RUSSIA
(XXX, p. 264; App. II, II, p. 756; III, II, p. 638; v. anche urss, XXXIV, p. 816; App. I, p. 1098; II, II, p. 1065; III, II, p. 1043; IV, III, p. 754)
Dall'URSS alla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). − La R. è il più importante fra gli stati successori dell'ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nota più brevemente come Unione Sovietica o, in sigla, come URSS. L'URSS, entrata in crisi a seguito delle riforme di Gorbačëv nella seconda metà degli anni Ottanta, ha cominciato nel 1990-91 col cambiar nome ripetutamente, assumendo prima la denominazione di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovrane (1990: ancora URSS nell'acronimo italiano), poi di Unione degli Stati Sovrani (1991: USS), infine di Unione degli Stati Indipendenti (sempre 1991: USI), per essere poi dichiarata sciolta, "come soggetto di diritto internazionale e come realtà geopolitica", alla fine del 1991 dai presidenti delle tre repubbliche ex sovietiche storicamente più importanti (R., Ucraina e Bielorussia). Ma già nel 1990 si erano dichiarate sovrane, se non indipendenti, le altre 12 repubbliche ex sovietiche.
Al posto dell'URSS esiste oggi, costituita nel 1991 con gli accordi di Alma-Ata e rafforzata dal trattato economico del 1993, un'associazione volontaria di stati (non uno stato federale e neppure confederale) chiamata ''Comunità degli Stati Indipendenti''. Ne sono rimasti fuori dall'inizio i tre paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) e fino al 1994 anche la Georgia. Ne fanno oggi parte, in maniera più o meno convinta (per riserve e prese di distanza si sono fatti notare, almeno inizialmente, la Moldavia e soprattutto la Georgia e l'Azerbaigian), 12 delle 15 repubbliche ex sovietiche. Tra di esse non esiste alcun vincolo gerarchico e neppure simbolico, ma solo un'obiettiva interdipendenza economica, una certa cooperazione finanziaria e monetaria, infine un legame militare (per es. della R. con la Bielorussia, con i paesi dell'Asia centrale, in particolare con il Tagikistan, e perfino con la Georgia): il tutto in relazione con il peso del passato, con la continuità territoriale, con qualche carattere etnico e culturale comune, con oggettivi interessi comuni. In questo insieme di stati la cooperazione non esclude peraltro né accordi di collaborazione fra gruppi più limitati di essi (per es. fra tutti e soli i paesi dell'Asia centrale), né spinte di gravitazione verso altri insiemi (come per es. l'Unione Europea o il mondo turco-islamico), e quindi al limite tendenze disgregatrici; in certi casi si arriva, infine, come si vedrà più avanti, a forme di conflittualità vera e propria. Elemento d'interesse comune, e al tempo stesso fonte almeno potenziale di discordia, è la presenza di forti minoranze di Russi (stimate in circa 25 milioni di persone, di cui quasi la metà in Ucraina) nelle altre repubbliche ex sovietiche; nei confronti di queste minoranze la R. sente e dichiara di avere speciali responsabilità. Alcuni ambienti e vari gruppi politici russi non nascondono l'aspirazione a rinsaldare i vincoli della CSI, a riaffermarvi l'influenza russa se non addirittura a reintegrare o a ricostituire su nuove basi un qualche legame federativo tra gli stati membri. In questi ultimi, peraltro, tale aspirazione non sembra riscuotere molti consensi.
La Russia, stato nuovo. - È dunque finito lo stato sovietico; è caduto il tentativo di far esistere un popolo sovietico, comunità storica nuova indifferente alle etnie e tenuta insieme dall'ideologia (anche se erede sostanziale dell'Impero zarista); è stata stabilita o ristabilita l'indipendenza di ben 14 stati fra baltici, caucasici, turco-mongoli, e anche slavi ma non russi; è stato realizzato alla fine quel diritto di secessione che le stesse Costituzioni sovietiche del 1936 e del 1977 avevano formalmente riconosciuto per le repubbliche federate dell'URSS, ma che veniva sostanzialmente contraddetto e impedito con ogni mezzo; è stato sciolto il Partito comunista dell'Unione Sovietica che era il vero elemento di coesione e dominatore dell'URSS.
La R. è oggi uno stato a sé, completamente distinto dagli altri stati emersi dalla dissoluzione dell'URSS in 15 entità ugualmente indipendenti e sovrane, corrispondenti alle 15 ex repubbliche federate dell'URSS. Essa resta il colosso del mondo per superficie, con i suoi 17 milioni di km2, ma scende al 6° posto (dal 3° in cui si collocava l'URSS) nella graduatoria per popolazione: i 149 milioni di abitanti stimati al 1993 la fanno classificare non soltanto dopo la Cina e l'India, ma anche dopo gli Stati Uniti, l'Indonesia e, da poco, il Brasile. La sua densità di popolazione non arriva a 9 ab./km2, naturalmente con le ben note forti differenze tra R. europea e Siberia.
Una ulteriore novità emerge anche per quanto riguarda la forma geografica della R.: dopo il distacco degli stati baltici e della Bielorussia, l'oblast (provincia) di Kaliningrad risulta ormai un'exclave, cioè un territorio separato fisicamente, per il tramite di altri stati, dal corpo principale dello stato russo (raggiungibile peraltro via mare). Invece i tradizionali sbocchi al mare della R. rimangono tutti e cinque, anche se tre di essi, quelli sul Baltico e sul Mar Nero e quello sui generis sul Mar Caspio, risultano assai ridotti a seguito dell'indipendenza rispettivamente degli stati baltici, di Ucraina e Georgia, di Kazakistan, Turkmenistan e Azerbaigian.
La R., che era già una repubblica federale quando faceva parte del più ampio stato federativo denominato URSS, mantiene tale struttura federale anche oggi, assumendo, con il trattato istitutivo del 1992, il nome ufficiale di Federazione Russa accanto a quello di Russia. Aumenta però il numero degli stati membri (federati): da 17 che erano al tempo dell'URSS (la R. in senso strettissimo, più 16 repubbliche autonome), le repubbliche della R. diventano 21 o 22 (situazione tuttora fluida nel 1994, anche per la mancata ratifica del trattato istitutivo da parte di due repubbliche), essendosi aggiunte a quelle preesistenti le repubbliche dell'Adigezia, dell'Altaj, della Hakassia, della Karačajevo-Cerkessia (in precedenza semplici province autonome o territori) ed essendosi scissa in due (scissione però contestata: e da ciò deriva l'incertezza del numero totale) la repubblica della Ceceno-Inguscezia. Tra queste unità federate, in ogni caso, è nettamente la R. quella preponderante, sia in termini di superficie (72% del totale della Federazione), sia e ancor più in termini di popolazione (84% del totale). È rimasta anche la suddivisione amministrativa in una cinquantina di oblasti (province), che nelle aree meno sviluppate sono sostituite da krai (territori, attualmente in numero di 6). Alcune province sono, oggi come ieri, dotate di una limitata forma di autonomia, così come lo sono gli okrugi (circondari, in numero di 10). La Camera alta del Parlamento russo assicura, sul modello del Senato degli Stati Uniti, una rappresentanza paritetica per ciascuno di questi soggetti (dalle repubbliche ai circondari) della Federazione.
Le controversie etnico-territoriali con gli altri stati ex sovietici. -Fra le molte controversie territoriali a base etnica che, prima latenti, sono esplose subito dopo la dissoluzione dell'URSS, alcune, pur se non le più gravi, riguardano direttamente e specificamente la Russia.
Esiste anzitutto una disputa ricorrente fra R. e Ucraina per la Crimea. Questa penisola (27.000 km2 e 2,5 milioni di ab.), che storicamente fa parte della R., alla quale è legata anche economicamente, era stata trasferita da Chruščëv all'Ucraina nel 1954, nell'occasione solenne del terzo centenario dell'unione fra i due paesi. Dopo che l'URSS si è dissolta e l'Ucraina ha ottenuto l'indipendenza, quest'ultima si è affrettata a concedere alla Crimea lo status di repubblica autonoma, ma questo non sembra sufficiente alla maggioranza dei suoi abitanti, la quale aspirerebbe all'indipendenza (il suo Parlamento ha votato in questo senso nel 1992, e un referendum in proposito è stato indetto nel 1994) e sta facendo chiaramente intendere che tale indipendenza non sarebbe che un primo passo per il ritorno in seno alla Russia. Qualche turbolenza esiste anche in un'altra regione ucraina, il Donbass, dove la minoranza russa è più consistente che altrove.
Tra R. e Georgia esiste il problema dell'Ossezia meridionale, piccola provincia autonoma della Georgia (4000 km2 e 100.000 ab.), che si batte per l'indipendenza (referendum in questo senso nel 1992) in vista di un'auspicata unificazione con l'Ossezia settentrionale; quest'ultima, sua gemella etnica, è però situata a nord del Caucaso e soprattutto è parte (in qualità di repubblica autonoma) della Russia. Su binari paralleli si muovono le aspirazioni della repubblica autonoma dell'Abhasia (8500 km2 e mezzo milione di ab.), sul litorale pontico georgiano; essa non ha una gemella russa, ma la sua lotta per l'indipendenza ha tra i possibili obiettivi il successivo passaggio alla Russia. In questi due conflitti (il secondo anche cruento), la R. ha finora svolto un ruolo discreto, tendenzialmente pacificatore, pur non potendo tirarsi troppo indietro − anche su pressione di una parte della propria opinione pubblica − di fronte a queste (e ad altre, possibili nel futuro) professioni di lealismo di minoranze più o meno russe rimaste, come si accennava, al di fuori dei suoi confini. I soli Russi veri e propri, frutto di una tradizionale espansione capillare nei paesi dell'ex Unione (fin dai tempi dell'Impero), rappresentano, in cifre relative, aliquote comprese fra il 2% nell'Armenia e il 38% nel Kazakistan. Anche in Estonia e Lettonia la minoranza russa è cospicua (ammonta a circa un terzo della popolazione) e soprattutto in Estonia si sente discriminata e si agita.
