Abstract
Vengono illustrati i principi fondamentali della disciplina della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro nell'ordinamento italiano così come emergono sulla base della Costituzione (artt. 32 e 41), dell'art. 2087 c.c., della direttiva quadro europea n. 89/391/CEE e soprattutto del d.lgs. 9.4.2008, n. 81 nel quale si rintraccia la più recente attuazione di tale direttiva, recepita per la prima volta con il d.lgs. 19.9.1994, n. 626.
Nell'ordinamento italiano, il fondamento della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro si rinviene in senso generale nella Costituzione: nell'art. 32, co. 1, per il quale «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività...», e nell'art. 41, che riconosce la libertà di iniziativa economica privata (co. 1) purché non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (co. 2).
Tuttavia, già prima della Costituzione era stata posta la pietra angolare del sistema prevenzionistico: il «vecchio» ma inossidabile art. 2087 c.c., secondo cui «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Tale «obbligo di sicurezza» si integra nella dinamica obbligatoria del rapporto di lavoro (art. 1374 c.c.) applicandosi non solo agli imprenditori, ma a tutti i datori di lavoro pubblici e privati. Dal contenuto «aperto» dell’obbligo posto dall'art. 2087 c.c. emerge il principio della «massima sicurezza tecnologica», oggetto di due interpretazioni. La prima, più rigorosa e maggioritaria (principio della «massima sicurezza tecnologicamente possibile») ritiene che il datore di lavoro sia tenuto ad adottare tutte le misure e le cautele preventive suggerite dalla tecnica e dalla scienza più evolute in un dato momento storico, ovvero quelle più idonee a garantire la salute e la sicurezza, a prescindere da ogni valutazione sulla concreta fattibilità e sul costo economico, richiedendosi la semplice disponibilità di una misura sul mercato per renderla obbligatoria (best available tecnology) (C. cost., 27.4.1988, n. 475 e 7.5.1991, n. 202; Cass., 23.9.2010, n. 20142). In base alla seconda (principio della «massima sicurezza ragionevolmente praticabile»), il dovere del datore di lavoro è invece più limitato, esaurendosi nell’adozione solo delle cautele generalmente praticate ed acquisite (standard di sicurezza) nei diversi settori e lavorazioni interessate (C. cost., 25.7.1996, n. 312; C. giust., 14.6.2007, C-125/2005) e richiedendosi che la misura sia accolta negli standard di produzione (best practicable tecnology): tende così a realizzarsi un bilanciamento tra esigenze di protezione ed esigenze economico-produttive, peraltro con il rischio di un abbassamento della soglia di tutela.
L’art. 2087 c.c. fonda una responsabilità contrattuale (Cass., 7.1.2009, n. 45) che richiede la prova della colpevolezza datoriale (Cass., 19.3.2012, n. 4321). Questa può essere totalmente esclusa dall'eventuale condotta negligente o imprudente del lavoratore innanzitutto solo se il datore di lavoro abbia osservato correttamente tutti gli obblighi prevenzionistici (Cass., 15.2.2007, n. 6348) e la condotta del lavoratore sia stata abnorme, eccezionale ed imprevedibile, fuoriuscendo completamente dall’esecuzione della prestazione (Cass., 23.4.2012, n. 6337); in secondo luogo anche ove il lavoratore abbia omesso di rispettare le direttive e gli ordini ricevuti purché però l’inosservanza sia eccezionale ed imprevedibile, ponendosi come unico e determinante fattore causale (Cass., 11.3.2010, n. 9966). Per altro verso, sebbene l’assicurazione obbligatoria antinfortunistica esoneri il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro, permane la responsabilità civile a carico di chi abbia subito una condanna penale per il fatto che ha causato l’infortunio (art. 10, d.P.R. 30.6.1965, n. 1124).
La disciplina tecnica di dettaglio della prevenzione nei luoghi di lavoro è stata introdotta durante la ricostruzione post-bellica grazie ad alcuni decreti presidenziali (d.P.R. 27.4.1955, n. 547; d.P.R. 7.1.1956, n. 164; d.P.R. 19.3.1956, n. 303). In seguito, la riforma sanitaria (l. 23.12.1978, n. 833) ha ricondotto la sicurezza sul lavoro nel nuovo sistema pubblico di prevenzione, mentre lo Statuto dei lavoratori ha proiettato l'interesse alla sicurezza sul lavoro sul piano collettivo (art. 9, l. 20.5.1970, n. 300).
