Roma
Dell''idea di Roma', strettamente congiunta con il progetto politico di una renovatio, di una 'rinascita', variamente intesa e sognata, di Roma antica, sono stati volta a volta portatori, nel Medioevo: il popolo di Roma o un esponente o una parte di esso (nel sec. X, Alberico; nel XII, i restauratori del senato; nel XIV il più 'fantastico', e al tempo stesso il più operativo, Cola di Rienzo); imperatori (sullo scorcio del sec. X e nel primo biennio del successivo, Ottone III; nella seconda metà dell'XI, Enrico IV; nella seconda metà del XII, Federico Barbarossa; nella prima metà del XIII, come vedremo, Federico II); e nel segno di Pietro e di Paolo, non più di Romolo, di Cesare e di Costantino, anche papi (già nel sec. V, Leone I; poi nella seconda metà del IX, Giovanni VIII e, a partire dalla metà dell'XI ‒ da quando, cioè, il Constitutum Constantini, che mirava a fare di papa Silvestro e dei suoi successori dei quasi-imperatori, era stato riesumato e usato senza esitazioni dalla Sede Apostolica ‒, molti altri vescovi di Roma). Questi citati sono solo gli esempi che vengono alla mente per primi. Si avrebbe comunque torto a disporli in un'unica sequenza ordinata cronologicamente, facendo di ogni erba un fascio, come se fossero i momenti di uno sviluppo progressivo, o anche solo a disporli in tante sequenze separate, quante sono le tipologie dei portatori di questa idea.
Lo sfondo è ovviamente comune e consiste nella storia straordinaria di una città senza pari. Ciascun esempio, e gli altri che si potrebbero aggiungere a questi, richiede però di essere preso in considerazione in rapporto alle situazioni particolari in cui l'idea in fin dei conti stravagante di chi si proponeva di rinnovare i fasti di Roma antica o, peggio ancora, avanzava la pretesa di averli già rinnovati, diventava un'idea-forza tale da condizionare le forze reali in gioco in quel determinato momento.
Anche a voler prendere in considerazione due casi cronologicamente abbastanza vicini e, per di più, relativi a un nonno e a un nipote, come sono quelli dei due omonimi imperatori svevi, ci si rende subito conto che l''idea di Roma', di cui si sono fatti entrambi portatori, ha, sì, tratti comuni, come il rilievo che danno tutti e due all'universalità del diritto romano, ma anche motivazioni, accenti e funzioni diversi (a differenza di Corrado III e del Barbarossa, Federico II riconobbe la validità della lex regia), e soprattutto s'incontra e si scontra con una realtà di Roma città e del papato, che, nel giro di qualche decennio, era profondamente mutata. Basti dire che se, tra il 1159 e il 1180, durante il regno del Barbarossa, furono eletti ben cinque antipapi filoimperiali in contrapposizione ad Alessandro III, durante il regno di Federico II, nonostante l'aspro conflitto in atto fra le due potestà universali dal 1227 fino alla morte dell'imperatore ‒ salvo qualche parentesi di tregua dopo il 1230, sotto il pontificato di Gregorio IX, e all'inizio di quello del suo successore, Innocenzo IV ‒, non solo non furono eletti antipapi, ma una loro elezione, dopo un pontificato come quello di Innocenzo III, non sarebbe stata neppure immaginabile.
È improbabile che quando, alla metà di aprile del 1212, Federico, non ancora diciottenne, fece tappa a Roma diretto verso la Germania, dove i principi, riu-niti a Norimberga, avevano deciso di eleggerlo re dei Romani ‒ rinnovando l'atto che era già stato compiuto, vivo ancora suo padre Enrico VI, a Francoforte ‒, fosse già imbevuto dell''idea di Roma'. Il nome di Costantino, che gli era stato attribuito dalla madre subito dopo la nascita, molto probabilmente era stato scelto per la sua assonanza con Costanza e non perché era il nome del primo imperatore romano cristiano. L'ambiente in cui Federico Ruggero, come venne poi battezzato, trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza, era infatti saturo di troppi umori, sia indigeni che esotici, per lasciare posto anche a questo, benché si racconti che passasse le serate leggendo la Armata historia, una narrazione di battaglie e di guerre dell'antichità. Di sicuro si sa che, dal 1215, il suo sigillo recava impresse le leggende "Aurea Roma" e "Roma caput mundi regit orbis frena rotundi", che, proprio perché triviali (cf. Schramm, 1929, pp. 36 s.), non lasciano dubbi sul fatto che l'ormai ventunenne re di Sicilia e dei Romani aveva fatto la sua scelta in proposito.