Indirettamente la R. è poi coinvolta anche in controversie esterne − ormai internazionali − fra altri paesi dell'ex URSS (purtroppo frequenti, nonostante che il trattato istitutivo della CSI imponga agli stati membri il reciproco rispetto dell'integrità territoriale e dell'inviolabilità delle frontiere): in particolare, quella fra l'Ucraina e la Moldavia per la regione di confine del Trans-Dnestr, e quella, assai cruenta, fra l'Armenia e l'Azerbaigian per il territorio del Nagorno-Karabah. Il ruolo della R. in questi conflitti oscilla fra quello del presunto paese-guida della CSI, che la porta ad atteggiarsi ad arbitro super partes, e quello dell'affinità etnico-culturale, che la porta a simpatizzare per gli Ucraini, nonostante i dissapori sulla Crimea e sul Donbass, nel primo caso, per gli Armeni nel secondo.
Le controversie etnico-territoriali interne. - Se, come si è detto, circa 25 milioni di Russi vivono nelle altre repubbliche ex sovietiche, ci sono, d'altro canto, 29 milioni di non-Russi all'interno della Federazione Russa. La simmetria però è soprattutto numerica, perché solo una parte di questi 29 milioni fa riferimento alle etnie dominanti nelle altre 14 repubbliche. Ci sono in R., è vero, circa 4,5 milioni di Ucraini (3% della popolazione della Federazione Russa) e 1,2 milioni di Bielorussi, oltre che gruppi minori collegati etnicamente alle varie repubbliche caucasiche, centro-asiatiche, baltiche. Ma ci sono anche gruppi etnici a sé, che non hanno nessuna madrepatria con la quale aspirare al ricongiungimento. I principali sono i Tatari (5,7 milioni di persone, 3,8% della popolazione), i Ciuvasci (1,8 milioni) e i Baschiri (1,3 milioni), tutti e tre di etnia turca, o turco-tatara. E poi ci sono, oltre a gruppi turchi e mongoli meno numerosi (Jacuti, Tuvini, Calmucchi, ecc.), le genti di etnia caucasico-settentrionale − Ceceni, Ingusci, Daghestani −, affini ma non identificabili con i popoli degli stati indipendenti che stanno a sud della catena caucasica; e quelle di etnia finnica, i Finni veri e propri e i Careli. Infine gruppi indo-europei non slavi, come gli Osseti e i cosiddetti Tedeschi del Volga.
Tutti questi popoli, tranne i Tedeschi che non sono mai stati perdonati per aver collaborato con gli invasori nazisti durante la seconda guerra mondiale (a differenza di altri popoli collaborazionisti via via riabilitati fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta), vivono in maggioranza entro i confini di specifiche repubbliche autonome; ma per diversi di essi il grado di autonomia di cui godono non appare sufficiente. La Carelia si è dichiarata sovrana già nel 1991. La repubblica dei Tatari, o Tatarstan, di predominante religione islamica, ha votato a maggioranza per l'indipendenza in un referendum svoltosi nel 1992. I Ceceni, pure musulmani, hanno preteso la separazione dagli Ingusci nello stesso anno, ma gli uni e gli altri reclamano anche un distretto della vicina Ossezia settentrionale: il conflitto in questo caso non è solo fra etnia locale ed etnia dominante, ma fra minoranza e minoranza. La Cecenia ha assunto il nome autoctono di Ickeria nel 1994 e ha proclamato, sulla carta, l'indipendenza. Tuva, infine, ha adottato una propria costituzione, nel 1993, che prevede il diritto di secessione dalla Federazione Russa. Come ci sono repubbliche autonome che aspirano all'indipendenza, così dal gradino inferiore c'è chi aspira all'autonomia. Sono del 1993 le prime proclamazioni in questo senso da parte della provincia di Jekaterinburg (autodefinitasi "Repubblica autonoma degli Urali") e di quella di Vologda, nonché del territorio del Litorale (Primorje); proclamazioni che, per ora, non sono state riconosciute dalla Federazione.
La Russia e l'eredità dello stato sovietico. - La scomparsa dell'URSS come soggetto giuridico internazionale ha posto il problema dell'erede o degli eredi di tale soggetto. L'erede legittimo o residuale dell'URSS sembra essere stato identificato senza esitazione, dalla comunità internazionale, nella Federazione Russa, in quanto paese-guida della vecchia URSS ed entità statale di gran lunga più importante, sotto ogni punto di vista, fra tutti gli stati successori dell'URSS stessa. Perciò, per es., il seggio spettante all'URSS nel Consiglio di sicurezza dell'ONU è stato attribuito senza esitazione alla Russia.
Un discorso diverso si deve fare per le singole eredità concrete. Nessun problema per le proprietà immobiliari dello stato sovietico, che includevano tutto il suolo e buona parte delle costruzioni: esse hanno logicamente seguito il destino del territorio, venendo attribuite ai nuovi stati nei cui confini venivano a ricadere. Qualche problema è emerso per le proprietà statali sovietiche all'estero, per es. una parte delle sedi diplomatiche, ma soprattutto per le passività dello stato sovietico, cioè i debiti internazionali. I paesi creditori, per tutelarsi, hanno affermato il principio della responsabilità in solido degli stati emersi dalla dissoluzione dell'URSS, ma molti di questi ultimi, e specie i più piccoli e poveri, si sono largamente defilati, per cui il grosso del contenzioso ha finito per ricadere sulle spalle della R.: la quale in cambio intende rivalersi, appunto, sulle proprietà all'estero.
Un grosso problema, molto sentito in Occidente, è stato quello dell'eredità militare. Il più potente apparato bellico del mondo ha cessato di esistere come tale, creando tre ordini di problemi: a) la riconversione a fini civili, o anche la semplice risistemazione in alloggi all'interno della R., di gran parte delle forze armate acquartierate nei paesi dell'Europa centro-orientale già membri del patto di Varsavia, o nelle repubbliche ex sovietiche che hanno rotto tutti i ponti con la CSI (paesi baltici); b) il destino degli armamenti convenzionali comuni, come la flotta del Mar Nero che non è stato facile né spartire, né mantenere in comune tra R. e Ucraina; quest'ultima soluzione è stata adottata, ma solo in linea di principio e dopo molti contrasti, provvisoriamente e in vista di una successiva spartizione; c) il destino degli armamenti nucleari, che ha particolarmente preoccupato l'Occidente. Quest'ultimo problema ha interessato specialmente R., Ucraina, Kazakistan e Bielorussia, tutti paesi da considerarsi nuove potenze nucleari. L'accordo di Alma-Ata sulla CSI (1991) ne ha previsto, con grande sollievo dell'Occidente, il comando unificato e, nel lungo periodo, la liquidazione; tuttavia sono state necessarie ulteriori trattative, con diverse sfaccettature e risvolti economici non trascurabili, e con forti resistenze dell'Ucraina, perché si avviasse un processo di sostanziale disarmo nucleare, di concentrazione della potenza nucleare nella sola R. e d'inquadramento dei paesi ex sovietici negli schemi dei trattati internazionali di disarmo e di non proliferazione nucleare. Esemplare, a questo proposito, l'accordo russo-ucraino-statunitense del 1994, che prevede il graduale trasferimento del possente apparato bellico nucleare ucraino in R., dietro compenso statunitense e garanzia congiunta russo-statunitense in tema di sicurezza dell'Ucraina. Resta in Occidente l'incubo di atteggiamenti più spregiudicati da parte di nuove entità politiche minori (per es. la Cecenia), e quello della possibilità di trasferimenti occulti di singoli armamenti, materiali riciclati, tecnologie o personale specializzato, in campo nucleare, a paesi terzi o a organizzazioni poco affidabili, che potrebbero avvalersene in maniera molto meno responsabile che non la R. o l'ex URSS.
Struttura politica, sociale, religiosa della nuova Russia. - Messo al bando nel 1991 il Partito comunista dell'Unione Sovietica, fino ad allora partito unico, con le sue organizzazioni collaterali, e confiscate le sue cospicue proprietà a favore dello stato e delle collettività locali (in parte, peraltro, restituite già nel 1992), la R. si è trovata d'improvviso a dover organizzare una vita politica, sociale e religiosa libera e pluralistica, senza averne praticamente alcuna esperienza. Quest'ultima caratteristica spiega in buona parte come la struttura e articolazione politica della società russa di oggi sia abbastanza diversa, nonostante l'adozione di meccanismi sostanzialmente democratici, da quella delle società occidentali. Le principali correnti politiche che si sono affermate nei primi anni di democrazia (1991-94) − pur fra larghe, e fors'anche maggioritarie, correnti di apatia e d'indifferenza politica − possono essere grosso modo così descritte: gruppi riformisti, gruppi moderati, gruppi nostalgici e nazionalisti.