Il punto di svolta della disciplina si è registrato con l'emanazione della direttiva quadro n. 89/391/CEE (seguita da varie direttive particolari) la quale ha inaugurato un nuovo sistema di prevenzione dai rischi nei luoghi di lavoro che, pur se incentrato sulla primaria responsabilità datoriale, è caratterizzato dalla «partecipazione attiva» di vari soggetti, tra cui i lavoratori ed i loro rappresentanti. Dopo il recepimento della direttiva (d.lgs. 19.9.1994, n. 626), il panorama normativo italiano si è quindi ulteriormente arricchito, senza però che a ciò sia corrisposta una riduzione dei dati infortunistici. Di qui l'esigenza di riordinare la disciplina in vista della sua razionalizzazione ed unificazione, prestando anche attenzione ai profondi mutamenti in corso nell'organizzazione produttiva e nel mercato del lavoro.
Il processo riformatore avviatosi nel primo decennio del nuovo secolo si è dovuto peraltro misurare con il quadro delle competenze legislative scaturito dalla riforma del 2001 del Titolo V Cost., nel quale, a fronte della competenza concorrente delle regioni in materia di «tutela e sicurezza del lavoro» (art. 117, co. 3, Cost.), si stagliano varie competenze esclusive dello Stato in materia (aspetti della sicurezza relativi al rapporto di lavoro; tutela collettiva della sicurezza; apparato sanzionatorio, tutela della concorrenza (art. 117, co. 2, Cost.).
Fallito un primo tentativo di unificazione normativa (l. 29.7.2003, n. 229), con la l. 3.8.2007, n. 123 sono stati modificati vari articoli del d.lgs. n. 626/1994, conferendosi nel contempo al Governo un'ampia delega legislativa, ispirata alla direttiva n. 89/391/CEE, per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia, con il vincolo di non ridurre i livelli di tutela. La delega è stata attuata, con la condivisione delle regioni, tramite il d.lgs. 9.4.2008, n. 81, modificato dal d.lgs. 3.8.2009, n. 106 e da successive disposizioni, che ha abrogato gran parte delle norme previgenti (fra cui il d.lgs n. 626/1994) pur se in una prospettiva di continuità e sviluppo. Sebbene non sia un vero e proprio testo unico, il d.lgs. n. 81/2008 rappresenta tuttavia la fonte fondamentale della materia in cui oggi si rinvengono i principi generali del sistema prevenzionistico (Titolo I) e la disciplina di dettaglio per i vari rischi lavorativi (Titoli successivi ed Allegati tecnici).
A differenza del d.lgs. n. 626/1994, il d.lgs. n. 81/2008 dà vita ad un ampio sistema istituzionale della prevenzione, articolato a livello nazionale e regionale.
Sul piano nazionale, presso il Ministero della salute emerge il Comitato di cui all'art. 5, d.lgs. n. 81/2008, vera «cabina di regia» del sistema. Il Comitato – composto da rappresentanti di Ministeri e regioni ed a cui partecipano, con funzione consultiva, rappresentanti dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) – svolge compiti di indirizzo e valutazione delle politiche attive e di coordinamento nazionale delle attività di vigilanza. Presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è insediata la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro, composta, in modo tripartito, da rappresentanti di Ministeri, regioni e da esperti designati dalle parti sociali (art. 6). Oltre a funzioni attinenti alla promozione della cultura della prevenzione ed alla qualificazione delle relative azioni, la Commissione esercita compiti più strettamente tecnico-normativi. Ancora da istituire è invece il Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP), costituito da Ministeri, regioni ed INAIL, che deve fornire dati utili per orientare, programmare, pianificare e valutare l’efficacia della attività di prevenzione, relativamente ai lavoratori iscritti e non iscritti agli enti assicurativi pubblici, e per indirizzare le attività di vigilanza, attraverso l’utilizzo integrato delle informazioni disponibili negli attuali sistemi informativi, anche tramite l’integrazione di specifici archivi e la creazione di banche dati unificate (art. 8).