Più incerto è l'impatto che avevano potuto avere su di lui l'accoglienza (Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des Kaiserreiches […], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, 1881-1901: 1, p. 660*b) e il cerimoniale, concepito come una specie di prova generale della sua elevazione all'Impero, che gli furono riservati durante le giornate romane dell'aprile 1212. In un messaggio del marzo/aprile del 1238 al senatore, al senato e al popolo romano (Acta Imperii inedita, II, nr. 30, pp. 28-29), Federico insisterà sulla precocità ("Ardens semper fuit cor nostrum ab etatis principio") della sua iniziazione al culto di Roma, avvenuta quando non era che re, rispetto alla quale l'incoronazione imperiale del novembre 1220 aveva apportato solo l'incremento di una continuata voluntas, di un'adesione ininterrotta e appassionata a quel culto, che da allora (dal 1212?) fino a tre, quattro mesi dopo la vittoria sui comuni della Lega lombarda, ottenuta nel novembre dell'anno precedente, che era il momento in cui scriveva, non aveva mai conosciuto cedimenti.
A conferma dell'importanza che le giornate romane del 1212 avevano avuto sotto questo profilo per lui o, ciò che non fa una grande differenza, dell'importanza che egli ritenne di dare loro aposteriori, come del momento fondatore del suo avvento all'Impero, può essere citato il passo della lettera (Historia diplomatica, V, 1, pp. 161-163), diretta anch'essa ai romani nel gennaio, sempre del 1238, che accompagnava l'invio dei resti del carroccio milanese, catturato sul campo di Cortenuova (v. Cortenuova, battaglia di), nel quale rende atto all'urbs regia/causa imperii di averlo "designato a raggiungere in Germania il culmine dell'impero, come, dalle braccia di una madre, il figlio", e ascriveva a titolo di merito per i romani ciò che nel frattempo aveva felicemente compiuto e gli consentiva di tornare, circonfuso dalla gloria della splendida vittoria conseguita, nella città "da cui era allora partito pieno di timore per la sorte che lo attendeva". Naturalmente, trattandosi di una missiva ai romani, non tutto è da prendersi alla lettera. Nella circolare del dicembre 1237 (ibid., pp. 147-149), in cui dà notizia della recente vittoria di Cortenuova ai principi tedeschi ‒ destinatari animati da sentimenti che, non occorre dirlo, non erano certamente gli stessi dei destinatari dell'epistola succitata ‒, Pier della Vigna non manca di riferire l'episodio di alto valore simbolico della cattura del carroccio milanese, "prima affollato di soldati, poi ridotto a uno spoglio e traballante intreccio di travi di legno", che Federico ha destinato "ad alme urbis populum", ma senza attardarsi a spiegare la ragione di questo dono ai romani, che viene proclamata nell'altra sede e fatta consistere nell'impossibilità di escluderli dal tripudio per una vittoria che era stata anche loro.
Nel rivolgersi ai romani, diciotto anni dopo l'incoronazione del 1220 e ventisei dopo la joyeuse entrée del 1212, Federico mostra, dunque, implicitamente di ritenere che ad essi, non ai principi tedeschi o a Innocenzo III, e tanto meno al re di Francia Filippo II Augusto, che pure aveva autorevolmente caldeggiato la sua candidatura, egli doveva la sua ascesa all'Impero. Pezza giustificativa, per altro non menzionata, della sua versione dei fatti era la lex regia o lex de imperio, che attestava il passaggio dell'imperium, detenuto originariamente dal popolo romano, a un nuovo detentore, l'imperatore. Questa legge, richiamata da due importanti passi contenuti nel Corpus iuriscivilis giustinianeo (uno del Codice, l'altro del Digesto), ci è giunta in un solo esemplare, la "granne e mannifica tavola de metallo con lettere antique scritta", conservata nella Sala del Fauno del Museo Capitolino, "la quale nessuno sapeva leiere né interpretare, se non solo esso", cioè ‒ a suo tempo ‒ Cola di Rienzo (Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano 1979, p. 147).