I gruppi riformisti, occidentaleggianti (zapadniki), favorevoli alla piena attuazione della democrazia liberale, alle riforme di ogni tipo, alla graduale introduzione dell'economia di mercato, alla collaborazione piena e leale con gli Stati Uniti, l'Unione Europea e gli altri paesi dell'Occidente, sono stati gli ispiratori della nuova Costituzione liberal-democratica della R. e di solito dimostrano di essere maggioranza nei referendum (per es. quello che ha, per l'appunto, ratificato la Costituzione nel 1993), ma si rivelano più deboli e per di più frammentati in diverse correnti nelle elezioni parlamentari. I gruppi moderati o conservatori sono propensi ad alternare colpi di freno a colpi di acceleratore nell'attuazione di riforme, a conservare parte degli istituti del passato, in particolare quelli dell'economia pianificata, e hanno qualche riserva o diffidenza nei confronti dell'Occidente. I gruppi nostalgici e nazionalisti (narodniki) sono contrari alle riforme economiche e all'imitazione dell'Occidente, alcuni propensi al mantenimento o al ripristino dell'economia socialista, con tendenze al recupero dell'ideologia comunista, altri piuttosto con inclinazioni conservatrici in politica interna e slavofile (se non panslaviste) nella politica internazionale, con venature di rimpianto per il passato di grande potenza (URSS, o anche Impero zarista: con relativi propositi di restaurazione) e persino con punte di xenofobia e antisemitismo.
Dal punto di vista sociale, si assiste al coagularsi di gruppi d'interesse di vario genere: in parte legati ai vari strati della nomenklatura del passato, come gli agrarniki (dirigenti e quadri delle aziende agricole statali e collettive), gli amministratori e i tecnici delle industrie statali, i militari, i funzionari dell'ex PCUS; in parte, al contrario, in relazione con le nuove realtà sociali che si vanno lentamente affermando, come i commercianti o, in agricoltura, i cooperatori liberi (fermery) e gli affittuari (arendatory). La vita politica e sociale − di cui sono protagonisti molto spesso, e per forza di cose, personaggi che avevano già un qualche ruolo pubblico ai tempi del regime comunista − si svolge di solito tra vivaci contrasti di opinione, frequenti manifestazioni di piazza e marcate rivalità, non senza reciproci colpi di mano, fra organi costituzionali. Di norma, tuttavia, si assiste a un generale rifiuto della violenza e della prevaricazione, anche se una notevole eccezione è stata rappresentata dal conflitto tra presidente e Parlamento sfociato nei cruenti scontri del 1993, e se si deve registrare un certo incremento della criminalità comune, grande e piccola.
Dal punto di vista religioso, è palese una ripresa dei culti, in particolare di quello ortodosso, grazie anche all'avvenuto riconoscimento civile di tutte le festività religiose e alla riapertura al culto o alla ricostruzione di 6000 delle 50.000 chiese disattivate dal 1917 in poi. Il clero ortodosso figura in primo piano anche nel processo di ripristino del rispetto storico per il passato zarista della R., che si manifesta in cerimonie, riesumazione di simboli tradizionali, celebrazioni monumentali e, come si vedrà più avanti, diffuse revisioni toponomastiche.
Tutti questi caratteri della nuova società russa non si distribuiscono certo uniformemente sull'immenso territorio del paese, ma secondo tipici gradienti in senso città-campagna e centro-periferia. Le prime osservazioni di geografia elettorale che è stato possibile fare dopo le elezioni del 1993, per es., mostrano che al chiaro successo riscosso dalle correnti riformiste nelle grandi città della R. europea si contrappongono, in linea di massima, risultati più favorevoli ai moderati, se non ai nostalgici, nei centri minori e nelle aree abitate dalle minoranze etniche.
Caratteri generali della nuova economia russa. - Dopo il crollo dell'URSS, era facile prevedere che una crisi economica prolungata avrebbe colpito gli stati suoi successori. Anzitutto perché il sistema produttivo dell'URSS, la cui gestione fallimentare si era aggravata nella spirale della corsa agli armamenti, era già di per sé in crisi − anche se certi accorgimenti statistici, uniti allo scarso potere di controllo da parte dell'opinione pubblica, limitavano l'evidenza di tale crisi − tanto da generare l'esigenza di una perestrojka (ristrutturazione) nell'ultimo e più illuminato leader sovietico Gorbačëv (1985). In secondo luogo, perché il passaggio da un sistema a un altro rendeva inevitabile una fase di transizione, in cui cessava di funzionare il "piano" prima che entrasse in funzione il "mercato".
Gli ultimi dati, o meglio sarebbe dire le ultime valutazioni, sulla consistenza del prodotto nazionale lordo pro capite in R. parlano di 3220 dollari USA nel 1991, cifra che porrebbe il paese in posizione un po' superiore rispetto a quella dei maggiori paesi latino-americani (Brasile, Messico e Argentina stavano sui 2800-2900), ma molto lontana da quella dei paesi dell'Europa occidentale (per lo più tra i 16.000 e i 24.000 dollari pro capite). Il debito estero risulterebbe di 80 miliardi di dollari al 1993, vale a dire il quarto per importanza nel mondo dopo Messico, Brasile e Indonesia. La composizione della popolazione attiva (1992) si avvicina ormai a quella tipica dei paesi occidentali, essendosi fortemente ridimensionata l'aliquota degli addetti all'agricoltura (meno del 15%) e anche quella dell'industria (prima dominante e ora di poco superiore al 40%), e relativamente gonfiata quella del terziario (45%). Ma se dal 1991-92, ultimi anni validi per ragionevoli confronti internazionali, passiamo ai dati interni confrontati nel tempo proprio negli anni della transizione, troviamo: tassi di crescita negativi a partire dal 1990; un calo del prodotto materiale netto (aggregato paragonabile al nostro prodotto interno lordo) dell'ordine del 50% fra il 1991 e il 1994 (con un colpo verso il basso specialmente nel 1992); un calo della produzione industriale di misura quasi analoga nello stesso periodo. Parallelamente si è verificata una fortissima inflazione, che ha svalutato il potere di acquisto del rublo di circa 300 volte tra il 1990 e i primi del 1993, a causa soprattutto del forte disavanzo pubblico e del ricorso spensierato all'emissione di valuta e al credito facile da parte della Banca centrale; tale crisi finanziaria è proseguita nel 1994 con una forte impennata in ottobre. Non manca il fenomeno inedito della fuga di capitali russi all'estero. Unico dato confortante, quello relativo al tasso di disoccupazione, che non avrebbe superato il 2% (1992).
Sullo sfondo di questa situazione economica, si è sviluppato nei primi anni Novanta un processo di riforme economiche chiaramente orientato a trasformare l'economia pianificata e di comando in un'economia di mercato, ma altrettanto chiaramente incerto e contraddittorio sui metodi, sui tempi e sui limiti di tale trasformazione. Il processo inizia negli anni 1989-90, quindi ancora in età sovietica, ma la ''lunga marcia verso il mercato'', come viene definita ufficialmente, si sviluppa soprattutto dal 1991 in poi, tra colpi di acceleratore (per es., liberalizzazione del commercio, che ha fortemente ridotto la tradizionale penuria di merci nei negozi, e apertura ai capitali stranieri) e colpi di freno, particolarmente frequenti dopo le elezioni di fine 1993 (blocco di alcuni prezzi, sovvenzioni e crediti alle imprese statali). La privatizzazione delle piccole imprese, specialmente commerciali, non incontra particolari ostacoli, mentre quella delle grandi imprese, trasformate sostanzialmente in società per azioni (1992-93), si va lentamente realizzando tramite sistemi tradizionali, di stampo corporativo (cessione agevolata a cooperative di dirigenti e dipendenti), ma anche con metodi coraggiosamente innovativi (distribuzione gratuita a tutti i cittadini di buoni − per un valore di 10.000 rubli 1992 a testa − utilizzabili per l'acquisto di azioni). Non sono mancate profonde diffidenze da parte dei cittadini; e forti resistenze, soprattutto nel vasto ambiente dei dirigenti e dei funzionari dell'economia pubblica, particolarmente robusto nel settore delle imprese agricole collettive e statali; nonostante ciò, a metà del 1993 si contavano già 200.000 fattorie e 60.000 aziende (commerciali, artigianali e industriali) passate dal settore pubblico a quello delle cooperative e dei privati. Lo confermano i dati sull'occupazione: gli addetti al settore pubblico, che erano il 91% del totale ancora nel 1985, rappresentano il 68% delle forze di lavoro occupate nel 1992.
Sul piano più strettamente territoriale, la nuova economia russa sembra svilupparsi in maniera promettente specialmente laddove sono state istituite zone economiche libere, come a San Pietroburgo, città vicina all'Occidente in molti sensi (un'altra potrebbe sorgere a Kaliningrad sempre sul Baltico) e nell'isola di Sahalin, che risente beneficamente della vicinanza del Giappone. I paesi occidentali, singolarmente (specie la Germania) o tramite le organizzazioni economiche internazionali, hanno in effetti apertamente incoraggiato il processo di trasformazione dell'economia russa, stimolandolo con aiuti finanziari condizionati alla realizzazione delle riforme; la congruità e l'efficacia di tali aiuti sono peraltro oggetto di discussione.
L'agricoltura. - La nuova agricoltura ha attraversato, nell'ambito dell'economia del paese, una sua specifica crisi, e sta vivendo tentativi di riforma e di ristrutturazione. Sono degli anni gorbačëviani (1989-90) le prime leggi che permettono ai kolchozi e sovchozi di dare terra in affitto e, con molte limitazioni, anche in proprietà a cooperative e privati. Alcune limitazioni sono cadute con E'lzin (1993) e il settore privato dell'agricoltura si va, sia pur lentamente, ampliando.