Oltre all'INAIL – che svolge non solo la propria funzione assicurativa obbligatoria in materia infortunistica, ma anche un importante ruolo nell'incentivazione e nel sostegno di azioni promozionali della prevenzione (artt. 9-11) – nel sistema nazionale campeggia la Commissione per gli interpelli, composta pariteticamente da rappresentati ministeriali e regionali, chiamata a rispondere a quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia (art. 12); diversamente da casi analoghi (v. art. 9, d.lgs. 23.4.2004, n. 124), l’adeguamento alle indicazioni fornite in sede di interpello non comporta l’esclusione di sanzioni, costituendo tali indicazioni solo criteri interpretativi e direttivi per l’esercizio delle attività di vigilanza. Ciò però è tutt'altro che irrilevante considerando che le competenze a vigilare in materia spettano a vari soggetti istituzionali (ASL, Direzioni territoriali del lavoro, Vigili del fuoco ecc.), con evidenti problemi di coordinamento (art. 13).
Anche per ovviare a ciò, in ogni regione opera un Comitato regionale di coordinamento, composto da rappresentanti di varie amministrazioni, che svolge compiti di programmazione e di indirizzo delle attività di prevenzione e vigilanza nel rispetto delle indicazioni e dei criteri formulati a livello nazionale al fine di individuare i settori e le priorità d’intervento delle attività di prevenzione e vigilanza (art. 7).
Connessa alle attività del sistema istituzionale è la previsione della possibile sospensione dell'attività imprenditoriale sia nei casi di utilizzo di lavoro sommerso sia a fronte di gravi e reiterate violazioni in materia prevenzionistica (art. 14).
Il d.lgs. n. 81/2008 si applica a tutte le attività private e pubbliche, sebbene per alcune pubbliche amministrazioni (forze armate, polizia, uffici giudiziari, scuola, università ecc.) sia prevista una disciplina di adeguamento in ragione delle particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle loro peculiarità organizzative (art. 3).
In coerenza con la vocazione universalistica della delega, il «lavoratore», quale destinatario della tutela, è definito dal d.lgs. n. 81/2008 come la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato (esclusi i lavoratori domestici e familiari, come prevede la direttiva comunitaria) (art. 2, lett. a). In base a questa ampia definizione, che tiene conto delle tante tipologie di lavoro che emergono nel mercato, sono quindi «lavoratori» ai fini del d.lgs. n. 81/2008 tutti coloro che il datore di lavoro coinvolge funzionalmente nel proprio ambito organizzativo utilizzandone le prestazioni lavorative per il perseguimento dei propri scopi (economici, istituzionali, non lucrativi ecc.), venendo in luce non solo i lavoratori subordinati (al di là delle varie tipologie contrattuali), ma anche coloro che, pur non dipendenti del datore di lavoro, siano tuttavia assoggettati al suo potere direttivo (lavoratori somministrati), nonché i lavoratori autonomi là dove l'inserimento della loro prestazione nell’organizzazione del committente li esponga a rischi per la loro salute e sicurezza. «Lavoratori» sono anche i soggetti «equiparati»: soci lavoratori di cooperativa o di società anche di fatto; associati in partecipazione ex art. 2549 c.c.; tirocinanti; allievi di istituti e di corsi in cui si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, videoterminali, limitatamente ai periodi di applicazione a tali attività; lavoratori socialmente utili; volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile (per i volontari ex l. 11.8.1991, n. 266 ed i volontari che effettuano il servizio civile è prevista una disciplina ad hoc).
Irrilevante per la definizione di «lavoratore», la tipologia del contratto di lavoro riacquista invece importanza rispetto al quantum ed al quomodo di tutela applicabile, variamente declinata a seconda che si tratti di lavoratori in somministrazione, distaccati, parasubordinati, autonomi, occasionali, a domicilio, in telelavoro e stagionali (art. 3, co. 5 ss.). Anche la computabilità dei lavoratori nell'organico aziendale ai fini dell'applicabilità di alcune norme di tutela è condizionata dal tipo di contratto di lavoro (art. 4).