Da una data imprecisata, che è da porsi comunque nel sec. XII, questa legge, di cui non si conosceva ancora il tenore, ha costituito il motivo dominante delle ricorrenti attese di renovatio nutrite dai romani e, in quanto volte a rintuzzare le crescenti pretese avanzate dai papi nei loro confronti, anche dagli imperatori. La lex regia si prestava però, mal conosciuta com'era, a differenti interpretazioni su due punti capitali attinenti proprio a ciò che ora ci interessa: i diritti che potevano far valere i romani di Roma contemporanei. Il primo consisteva nella questione se la lex sancisse il 'trasferimento' dell'imperium dal popolo romano all'imperatore come avvenuto una tantum e irrevocabile, o non, invece, una 'concessione' che veniva rinnovata ogni volta che i romani eleggevano un nuovo imperatore. Il secondo concerneva la questione se con 'popolo romano' si dovevano intendere i cittadini romani o i romani dell'Impero che da Roma traeva il nome (Dupré Theseider, 1942, pp. 13-15).
Il richiamo alla lex regia, manifestamente 'provocatorio' nei confronti di Gregorio IX, cui è riservata una 'costituzione chiave' (I, 31) del Liber Constitutionum del 1231, è formulato in modo ambiguo per ciò che concerne il primo dei due punti controversi, mentre l'accenno ai Quirites suona come un accoglimento indiretto dell'interpretazione più restrittiva e localistica della nozione di 'popolo romano'. In realtà, ciò che interessava all'imperatore, qui in veste di legislatore, era di includere esplicitamente nell'imperium l'esercizio dello "ius condendae legis", che egli stava, appunto, praticando.
Per ciò che riguarda, invece, l'incertezza fra translatio e concessio, in più di un caso Federico, contrariamente a quello che lascia intendere nella lettera al senatore, al senato e al popolo romano del gennaio 1238, fa propria la distinzione fra un momento iniziale, collocato addirittura "in Urbis initiis, post memorabile Troianorum exitium et deletam tam inclitam civitatem", quando la sovranità e il diritto di eleggere l'imperatore appartenevano ai patres, ai senatori, di quella nuova comunità, e "una fase successiva, caratterizzata dalla progressiva estensione territoriale dell'impero e dall'infiammarsi del valore [calescente virtute], fase nella quale la sommità di una così grande prosperità non poté continuare a essere contenuta in un'unica città, benché regale in confronto alle altre. Ma, dopo avere peregrinato girovagando per terre anche molto remote, quella sommità, per ragioni non solo degne di approvazione ma anche necessitanti, prese infine stabile dimora presso i principi tedeschi, di modo che l'impero avesse la sua fonte in coloro che lavorano per il suo interesse e la sua difesa" (Decretum electionis [di Corrado IV] del febbraio 1237, in M.G.H., Leges, Legum sectio IV:Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, 1896, nr. 329, p. 440). In altre occasioni, Federico sorvola addirittura di dare conto del momento iniziale, ritenendolo evidentemente scontato. Così fa nell'Encyclica de excommunicationesua del 6 dicembre 1227 (ibid., nr. 116, p. 150), dove, dopo avere lamentato, a differenza di ciò che farà altre volte, il modo incongruente e mancante di vigore in cui Innocenzo III aveva esercitato la tutela nei suoi confronti e averlo rimproverato per avere puntato, alla morte di suo padre Enrico VI, su Ottone invece che su di lui ‒ una decisione di cui oltretutto avrebbe pagato il fio ‒, racconta come, non essendosi trovato un altro che volesse assumere la dignità imperiale in contrapposizione a lui e al suo buon diritto di figlio ed erede di Enrico VI, i principi, "dall'elezione dei quali mi era dovuta la corona dell'impero", lo elessero re dei Romani. Una versione che, tutta incentrata com'è sulla rivendicazione del diritto ereditario di Federico, mette in dubbio il diritto dei principi tedeschi di scegliere il nuovo imperatore, che almeno nel suo caso, ma probabilmente guardava oltre, era stato un atto dovuto. È da notare che Federico mandò a Roma Roffredo da Benevento con il testo dell'enciclica, benché non propriamente intonato agli umori dei romani, che "il maestro fa leggere in Campidoglio, per volontà del senato e del popolo romano" (Riccardo di San Germano, Chronica, in R.I.S.2, VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938, p. 149).