Sul piano produttivo, la crisi finanziaria e organizzativa del paese non poteva non avere effetti negativi. La produzione di cereali, che nel quinquennio 1986-90 si era mantenuta in media nell'URSS sui 2 miliardi di quintali annui, pari al 14÷15% del totale mondiale, sta ora (1991-93), per l'insieme dei paesi ex sovietici, sugli 1,7 miliardi di quintali. Di conseguenza si è dovuto aumentare il ricorso all'importazione, che assorbe 1/7 delle esportazioni mondiali. Segni di ripresa si notano peraltro già nel 1993. Ridotta anche la produzione delle oleaginose (girasole, soia) e della barbabietola da zucchero. Gli ultimi dati completi (1992) sulle principali produzioni dell'agricoltura russa e sul posto che esse occupano nella graduatoria produttiva mondiale sono i seguenti: grano, 460 milioni di q, 4° posto nella graduatoria mondiale; mais, 21 milioni di q, 24° posto; orzo, 255 milioni di q, 1° posto; patate, 378 milioni di q, 1° posto; zucchero, 24 milioni di q, 13° posto. Sulla base di questi dati si può dunque affermare che, nonostante il distacco dell'Ucraina e del Kazakistan, forti produttori di grano e orzo, e della Bielorussia, buona produttrice di patate, la R. conserva tuttora un ruolo importantissimo nel mercato mondiale di queste tre derrate. Diverso il discorso che si può fare per il mais, coltura di sviluppo relativamente recente che aveva e mantiene la sua base produttiva soprattutto in Ucraina e Moldavia. Anche per la produzione di zucchero la separazione dell'Ucraina, oggi 10° produttore mondiale, ha fortemente ridimensionato l'importanza della Russia. Si riduce di molto, infine, il ruolo della R. per colture come quella del tè, del tabacco, del cotone, della vite, fornitrici di tradizionali prodotti sovietici ma non russi.
Sulla consistenza dell'allevamento del bestiame i dati più recenti (1993) sono i seguenti: bovini, 52 milioni di capi, 5° posto nella graduatoria mondiale; ovini, 51 milioni di capi, 4° posto; suini, 32 milioni di capi, 3° posto. Per questo aspetto dell'economia rurale russa, il distacco dell'Ucraina (bovini e suini), del Kazakistan (ovini e bovini), del Kirghizistan (ovini) e della Bielorussia (suini) ha dimezzato i valori numerici che erano attribuibili all'ex Unione Sovietica, ma non ha espulso la R. dai primi gradini della classifica mondiale (pur riducendone il peso, specialmente per quanto riguarda gli ovini). Ridotta anche la produzione di pesce, in parte appannaggio delle flotte pescherecce dei Paesi Baltici, dell'Ucraina, ecc.
Resta essenzialmente russo il patrimonio forestale, con la conseguente produzione di legname, dato che le foreste sono prevalentemente collocate nelle aree centro-settentrionali del territorio dell'ex URSS, rimaste quasi totalmente nella Federazione Russa.
Energia, miniere e industria. - In un colosso energetico come la R., i sintomi di crisi energetica − come gli scioperi dei minatori, il rallentamento degli investimenti in raffinerie e condutture e l'obsolescenza delle centrali nucleari − costituiscono un elemento centrale della crisi economica complessiva.
La produzione di carbone era largamente sovvenzionata dallo stato nell'URSS, e tale resta in massima parte nella Russia. Al calo delle esportazioni in atto non corrisponde che una modesta diminuzione della produzione: una razionalizzazione del settore comporterebbe infatti la chiusura di parecchie miniere, con conseguente crisi occupazionale. Si è invece lasciata diminuire liberamente l'estrazione del petrolio, mentre si progettano nuovi oleodotti per smaltire in Occidente, dal porto russo di Novorossijsk, la crescente produzione petrolifera di Kazakistan e Azerbaigian (396 milioni di t nel 1992, 3° posto nella graduatoria mondiale). Più complessa la situazione del gas naturale (640 miliardi di m3 nel 1992, 1° posto nella graduatoria mondiale): l'impresa statale Gazprom, in via di privatizzazione, ha programmi ambiziosi di sfruttamento di vasti giacimenti gassiferi in Siberia, anche al Circolo polare e oltre, fino alla penisola di Jamal fra l'estuario dell'Ob e il Mar di Kara; la cooperazione tecnico-finanziaria di imprese tedesche mira all'esportazione del gas verso i paesi europei, che tuttavia è un po' diminuita negli ultimi anni creando problemi agli impianti già esistenti. Obsolescenza e scarsa affidabilità caratterizzano gli impianti per la produzione di energia nucleare (v. oltre). Sia per il petrolio sia per il gas l'entità della produzione russa non ha troppo sofferto per il distacco delle altre repubbliche ex sovietiche, che ne erano produttori relativamente modesti. Più ridimensionata invece la produzione di elettricità (989 miliardi di kWh nel 1992, 2° posto nella graduatoria mondiale), essendo venute a mancare le centrali a carbone e idriche dell'Ucraina.
Quanto ai minerali metallici, la R. resta un buon produttore di ferro anche dopo la perdita dei grandi giacimenti ucraini di Krivoj Rog e della penisola di Kerč in Crimea, che fornivano all'incirca la metà della produzione sovietica. Resta alla R. l'"anomalia magnetica di Kursk" nel Rialto Centrale, dove il minerale è ad alto tenore di metallo, lo sfruttamento è di origine più recente e le riserve accertate sono imponenti. Ci sono poi i giacimenti in sviluppo della penisola di Kola e della Carelia, quelli tradizionali degli Urali (peraltro in via di esaurimento) e molti sparsi per la Siberia.
Ridotte le possibilità per parecchi metalli non ferrosi. Il grosso delle riserve di rame se n'è andato con il Kazakistan, con l'Uzbekistan e con le repubbliche transcaucasiche; restano alla R. i giacimenti relativamente minori degli Urali, della penisola di Kola e della regione di Norilsk. Anche piombo e zinco si trovano soprattutto nel Kazakistan, ma rimangono ai Russi i giacimenti uralici, siberiani e dell'Ossezia settentrionale. Infine i metalli preziosi: anche per l'oro e l'argento la R. deve abbandonare i giacimenti del fortunato Kazakistan e quelli dell'Uzbekistan, ma conserva quelli degli Urali e della Siberia.
L'industria russa si confronta oggi con due problemi cronici ereditati dall'età sovietica, l'arretratezza tecnologica e organizzativa da un lato e l'insufficiente sviluppo delle industrie leggere (produttrici di beni di consumo) dall'altro; ma c'è anche un terzo problema, nuovo pur se connesso in un certo senso con il secondo: la riconversione delle produzioni belliche. La riduzione della spesa militare, conseguente al ridimensionamento politico-internazionale del paese, legata al drastico allentamento della tensione con l'Occidente inevitabile per attenuare la crisi economica, sollecitata dai fornitori di aiuti occidentali, ha ovvie ripercussioni su una vasta gamma di industrie, prevalentemente pesanti ma anche tecnologiche, di punta, qualitativamente fra le migliori del paese. Fra le resistenze della lobby militar-industriale e le iniziative tecnicamente improbabili (come quella di riconvertire le linee produttive di una fabbrica di carri armati per la costruzione di trattori), qualche soluzione sembra avviata al successo, come per es. il passaggio alla produzione di aerei civili nel complesso aeronautico militare di Omsk nella Siberia occidentale. D'altronde la fabbricazione degli armamenti è una delle poche industrie russe competitive sui mercati internazionali, in particolare del Terzo Mondo, e sono quindi comprensibili le resistenze al suo ridimensionamento.
La produzione dell'acciaio (67 milioni di t nel 1992, 4° posto nella graduatoria mondiale), tradizionale orgoglio sovietico ai tempi di Stalin e oltre, si è praticamente dimezzata negli ultimi anni, a causa sia di un marcato calo produttivo dovuto al sovrapporsi della crisi nazionale russa e di quella internazionale siderurgica, sia e ancor più della perdita della produzione ucraina, circa un terzo del totale sovietico.
Anche le metallurgie non ferrose hanno visto ridursi le loro produzioni, ma non nella misura che si potrebbe presumere considerando la prevalente localizzazione extra-russa dei relativi giacimenti. Infatti, a parte gli stabilimenti di prima lavorazione dei minerali situati nei pressi delle miniere, parecchi kombinaty polimetallici erano stati localizzati sul mercato o sull'energia, e quindi frequentemente in Russia. Per di più, alcuni metalli di produzione russa come il piombo e l'alluminio hanno visto aumentare in questi anni, in clima di apertura commerciale internazionale e data la competitività dei loro costi di produzione, le loro esportazioni in Occidente.
Nel settore meccanico, la produzione di autoveicoli, pur avendo risentito della crisi dell'acciaio, è calata di poco, essendo stata concentrata fin dall'inizio in R. per l'85÷90% della capacità produttiva (1594 migliaia di unità nel 1992; 8° posto).
Nella vasta gamma delle industrie chimiche la situazione è molto differenziata. In genere la maggior parte degli impianti era localizzata e dunque è rimasta in R.: per es., per quanto riguarda la chimica di base, la produzione dell'acido solforico a San Pietroburgo e nella R. europea centrale, quella della soda sul Volga (Samara) e presso il Bajkal (Irkutsk). Più disperse risultano le fabbriche di fertilizzanti e le raffinerie di idrocarburi, rimaste dunque, in parte, in dotazione ai paesi dell'Asia centrale e della Transcaucasia.
Le produzioni tessili derivate dal cotone (702.000 t di filati nel 1992, 6° posto) si sono fortemente ridotte, essendo venuta meno la produzione ucraina e soprattutto quella uzbeka, ma non si sono certo azzerate com'è avvenuto per il raccolto agricolo della materia prima, poiché da tempo le industrie cotoniere si trovavano localizzate assai più nelle regioni maggiormente popolate della R. europea che nelle aree coltivate a cotone dell'Asia centrale.