Se, in ogni caso, la definizione di lavoratore fa leva sull'inserimento nell'organizzazione aziendale, quella di «datore di lavoro per la sicurezza» si fonda sul principio di «effettività". Datore di lavoro è infatti non solo il titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore (definizione formale, relativa per lo più a piccole imprese), ma anche il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (definizione sostanziale) (art. 2, lett. b). Nelle pubbliche amministrazioni è datore di lavoro per la sicurezza il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, individuato dall’organo di vertice dell'amministrazione tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa; in caso di omessa o irregolare individuazione, il datore di lavoro coincide con lo stesso organo di vertice (art. 2, lett. b). Nulla invece prevede la legge per le società di capitali in cui i poteri gestionali siano, di norma, attribuiti ad un consiglio di amministrazione: è nell'ambito di questo che, secondo la giurisprudenza, va individuato il soggetto qualificabile come datore di lavoro per la sicurezza, non potendosi tuttavia escludere la responsabilità di tutti i membri dell’organo medesimo in assenza di diverse previsioni statutarie (Cass., pen., sez. IV, 11.12.2007, n. 6280). D'altro canto, se il consiglio di amministrazione individua, mediante delega ex art. 2381 c.c. (delega “gestionale o organizzativa” e non “di funzioni”), in capo ad un proprio componente la posizione prevalente di datore di lavoro per la sicurezza, in capo agli altri membri del consiglio permane l’obbligo di vigilare sull’operato del membro delegato (Cass., pen., sez. IV, 6.2.2004, n. 4981).
La gestione della prevenzione dai rischi nei luoghi di lavoro si inscrive nell'ampio concetto di prevenzione, definito dal legislatore come «il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno» (art. 2, lett. n, d.lgs. n. 81/2008).
Il sistema di prevenzione aziendale – ispirato alle misure generali di tutela che rispecchiano i principi della direttiva n. 89/391/CEE (art. 15, d.lgs. n. 81/2008) – si fonda su questi caposaldi: obblighi dei vari soggetti; valutazione dei rischi; servizio di prevenzione e protezione; informazione e formazione; sorveglianza sanitaria; gestione delle emergenze; partecipazione e consultazione dei rappresentanti dei lavoratori.
Nonostante la sua primaria posizione di garanzia penalmente sanzionata (art. 18), il datore di lavoro può delegare le proprie funzioni in materia di sicurezza sul lavoro. Valorizzando l'orientamento giurisprudenziale, l'art. 16, d.lgs. n. 81/2008 ammette la «delega di funzioni» (nonché la «sub-delega» da parte del delegato), con il trasferimento delle responsabilità penali (ma non di quelle civili), purché la delega abbia forma scritta e data certa, ne sia data pubblicità, il delegato abbia professionalità ed accetti la delega e, soprattutto, gli siano attribuiti poteri gestionali e di spesa, permanendo comunque in capo al delegante un obbligo di vigilanza. È però esclusa la delegabilità dei due principali obblighi datoriali: valutazione dei rischi ed elaborazione del relativo documento; designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
La configurabilità di posizioni di garanzia in capo a soggetti diversi dal datore di lavoro non dipende solo dal conferimento di una sua delega, poiché su tali soggetti gli obblighi di prevenzione gravano anche iure proprio: ciò vale per il dirigente (artt. 2, lett. d, e 18) e per il preposto (artt. 2, lett. e, e 19). Né vanno trascurati altri soggetti (progettisti, fabbricanti, fornitori ed installatori), a cui si aggiunge lo stesso lavoratore, obbligato, penalmente, a «prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro» (art. 20). In ogni caso, il d.lgs. n. 81/2008, in omaggio al principio di «effettività", dispone che le posizioni di garanzia relative a datore di lavoro, dirigente e preposto gravano altresì su chi, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto e di fatto i poteri giuridici riferiti a ciascuno di tali soggetti (art. 299). Inoltre, datore e dirigenti debbono vigilare sull’adempimento degli obblighi gravanti sugli altri soggetti (compresi i lavoratori) i quali saranno responsabili esclusivi in caso di infortunio solo se ad essi sia addebitabile l'inosservanza di tali obblighi e ove non si riscontri un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti (art. 18, co. 3-bis).