Quanto a Innocenzo III, che aveva notoriamente avuto una parte di assoluto rilievo negli avvenimenti del 1212, Riccardo di San Germano racconta che il 20 novembre 1215, all'inizio della seconda sessione del IV concilio lateranense, Berardo, arcivescovo di Palermo, sollevò il problema della contestata elezione di Federico II a re dei Romani, che ‒ sia detto fra parentesi ‒ Innocenzo non aveva posto all'ordine del giorno, dichiarandosi a favore di essa. Alcuni milanesi lo interruppero, chiedendo che fosse loro concesso di prendere la parola a favore di Ottone IV. Ne nacque un tumulto, sedato il quale uno di loro, avuta la facoltà di parlare, lesse una lettera del deposto imperatore, nella quale chiedeva di essere assolto. Intervenne allora Bonifacio, marchese del Monferrato, che enunciò sei motivi per cui la condanna di Ottone andava confermata. Il quinto era "perché, in disprezzo della Chiesa romana, chiamò re dei preti re Federico". Innocenzo confermò punto per punto le accuse di Bonifacio, suscitando un nuovo tumulto, che lo indusse ad abbandonare i lavori. Nella terza e ultima sessione, il 30 novembre, il papa dichiarò l'elezione di Federico "per principes Alamannie factam legitime" (ibid., pp. 71-72 [Chronica priora] e 61-62). Con buona pace dei romani e della lex regia, era evidentemente il modo più opportuno per tagliare corto alla ormai annosa questione. Sarà Innocenzo IV a richiamarsi all'investitura popolare dell'imperatore, per meglio assicurare a se stesso il monopolio dell'investitura divina: "papa habet imperium a Deo, imperator a populo" (Kantorowicz, 1976, p. 334), che Federico II non esitava a contestare, anche se, accanto a Dio, aveva la discrezione di fare posto al vescovo di Roma: "Federicus Dei et sui [di Innocenzo III, cui la Promissio Argentinensis, del 1o luglio 1216, era diretta] gratia Romanorum rex et semper augustus et rex Sicilie" (M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones, II, nr. 58, p. 72), salvo riferirsi, nel proemio al Liber Constitutionum, che pure ‒ come s'è visto ‒ reca alla I, 31 il richiamo alla lex regia, alla sua sola investitura divina per quanto riguarda sia l'Impero che gli altri Regni: "Nos itaque, quos ad imperii Romani fastigia et aliorum regnorum insignia sola divine potentie dextera preter spem hominum sublimavit".
Se, nel fare i conti con l''idea di Roma', l'imperatore siculo-svevo riusciva ancora a destreggiarsi con una certa facilità, anche perché assistito dalla versatile penna di Pier della Vigna, ben più complicato, ma per lui ineludibile, era il problema di farli con Roma stessa. "Roma non domina più il mondo, ma per dominarlo, non si può fare a meno di avere potere su Roma" (Schramm, 1929, p. 219). Più di ogni altro imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II cercò di conseguire l'obiettivo di stabilire con Roma un rapporto più stretto e, comunque, diverso da quello che si risolveva nel recarvisi per esservi incoronato e nel rimettervi piede solo in qualche rara occasione per prendere parte a una cerimonia e ripartirne al più presto, anche per respirarne il meno possibile l'aria malsana. Ma il suo proposito non consisteva tanto nel rendere più frequenti e più lunghe le sue presenze in città, che furono scarse e brevi, a differenza di quelle, per esempio, del suo predecessore Ottone III, quanto nella volontà di affermare una presenza stabile e significativa dell'autorità dell'Impero, che si diceva romano, all'interno delle sue stesse mura. Un proposito, questo, che inevitabilmente lo costrinse a un continuo confronto con due 'rivali' locali, "i papi prima, i romani poi" (Kantorowicz, 1976, p. 445), che si facevano forti, gli uni del Constitutum Constantini e della tradizione di cinque secoli di sostanziale sovranità temporale, gli altri della lex regia e di un secolo di contestato, ma a tratti rifiorente, governo comunale, che guardava al modello, inviso quanto altri mai agli occhi di Federico, dei comuni dell'Italia centrosettentrionale. Sempre Kantorowicz (ibid., p. 448) coglie la centralità di questa opzione di fondo cui Federico, in particolare a partire dalla vittoria di Cortenuova, ispirò la sua politica imperiale o, più semplicemente, la sua politica, portandolo alla sconfitta finale: "'Il suo cuore non batteva per altro che per la signoria e la sovranità di tutto il mondo', dichiarò più tardi Brunetto Latini [...]