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Al centro della regione dei Grandi Laghi, il Ruanda è stato sconvolto da una sanguinosa guerra civile che nel 1994 ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale per quello che l’allora segretario delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali definì il ‘genocidio ruandese’. Superata la fase di massima emergenza, una genuina competizione multipartitica è oggi viziata dal presidente della Repubblica del Ruanda Paul Kagame, che monopolizza il sistema politico senza lasciare spazio a una vera opposizione non violenta. Molti dissidenti politici operano dall’esterno, nel tentativo di coalizzarsi per contrastare quello che viene considerata la dittatura del partito di governo, il Rwandan Patriotic Front (Rpf).
Ex colonia tedesca, poi affidata al Belgio attraverso un mandato internazionale e infine, con l’indipendenza nel 1962, legata all’influenza del Belgio e soprattutto della Francia, il Ruanda di Kagame e dell’élite anglofona del Rpf, formatasi negli anni dell’esilio ugandese, ha sperimentato una svolta storica entrando nel Commonwealth (novembre 2010) e coronando così la sua piena reintegrazione nella comunità internazionale.
Gli anni della guerra civile sono all’origine dell’attuale assetto politico del paese. Dopo aver per anni ricercato l’unità nazionale attraverso la discriminazione dei Tutsi, il regime a partito unico (Mouvement Révolutionaire National pour le Développement), guidato da Juvénal Habyarimana e appoggiato dalla maggioranza hutu, entrò in crisi nel settembre 1990 quando il Rpf diede il via a una serie di azioni armate dalle sue basi in Uganda. Il Rpf era formato da esuli tutsi che per gran parte avevano militato nel Resistance Army del presidente ugandese Yoweri Museveni. Incalzato dal Rpf, Habyarimana annunciò nel luglio 1991 la transizione al multipartitismo e aprì a un lungo negoziato che il 4 agosto 1993 portò alla firma degli Accordi di pace di Arusha.
Il 6 aprile 1994 venne abbattuto da un missile l’aereo sul quale viaggiava Habyarimana insieme al presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira: entrambi rimasero uccisi. A tutt’oggi non è stata fatta luce sull’episodio che ha dato seguito ad accuse vicendevoli tra il Rpf e i sostenitori di Habyarimana, anche se nel 2006 un giudice francese ha concluso che fu proprio Kagame a ordinare l’abbattimento del velivolo per poter dare il via a quell’offensiva politica e militare che lo avrebbe poi portato al potere: in risposta, il governo di Kigali interruppe le relazioni diplomatiche con Parigi, riprese poi nel 2010.
A torto o a ragione l’abbattimento dell’aereo presidenziale venne preso a pretesto dagli estremisti hutu per massacrare gli oppositori. Tra l’aprile e il luglio 1994 furono 800.000, forse un milione, i Tutsi e gli Hutu uccisi brutalmente dalle bande dell’Interahamwe (organizzazione paramilitare degli Hutu), mentre due milioni di ruandesi cercarono riparo in Tanzania, Burundi e Congo (allora Zaire). La forza di pace delle Nazioni Unite, che era stata dispiegata a seguito degli Accordi di Arusha, venne attaccata e dopo l’uccisione di alcuni militari di nazionalità belga lasciò il paese, incapace di fermare il conflitto.
Sotto l’offensiva del Rpf le forze armate ruandesi vennero rapidamente sconfitte e nel 1994 il Rpf pose fine alla guerra civile, costituendo un governo di transizione che portò alla presidenza della Repubblica e a capo dell’esecutivo due Hutu moderati, rispettivamente Pasteur Bizimungu e Faustin Twagiramungu, anche se le leve del potere rimasero saldamente nelle mani del Rpf e in particolare dell’allora ministro della difesa Paul Kagame. La scalata al potere dei Tutsi fu coronata nel 2000, quando Kagame si impossessò della presidenza per poi essere confermato alla guida del paese con risultati plebiscitari alle elezioni del 2003 (95% dei voti) e del 2010 (93% dei voti).