Vari obblighi riguardano anche il «medico competente» (art. 25): professionista in possesso di specifica competenza in materia, che il datore di lavoro deve nominare ove le attività aziendali richiedano la «sorveglianza sanitaria», vale a dire l'insieme degli atti medici finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori (artt. 2, lett. m, e 38-42). La dimensione anche consulenziale del medico competente tende sempre più a sfumare, come dimostra il fatto che la mancata collaborazione del medico alla valutazione dei rischi comporta una discutibile sanzione penale, non ascrivibile invece all'altro soggetto che, nel sistema aziendale, svolge il ruolo di consulente del datore di lavoro: il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) (art. 32 ss.). Quest'ultimo – come gli «addetti» a tale servizio (prioritariamente interno all'azienda) che egli coordina – è l'esperto in materia di sicurezza sul lavoro che il datore di lavoro ha l'obbligo (indelegabile) di nominare (salvi i casi in cui può esercitare da sé le funzioni di RSPP) e di cui si avvale per la gestione della prevenzione: la funzione consulenziale del RSPP, che richiede la frequenza di specifici corsi di formazione, lo esonera da obblighi penalmente sanzionati, essendogli attribuiti solo «compiti» pur rilevanti, come la collaborazione alla valutazione dei rischi ed all'elaborazione del relativo documento. Il RSPP non è tuttavia esente da responsabilità «penale comune» in caso di infortunio o malattia professionale se l’omesso o inadeguato assolvimento di un suo compito rilevi causalmente nella produzione dell’evento lesivo, ovvero se quest’ultimo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli doveva conoscere e segnalare affinché si potessero adottare le misure necessarie per porvi rimedio (Cass., pen., S.U., 18.9.2014, n. 38343).
Particolari obblighi gravano sul datore di lavoro ove nella sua organizzazione produttiva si inseriscano promiscuamente, mediante appalti “interni”, le attività di altre imprese o lavoratori autonomi, così aggiungendosi ai “normali” rischi del luogo di lavoro quelli nuovi derivanti dalle «interferenze» tra le varie attività (art. 26). Oltre a dover verificare l’idoneità degli appaltatori ed informarli sui rischi, il datore committente deve promuovere la cooperazione ed il coordinamento tra le imprese coinvolte elaborando un unico documento di valutazione dei rischi (DUVRI) che indichi le misure adottate per eliminare i rischi da interferenze o per ridurli al minimo. Nei casi di modesta entità delle attività o di bassi rischi, l'obbligo (delegabile) di elaborare il DUVRI non emerge, o può essere assolto diversamente (individuazione di un incaricato; procedure standardizzate). In ogni caso, tra l’imprenditore committente, l’appaltatore e ogni eventuale subappaltatore sorge un vincolo di solidarietà per tutti i danni per cui il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato dall’INAIL. Inoltre, nel contratto di appalto debbono essere specificamente indicati, a pena di nullità ex art. 1418 c.c., i costi (non soggetti a ribasso) delle misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi derivanti dalle interferenze delle lavorazioni. Specifiche disposizioni disciplinano le ipotesi di appalti nell’ambito di applicazione del d.lgs. 12.4.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici).
I principali obblighi datoriali di prevenzione sono comunque la valutazione dei rischi (VDR) e la formazione. Considerata dalla direttiva n. 89/391/CEE come principio generale di prevenzione (“evitare i rischi” e “valutare i rischi che non possono essere evitati”), la VDR consiste nella «valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza» (art. 2, lett. q). Oggetto della VDR sono «tutti i rischi», risultando esemplificativo l'elenco di cui all'art. 28, d.lgs. n. 81/2008 (rischi da stress lavoro-correlato, per le lavoratrici in gravidanza, connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi ed al contratto di lavoro). La VDR sfocia nell'elaborazione di un documento, da conservare in azienda e che, oltre a recare data certa e la sottoscrizione di datore, RSPP, medico competente (ove nominato) e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), deve contenere alcuni elementi essenziali, tra cui l’indicazione delle misure attuate e il programma di quelle per migliorare la sicurezza, le procedure per attuare le misure da realizzare ed i ruoli che vi debbono provvedere, l’individuazione delle mansioni che espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e conoscenza del contesto lavorativo. La VDR deve essere subito rielaborata in caso di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori, con il conseguente aggiornamento delle misure di prevenzione. Per le imprese di minori dimensioni e per quelle con attività a basso rischio sono previste modalità di effettuazione alternative della VDR (mediante procedure standardizzate o modelli).