Le industrie leggere, dall'abbigliamento al calzaturificio, dal mobilificio al settore alimentare, stanno nel complesso reggendo bene la trasformazione dell'economia russa. Molte branche di esse erano storicamente localizzate nelle grandi città e nelle aree più popolose della R. europea, ma naturalmente non mancavano tradizioni manifatturiere in Ucraina, Bielorussia, Paesi Baltici e anche in Transcaucasia, per cui una parte dell'apparato produttivo è entrato a far parte della dotazione industriale di questi nuovi paesi.
La produzione di cemento (61 milioni di t nel 1992, 4° posto), infine, ha molto risentito della crisi generale. Il dimezzamento della produzione russa, rispetto a quella sovietica di cinque anni fa, si deve all'incirca in parti uguali a un'autentica contrazione produttiva e al distacco della più industrializzata ex repubblica sovietica, l'Ucraina.
La rivoluzione del commercio estero. - Tutto è cambiato nel commercio estero russo. Intanto, non esiste più il Comecon, con le sue regole particolari e le sue relazioni preferenziali interne. Ma soprattutto, una larga parte di quello che era commercio interno all'URSS è diventato commercio estero per la Russia.
Gli scambi fra le repubbliche federate sovietiche erano intensi, e il loro volume era molto superiore, almeno quintuplo secondo valutazioni prudenti, a quello degli scambi fra l'intera Unione e il resto del mondo. Questo dipendeva sia dall'ovvia maggior facilità degli scambi, sia dalla diversificazione e specializzazione economica delle varie repubbliche, che era stata voluta specialmente da Stalin anche per favorirne l'interdipendenza e quindi la coesione. Oggi questi scambi sono diventati internazionali, fra stati sovrani membri della CSI, e se da un lato c'è una qualche semplificazione per aver alcuni di essi − ma in numero via via decrescente − conservato il rublo come moneta comune, dall'altro lato prezzi, balzelli, pedaggi, barriere doganali, e persino richieste di pagamento in dollari, vengono sovente usati dai nuovi stati come strumenti di pressione nelle loro controversie politiche, etniche o territoriali. In ogni caso, quando non si torna al tradizionale baratto sono i prezzi del mercato libero internazionale a essere adottati come elementi di riferimento nel commercio intra-CSI. Ucraina, Kazakistan, Bielorussia e Uzbekistan nell'ordine assorbono l'85% degli scambi della R. con il suo ex impero.
Per l'anno 1992 si è avuto il primo dato attendibile sul valore complessivo del commercio estero della Federazione Russa, espresso in dollari e perciò raffrontabile a livello internazionale: 38 miliardi di dollari di esportazioni e 35 di importazioni. Cifre modeste, che pongono la R. al 20° posto nella graduatoria internazionale del commercio estero (quindi dopo paesi come l'Austria o la Svezia), ma perfettamente spiegabili con il trauma di un paese, che per quanto riguarda le relazioni economiche con l'estero è entrato letteralmente in un altro mondo.
Il commercio per via marittima, e questo è un aspetto positivo, continua ad avvalersi di una flotta commerciale notevole, pari ai 2/3 della vecchia flotta sovietica e al 9° posto fra le marinerie mondiali. Novorossijsk e Tuapse, sul tratto costiero del Mar Nero rimasto alla R., risultano oggi i due porti principali, seguiti da Vostocny (il nuovo porto per container sul Mar del Giappone) e finalmente dalla vecchia San Pietroburgo sul Baltico. Dal punto di vista merceologico, i prodotti minerari continuano a rappresentare il grosso delle esportazioni (il 54%, in valore, nel 1992), mentre all'importazione prevalgono macchinari, attrezzature e veicoli (39%), seguiti dai prodotti agro-alimentari (27%).
Il riassetto della rete urbana e la città russa postsocialista. - L'Unione Sovietica aveva una rete urbana in complesso equilibrata, abbastanza aderente al modello rango-dimensione almeno nei gradini superiori della gerarchia delle città. A Mosca, metropoli indiscussa con i suoi quasi 9 milioni di abitanti, faceva da contrappeso Leningrado, con una popolazione all'incirca pari alla metà; terza città per consistenza demografica era Kijev, con un po' meno di 1/3 degli abitanti di Mosca, seguita da Taškent con 1/4 esatto della popolazione della capitale, e da Minsk con un po' meno di 1/5. Oggi però Kijev è diventata la capitale del nuovo stato ucraino, Taškent del nuovo stato uzbeko, Minsk del nuovo stato bielorusso, e anche Harkov, tra le maggiori città sovietiche d'un tempo, è rimasta fuori dai confini della Federazione Russa. Il quadro attuale della gerarchia urbana russa appare dunque il seguente (dati di popolazione, in milioni di abitanti, al 1993): Mosca 8,7; San Pietroburgo 4,4; Nižni-Novgorod 1,4; Novosibirsk 1,4; Jekaterinburg 1,4; Samara 1,2; Omsk 1,2; Čeljabinsk 1,1; Kazan 1,1; Perm 1,1; Ufa 1,1; Rostov 1,0; Caricyn 1,0. Dopo le due metropoli tradizionali, dunque, c'è una sorta di vuoto dimensionale − che inevitabilmente diventa anche vuoto funzionale − e si passa poi a una pletora di città milionarie, sostanzialmente equivalenti tra loro per peso demografico e dotazione di servizi.
Si potrebbe pensare che questa sia la situazione ideale per uno stato federale: senonché 11 delle 13 maggiori città sopra elencate si concentrano in una sola repubblica federata, quella della R. in senso stretto, che riconferma così la propria dominanza nell'ambito della Federazione. Solo Kazan e Ufa sono capitali, rispettivamente, delle repubbliche federate dei Tatari e dei Baschiri, mentre le altre capitali repubblicane non superano il mezzo milione di abitanti. È troppo presto per segnalare dei mutamenti nella struttura interna delle città russe, viste in passato come prototipi di città socialista, cioè di un modello urbano ideale contrapposto o almeno diversificato dalla città capitalista. Per ora, solo nelle città maggiori, e specialmente a Mosca, appaiono segni di mutamento del volto urbano, come la moltiplicazione degli esercizi commerciali, l'apertura di alberghi, di catene internazionali, l'apparizione di insegne pubblicitarie, l'eliminazione di quegli aspetti dell'arredo urbano (come statue, insegne e scritte) che erano variamente connessi al passato comunista, infine l'epurazione della toponomastica stradale di regime. Ferma, ma lo era già da un po', la costruzione di città nuove o satelliti, che non è mai stata estranea, d'altronde, neppure all'urbanistica capitalista. Incerto, infine, il destino delle ''città chiuse'', un tempo specializzate nell'industria militare e non accessibili agli stranieri.
La rivoluzione toponomastica. - Come nella toponomastica infraurbana, così nei nomi delle città stesse si è verificata una vera e propria rivoluzione. O, meglio, si potrebbe parlare di contro-rivoluzione o di restaurazione, visto che si è trattato del ripristino di nominativi preesistenti, di origine medievale o moderna ma comunque sempre prerivoluzionari, che erano stati sostituiti in età comunista, di solito con nomi di protagonisti della rivoluzione bolscevica.
Così, tra il 1990 e il 1992 sono riapparsi sulla carta geografica della R. nomi che ne erano scomparsi per lo più negli anni Venti o Trenta. Perciò Leningrado (1924) ha ripreso l'antico nome di San Pietroburgo (1703), che era diventato via via Pietroburgo nell'uso comune e Pietrogrado nel 1914 per nazionalismo antigermanico. A nord e a est di Mosca sono riapparsi gli antichi illustri nomi di Tver (Kalinin dal 1933) e di Nižni-Novgorod (Gorki dal 1932: in questo caso non si trattava propriamente di un gerarca sovietico). Rybinsk, pure a nord di Mosca, ha potuto chiamarsi Andropov solo cinque anni: dal 1984 (data della morte dell'esponente politico) al 1989 (la prima in assoluto delle restaurazioni toponomastiche postcomuniste). Nella Ciscaucasia, ha ripreso l'orgoglioso nome di Vladikavkaz ( = dominatore del Caucaso) la città che era stata intitolata a Ordžonikidže nel 1954. Sul medio Volga troviamo Samara, città cinquecentesca che si è chiamata Kujbyšev per sessant'anni (1930-90); e, sul basso corso del fiume, la coeva Caricyn (=dello Zar), ribattezzata Stalingrad nel 1925 e con questo nome passata alla storia − per l'epica vicenda bellica che nel 1942-43 segnò una delle svolte essenziali della seconda guerra mondiale −, ma poi chiamata in modo più neutro Volgograd (1961, sull'onda della destalinizzazione) e nel 1991 riportata al toponimo zarista. Infine, nello stesso anno al di là degli Urali la settecentesca Jekaterinburg ha ripreso a onorare il nome della grande Caterina, dopo essersi chiamata Sverdlovsk per un sessantennio.
Gli spostamenti di popolazione. - Fino al 1988, l'emigrazione dall'Unione Sovietica, quella tollerata o − ancor più rara − quella clandestina, era un fenomeno limitatissimo, che riguardava qualche decina di migliaia di persone all'anno. La svolta del 1989 ha forse decuplicato le partenze annue, ma non si sono per ora verificate le catastrofiche previsioni occidentali che prefiguravano un esodo in massa dalla Russia. Dal 1993, il rilascio del passaporto e la libertà di espatrio sono assicurati a tutti i cittadini russi, ma è l'Occidente che si è rivelato per la sua parte avaro nella concessione dei visti d'ingresso. Non ci sono del resto, per ora, le premesse di una forte emigrazione russa. La pressione demografica, dopo il distacco delle repubbliche asiatiche, è ormai nulla nel paese: il tasso di natalità, che toccava il 17ı ancora nel 1987, è ora allineato a quelli più bassi dell'Europa occidentale, con un valore medio dell'11ı nel 1992; il tasso di mortalità l'ha ormai scavalcato raggiungendo il 12ı. Con una crescita naturale praticamente negativa, diventa inevitabile un rapido futuro invecchiamento della popolazione; solo una drammatica crescita della disoccupazione, specie giovanile, potrebbe quindi generare consistenti flussi di emigrazione. Tutto dipende, dunque, dall'evoluzione delle condizioni economiche della R.: un ulteriore motivo, per i paesi occidentali, di aiutare concretamente questa evoluzione.
