale italiana (secoli XIV-XV): rilettura, in Bilan et perspectives des études médiévales en Europe, Actes du premier Congrès européen d’études médiévales, Spoleto 27-29 mai 1993, éd. J. Hamesse, Louvain-la-Neuve 1995, pp. 23-34; A. Modigliani, Aporie e profezie petrarchesche tra Stefano Porcari e Niccolò Machiavelli, «RR Roma nel Rinascimento», 1995, 1, pp. 53-67; G. Sasso, Sul ventiseiesimo del Principe. L’uso del Petrarca, «La cultura», 1995, 2, pp. 183-215; M. Thumser, Rom und der römische Adel in der späten Stauferzeit, Tübingen 1995; M. Miglio, Il Senato in Roma medievale, in Il Senato nella storia, 2° vol., Il Senato nel Medioevo e nella prima età moderna, Roma 1997, pp. 117-72; Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 2001; A. Rehberg, A. Modigliani, Cola di Rienzo e il Comune di Roma, 2 voll., Roma 2004; La nobiltà romana nel Medioevo, a cura di S. Carocci, Roma 2006; A. Modigliani, L’addobbamento cavalleresco di Cola di Rienzo (con una postilla petrarchesca), in Cavalieri e città, Atti del III Convegno internazionale di studi, Volterra 19-21 giugno 2008, a cura di F. Cardini, I. Gagliardi, G. Ligato, Ospedaletto 2009, pp. 91-105; A. Modigliani, Congiurare all’antica: Stefano Porcari, Niccolò V, Roma 1453. Con l’edizione delle fonti, Roma 2013.
Vale ancor più per gli anni successivi al 1492 quanto già si è osservato sulla seconda metà del Quattrocento: R. entra negli scritti di M. in quanto sede del papato e non per un ruolo autonomo svolto dalla città. Tra i protagonisti ‘romani’ del Principe (ma anche degli altri scritti di M. di interesse contemporaneo) troviamo infatti, oltre ai papi, soltanto alcuni esponenti delle grandi casate baronali, Orsini e Colonna. Il loro enorme potere, anche militare, ostacolava, per es., il progetto di Alessandro VI di «fare grande il duca suo figliuolo»: «l’arme di Italia» di cui avrebbe potuto servirsi erano, infatti, «nelle mani di coloro che dovevano temere la grandezza del papa – e però non se ne poteva fidare – sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici» (Principe vii 10 e 12). I baroni romani giocano liberamente nello scacchiere politico e militare della penisola, come dimostra la ribellione di Paolo Orsini, condottiero di Cesare Borgia, insieme a Vitellozzo Vitelli e a Oliverotto Euffreducci nel 1502; cui seguì la nota vendetta del Valentino, oggetto della riflessione politica di Machiavelli. Dopo la morte di Alessandro VI, il Valentino fu costretto a operare per «guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma [...] per potere con quelli tenere il papa in freno» (Principe vii 33). E riflettendo sui principati ecclesiastici, sulla discesa in Italia di Carlo VIII (1494) e sugli equilibri tra le potenze italiane, M. ricorda la guerra di Ferrara (1482), quando, a contrastare il blocco tra veneziani e Sisto IV in difesa di quella città, tutte le altre potenze fecero leva sulle discordie tra i baroni romani:
a tenere basso il papa, si servivono de’ baroni di Roma, li quali sendo divisi in due fazioni, orsine e colonnese, sempre vi era cagione di scandolo in fra loro, e, stando con le arme in mano in su li occhi al pontefice, tenevano il pontificato debole e infermo (Principe xi 8).