La comunità internazionale ritornò in Ruanda con uno sforzo umanitario imponente nell’ambito della United Nations Assistance Mission in Rwanda (Unamir), che terminò solo nel 1996. Il processo di riconciliazione nazionale e ricomposizione sociale passò anche per la costituzione ad Arusha, nel 1994, del Tribunale internazionale su mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha perseguito i maggiori ideatori e pianificatori del genocidio (il suo mandato è stato prorogato fino al 2012), mentre le migliaia di esecutori materiali sono stati individuati e processati a partire dal 2001 attraverso un sistema di corti (le Gacaca), organizzate sulla base del diritto consuetudinario tradizionale. Al dicembre 2010 erano ancora pendenti più di 2000 casi. La nuova Costituzione del 2003 proibisce ogni esplicito riferimento all’etnicità in termini divisivi e competitivi, insieme alle pratiche di controllo o monitoraggio in chiave etnica.
Essere Tutsi e Hutu, oggi, significa appartenere a due comunità legate da una storia comune fatta di persecuzioni, tragedie e massacri etnici. Furono le manipolazioni introdotte dal colonialismo a introdurre una connotazione identitaria divisiva e potenzialmente conflittuale tra due gruppi che, in effetti, condividono la stessa lingua, la stessa organizzazione sociale e gli stessi valori religiosi.
Il Ruanda è il secondo stato più densamente popolato dell’intero continente africano con una popolazione che, secondo le statistiche 2012 della World Bank, si attesta intorno ai 444 abitanti per chilometro quadrato. Almeno l’85% dei ruandesi dipende dall’agricoltura per la propria sussistenza. Il 70,7% della popolazione adulta è alfabetizzata, ma solo il 5% ha ricevuto un’istruzione superiore. Dopo la fine della guerra civile, il governo ruandese ha fatto della ricostruzione e riqualificazione del sistema scolastico una delle sue principali priorità. La speranza di vita resta molto bassa, 55,1 anni in media, all’incirca la medesima degli anni Settanta del 20° secolo. A gravare sulla situazione del paese è anche la pesante eredità della guerra civile che, oltre ai morti e ai profughi, ha lasciato migliaia di orfani e di persone in prigione in attesa di giudizio.
Gli Hutu sono la maggioranza della popolazione (84%), mentre i Tutsi la minoranza. I Tutsi legano la loro storia all’aristocrazia pastorale che governò il regno del Ruanda, fondato dal primo mwami (re) Ruganzu I Bwimba tra il 15° e il 16° secolo, e formalmente abolito solo nel 1959. Gli Hutu sono una popolazione bantu che tradizionalmente era dedita all’agricoltura e nello stato post-coloniale ha spesso fornito manodopera salariata a basso costo. A seguito della guerra, i Tutsi sono significativamente diminuiti e si stima rappresentino oggi il 15% della popolazione. Una piccolissima minoranza (1%) è composta dai Twa, abili cacciatori e raccoglitori pigmoidi: sono scarsamente integrati nella società e vengono spesso considerati come paria.
Lingue ufficiali del Ruanda sono il kinyarwanda, una lingua bantu parlata da tutta la popolazione, il francese, la lingua dell’ex dominatore belga utilizzata nell’istruzione superiore, e l’inglese, impiegato per gli affari e i commerci. Il kiswahili (o swahili), la lingua veicolare dell’intera Africa orientale, è parlata in molte zone del paese. La stragrande maggioranza della popolazione è cristiana (56,5% cattolici e 26% protestanti), anche se non sono poche le contaminazioni sincretiche con riti e credenze tradizionali.