. Ma la signoria mondiale di Federico non minacciava gli altri sovrani [...]. Questa signoria mondiale romana dello Staufen non era da conquistare sui campi di battaglia di Gallia e di Spagna, d'Egitto e di Polonia, ma a Roma, la sola meta a cui Federico doveva rivolgere i suoi disegni. Contro ogni concetto moderno di espansionismo organico [sembra evidente dall'accenno alla Spagna e all'Egitto che l'autore si riferisca all'esempio di Napoleone], quest'ultimo imperatore in ascesa verso il dominio universale conteneva e consolidava sempre più i suoi cerchi in uno spazio dato: bisognava costringere l'ampiezza spirituale dell'impero romano [...] a condensarsi compatta attorno al nucleo originario", cioè Roma e l'Italia centrale. Ciò rendeva l'obiettivo di una "signoria mondiale" altrettanto difficile da raggiungere perché comportava non solo un attacco diretto al dominio temporale dei papi, rilanciato dalla politica delle recuperationes avviata con decisione da Innocenzo III, ma era anche di disturbo alla politica del comune di Roma, che mirava a creare un distretto di sua pertinenza nel Lazio, sull'esempio di ciò che stavano facendo da tempo i più intraprendenti e dotati di carica espansiva dei comuni centrosettentrionali. In altre parole, l''idea di Roma' nella sua versione imperiale finiva col dettare la politica federiciana soprattutto sul fronte più delicato, che era quello dei rapporti, già di per sé difficili, col papato.
Nell'Encyclica de curia Placentiae celebranda, del maggio 1236, Federico affermava, senza lasciare ombra di dubbio sulle sue intenzioni: "ritengo che non per altro la provvidenza del Salvatore diriga così generosamente e, addirittura, straordinariamente i nostri passi, [...] se non perché quell'Italia di mezzo [Ytalie medium], che è circondata da tutti i lati dalle nostre milizie, ritorni all'obbedienza di nostra Serenità e all'unità dell'impero" (M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones, II, pp. 267 s.). Non era più solo la preoccupazione di assicurare la contiguità territoriale fra Regno di Sicilia, Regno d'Italia e le altre terre dell'Impero a indurre Federico ad adoperarsi per rafforzare la presenza siculo-imperiale nell'Italia centrale, ma un dichiarato disegno di annettersi l'intera regione, senza nessun riguardo per i diritti, che vantavano, o le pretese, che avanzavano su di essa la Chiesa e il comune di Roma. Chiesa a parte, era difficile che gli stessi romani potessero sentirsi lusingati per il solo fatto di essere chiamati da Federico "sui conromani", nell'intitulatio, e la loro città "nostri caput et autrix imperii", all'inizio di una lettera che oltretutto consisteva in un susseguirsi di rimproveri perché nessun appartenente alla tribus Romulea, fosse egli uno dei proceres, uno della folla dei Quiriti o uno dei milites, si era levato a protestare contro il rinnovo della scomunica inflittagli da Gregorio IX un anno prima (la lettera è del 20 aprile 1239), consentendogli di "impie blasphemare", proprio a Roma, ciò che egli non avrebbe osato fare altrove, contro l'imperatore romano. Se avessero continuato a dimostrarsi inerti e negligenti, dovevano sapere che solo per uno speciale favore, non certo perché avesse paura, egli li aveva colmati di benefici e, dunque, non avrebbe esitato a mutare il suo atteggiamento nei loro confronti (Historia diplomatica, V, 1, pp. 307-308).