Allo stato attuale, l'emigrazione dalla R. è essenzialmente un fatto etnico. L'emigrazione dei cittadini di religione ebraica verso Israele, ammessa con grandi limitazioni già in epoca sovietica, ha avuto una brusca impennata con la liberalizzazione del 1989-90, e continua oggi in misura relativamente sostenuta, anche a causa di un certo pericoloso riaffiorare dell'antisemitismo. In minor misura stanno emigrando Russi di origine tedesca (una punta si è verificata nel 1991), e in numero ancor più ridotto cittadini appartenenti alle minoranze di confine, di origine polacca, greca, finnica, ungherese.
Un aspetto particolare è rappresentato dall'emergere di una certa fuga di cervelli: persone qualificate, che hanno ricevuto una formazione adeguata nelle strutture universitarie sovietiche e sono in grado di aspirare a posti ben retribuiti nelle industrie avanzate o nei centri di ricerca all'estero. Ne sarebbero già emigrate circa 30.000 nel triennio 1990-92. Si tratta certamente di un problema, perché un depauperamento delle élites intellettuali russe potrebbe compromettere l'evoluzione economica del paese e generare nuove crisi. C'è anche il problema, secondario ma non trascurabile, di quei numerosi scienziati e tecnici dell'industria nucleare militare, che hanno oggi forte probabilità di restare sottoccupati in R., e potrebbero essere allettati da offerte d'impiego magari in paesi poco affidabili: anche in questo caso, ci sono segni che l'Occidente, timoroso di tale prospettiva, si sta attivando per incentivare la riconversione a scopi pacifici di questo personale in patria.
A fronte di questa limitata emigrazione, quasi inesistenti risultano le correnti d'immigrazione in R. provenienti dall'esterno del vecchio spazio sovietico: esse s'identificano con il rientro di una parte dei non molti esuli, fuggitivi o espulsi nei decenni del regime sovietico, a cominciare da A. Solženicyn. A titolo di curiosità va registrato il rimpatrio di un centinaio di superstiti, o di loro discendenti, fra i nobili fuoriusciti (zacritniki) all'epoca della rivoluzione bolscevica. Vanno però considerati anche quegli spostamenti che, pur essendo ormai altrettanto internazionali, rimangono nell'ambito della CSI. Infatti, dalla metà degli anni Ottanta (avvento al potere di Gorbačëv) si va verificando lentamente il rientro di una parte dei membri di quei gruppi etnici che erano stati deportati da Stalin sotto accusa di collaborazionismo con i nazisti nel corso della seconda guerra mondiale. Tali spostamenti riguardano peraltro più l'Ucraina (per es. il rientro dei Tatari di Crimea) o altre repubbliche, che non la Russia. Quest'ultima, piuttosto, è alle prese con la prospettiva di rimpatrio di Russi residenti nelle altre repubbliche ex sovietiche, specialmente di quelli che vivono in paesi a rischio o in aree di conflitto etnico. Una prospettiva contrastata, sia per i paesi di partenza, che in genere non vedono di buon occhio un rimpatrio massiccio delle minoranze russe e slave in genere (le quali rappresentano una componente importante della loro economia), sia per la R. stessa, per cui è un vero problema disporre dei posti di lavoro, e delle stesse abitazioni, per un eventuale afflusso massiccio di rientri. Dati diffusi nel 1992 parlano fino ad allora di circa mezzo milione di rifugiati, specialmente dal Tagikistan, dall'Abhasia (Georgia) e dal Trans-Dnestr (Moldavia).
La ''glasnost'' ecologica. - Tra i fondamentali mutamenti verificatisi o in atto in R. a partire dalle riforme di Gorbačëv, è da citare il nuovo atteggiamento nei confronti dei problemi dell'ambiente. Nella vecchia Unione Sovietica si erano verificati per es. molti incidenti in centrali nucleari (come a Čeljabinsk, nella Siberia sud-occidentale, nel 1957 e di nuovo nel 1967), con fughe radioattive di grande portata, migliaia di morti e centinaia di migliaia di contaminati. Scorie radioattive venivano nascostamente scaricate nell'Artico e nel Pacifico; nel primo di questi oceani venivano pure abbandonati senza problemi i reattori di rompighiaccio e sommergibili nucleari affondati. Il tutto senza contare gli esperimenti a carattere militare, condotti senza alcun riguardo per le popolazioni delle aree interessate. Questi fatti erano accuratamente tenuti nascosti all'estero, e nei limiti del possibile anche alle stesse popolazioni locali interessate: alcuni di essi sono emersi soltanto da rapporti presentati alla Conferenza di Rio del 1992. Ancora nel 1986, furono osservatori svedesi ad avvertire il mondo del disastro di Černobyl, mentre i dirigenti sovietici non avvisarono neppure la popolazione locale.
Poi la glasnost (''trasparenza'') predicata da Gorbačëv ha preso faticosamente il sopravvento. Solenni mea culpa sono stati recitati dai nuovi dirigenti, e nel marzo 1992, per es., l'incidente nucleare di San Pietroburgo è stato immediatamente reso pubblico all'interno e all'estero. Lo scarico di scorie radioattive viene oggi preannunciato in anticipo (ci vorranno dieci anni prima che siano pronti depositi sicuri a terra) pur tra le proteste del Giappone. Restano grossi problemi ecologico-economici. Circa la metà delle 60 centrali nucleari russe e ucraine sono in varia misura pericolose o poco sicure e sarebbero senz'altro da chiudere, secondo un rapporto tecnico stilato congiuntamente, dopo approfondite ispezioni, da due note agenzie specializzate (la svedese Asea e la svizzera Brown Boveri). Questo provvedimento aprirebbe problemi di rifornimento energetico probabilmente insolubili senza un massiccio aiuto, finanziario oltre che tecnico, occidentale; e tuttavia si tratta di un provvedimento che sarebbe più facile prendere per tempo, senza aspettare quella ripresa economica che farebbe rialzare bruscamente la domanda di energia.
Al di là del tema nucleare, altre questioni ecologiche vengono sempre più discusse, e affrontate con spirito nuovo, nella R. degli anni Novanta: dall'inquinamento del Volga, fiume che fino al decennio precedente era stato considerato un autentico spurgo gratuito per gli scarichi industriali, al progressivo prosciugamento del lago d'Aral, affrontato dal geografo moscovita Kotlyakov già negli anni Ottanta, ma oggi divenuto problema esclusivo dei nuovi stati indipendenti dell'Asia centrale. Ancora poca attenzione viene dedicata, invece, all'inquinamento derivante dal traffico urbano nelle grandi città, traffico che è in crescita e che fa uso di carburanti particolarmente deleteri.
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Economia. - L'evoluzione dell'economia e della politica economica della R. è profondamente intrecciata agli eventi politici internazionali, regionali e interni che hanno segnato la storia recente del paese. Sul piano internazionale, il dissolvimento dell'URSS e l'inserimento della R. nella comunità politica internazionale implicano, almeno a medio-lungo termine, l'accettazione delle regole dell'economia di mercato, e quindi una progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali; una conseguenza che appare ormai irreversibile è il collasso della rete di relazioni economiche privilegiate con i paesi dell'Europa orientale − basata sull'esistenza di prezzi politici e di sistemi di clearing- accompagnato dal riorientamento del commercio estero soprattutto verso l'area OCSE. In secondo luogo, la fine del bipolarismo rende necessaria la riduzione degli armamenti e il ridimensionamento drastico dell'apparato produttivo direttamente e indirettamente legato alla domanda e al controllo militare, con la conseguente esigenza di una riconversione industriale di enormi proporzioni. Un terzo importante elemento di novità è l'apertura al capitale straniero, indispensabile sia per integrare le risorse finanziarie interne e facilitare l'adozione di tecnologie occidentali, sia per introdurre criteri moderni di gestione delle imprese. Infine, non va sottovalutata l'adesione agli organismi mondiali di cooperazione e regolazione economica, in particolare il Fondo Monetario Internazionale, condizione per una futura convertibilità del rublo e per il sostegno finanziario occidentale, che comporta però vincoli e controlli sulla politica economica interna.
Sul piano regionale, cioè nell'ambito dell'area economica corrispondente al territorio dell'ex URSS, sono finora scarsi i risultati del tentativo di riaggregazione politica ed economica delle ex repubbliche, anche se, di fatto, continua a sussistere una qualche forma impropria di comunità economica regionale, basata sui preesistenti legami economici, sul ruolo ancora importante del rublo al di fuori della R., e su un minimo di azioni comuni di politica monetaria e valutaria. Tuttavia, il fallimento o comunque lo stallo del processo d'integrazione nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), e la conflittualità tra alcune delle ex repubbliche, rendono più difficile affrontare alcuni nodi strutturali dell'economia che vanno sciolti a livello regionale (riconversione dell'apparato militare, approvvigionamento energetico, ricomposizione settoriale delle industrie nazionali, stabilità monetaria nell'area del rublo); e hanno già avuto come effetto immediato il rallentamento degli scambi intraregionali, causa non trascurabile della contrazione della produzione in R. come nelle altre ex repubbliche.