Il rispetto dei diritti umani rimane fortemente a rischio in un sistema politico formalmente multipartitico, ma di fatto a partito unico. Corruzione delle forze dell’ordine, condizioni insostenibili negli istituti di pena ed evidenti limiti alla libertà di stampa e di espressione costituiscono il quadro di riferimento per un regime sostanzialmente autoritario, che non si è fatto scrupoli a colpire gli oppositori utilizzando la legislazione che bandisce le ‘divisioni etniche’. Il controllo del governo è molto stringente sui diversi gruppi o associazioni che tentano di sfuggire o contrastare apertamente la sua autorità.
Nonostante le donne siano quotidianamente svantaggiate rispetto agli uomini nell’accesso all’istruzione, alla salute e alle principali risorse sociali ed economiche, il Ruanda è diventato il primo paese al mondo per percentuale di donne in parlamento (56,3%) sulla base dei dati relativi alle elezioni del 2008. Una rappresentanza in termini di genere pressoché paritaria è stata favorita dalla rottura di schemi sociali arcaici in conseguenza della guerra civile, dagli investimenti fatti nel settore dell’istruzione e dal dettato costituzionale secondo il quale almeno il 30% dei deputati devono essere donne.
L’economia ruandese ha registrato una considerevole crescita negli ultimi anni. Se nel 2012, dopo anni di crescita, il pil ha avuto una leggera flessione, attestandosi al 7%, le stime dell’Economist Intelligence Unit per il biennio 2013-14 prevedono una ripresa intorno al 7,4% annuo (anche se gli effetti della crisi finanziaria globale hanno prodotto una contrazione rispetto ai tassi degli anni precedenti, superiori all’8%). La crescita è stata trainata dai buoni risultati registrati nel settore agricolo (tè, caffè e altri prodotti agricoli destinati alla vendita) e dell’aumento degli investimenti diretti esteri. Tuttavia la scarsità di nuovi terreni da mettere a coltura ha costretto il governo a varare investimenti molto più alti che in passato nel settore agricolo. Accanto alle grandi imprese a monocoltura, sono molte le piccole o piccolissime aziende agricole a conduzione familiare che praticano un’agricoltura di sussistenza. Il settore dei servizi (in particolare telecomunicazioni e turismo) offre grandi potenzialità di crescita, ma la mancanza di manodopera specializzata resta un limite importante. Le infrastrutture rimangono ancora largamente carenti.
Il Ruanda è stato indicato come uno dei paesi africani che hanno maggiormente agito per riformare la propria economia, anche se i cambiamenti non hanno raggiunto risultati significativi nella riduzione della povertà e della disoccupazione. Le privatizzazioni di grandi imprese fornitrici di servizi e di grandi aziende agricole, insieme alla riforma dell’amministrazione pubblica, hanno conseguito una diminuzione della corruzione: secondo i dati elaborati da Transparency International circa il livello di corruzione percepita, nel 2011 il Ruanda era al 49° posto su 182 paesi, segnando un miglioramento rispetto agli anni precedenti. L’inflazione si è notevolmente ridotta, scendendo dal 22% nel 2008 al 6,6% nel 2012, grazie a un’accorta politica monetaria e alla crescita del prezzo dei prodotti agricoli ed estrattivi sui mercati mondiali. Tra i principali capitoli di spesa si collocano l’istruzione e l’amministrazione pubblica, ma anche la spesa militare.
Nonostante il ruolo trainante dell’agricoltura per lo sviluppo del paese, almeno il 28% della popolazione ruandese non raggiunge il livello minimo di sicurezza alimentare. L’economia informale è molto estesa, contribuendo al 46% del pil (nel 2011), con conseguenze negative dirette sulla capacità del sistema di tassazione. Nonostante una crescita significativa degli investimenti privati, il Ruanda rimane fortemente dipendente dagli aiuti internazionali, che nel 2009 ammontavano a più del 45% del bilancio pubblico. Il maggiore partner commerciale del Ruanda è l’Uganda, con la quale anche i rapporti politici sono strettissimi.