Non che Federico, a parte le belle parole, non offrisse ai romani anche prospettive concrete di avanzamento. Lo fa nella lettera, già citata, di giusto un anno prima (Acta Imperii inedita, II, nr. 30, pp. 28-29), in cui chiama proceres e cives a condividere, fianco a fianco con lui ("circa latus nostrum"), l'onere del governo dell'Impero, sia a corte, sia nell'amministrazione dei Regni, delle regioni e delle province, che in altre cariche pubbliche, a seconda della loro nobiltà e operosità, in modo che "la felix Roma, che ha trasferito tutte le cariche e i suoi diritti all'imperatore [di nuovo, la lex regia!], diventando partecipe degli oneri, che egli si è assunto, e collaboratrice degli sforzi, che sta compiendo, non fosse privata degli onori che essa stessa ha incrementato". Ma questa era solo la premessa di carattere generale. Venendo al modo in cui intendeva mettere subito in pratica l'apertura prospettata in precedenza, la lettera prosegue facendo i nomi e i cognomi dei quattro proconsoles (li designa all'antica così!), suoi prediletti, che per l'intanto i destinatari di essa erano sollecitati a far pervenire senza indugio alla sua presenza, "in modo che felici tempore nostro rifulga nella città di Roma l'onore del sangue romuleo, sia restaurata la dignità dei romani e venga a crearsi un legame indistruttibile di buona armonia fra l'impero romano e i romani".
I nomi dei quattro prescelti, Napoleone di Giangaetano Orsini, il conte Giovanni di Poli, Oddone Frangipane e Angelo Malabranca, ricorrono, com'era da attendersi, nell'indice dei nomi del libro di Sandro Carocci sui Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento (Roma 1993). Era infatti prevalentemente a questo livello della società romana del tempo, quello più alto, che Federico cercava coloro che riteneva potessero essergli d'aiuto nel suo tentativo, fallito, di penetrazione nel tessuto politico cittadino. Anche se non è certamente attendibilissima la testimonianza del cronista Burcardo di Ursperg, secondo cui i nobili romani che si risolsero a rispondere positivamente al suo appello sarebbero entrati con lui in un rapporto di dipendenza feudale, come era il caso dei molti che avevano intrecciato lo stesso rapporto col papa, non esitando di fronte alla possibilità di servire a un tempo due padroni, è però molto probabile che questo sia stato invece vero per i Frangipane, che vendettero a Federico tutti i loro beni situati a Roma, compreso un edificio, cui veniva attribuito un notevole valore militare, come la Turris cartularia, adiacente all'arco di Tito, ricevendoli poi in feudo dallo stesso acquirente (cf. Thumser, 1996, p. 129). Non a caso, i Frangipane, che erano stati fino a quel momento uno dei più potenti casati di Roma, seguirono nella disgrazia la sorte dello Svevo.
Nell'Encyclica accusatoria contra Gregorium IX del 20 aprile 1239 (M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones, II, nr. 215, p. 291), Federico accusa fra l'altro il papa dell'atteggiamento a dir poco sleale che aveva tenuto contro di lui, quando, per avere ceduto alle sue pressioni, si era risolto a mandare delle truppe in difesa di Viterbo, città dello Stato della Chiesa, che i romani avevano cinto d'assedio, intendendo impadronirsene. Federico aveva dato così una dimostrazione di buona volontà nei confronti del pontefice, accettando di combattere contro i romani, "excellencie nostre devotos", mentre Gregorio, per tutto contraccambio, aveva inviato ad essi di nascosto delle lettere, dicendo che l'imperatore aveva agito a sua insaputa, senza che gli avesse chiesto di farlo, solo per l'odio che portava ai romani medesimi. Roma, cuore dell'Impero, non sarebbe stata mai sua.
fonti e bibliografia
P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, Leipzig 1929.
E. Dupré Theseider, L'idea imperiale di Roma nella tradizione del medioevo, Milano 1942, in partic. pp. 173-196.
F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo (1859-1872), II, Torino 1973, pp. 1165-1272.
E. Kantorowicz, Federico II, imperatore (1927), Milano 1976, pp. 445-525 e passim.
M. Thumser, Rom und der römische Adel, in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 425-438.