Sul piano interno, infine, tutti i cambiamenti politici che si sono succeduti sono stati anche contraddistinti da mutamenti degli indirizzi di politica economica: dall'approccio riformistico graduale della perestrojka gorbačëviana, alle ricette di rapido e radicale passaggio al mercato proposte dalla leadership ''democratica'' di El'zin e sostenute dal Fondo Monetario, al ripensamento sulle misure di liberalizzazione dei prezzi da adottare di fronte a un'inflazione galoppante, sotto la spinta della principale opposizione parlamentare al governo, etichettata come ''lobby industriale''.
I contraccolpi dei mutamenti politici e istituzionali sull'economia si sono sovrapposti al progressivo logoramento, in corso già da anni, sia della capacità produttiva (arretrata rispetto agli standard tecnologici occidentali e compromessa da insufficiente ricambio e manutenzione degli impianti), sia della capacità di direzione economica, divenuta inadeguata per la gestione di un'economia industriale moderna e forse anche per guidare lo ''sviluppo estensivo'' del passato.
La caduta dell'attività produttiva appare oggi di dimensioni drammatiche, ma il rallentamento della crescita economica era iniziato da tempo. Il Prodotto Interno Lordo, che negli anni Sessanta era mediamente cresciuto in termini reali del 6÷8% l'anno, e aveva mantenuto una crescita media del 4% nel decennio 1974-83 e del 3% nei sei anni successivi, è sistematicamente diminuito nel corso degli anni Novanta: nel 1990 si è verificata per la prima volta una riduzione, sebbene modesta, intorno allo 0,4%, segnale del dissesto produttivo già in atto; gli effetti di tale dissesto si sono pienamente manifestati nel 1991 (contrazione del PIL del 9%) e ancor più nel corso del 1992 e del 1993, nei quali il calo è stato rispettivamente del 18% e del 19%; le proiezioni dell'FMI indicano ancora una riduzione, dell'ordine del 17%, per il 1994. In un quinquennio, dunque, il PIL si è praticamente dimezzato.
La contrazione del Prodotto Nazionale Lordo in termini reali ha interessato tutte le componenti della domanda globale. Il tracollo degli investimenti ha costituito, tuttavia, il segnale premonitore e il motore della crisi: con il venir meno del sistema di allocazione finanziaria centralizzata, il rinnovamento dello stock di capitale fisso, che già da tempo presentava gravi problemi di scarsa produttività per obsolescenza tecnologica e invecchiamento fisico, si è completamente arrestato (gli investimenti lordi hanno subito riduzioni superiori al 60%), il che ha impedito non soltanto l'introduzione di innovazioni, ma persino le già ridotte sostituzioni ordinarie e la stessa manutenzione degli impianti; molti investimenti sono stati lasciati a metà e irrimediabilmente perduti; sono state inoltre vanificate le intenzioni di ristrutturazione e conversione industriale, ma sono anche entrati in crisi i settori tradizionali, ad alta intensità di capitale, in particolare quello energetico, nel quale si concentra il 40% degli investimenti dell'intera industria russa.
Le difficoltà del settore energetico hanno avuto effetti immediati sulle esportazioni (petrolio e gas costituiscono le voci principali delle esportazioni russe), sulle quali hanno inciso pesantemente anche la dissoluzione del COMECON e le difficoltà delle relazioni commerciali all'interno dell'ex URSS. D'altra parte l'avvio della liberalizzazione degli scambi con l'estero, i programmi di aiuto e di approvvigionamento di emergenza, oltre che l'effetto d'imitazione attivato da questi ultimi, hanno fatto aumentare le importazioni, nonostante la concomitante riduzione della domanda globale. La riduzione delle esportazioni e l'aumento delle importazioni hanno fatto sì che dal 1990 la bilancia commerciale della R. registri sistematicamente saldi negativi.
La riduzione dei consumi, conseguenza della caduta del PIL, non costituisce un fattore attivo nella recessione, le cui cause vanno invece ricercate dal lato dell'offerta e, in larga misura, nella politica economica restrittiva attuata dal governo russo per combattere l'inflazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, oltre alle difficoltà già menzionate relative alla dotazione di capitale fisso, continua ad avere un peso importante nella persistente penuria di merci la non corrispondenza della composizione merceologica della produzione a quella della domanda; decisivo, infine, è stato l'effetto dirompente dell'approccio ''radicale'' alla transizione al capitalismo, con l'abbandono delle regole di governo amministrativo dell'economia (il cosiddetto ''sistema di comando'') quando ancora non erano stati messi a punto i meccanismi di mercato: si è così determinato un vuoto istituzionale e organizzativo che mina l'intera sequenza produzione-trasporto-distribuzione delle merci.
Per ciò che concerne l'azione economica del governo volta a fronteggiare l'impatto congiunto d'inflazione e contrazione dell'attività produttiva, è soprattutto l'ambito monetario a esserne stato interessato, essendo prioritario sul versante fiscale il problema della trasformazione del bilancio dello stato e il contenimento del deficit a essa conseguente: non essendo più i margini operativi delle aziende la principale voce d'entrata nel bilancio, è stata necessaria l'organizzazione ex novo di un sistema tributario che faccia delle imposte sul reddito e sugli affari il nuovo perno delle entrate statali; l'impresa è di per sé così ardua da rinviare a lungo termine ogni possibilità di manovra efficace della politica fiscale in funzione stabilizzatrice. Due sono i principali indirizzi seguiti dalla politica monetaria: il primo, di carattere strutturale e di lungo periodo, consiste nella stessa rifondazione del sistema monetario e creditizio, con nuove regole, istituzioni e strumenti: a partire dall'istituzione di una banca centrale indipendente o comunque in grado di utilizzare gli strumenti tipici di controllo dell'offerta di moneta di cui dispongono le banche centrali dei paesi a economia di mercato (tasso d'interesse sul rifinanziamento delle banche, riserve obbligatorie, ecc.) e dalla formazione di un sistema bancario costituito da veri intermediari finanziari e non da meri esecutori di decisioni governative, come in precedenza; il secondo indirizzo, di più breve periodo, e finalizzato alla stabilizzazione dell'economia, è consistito nel mantenimento di una crescita moderata degli aggregati monetari a prezzi correnti, tale da garantire all'economia una liquidità adeguata al nuovo livello dei prezzi, ma che allo stesso tempo costituisse una contrazione in termini reali della stessa offerta di moneta, in modo da provocare una riduzione della domanda di beni e servizi e quindi il controllo della crescente inflazione.
La trasformazione del sistema creditizio è strettamente connessa alle decisioni relative alla stabilizzazione monetaria. A entrambi i campi d'intervento appartengono la fissazione di limiti quantitativi all'emissione di moneta e all'espansione dei crediti al governo da parte sia della banca centrale che delle aziende di credito, l'introduzione generalizzata e uniforme della riserva obbligatoria per tutte le banche, e la limitazione degli interventi amministrativi volti a condizionare la struttura e i livelli dei tassi d'interesse bancari. Il nuovo quadro di riferimento per la strumentazione della politica monetaria stenta però a decollare, e finora la banca centrale russa ha effettuato il controllo dell'offerta di moneta tramite la gestione di strumenti amministrativi, cioè fissando limiti quantitativi all'emissione di moneta col mettere fuori corso le banconote emesse in anni precedenti, e imponendo vincoli all'estensione del credito bancario, piuttosto che ricorrendo a variazioni del tasso d'interesse o del regime di riserva obbligatoria. Le misure adottate sono state fortemente restrittive. Nel periodo in cui maggiore è stata la riduzione dell'offerta di moneta (gennaio-giugno 1992), il credito complessivo della banca centrale russa al governo e all'economia si è più che dimezzato in termini reali, e il credito del sistema bancario si è ridotto a poco più di un terzo di quello che si era riscontrato alla fine dell'anno precedente, così come lo stock di moneta (M2). Anche se, a partire dal secondo semestre, la stretta viene allentata per la necessità di finanziare l'espansione del deficit del bilancio statale, la riduzione della quantità di moneta in circolazione resta un fatto acquisito: nell'intero anno 1992, la base monetaria, M2 e il credito bancario risultano essere diminuiti rispettivamente del 48,6%, del 70,7% e del 61,7%, e il rapporto M2/PIL si è più che dimezzato.
Una così drastica politica monetaria e creditizia, tuttavia, mentre ha determinato la drammatica caduta dei consumi, ha avuto un impatto molto limitato sui prezzi e non è servita a riattivare il sistema produttivo: l'eccesso di domanda non è rientrato con la contrazione della domanda stessa, in quanto la produzione ha continuato la sua caduta verticale, con molte imprese a corto di liquidità e costrette ad arrestare la propria attività, o ad accumulare debiti verso partners commerciali, fornitori e personale; d'altra parte, la liberalizzazione parziale dei prezzi, cresciuti enormemente per i prodotti intermedi (per es. dal 1990 al 1992, le tariffe elettriche per l'industria sono aumentate di oltre 100 volte), ha riportato in equilibrio il bilancio di alcune imprese, ma ha creato seri problemi a molte altre.