Dopo il ritiro ufficiale dal Congo nel 2002, il governo ha inaugurato un ambizioso piano di riordino dell’esercito che ha portato alla smobilitazione di migliaia di soldati e alla formazione di un corpo d’élite militare composto da 33.000 effettivi regolari e 2000 paramilitari. Dopo aver ospitato nelle fasi più cruente della guerra civile la missione Unamir, che coinvolse una dozzina di paesi e oltre 200 organizzazioni non governative, il Ruanda ha partecipato con un proprio contingente alle missioni di pace delle Nazioni Unite in Sudan e Congo.
La guerra civile del 1994 in Ruanda contagiò rapidamente i paesi vicini. Le milizie hutu utilizzarono come basi per i propri attacchi contro il governo tutsi i campi profughi lungo il confine dello Zaire orientale (oggi Repubblica Democratica del Congo – Rdc). Nell’ottobre 1996 le truppe ruandesi entrarono in Zaire, dando il via a quella che viene ricordata come la Prima guerra del Congo. L’esercito ruandese appoggiò l’opposizione di Laurent-Désiré Kabila contro il governo di Mobutu Sese Seko nel duplice obiettivo di distruggere le basi hutu in Congo e di accaparrarsi lo sfruttamento delle importanti risorse naturali delle province orientali del paese. Proprio il tentativo di estendere una forte influenza sul nuovo governo congolese portò alla rottura tra Kabila e i suoi alleati ruandesi e ugandesi, innescando una nuova fase del conflitto che coinvolse Angola, Zimbabwe e Namibia a sostegno del governo congolese. Dopo gli accordi di pace siglati nel 2003 a Sun City (Repubblica Sudafricana), le truppe ruandesi e ugandesi si ritirarono dal paese ma Kigali ha continuato ad appoggiare l’attività militare del Congrès national pour la défense du peuple (Cndp), che si opponeva al governo di Joseph Kabila, figlio di Laurent-Désiré. L’esercito ruandese ha inoltre continuato a operare delle incursioni oltreconfine contro le Forces démocratiques de libération du Rwanda (Dflr), il principale movimento hutu che si oppone a Paul Kagame.
Dall’aprile 2012 una nuova milizia di militari congolesi, di origine tutsi, finanziati da Ruanda e Uganda, ha deciso di disertare e di riprendere la lotta armata. La milizia, nota come M23, è guidata dal generale Bosco Ntaganda, un militare congolese di lunga carriera colpito da un ordine di cattura internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità. Il nome M23 fa riferimento alla data del 23 marzo 2009, quando l’allora gruppo ribelle Cndp siglò un accordo con Kinshasa, sotto la supervisione di Kigali, per l’integrazione dei ribelli nell’esercito congolese in cambio della fine delle ostilità lungo il confine tra RdC e Ruanda. All’origine delle tensioni vi sarebbe un rapporto della Monuc (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) che ha riferito di un coinvolgimento di Ruanda e Uganda nel sostegno alle forze ribelli. Kigali, accusata di finanziare economicamente e militarmente la milizia ribelle, ha respinto al mittente tutte le insinuazioni sostenendo, invece, che Kinshasa protegge i reduci degli Interawne, le milizie estremiste di origini hutu responsabili del genocidio ruandese del 1994. Nel frattempo, dopo aver assunto il controllo di Goma, capoluogo della provincia congolese Kivu Nord, i ribelli di M23 hanno dichiarato la loro intenzione di marciare verso la capitale Kinshasa. Nel tentativo di contenere la crisi politico-militare, la diplomazia regionale si è subito mossa, convocando un vertice dei rappresentanti della regione dei Grandi Laghi. Il summit, tenutosi a Kampala il 24 novembre 2012, ha visto la partecipazione dei presidenti di Kenya, Uganda, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo, mentre ha rinunciato a parteciparvi il capo di stato ruandese Paul Kagame. Durante il vertice di Kampala è stato lanciato un appello alla responsabilità e un invito al governo di Kinshasa ad ascoltare le ‘legittime rivendicazioni’ dei ribelli.