Nella prima legazione alla corte di Roma, immediatamente successiva alla morte di Pio III, M. racconta le dinamiche del conclave dal quale risultò eletto Giulio II e gli esordi del suo pontificato. Oggetto principale delle preoccupazioni del nuovo papa e dell’attenzione di M. è ancora il Valentino che, se durante il pontificato del padre era – pur nell’autonomia delle sue decisioni – comunque parte integrante della politica di papa Borgia, dopo la morte di questo appare un soggetto politico pienamente autonomo, simile ai grandi baroni romani. Reso potente da un papa non più regnante, costituiva comunque – pur indebolito rispetto ai tempi felici delle grandi conquiste – un pericolo per Giulio II e un ostacolo alla piena sottomissione delle terre della Chiesa. Per questa ragione, la prima preoccupazione di papa Della Rovere fu il controllo delle fortezze di Romagna (M. ai Dieci, 2 dic. 1503, LCSG, 3° t., pp. 434-37). Giulio II costruiva le sue reti di alleanze, già costituite durante il conclave (Francia, Spagna, i baroni romani) e si comportava come un principe nello scacchiere internazionale, ma prerogativa di un pontefice – sottolineata da M. – è anche quella di esaltare il proprio potere nello spirituale e nel temporale, il proprio ruolo di superiore arbitrato su tutte le potenze, attraverso le cerimonie. «Qui non si è pensato poi ad altro che a festeggiare, e tuttavolta si pensa [...]»; e si racconta la solenne cerimonia del possesso in Laterano, con ampio ricorso all’effimero («tabernaculi, archi triunfali e templi fatti per strada», M. ai Dieci, 6 dic. 1503, LCSG, 3° t., pp. 44344; cfr. Blasio 2010).
Il ragionamento sulla peculiarità del principato ecclesiastico, di cui si trovano cenni anche nella seconda legazione del 1506 (M. ai Dieci, 28 ag. 1506, LCSG, 5° t., pp. 431-38), diventa oggetto primario delle riflessioni di M. nel cap. xi del Principe. Rispetto ad altri pontefici e, in particolare, ad Alessandro VI, Giulio II è degno di lode per essere riuscito ad arginare il potere dei baroni:
[...] lui fece ogni cosa per accrescere la Chiesa e non alcuno privato. Mantenne ancora le parte orsine e colonnese in quelli termini le trovò. E benché fra loro fussi qualche capo da fare alterazione, tamen dua cose gli ha tenuti fermi: l’una, la grandezza della Chiesa che gli sbigottisce; l’altra, il non avere loro cardinali, e’ quali sono origine de’ tumulti intra loro: né mai staranno quiete queste parte qualunque volta abbino cardinali, perché questi nutriscono, in Roma e fuori, le parte, e quelli baroni sono forzati a difenderle; e così da la ambizione de’ prelati nascono le discordie e e’ tumulti in tra e’ baroni (Principe xi 15-17).
L’indebolimento di baroni e aristocrazie vecchie e nuove è la condizione necessaria per l’affermazione e il rafforzamento di uno Stato. Questa era la consapevolezza che legava le linee politiche antimagnatizie del Duecento e del Trecento romano con le lotte contro lo strapotere baronale intraprese dai papi del 15° secolo. Su queste idee e pratiche politiche si innesta – arricchita dall’esperienza del presente – la magistrale riflessione teorica di M. nel Principe. E i principati ecclesiastici, se sono ben governati e riescono a risolvere le pericolose derive nepotistiche, possono essere più forti di ogni altro Stato, «perché sono sustentati da li ordini antiquati nella religione» (Principe xi 1).
Nel gioco complesso e dagli orizzonti sempre più vasti della politica europea, R. accresce la sua importanza come centro della diplomazia internazionale e cassa di risonanza delle notizie, delle voci, delle congetture che riguardano le varie potenze d’Italia e d’oltralpe. Di tutto questo, e delle vicende dei pontificati di Alessandro VI (1492-1503), Pio III (1503), Giulio II (1503-13), Leone X (1513-21), Adriano VI (1522-23) e Clemente VII (1523-34), per i quali si rinvia alle voci di questa enciclopedia, restano – tra le altre – la preziosa testimonianza di M. e dei suoi corrispondenti nell’epistolario e nelle legazioni.
Bibliografia: G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Bologna 1980; E. Cutinelli-Rendina, Per la storia del giudizio di Machiavelli sulla Chiesa: la legazione a Giulio II in marcia (26 agosto-26 ottobre 1506), «Rivista di storia della storiografia moderna», 1988, 2-3, pp. 17-39; La nobiltà romana in età moderna. Profili istituzionali e pratiche sociali, a cura di M.A. Visceglia, Roma 2001; M.G. Blasio, Machiavelli, Giulio II, il principato ecclesiastico, in Metafore di un pontificato. Giulio II (1503-1513), Atti del Convegno, Roma 2-4 dic. 2008, a cura di F. Cantatore, M. Chiabò, P. Farenga et al., Roma 2010, pp. 27-43.