Hanno così finito con l'indebolirsi le motivazioni di una politica monetaria restrittiva, alla cui base era la convinzione, non infondata, che l'inflazione fosse determinata da un eccesso di domanda sul mercato reale, ma che riteneva − con un'astrattezza cui hanno forse contribuito i consiglieri economici occidentali e la rigidità dei criteri del FMI − che la sterilizzazione delle attività monetarie delle famiglie sarebbe bastata a ristabilire gli equilibri macroeconomici. In assenza di efficaci politiche strutturali volte a migliorare le condizioni dell'offerta e a incentivare la ripresa degli investimenti, continuano a coesistere stagnazione economica e inflazione galoppante; e appaiono sempre più difficili da accettare − senza risultati tangibili − le difficoltà in cui si trovano ampie fasce della popolazione. Da qui, insieme al rafforzamento delle forze dell'opposizione, la maggiore prudenza o incertezza che contraddistingue l'attuale politica economica del governo russo, su tutti i fronti della transizione: dalla politica monetaria, al processo di liberalizzazione dei prezzi, alle privatizzazioni, alla completa apertura commerciale verso l'estero, per non parlare dell'obiettivo della convertibilità del rublo, che appare ancora lontano.
Il problema principale è comunque quello di rimettere in moto la crescita del sistema produttivo. Le riforme interne non sembrano sufficienti a realizzare il rinnovamento degli impianti, senza un contributo determinante degli operatori esteri nel finanziamento e nell'importazione di tecnologia. Per la ripresa degli investimenti la stima del fabbisogno immediato è di almeno 50 miliardi di dollari, e non si vede come possano essere reperiti in ambito nazionale mezzi finanziari così cospicui. Spazi per una maggiore cooperazione internazionale esistono, anche perché l'attuale debito estero russo, benché cresciuto rapidamente, non appare straordinariamente elevato: pur avendo la R. assunto a proprio carico il 61% del debito estero dell'ex URSS (circa 75 miliardi di dollari), rientrano nella normalità i rapporti debito/PIL (inferiore al 15%), il rapporto tra servizio del debito e indebitamento (che si mantiene intorno al 20%), così come il rapporto tra servizio del debito ed esportazioni, pari al 27%, anch'esso non superiore a quello che si considera il livello di guardia. I capitali esteri, privati e pubblici, affluiscono, tuttavia, assai più lentamente del previsto.
Storia. - La R. è nata come stato sovrano nel momento in cui, il 25 dicembre 1991, ad Alma Ata, il presidente dell'URSS M. Gorbačëv, al termine della complessa crisi nata dal fallito golpe dell'agosto 1991, abbandonava definitivamente il potere. In precedenza, il 12 giugno 1990, il Parlamento della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR), che allora faceva capo all'URSS (v. in questa Appendice), aveva proclamato il suo diritto all'indipendenza e aveva eletto B. El'zin presidente della Repubblica.
La R. comprende 20 repubbliche, 6 territori (krai), 50 province (oblasti), 2 città (Mosca e San Pietroburgo), 10 circondari (okrugi), cui sono riconosciuti vari gradi di autonomia. Assai forti, anche per la presenza soprattutto nel Nord della Siberia e nel Dagestan di molti gruppi etnici, sono le spinte centrifughe, in alcuni casi anche separatiste. Gravi conflitti col potere centrale si sono aperti in particolare nelle regioni di Jekaterinburg, di Vologda, nel territorio di Primorskij (Vladivostok) e nelle repubbliche Čečenskaja, Baškirija e Inguškaja. Il Trattato della Federazione russa è stato promulgato il 31 marzo 1992, ma la Čečenskaja, il Tatarstan e Tuva non vi hanno aderito; mentre 25 milioni di Russi vivono nelle altre repubbliche dell'ex URSS, concentrati particolarmente in alcune aree, creando situazioni conflittuali anche gravi nell'Ucraina orientale, nella penisola di Crimea, nel Kazakistan occidentale e nelle repubbliche baltiche.
La R. ha ereditato all'ONU il seggio che fu dell'URSS e dispone dunque presso il Consiglio di sicurezza del diritto di veto; è membro fondatore della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), fa parte della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) e ha fatto propri gli impegni internazionali dell'URSS, in primo luogo per quel che riguarda il disarmo nucleare (trattati Start 1 e Start 2, firmati durante il vertice USA-URSS di Washington nel giugno 1992 e di Mosca nel gennaio 1993).
Sino alle elezioni parlamentari del 12 dicembre 1993 la vita politica è stata dominata dal conflitto che ha opposto il presidente El'zin e il governo da lui sostenuto (primo ministro E. Gajdar) alle forze guidate dal vice presidente A. Rutskoj e dal presidente del Parlamento R. Chasbulatov. Alla base del conflitto le misure di politica economica varate dal governo, con la progressiva liquidazione dei prezzi politici, il blocco dei salari e dei risparmi, la riduzione del sostegno dello stato alle grandi aziende deficitarie, l'avvio della privatizzazione. Seppure abbia permesso di ridurre il tasso d'inflazione (che alla metà del 1993 aveva raggiunto il 2600%), di dare spazio a una diffusa imprenditorialità (limitata però ai settori commerciali e fortemente controllata dalla mafia) e di garantire normali rifornimenti alle città ponendo fine alla penuria degli anni precedenti, la ''terapia d'urto'' di Gajdar non è però servita a ridurre il calo della produzione, e ha reso ancora più gravi le condizioni di vita della popolazione a reddito fisso. Di fronte all'acuirsi del conflitto, El'zin − dopo aver sostituito alla testa del governo Gajdar (che in un secondo tempo rientrerà però nel gabinetto come coordinatore dei dicasteri economici) con V. Černomyrdin − ha dapprima puntato sull'aumento dei poteri presidenziali e poi, forte dell'appoggio popolare ricevuto col voto del 25 aprile 1993 che lo aveva confermato presidente, ha destituito il vice presidente, sciolto il Parlamento (21 settembre 1993) e indetto nuove elezioni. Solo dopo sanguinosi conflitti, conclusisi il 4 ottobre 1993 con l'assalto alla sede del Parlamento da parte delle forze armate rimaste fedeli al presidente e la resa degli insorti, il conflitto ha avuto termine.
Le elezioni politiche (12 dicembre 1993) hanno dato alla R. la sua prima Costituzione d'impianto nettamente presidenzialistico, votata però da una maggioranza assai ristretta, e il suo primo Parlamento eletto democraticamente. Le forze politiche che avevano sostenuto le riforme hanno subito una netta sconfitta mentre un forte successo hanno strappato, soprattutto nelle regioni di frontiera e nei grandi centri industriali del Nord e della Siberia, le liste di V. Žirinovskij (alla testa di una formazione della destra sciovinista) e quelle dell'opposizione di sinistra del Partito comunista di G. Žuganov e del Partito agrario di M. Lapšin. In seguito al risultato elettorale, Gajdar e i ministri ''riformisti'' sono usciti dal governo che veniva allargato a esponenti della grande industria pubblica, in particolare di quella del settore militare. Alla fine del febbraio 1994 la votazione da parte del Parlamento di un provvedimento di amnistia a favore dei responsabili del tentativo golpista del 1991 e del pronunciamento insurrezionale dell'ottobre 1993, ha aperto però un grave conflitto fra il presidente e l'assemblea legislativa.
Nella lotta contro le opposizioni El'zin ha potuto contare sul sostegno dell'Occidente e soprattutto degli Stati Uniti. Non però su di un adeguato aiuto economico (anche se il vertice di Tokyo dell'aprile 1993 si è impegnato a fornire 52,4 miliardi di dollari di ''aiuti''). Nella politica estera El'zin si è mosso verso l'Occidente con l'intento di bloccare ogni tentativo di avviare forme d'integrazione economica, politica e militare fra l'Europa occidentale e quella centro-orientale che potesse portare a un isolamento della Russia. Per questo ha preso posizione contro la richiesta avanzata dai paesi dell'Europa centrale e orientale per un loro ingresso nella NATO e ha infine approvato, negli incontri di Bruxelles e di Corfù del giugno 1994, la decisione presa dal Consiglio atlantico il 10 gennaio 1994 di dar vita a una particolare struttura (Partnership per la pace) collegata alla NATO ma autonoma rispetto a essa, aperta a tutti i paesi dell'ex Patto di Varsavia, R. compresa. Nello stesso tempo, però, la R. − che dopo l'iniziale fase ''occidentalistica'' della sua politica ha incominciato a prendere sempre più consapevolezza del suo ruolo di potenza euroasiatica −ha assunto come obiettivi prioritari della sua politica estera quelli connessi alle relazioni con gli altri stati sorti dal crollo dell'Unione Sovietica. In questo quadro va valutata l'iniziativa sviluppata, oltreché attraverso le strutture della Comunità degli stati indipendenti, anche e soprattutto con una serie di iniziative unilaterali, in direzione dell'Ucraina (sui problemi della Crimea, della divisione della flotta del mar Nero oltreché del controllo e della distruzione delle armi strategiche dell'ex Armata Rossa), del Caucaso (per controllare i conflitti sorti fra l'Armenia e l'Azerbaigian e all'interno della Georgia) e dell'Asia centrale (per contenere la pressione dei movimenti islamici sostenuti dalla Turchia e dall'Iran). L'iniziativa assunta nel febbraio 1994 − nell'ambito della guerra nella ex Iugoslavia − per indurre i Serbi a ritirare le armi pesanti dalle colline di Sarajevo, così da rendere vano l'ultimatum lanciato dall'ONU (ma senza il consenso russo) e dalla NATO e da aprire una fase nuova nelle trattative per la Bosnia, è stata da più parti giudicata un possibile primo atto di un nuovo corso della politica estera di Mosca.
Bibl.: Russija Segodnja, a cura di B.I. Koval, Mosca 1993; J.B. Dunlop, The rise of Russia and the fall of the Soviet Empire, Princeton 1993; After the Soviet Union. From Empire to Nations, a cura di Th.J. Colton e R. Legvold, Londra 1993; Che cosa vogliono i russi, a cura di P. Sinatti, Roma 1993; B. Eltsin, Diario del Presidente, Milano 1994.