Strettamente connessa alla VDR, dalla quale emergono i fabbisogni formativi per la sicurezza, è appunto la formazione, che è un diritto ed un obbligo del lavoratore e che consiste nel «processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti... conoscenze e procedure utili all’acquisizione di competenze per lo svolgimento dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi» (artt. 2, lett. aa, e 37, d.lgs. n. 81/2008). La formazione, disciplinata in dettaglio da accordi Stato-regioni e per la quale svolgono un ruolo importante gli organismi paritetici (art. 51), deve essere «sufficiente ed adeguata» e riguarda anche dirigenti, preposti e rappresentanti dei lavoratori.
Per rendere effettivo il diritto di sicurezza dei lavoratori, il legislatore ha istituito, conformemente alla direttiva comunitaria, la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), eletto o individuato dai lavoratori secondo modalità che variano a seconda della dimensione dell'impresa (art. 47 ss.). Date le sue finalità, tale rappresentanza si atteggia come «necessaria ed obbligatoria», tanto che in tutte le aziende di un territorio o comparto nelle quali non sia stato individuato il RLS in sua vece opera obbligatoriamente un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST). In complessi contesti produttivi caratterizzati dalla compresenza di più aziende (porti, grandi cantieri ecc.) è altresì prevista la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo. Tra le tante attribuzioni del RLS, spiccano i suoi diritti di essere consultato dal datore in occasione della VDR, di accedere ai luoghi di lavoro a fini di controllo e di rivolgersi alle autorità competenti per segnalare problemi e inadempienze.
La rilevanza dei beni in gioco comporta che le violazioni dei precetti prevenzionistici siano configurate come reati contravvenzionali che si perfezionano a prescindere dal verificarsi o meno di un infortunio sul lavoro. Dal canto suo, il sistema di vigilanza/contrasto mira più a ripristinare le condizioni di sicurezza che ad una mera repressione dei comportamenti, prevedendosi l'estinzione del reato ove il contravventore adempia la prescrizione impartita dal personale ispettivo (d.lgs. 19.12.1994, n. 758).
Ove la violazione della regola di prevenzione abbia causato un evento lesivo della salute o dell'incolumità del lavoratore, vengono poi in gioco i delitti del diritto penale comune, come l'omicidio colposo e le lesioni personali colpose gravi o gravissime (artt. 589 e 590 c.p.). Qualora tali delitti derivino da una violazione prevenzionistica verificatasi nell'ambito di una società o di un'associazione, emerge un'ulteriore responsabilità riconducibile alla cosiddetta «colpa da organizzazione» ed ascrivibile alla stessa società ai sensi del d.lgs. 8.6.2001, n. 231: si tratta della «responsabilità amministrativa delle persone giuridiche» da cui si può essere tuttavia esonerati dimostrando di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e di gestione della sicurezza sul lavoro conforme ai parametri di cui all'art. 30, d.lgs. n. 81/2008. Un chiaro segnale che, se la fonte dei rischi è l'organizzazione del lavoro, un valido strumento per contrastarli è anche l'organizzazione del sistema di prevenzione.
Artt. 32, 41 Cost.; direttiva 89/391/CEE; art. 2087 c.c.; artt. 437, 451 c.p.; d.P.R. 30.6.1965, n. 1124; art. 9 l. 20.5.1970, n. 300; l. 23.12.1978, n. 833; d.lgs. 19.12.1994, n. 758; d.lgs. 8.6.2001, n. 231; l. 3.8.2007, n. 123; d.lgs. 9.4.2008, n. 81; d.lgs. 3.8.2009, n. 106.
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